La Fine e l'Inizio

di Mercedes

*fic in gara al Concorso Original & Slash del FORUM YSAL

 

“Per la collezione Someya autunno inverno 2006, Ema indossa un completo in velluto color vino, corredato da un mantello nero…”
La presentatrice parlava, parlava.
Ema aveva imparato molto tempo prima a escluderla del tutto, mentre con passo felino percorreva la lunga passerella distesa tra due ali di folla ben vestita e ingioiellata, traballando impercettibilmente su tacchi molto alti.
A differenza di altri modelli che amavano sorridere insulsamente al pubblico o affettare complicità strizzando l’occhio e facendo altre inutili mossette, Ema si manteneva del tutto inespressivo, il viso pallido come scolpito nel marmo.
L’imperscrutabile alterigia lo rendeva attraente e misterioso, più di quanto non fosse normalmente.
Inarcava un sopracciglio, disgustato, se qualcuno s’azzardava a chiedergli qualunque cosa non avesse un diretto legame con il lavoro.
Ma sul palco era una star.
Era alto, aggraziato e letale come un felino selvatico.
I suoi occhi blu grigio rilucevano d’orgoglio e d’insolenza.
Arrivato alla fine della passerella, Ema si voltò lentamente su se stesso, e ripartì, con la scioltezza di una lunga pratica, nel senso opposto.
La sua mente era altrove.
Ti troverò.

*

Il ritorno a casa dopo il lavoro.
Ema provava un intenso, pungente piacere nel tornare a casa a tarda notte, per vie poco illuminate e conosciute.
…e se soltanto Selet scoprisse il luogo…
Avanzava silenzioso, un passo felpato dopo l’altro, appostandosi dietro l’angolo di un edificio o nel portone di un palazzo, per spiare la preda, per pensare alla strategia da seguire.
E poi…
Poi la tensione magicamente si scioglieva, e Ema balzava.
Ah…affondare le zanne in una gola calda e pulsante di vita, assaporare il gusto dolciastro, metallico del sangue bollente che zampillava dalle piccole ferite.
Pochi secondi, una leccatina sommaria sulla zona delle due incisioni per cicatrizzarle, e il prescelto non avrebbe ricordato nulla, il giorno dopo.
Ma io non posso dimenticare.
Ti troverò, maestro.

Inebriante.
Almeno quanto cercare la vittima perfetta per Selet.
Non in un vicolo, non nelle zone più buie e tetre, ma in centro, tra vie illuminate, locali ancora aperti e gruppi di festaioli impenitenti.
Un giovane di bell’aspetto, possibilmente non oltre i venti – Selet diventava sempre più schizzinoso con l’età – da sedurre e confondere, da condurre all’attico, dove all’estasi del nutrimento Selet avrebbe aggiunto spezie più piccanti.
Ema inspirò a fondo l’aria frizzante, vagamente odorosa di fiori.
Un rumore poco lontano – passi.
Ema si strinse il mantello sulle spalle e alzò il passo.
Era pronto alla caccia.

