La mia prima storia con Rukawa e Sakuragi (che non sono miei ma di Inoue Magno, tanto per fugare ogni dubbio).

Non era assolutamente quello che avevo immaginato, ma si vede che da qualche parte c’era questo ad aspettarmi al varco: scritta in un momento un po’ strano, partendo da tutt’altra situazione, a un certo punto le dita si sono mosse da sole e il risultato è qui sotto. Picchiatemi pure, se volete…


Foglie nella pioggia

di Stella


Chi può dire dove finisce la pioggia e inizia la malinconia?

Haruki Murakami, La ragazza dello Sputnik

 

Nel silenzio rarefatto della palestra, Rukawa si sollevò in elevazione e tirò a canestro. Non emise alcun suono, solo un leggero sbuffo atterrando sul parquet e buttando fuori l’aria dai polmoni, e perfino la retina accennò un solo debole movimento nell’istante in cui la palla entrò nel cesto, non osando incrinare quell’atmosfera cristallina. Un tiro perfetto, elegante e fluido. Un canestro altrettanto perfetto, nothing but nylon, come dicono nell'NBA. La palla rimbalzò a terra una volta, due, tre, un rumore sordo che scosse l’edificio, e poi rotolò lontano. Rukawa la seguì con lo sguardo finché non fermò la sua corsa contro il muro, quindi chiuse gli occhi e ascoltò il ticchettio della pioggia che batteva sul tetto e contro le finestre.


Erano passati quasi due mesi, ma la ferita bruciava ancora fresca. Aperta come i negozi a Natale, ventiquattrore su ventiquattro. Ogni mattina, quando apriva gli occhi, si chiedeva se sarebbe mai finita. Se sarebbe mai riuscito a dimenticare. E ogni sera, quando li richiudeva, si dava sempre la stessa risposta.

No, non ce l'avrebbe fatta. Tra mille anni, forse, e magari neanche quelli sarebbero stati sufficienti.

Dimenticare è un'operazione complessa che richiede tempo, talento, coraggio e una certa dose di fortuna.

Tutte cose che lui padroneggiava in campo, ma che aveva scoperto essere pateticamente incapace di gestire al di fuori. Più ci provava e meno funzionava, ed erano tentativi molto frustranti. Non era affatto come allenarsi, che prima o poi un risultato anche miserabile l'ottieni.

 

Forse sei un congegno che si spegne da sé


E la parte divertente della storia, se vogliamo, era che a dichiararsi era stato proprio lui, Sakuragi. Mi piaci, aveva detto imbarazzato. Anche tu, aveva risposto lui. Sì, ma io intendo in quel senso…

Rukawa ci aveva pensato un attimo, poi aveva detto, anch'io in quel senso. Senza sorridere, guardando le foglie dell'albero di ginko nel parco. Mentre il suo cuore rischiava di disintegrarsi dalla gioia, i suoi tratti erano rimasti impassibili anche in quel momento. Fino a quando le labbra di Sakuragi non si erano appoggiate sul suo collo e le sue braccia non gli avevano circondato i fianchi. Allora il cuore si era in effetti ribellato e lui aveva riso, lasciandosi andare contro il suo torace.

A questa bizzarra dichiarazione aveva fatto seguito un mese di unione completa e totalizzante. Sakuragi e Rukawa, Rukawa e Sakuragi. Nient'altro contava.

Un mese in cui molte parole erano state spese, parole forti, avvolgenti, dense di significati. In cui molte strade erano state percorse, più e più volte, con i rossori e la curiosità che caratterizzano l'inizio di ogni relazione.

Il mese dopo erano subentrati i silenzi, anche loro forti, densi e avvolgenti.

Il silenzio è bello, ha una sua peculiare sonorità che poche orecchie riescono a percepire. Rukawa aveva sperato di farla ascoltare anche ad Hanamichi, ma non ci era riuscito. Colpa sua, colpa mia… che differenza fa, quando il tempo è ormai scaduto? A lui non era mai piaciuto parlare, e a Sakuragi piaceva fin troppo. Olio e acqua, ghiaccio e fuoco, notte e giorno. Scontati, ma sempre efficaci come paragoni. Per un po' si erano fusi in un'abbagliante equilibrio, poi erano cominciati gli scricchiolii, presto trasformatisi in uno spettacolare crollo all'entrata in scena di un terzo protagonista.

