Amore Mostri

di Assurda

*fic in gara al Concorso Original & Slash del FORUM YSAL

 

Avevano creato un mito.
E questo fu tutto quello che fu loro concesso. Vivere il loro amore, amarsi l’un l’altro. Niente. Tutto proibito.
Proibito da persone che non li avevano nemmeno mai visti, persone che in un nome di chissà quale dio, li avevano separati.
Soli, abbandonati, pensando l’uno all’altro, divisi da un solo, spoglio cortile.
Sorvegliati a vista.
Perché erano scherzi della natura.
Un mito.
Avevano creato un mito. Un mito di bugie. Un mito fra le donne di tutta la città. Che lo guardavano con occhi adoranti. Lui, bello come un dio, dritto in mezzo alla sala senza nessuno sforzo. Sorrideva a tutte con fare affabile. Uno splendido sorriso, i denti bianchi ben definiti incorniciati da quelle due labbra sempre straordinariamente rosse. Quelle labbra cha aveva assaggiato mille e mille volte.
E grazie a quel mito, quel mito bugiardo aveva continuato ad assaggiare.
Lui, con i suoi lunghi capelli biondi, lui, con la sua aria modesta, lui, un gioiello. Lui, lui e solo lui.
Gli occhi verdi che si illuminavano ad un complimento, le gote bianche che arrossivano, il capo che si chinava leggermente, perché abbassarlo del tutto era sconveniente.
Lui, lui, e ancora lui.
Lui, che ogni tanto guardava attraverso la sala. Fugaci occhiate furtive piene di sentimenti. Amore, desiderio, timidezza e paura.
Paura, o colpa. Perché quel che stava facendo era contro la legge, contro la natura.
Ne avevano parlato spesso. Di finirla. Di lasciarsi, di allontanarsi.
Ma le lacrime ora dell'uno, ora dell'altro, ed entrambi i loro cuori che si spezzavano al pensiero di non riversi mai più li fermavano.
Ed il loro amore li sopraffaceva. Era proprio in uno di quei momenti che avevano ceduto.
Erano caduti alle loro pulsioni snaturate, al loro amore.
Un aitante giovane e un lontano cugino.
Amore, amore, amore.
Sussurravano quelle parole proibite in luoghi nascosti
Mentre una diceria, veloce come un lampo si diffondeva nella città.
Mostri, mostri.
Mostri. Ebbene erano mostri. Ma il mito, quel falso mito li aveva salvati. Le ragazze accorrevano a decine per vedere quel bel biondo dagli occhi verdi, il magnifico sorriso e le labbra rosse. Quel giovane con la pelle perfetta. Non un neo, non una cicatrice, solo bianca pelle glabra.
Amore, amore. Amore. Sussurrava da un capo all’altro della sala.
Amore.
Mostri.
Per quel mito l’Amore aveva la forma di un mite cugino, non bello, non brutto.
Un ragazzo normale, come tanti se ne incontrano per le strade.
Si sentiva fortunato ad essere amato. Dopo la morte dei suoi genitori, quelli che erano gli zii del mito, dopo quella dolorosa dipartita credeva di affogare nella gelida solitudine. In un mondo freddo senza amore.
Invece amore, amore, amore. Amore. Uno sguardo, una carezza proibita.
Amore. Amore.
Lettere. Lettere d’amore.
Con quale coraggio il giovane biondo aveva vergato la sua confessione, confidando a quel lontano cugino che l’attesa di una sua lettera era una lunga intensa agonia, che nel ricevere una sua missiva la gioia lo faceva levitare, che nel rispondergli provava un crampo allo stomaco di felicità e di paura nel poterlo offendere.
Gli aveva risposto prontamente.
Mio amore, voi non potrete mai offendermi, perché l’affetto che ho per voi è superiore a tutto.
E aveva terminato la breve lettera con un invito.
Si erano visti in un tempo lontano, ancora bambini. Per volere dei genitori.
Da lì, per lungo tempo non si erano più visti. Nemmeno mai scritti.
Quasi si erano dimenticati l’uno dell’esistenza dell’altro.
Fin quando quella disgrazia non li aveva fatti rincontrare.
Lui, orfano a diciotto anni, stretto fra i parenti che venivano da ogni dove, rimasto solo in quel grande castello, solo in balia della servitù.
E il mito aveva fatto il suo ingresso, irragionevolmente in ritardo per colpa della carrozza.