*

“Ancora non so come mi hai convinto.” Sbottò Ema, osservandosi dubbioso allo specchio.
Selet aveva deciso di portarlo in giro per una gita fuori programma, e secondo qualche segreto disegno della sua frivola mente, questo implicava una complicata preparazione nonché un travestimento.
Selet scosse indietro i capelli riccioluti, di un pallido biondo platino, sorridendo impudente.
“Prima ti ho blandito” iniziò, contando sulle dita, “poi ho sbattuto le ciglia” continuò, osservandolo supplice e infantile con i suoi pallidi occhi grigi, “infine ti ho minacciato.”
“Di negarmi le tue grazie, sì, ora ricordo.” Ammise Ema a denti stretti.
Non sarebbe stata la prima volta.
Osservò attraverso lo specchio la figura snella e flessibile di Selet, la sua pelle liscia color cioccolato, la bocca color ciliegia, gli incredibili capelli.
Impossibile resistere.
In condizioni normali, Ema non si sarebbe prestato a uno scherzo del genere, lui che in pubblico era così serioso e austero.
In quanto modello, teneva alla sua immagine in maniera persino un po’ ossessiva.
In quanto vampiro, figlio della notte e di un tempo ormai lontano, aspirava alla perfezione assoluta.
Ma c’era dell’altro, anche se nessuno dei due lo diceva ad alta voce.
Qualcosa da lungo tempo atteso e augurato.
“Non ti negherai, allora…?” Mormorò Ema dolcemente, sporgendosi verso Selet, giocherellando con alcune ciocche dei suoi capelli.
Selet sorrise, e si sporse pigro per porgergli la bocca da baciare.
C’è poco tempo…ma c’è ancora tempo per…questo.Soltanto nell’attico di Pandemonium Circus, tra velluti e broccati, e lenzuola di seta disfatte ad arte, Ema si rilassava, mostrava il suo vero volto e permetteva al suo umore giocoso di risplendere dalle sue fattezze non più ricoperte di spesso make-up.
“Dove vuoi andare?” chiese a Selet, il viso affondato nel suo collo, l’aria permeata dal profumo dolce e intenso dei suoi capelli.
Selet sorrise scaltro, inarcando leggermente il capo all’indietro e lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro.
“Per il momento, a letto.”
Ema non se lo fece ripetere.
Lo condusse al letto, un affare complicato e rotondo, cosparso di cuscini, pelli esotiche, drappi di seta, dove Selet, come una puttana di gran lusso, trascorreva discinto gran parte della giornata.
Svestirlo era forse un’impresa troppo facile, poiché Selet non trovava interesse nel vestirsi più di tanto.
Eppure, ogni volta la magia tornava intensa come prima. E con essa il piacere.
Selet baciava come un assetato, disperato, insaziabile.
Il suo corpo esile si inarcava, si dimenava nell’abbraccio di Ema, del tutto abbandonato a quel possesso dall’ardore quasi animale.
I velluti alle pareti smorzarono le grida acute di Selet, come avevano sempre fatto.
E i sospiri esausti di Ema, soffocati dai capelli del suo amante.
Ma più avanti durante i preparativi, il buonumore e la convinzione di Ema vacillarono pericolosamente.
“Solo perché me lo chiedi tu, e ancora non so dove stiamo andando” ripeté Ema, borbottando di fronte allo specchio, mentre Selet lo agghindava per quell’uscita fuori programma.
“Selet!” sibilò Ema, schiacciato dall’orrore che lo specchio gli restituiva.
“Quoi?”
Ema scrollò le spalle, spazientito.
“E non parlare francese!” lo rimbeccò, senza poter trattenere un piccolo sorriso.
Selet aveva quasi duemila anni, Ema circa quattrocento. Il primo ne dimostrava non più di sedici, il secondo venticinque o ventotto.
Si erano conosciuti in Francia, ormai quasi due secoli prima, quando entrambi avevano un nome e un aspetto ben diversi.
In una vita diversa.
Quando ancora avrei potuto trovarti.

