Chanson
di Dhely
*fic seconda classificata al
Concorso Original &
Slash del FORUM YSAL
Ero
convinta di sapere ogni cosa, di conoscere ogni minimo anfratto del tuo
cuore: mi sbagliavo.
Ti ho udito, per anni, cantare in giardino della mia beltà, di ciò che tu
dicevi ti aveva rapito il cuore e io sorridevo, felice e trionfante,
superiore. Il biondo dei miei capelli, l’azzurro nei miei occhi: quello
vedevo riflesso nelle tue parole.
La tua voce: uno specchio per la mia superbia.
Ti guardavo comporre poesie e cantarle per me, di fronte a me e ne ero
felice. Più che felice. Ma non l’ho mai detto: il tuo era un omaggio che
ritenevo dovuto. Tu eri solo un ennesimo trovatore e io la Signora del
castello. Ovvio che ti prostrassi innanzi a me, non ti saresti fermato,
altrimenti, dal tuo eterno errare.
I trovatori, si dice, si fermano in un luogo fino a che dura un amore. Il
tuo per me era quasi leggendario.
Anni. E’ durato anni.
Anni di parole e di canzoni, di lingua e di melodia, di discorsi e di prati
che ritornano verdi dopo il candido rigore dell’inverno. Anni di niente.
Anni che sembravano, per te, la vita: tu che parevi trasfuso dalla gioia che
esprimevi quando narravi cos’era per te la vita qui.
Tutti ti vedevano e sorridevano perché sapevano, o intuivano.
Io ti vedevo: e non sapevo.
Non ho mai saputo nulla.
Ero certa della tua devozione tanto quanto era certa della pace che mi
circondava.
Ora che tutto sta crollando intorno a me, disciolto in una cascata di lava
ardente, ora che il mio mondo si sbriciola, ho aperto gli occhi.
Ho veduto il biondo dei capelli che ti ha avvinto il cuore. E l’azzurro
degli occhi che, soli, ti sanno dire il nome vero dell’amore. Li ho veduti,
e mi sono sentita tradita, e umiliata.
Quei capelli erano venati di fili grigi. Quegli occhi erano circondati di
piccole rughe.
Non c’era nulla della splendida dolcezza della primavera in lui.
Eppure tu, di fronte a me, cantavi lui.
Lui.
Forse tutti sapevano.
Forse solo io non avevo osservato con attenzione.
Forse.
Ora il mio Signore sta apprestando l’ultima difesa contro le truppe di Roma.
Ci chiamano eretici.
Io, nascosta in questo riparo scavato nella roccia da antenati prudenti,
figli di un’età ben più sanguinaria della nostra, vedo la mia casa
distrutta, il giardino divelto, la pioggia di frecce infuocate che accendono
questo cielo notturno e scopro di non aver più lacrime. Ma non per ciò che
vedo sotto i miei occhi, ora, non per la distruzione e il fumo e i morti e
le urla e il clangore della battaglia.
Per ciò che vidi.
Te tra le sue braccia. Il tuo sguardo. Le tue parole non udite.
Lui, la sua corazza di metallo scintillante e fredda, il suo viso segnato
dalla fatica e da troppo orrore. Lui che è tutto ciò che di più distante ci
sia dalla tua educata raffinatezza. Lui che è vissuto tra armi e ordini per
tutta la vita, aveva il cuore del più nobile e dolce trovatore di tutta la
Provenza.
E lo sapeva.
Anni. E’ durato anni.
Vedevo la sua mano, gentile, a sfiorarti il viso. La sua preoccupazione per
te.
Non sentii ma so cosa ti disse: di andare, di ripararti con noi. Di seguirmi
come sempre, come tutti si aspettavano che facessi, ché un trovatore non
serviva per combattere, ché non potevi rimanere giù, tra i soldati. Tra di
loro.
Là era pericoloso.
E tu, da solo, saresti potuto fuggire.
Se fossi riuscito a superare le prime linee avresti potuto dirigerti al sud,
e se avessi seguito i suoi consigli e se fossi andato a bussare alle porte
giuste, saresti stato accolto ovunque. Perché eri bravo, perché eri bello, e
intelligente, e i signori che avresti incontrato avrebbero fatto a gara per
tenerti con loro, per proteggerti da quella furia assassina e inumana.
Tu non sei partito.
Sei rimasto con lui.
L’ho saputo nello stesso istante in cui ti vidi posare una mano sulle sue
labbra ansiose e poi sorridergli, dolce e meraviglioso come solo tu sai
essere.
E baciarlo.