Tutti erano seduti a rincuorare quel giovane orfano moro. Con gli occhi rossi e gonfi, ancora bagnati, dilaniato, distrutto e disorientato dalla morte repentina ed improvvisa dei genitori.
Ricordava ancora come si sentiva. Come si era sentito. Nel vederlo entrare. Le labbra esangui si erano aperte in un sorriso. Si erano fissati dall’altare all’ingresso della chiesa, dove interdetto stava il giovane che sarebbe diventato un mito.
Un mito, una leggenda per tutte le donne in età da marito. Anche per quelle già avanzate nell’età o sposate. Per l’intero genere femminile.
Il giovane mito si era trovato gli occhi della chiesa addosso.
Persino il crocifisso sembrava aver alzato il capo insanguinato per guardarlo meglio.
Con la faccia mesta che si addiceva alla circostanza infelice lui aveva percorso la navata centrale a passi misurati, la schiena dritta e il portamento regale.
Si era genuflesso di fronte all’altare accanto ai parenti radunati intorno alle salme.
Si era segnato con gesti solenni la fronte, il petto,la spalla sinistra e la destra.
Si era avvicinato silenzioso alle bare dei suoi zii. Aveva baciato la propria mano bianca, perfetta ed affusolata e aveva sfiorato prima la bara della zia e poi dello zio.
Poi, in un inchino che non aveva niente di cerimonioso e di falso, aveva fatto le sue condoglianze al cugino. Infine si era seduto, osservato dall’intera congrega dei parenti. E il cugino che sorrideva con aria ebete, quasi sollevato dal lutto.
Continuava a guardarlo, quel cugino dal quale non si sarebbe mai più allontanato.
Proprio la loro vicinanza fu la creazione del loro mito.
Proprio il loro amore proibito. Proprio per la necessità di nascondersi agli occhi disgustati della gente.
Perché gridare il loro amore era proibito.
Mostri.
Mostri. Mostro era quel ragazzo perfetto, mostro era quell’uomo che non recava offese sulla sua pelle chiara.
Lo sapeva bene lui, che ne aveva assaggiato insaziabile ogni centimetro, ancora e ancora.
Lo sapevano bene le ragazze che venivano corteggiate, lo sapevano vedendo la perfezione di quelle pallide mani, delle labbra rosse, di quegli occhi chiari.
Lo sapevano accorrendo a vedere quel ragazzo con qualcosa di divino, perché tanta perfezione non poteva essere umana, mortale.
Ma le fanciulle, presto capivano che quelle carezze erano solo una farsa, una recita senza sentimenti. Carezze meccaniche prive di desiderio o di un fine.
Come le promesse un poco accennate, come le proposte sussurrate a bassa voce, fra una giravolta e l’altra.
Le donne capivano quell’uomo dalla perfezione divina, dai capelli biondi, dalle labbra rosse.
E capivano che quelle parole che ogni tanto sentivano o leggevano sulle labbra del giovane non erano per loro.
Ma per quel cugino moro appoggiato rigidamente al muro opposto della sala.
Amore, amore, amore.
Mostri, mostri.
Perché mostro è l'uomo che ama l'uomo.
Perché mostri, mostri sono.
Quella farsa, quel mito, quel ragazzo, che si diceva avrebbe preso in moglie una fanciulla dalla sua stessa perfezione, perché quello, quello era leggenda.
Tutto questo indispettiva le abbienti e spocchiose fanciulle non sopportavano di essere prese in giro per salvare quei mostri.
Mostri, mostri.
Quei mostri non li avrebbero più salvati.
Li avrebbero condannati.
Avevano mentito dicendo una verità.
Avevano dichiarato di averli visti in atteggiamenti inequivocabili.
Avevano pronunciato quelle parole con il più profondo disgusto, e con l’amarezza di aver perso quel ragazzo divino, quel mito.
Quel mito immaginato a metà. Perché se solo avessero progettato anche la fine, il mito sarebbe stato completo, ma avevano giocato troppo a lungo.
Ora il gioco era finito.
Il loro amore diviso.
Il giovane uomo perfetto aveva udito quelle dichiarazioni. Era certo che dicessero il falso, perché mai avrebbero potuto scoprirli.
Quella falsa bugia era però lampante verità.
Perché amore, l’amore, aveva la sua stessa forma.
Perché l’Amore era il suo cugino, il suo ultimo parente, il suo ultimo amico.
Era tornato a casa per salvarlo.