Era stato il cielo di Parigi ad osservare la nascita della loro storia: nessuna meraviglia, dunque, che il francese mantenesse un forte valore emotivo.
Selet scosse la testa, e continuò nella sua opera, sorridendo segretamente.
“Che c’è?” ripeté in inglese.
“Dove mi porti?”
Selet scrollò la testa e fece finta di non aver sentito.
“Su, guardati.” L’esortò Selet.
Ema emise un suono sconfortato,“lo so già…sembrerò una bomboniera…”
Si guardò.
“Ma…ma…” balbettò Ema, senza riuscire a staccare gli occhi dallo specchio, “mi hai trasformato in una ragazzina idiota!”
Selet fece un suono di dissenso, volgendo gli occhi al cielo.
“Nessuno ti riconoscerà” lo rimbeccò Selet.
“Lo spero bene.” Mormorò Ema sottovoce.
Osservò ancora il suo inquietante riflesso.
Ema faticava a riconoscersi.
I capelli blu petrolio erano acconciati in due ridicoli codini, tenuti insieme da nastri rosa.
La gonnellina vaporosa e arricciata, sorretta da numerose sottogonne fruscianti, le gambe bianche e nude sulle quali i nastri rosa delle scarpe con zeppa si intrecciavano serpentini, e il corsetto bianco, completavano l’insieme zuccherino.
“Ecco, questo è l’ultimo tocco.” Disse Selet, manovrando le membra di Ema come una bambina gestisce una bambola inerte.
Gli sollevò le braccia, infilando prima nell’una e poi nell’altra le spalline vaporose che avrebbero retto un gran paio di piumose ali bianche.
“Ali? Ali? Selet?” Ema si voltò, appoggiando una mano sulla fronte di Selet. “Ti senti bene? Dimmi la verità, ti sei messo di nuovo sul terrazzo a prendere il sole nudo! Lo sai che poi dormi per due giorni filati e non capisci niente!”
Ema aveva ragione.
Una breve escursione diurna non provocava danni ai figli della notte, fatta eccezione per una discreta stanchezza.
Ma un’esposizione prolungata e completa poteva portare a una debolezza estrema, proporzionale alla durata del contatto e in alcuni casi persino fatale.
Selet arrossì leggermente a quell’accusa, ma non si interruppe.
“Mai stato meglio.” Ribatté sornione, senza smettere di sistemare le ali sulle spalle di Ema.
Ali.” Si lamentò Ema, muovendo schiena e spalle in una complicata contorsione per rendersi conto del danno alla sua immagine che sarebbe derivato da quella situazione.
“Uh, quante storie. Si vede che sei proprio un modello d’alta classe!” Lo rimproverò Selet, imitando con voce stridula il comportamento isterico della sua idea di modella.
Ema gli rivolse una smorfia grottesca e, appoggiate le mani sulle anche, “quando hai finito di scimmiottarmi, mi farai la cortesia di mostrarmi come intendi uscire?” disse, “oppure hai forse intenzione” aggiunse, occhieggiando il corsetto bianco dai lacci slacciati che, solitario, lottava per coprire una minima percentuale delle nudità di Selet, fallendo peraltro miseramente, “di uscire così?”
Certo che ho intenzione di vestirmi, Ema Harker, per quanto io sappia che ti farebbe piacere vedermi uscire in queste condizioni. Ma” aggiunse, allontanandosi in direzione dell’armadio, “non mi sono salvato da persecuzioni, roghi, arresti e processi, senza parlare della famosa Retata del 1789 soltanto per essere arrestato per atti osceni.” Disse, senza interrompersi quando Ema sospirò piuttosto pesantemente.
Non era certo la prima volta che Selet tirava fuori il discorso dei suoi molteplici problemi con la giustizia, o quello della Retata.
Anzi, si può dire che cercasse sempre il modo di parlarne, anche se in quel momento non c’entrava nulla con l’argomento in questione, come un vecchio nonno un po’ suonato che racconta sempre la stessa vecchia storia.
“Lo so, lo so” ribatté Ema, tamburellando con le unghie sulla cornice dello specchio, col viso quasi appiccicato al vetro per osservare le diverse sfumature di rosa che si rincorrevano sulle sue palpebre.
Ma vorrei sapere dove sei.

*

“Selet, sei pronto? Quanto ti ci vuole per vestirti?”
Ema era alla disperazione.
Selet si era barricato tra un paravento e un armadio, chiudendo il terzo lato del triangolo così formato con lo specchio e da allora era trascorso un lasso di tempo incalcolabile, scandito da suoni di disapprovazione e dal fruscio di vestiti che venivano provati e poi scartati.
“Se non sei ancora pronto vengo lì e…”
“E cosa?” lo rimbeccò Selet, sbucando da dietro il paravento, completamente vestito e pronto per uscire.
Ema lo fissò a bocca aperta, incredulo.
Sapeva benissimo che Selet avrebbe potuto prendere l’aspetto fisico che più gli aggradasse, eppure era così abituato a vederlo giovane, flessuoso e discinto da non poter concepire alcuna altra variante.
E ora aveva dinanzi un principe d'ebano, alto e muscoloso, con corti riccioli di un biondo quasi bianco, e occhi di pallido grigio, scintillanti di malizia.
"Selet..." mormorò, arrossendo leggermente.
Vorrei essere tuo.
In questo momento.

“Cosa?” ribatté l’immortale, con un leggero cipiglio.
“Niente.” Rispose Ema, aprendo la porta e facendo strada nel corridoio.
A suo tempo e luogo, gli avrebbe detto ciò che aveva pensato.
Ma ora non ne abbiamo il tempo, mio amore, e lo sai bene.