Nella corte interna del castello, in una notte di preparativi febbrili, con
il mio Signore che urlava ordini dagli spalti e noi ci affannavamo a riporre
le cose più preziose, e fuggire dall’esercito che avanzava, tu lo baciasti,
di fronte ai miei occhi nascosti in un’ombra più densa delle altre.
Lo avresti baciato anche se io fossi stata lì, chiaramente, davanti a te.
Il tuo cuore era suo.
Le vostre labbra, i vostri corpi: ho veduto le mani che si stringevano alle
mani, le braccia che si stringevano alle spalle e ho saputo che esse erano
avvezze a ciò. Che conoscevano il corpo dell’altro, e nell’altro ora
cercavano rifugio, conforto, come se solo nel cuore dell’altro si sarebbe
potuto trovare il coraggio di vivere ciò che stava per travolgerci.
Le tue labbra sussurrare qualcosa di rotto, incomprensibile, le sue spalle
tremare, colpito.
Il suo cuore era tuo.
Lo so, ora, per il modo in cui t’ha guardato nel medesimo istante, per la
passione, il timore e l’amore che gli ho visto ardere dentro. Per il
desiderio e l’incanto che gli suscitasti nell’animo nonostante tutto ciò che
lo circondava.
Cretienne non l’ho mai veduto sorridere, in tanti anni al servizio del mio
Signore. E tu: non ho mai pensato che il tuo sguardo potesse essere così
denso e pesante e gonfio di sentimenti come quello che gli donasti.
Avevo vissuto al vostro fianco per un tempo che, ora, mi pare eterno, eppure
non avevo mai veduto, non ho mai saputo nulla di voi.
Chissà come muta la voce del mio trovatore preferito quando s’infiamma di
passione e ardore? Quando è la carne a farlo cantare e non una melodia
rivolta alla persona sbagliata? Quando le mani addosso lo fanno tremare e
fremere esattamente come le proprie cavano dalle corde del liuto gli accordi
che desidera?
Ho sempre amato i suoi occhi. Scuri e ampi, luminosi e aperti, sembravano il
riflesso di mille cortine impalpabili in cui aveva avvolto, per pudore, il
proprio cuore. E ora: chissà di che sfumatura brillano quando contempla
realmente il suo oggetto d’amore, e in esso si perde e si annienta?
Cretienne, il più fidato, il più silenzioso, taciturno e abile degli uomini
del mio Signore. Rozzo, a paragone dei miei poeti, schivo. Era già con
indosso i nostri colori, con una spada al fianco e una cotta di maglia ad
avvolgerlo la prima volta che, giovane sposa, misi piede nel castello.
Mi fidavo di lui. Chiunque si fidava di lui.
E ora..
Mi passo le mani sugli occhi.
Le fanciulle che sono con me pensano che le mie lacrime siano per la morte
che arriva all’improvviso sulle ampie falcate dei cavalli che giungono da
ogni parte, e ci circondano e ci distruggono, annientandoci, cancellando non
solo i nostri corpi, ma la nostra lingua, la nostra storia, la nostra
cultura, i nostri sogni.
No: piango per me e per la mia cecità.
Piango per la mia stupida ignoranza.
E piango per te, e per lui.
Chi si ama non dovrebbe essere obbligato a nascondere ciò che prova: non c’è
vergogna né bruttezza alcuna in questo.
E tu che eri così bello quando cantavi di lui, a cui davi il mio nome solo
perché non credevi di poter fare diversamente!
E lui che ci osservava sempre, a un passo da me, in un angolo discreto da
cui vegliare sulla sua signora! E su colui che possedeva il suo cuore.
Forse tutti sapevano. Forse tutti avevano veduto gli sguardi che non
potevate non lanciarvi, cui io non ho prestato mai peso.
Tutti, tranne me.
La vergogna che provo, ora, s’è stemperata in qualcosa di più morbido, di
differente ed inaspettato.
Un’alta fiamma si leva dal castello. Lo stendardo in fiamme garrisce sui
merli assediati.
Urla sempre più fioche giungono dal campo e zoccoli veloci stanno risalendo
la ripida strada che li porterà qui.
Non riconosco la parlata.
Le lacrime si sono essiccate.
Quasi sorrido.
Ora so cosa gli hai risposto la notte precedente, quando vi ho veduto
baciarvi.
L’unica cosa che avresti potuto dirgli.
‘Rimango qui con te, amor mio.’
E so che il suo cuore ha gioito. E che la tua anima, ora, sarà al suo
fianco.
Con la sua.
Per sempre.
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