Mostro, mostro! Devo fare da guardia ad un mostro!

Per manifestare tutto il suo disgusto la guardia sputò a terra. Che pace, che silenzio, v’era stato fino a pochi istanti prima...
Pace e silenzio che lasciavano vagare i suoi pensieri. I ricordi. Gli ultimi giorni della sua vita libera. Gli ultimi mesi, vissuti felicemente.
La guardia gli lanciò un’occhiata carica d’odio.


Salvati, salvati, scappa. Quelle hanno pronunciato il falso, svelando la nostra verità. Siamo perduti. Scappa, scappa.

Le gote lisce arrossate dalla corsa, la pelle solcata da lacrime salate. La voce musicale gli intimava di scappare.


Mostro, mostro, mostro.
Mostro, disumano, snaturato scherzo della natura.
Mostro, infame, chiamavi amore un sudicio peccatore?



Non scapperò senza te.


Mostro, chiamavi amore il tuo peccato?


Salvati, salvati amore. Salvati amor mio, perché nel saperti lontano ed al sicuro morirò felice.


Mostro, mostro, chiamavi amore il tuo lurido amichetto?


Se scapperò mi inseguiranno. Non me ne vado, non me ne andrò. Non senza te.


Mostro, contro natura, feccia, feccia.


Scappa, se avranno me basterà. È omosessualità, non omicidio. Cugino, amore mio, và.


Mostro , fetido essere, abominevole.


Non vado.

Per l’ultima volta aveva preso mani quel viso perfetto. L’aveva baciato con foga.
Labbra rosse definite contro le pallide sue.
Coi lunghi capelli d’oro che sfioravano i loro colli, si infilavano fra le dita sul suo viso e s’impigliavano fra i suoi corti capelli neri.


Mostro, mostro. Mostri.


Va amore mio, per l’amore che hai per me, scappa.

Poco meno di un sussurro, poco più di un respiro. Non l’avrebbe lasciato. Se non con la forza.
Di nuovo un bacio.


Mostro, mostro, osi chiamare amore la tua condanna?


Così, abbracciati li avevano trovati. Estranei al mondo, persi in un bacio.
Con disgusto li avevano separati. Loro non avevano reagito. Solo continuavano a fissarsi. Persi. Persi.
Soli e disorientati. Persi per sempre.


Il prigioniero cambiò posizione nell’angusta cella. Una lacrima corse lungo la sua guancia.

Mostro, piangi per la tua malaugurata sorte?
Mostro piangi?


Il ragazzo sferzò un pugno attraverso le grata. Si era appena levato il sole, diradando la nebbia fitta che prima aleggiava nel giardino.
Il capitano giaceva a terra, svenuto, un occhio rosso.
Presto, nel giro di qualche minuto sarebbe diventato blu, e poi viola.
Peccato non avergli fatto più male. non avergli inferto più dolore. Un occhio nero era poca cosa.
Ora che il grasso corpo della guardia giaceva a terra riusciva a scorgere in lontananza la testa bionda del suo amato.
Le altre guardie stavano accorrendo.

Feccia, odiosa feccia, mostro. Per questo sarai condannato! A morte!

Un manipolo di soldati aprì la cella.

Morte per questo lurido mostro! Morte! Morte!

Un gigantesco soldato l’afferrò per i polsi, stringendoglieli in una morsa senza fuga.

Andiamo lurido mostro! Forza! Il patibolo ti aspetta!

Così dicendo lo trascinò fuori dalla cella.
Il patibolo stava spostato sulla destra rispetto al centro del giardino. Mentre un soldato semplice sistemava con abituale rapidità il cappio, un altro gli legava i polsi con della ruvida corda.
Pian piano le mani cominciarono a diventargli rosse.
Freddo, cieco e pazzo corse verso la sua cella. Corse verso la testa bionda che vedeva avvicinarsi

Amore, amore mio perdona me e quest’atto di egoismo.
Amore mio, segreto mio svelato dalle ingiustizie del mondo.
Amore mio. Perdona me. Addio.
Addio, addio, amore mio.
Amore, amore questo è l’ultimo istante per salutarci, per dirci amore.
Addio, addio amore mio.


Uno dei massicci soldati lo afferrò per le braccia, riportandolo verso il patibolo.

Il nostro amore un’offesa ad un dio in cui non abbiamo mai creduto.
Addio amore mio.
Addio.
Amore questo è il nome tuo e mio, questo è il nome del nostro peccato. Mia unica colpa fu quella di amarti.
Addio amore mio. Nostra unica colpa quella amarci.
Amore mio, amore mio. Addio.
Amore mio, se sbagliato amarti fu, è un errore che non rimpiango.
Amore, quanto ti ho amato, t’amo.
Amore, amore, amore...
Addio amore.


La grezza corda già aveva cinto il giovane collo. E già l’aveva spezzato.
All’improvviso.
I piedi non appoggiavano più sul legno.
La salma, stava semplicemente lì, appesa.
Oscillando ai respiri del vento.
Un urlo sfuggì dalle labbra dell’uomo perfetto affacciato dalla sua cella.

Mostro tornate nella tua tana! Il tuo compare ha avuto la fine che si meritava.

Tanti altri prigionieri si erano fatti avanti, i visi emaciati fra le sbarre gelide, osservando in un lutto silenzioso la salma di quel giovane moro ondeggiare nell’ombra di una nuvola.
Goccia dopo goccia la pioggia cadde pesante.

Ci amavamo . Lo amo.
Mostri, mostri ci chiamate, mostri siamo.
Mostro, amor mio, addio.
Nostro peccato il nostro amore.
Amore mio, amore, come hai ragione!


Lacrime veloci e copiose scesero sulle sue guance.

Mostro! Mostri siamo!
Addio, addio amore mio!


E così dicendo, quel viso perfetto scomparve.
Non più un singhiozzo o un gemito provenì da quella cella.

Un vecchio rugoso passando di lì osservò la scena e sconsolato, scosse il capo, spargendo intorno a raggiera fini goccioline d’acqua.
Pochi giorni prima aveva disprezzato quei due giovani cugini.
Li aveva chiamati scherzi della natura, innaturali, deviati, malati, mostri.
Ed ora, solo, nel vedere la fine dei due giovani sussurrò a se stesso.

Dunque anche i mostri amano.