*

Alla luce incerta di una falce di luna e di un fievole lampione, la St. Clarissa spiccava come una chiazza più scura del buio circostante.
Pinnacoli, profili delle finestre e la torre del campanile si protendevano dall’oscurità più fitta della chiesa, come dita scheletriche e occhi ciechi.
La chiesa scrutava, appostata in attesa come una belva feroce sul punto di scattare.
Non può essere.
“Selet...” iniziò Ema, dubbioso.
L’aspettativa, frammista al timore, si insinuava dentro di lui come un gelido tentacolo.
Selet lo zittì dolcemente, un dito sulle sue labbra.
Nel silenzio totale di quell’angolo dimenticato, si udì un lontano, sfocato fruscio.
Passi, e una veste trascinata sul suolo.
Una figura ammantata di scuro apparve nell’aria umida della sera, i contorni più nitidi ora che era vicina.
“Selet!” esclamò l’intruso, “Ema!”
Selet si accigliò, “non c’è bisogno di mettere un bando, Tamara.”
La donna calò il cappuccio, mettendo in mostra un viso sorridente e scaltro.
Di fronte agli occhi sconvolti di Ema, Tamara si esibì in una smorfia orrenda nei confronti di Selet.
“Ema” disse poi la donna, con un soave sorriso, “io sono Tamara, la sorella di Selet.”
Ema si inchinò, colmo di aspettativa e di sorpresa.
“Selet?”
Selet sorrise furbo.
“…e dell’altro ogni desiderio esaudire” mormorò, recitando le parole del voto che aveva stretto con Ema, quando l’aveva trasformato in vampiro.
Gli scompigliò dolcemente i capelli.
“Io e Tamara abbiamo trovato la tomba dove Damien Stoker riposa” disse, “come tu volevi” aggiunse.
“Il mio maestro” sussurrò Ema, osservando la chiesa con occhi sgranati.
Selet sorrise ancora.
La gelosia non era parte del suo carattere, e in duemila anni di esistenza era arrivato a vedere oltre frivoli sentimenti umani.
Eppure, di fronte all’adorazione con cui Ema parlava del suo defunto maestro, Selet non poteva negare del tutto il piccolo spasmo all’altezza del cuore.
Dietro il sorriso affabile, sapeva di desiderare con tutta l’anima che Ema cercasse lui con lo stesso accanimento.
Ema sembrò accorgersi di questo pensiero, e si voltò verso Selet, con aria interrogativa.
“E io cosa posso fare, per renderti felice?”
Il viso di Selet si illuminò di malizia.
“Ci sarebbe una certa cosa…” disse, allusivo.
Colse lo sguardo di Tamara, e continuò a voce bassa, nell’orecchio di Ema.
“Non ti lascerò uscire dal letto. Per mesi.”
Ema ammiccò, poi tornò serio.
“Allora…entro.”
Selet annuì.
“Entra. Entra e saluta Damien, il tuo maestro. Concludi il tuo patto con lui, e torna da noi, un essere ormai completo.”
Era la consuetudine.
Che il giovane vampiro venisse addestrato da un non-morto più anziano e esperto, per un certo periodo di tempo.
Il Maestro era sempre una figura completamente diversa dal Padre.
Il Padre – Selet nel caso di Ema – dava al prescelto una nuova vita.
Il Maestro ne forgiava il carattere, le capacità, la forza.
Era costume tornare una volta, dopo la fine dell’addestramento, e incontrare il Maestro, per rendergli grazie degli insegnamenti ricevuti.
“Erano decenni che cercavamo Damien” disse Tamara piano, osservando Ema, dritto come un fuso di fronte al portone della chiesa, concentrato e distante.
“Finalmente potrà concludere il rituale” rispose Selet.
Tamara si lasciò sfuggire una risatina tintinnante, da ragazzina spensierata.
“Cosa c’è da ridere?” La interpellò Selet, serio.
Tamara scosse la testa bionda.
“E’ solo che trovo ironico che Damien Stoker sia stato seppellito…in una chiesa.”
Selet si strinse nelle spalle.
“Cadde dal cielo di giorno, ferito, con due grandi ali rosso sangue. Biondo, con occhi di un verde inumano. Lo scambiarono per un angelo. E quando morì, pochi giorni dopo, lo seppellirono nella cripta di questa chiesa.”
“E ora Ema lo incontra per l’ultima volta.”
Selet abbozzò un sorriso.
Il mio Ema.
Con le piume delle ali bianche che tremolavano nell’aria notturna, Ema si incamminò verso la chiesa.


La Fine e L’Inizio