Sorridente, ironica, allegra, pacata… viscida e melliflua, ma probabilmente gli ultimi due erano aggettivi dettati dalla gelosia.

Con lei Sakuragi rideva fino alle lacrime, con Rukawa c'erano momenti in cui il silenzio, dapprima gradevole e sereno, si faceva quasi spettrale.

Però lo amava, su questo non aveva avuto dubbi neanche il giorno fatidico, due mesi prima. Il sole martellava sulle loro teste, le cicale frinivano neanche fosse la fine del mondo e lui gli aveva toccato il braccio dicendo non è di Hiromi che sono innamorato.

“Kaede io ti amo, lo sai vero? Però sai anche che non ce la faccio. Tutto questo mi spaventa, è tutto troppo grande per me. Con lei è più facile, con lei non ho paura.”

E puoi maledire la tua bocca

se sbagliando mi chiama quando lei ti tocca?

 

Non sopportando la vista di quegli occhi castani che lo supplicavano di capire, Rukawa aveva spostato lo sguardo sulle foglie dell'albero di ginko, osservandole ancora una volta ma con rinnovato interesse. Le loro venature, la forma a ventaglio che da bambino lo aveva sempre incuriosito. Aveva allungato una mano e ne aveva percorso i bordi con la punta del dito.

Mamma, sono così belle… posso portarne a casa una?

No Kaede, non si staccano le foglie dagli alberi. Gli faresti male e loro soffrirebbero molto, lontane dal tronco.” La mamma aveva sorriso accarezzandogli i capelli, e lui si era sentito triste ma aveva annuito alle sue parole, intuendone vagamente il reale significato.

Alla sera lei l’aveva aiutato a disegnare una grande foglia che poi avevano appeso alla parete della sua cameretta, proprio sopra al letto. Era una bella foglia, i colori davvero fedeli. Lui la salutava al mattino quando usciva e il pomeriggio quando rientrava, le raccontava dei suoi progressi con il basket e di tutte le piccole cose che riempiono la giornata di un bambino. Fino a quando non si erano trasferiti, e la foglia disegnata con tanta cura era sparita durante il trasloco. Avrebbe potuto farne un’altra, naturalmente, ma per qualche ragione quella perdita simboleggiava ai suoi occhi un distacco molto più concreto e profondo, e così da quel giorno non aveva più avuto foglie di ginko sul letto.


Rukawa aveva sorriso al ricordo. Lentamente, le sue labbra si erano incurvate verso l'alto in quel movimento un tempo così raro e che adesso centuplicava la bellezza dei suoi lineamenti. Aveva annuito piano e si era girato verso di lui, guardandolo nel sole senza schermarsi gli occhi. Sakuragi teneva i pugni serrati lungo i fianchi e sul viso aveva un’espressione infinitamente triste.

“Mi dispiace Kaede, non posso andare avanti così. Io…”

Sempre sorridendo, Rukawa gli si era avvicinato e gli aveva appoggiato prima un dito, poi le labbra sulla bocca, interrompendo il suo discorso.

“Lo capisco, lo capisco davvero sai. Neppure io posso farci nulla. Ti amo, eppure…” aveva bisbigliato.

Non c’era niente che potesse dire, niente che potesse fare per cambiare le cose. L’amore da solo non basta, tutto quello che viene dopo conta molto di più.

Lo aveva abbracciato stretto, cercando di imprimersi nella memoria ogni più piccolo dettaglio, dalla tonalità dei suoi capelli alle screziature dei suoi occhi, dal suo profumo mescolato a quello del pomeriggio estivo all’abbacinante riverbero del sole sull’erba e tra gli alberi. Avvertiva il suo respiro tra i capelli, i singhiozzi soffocati e il calore delle braccia che gli circondavano le spalle.


Cercherò su di me la tua pelle che non c'è

Ti entravo in fondo dentro lo sai

soltanto per capire chi sei


Rukawa voltò le spalle al canestro e si avviò verso l’ingresso della palestra. Fece scorrere la porta e rimase lì, sulla soglia, a osservare gli alberi e la terra inzupparsi e le gocce rimbalzare sulle foglie. Fece un paio di passi avanti e si fermò sotto la pioggia, spalancando le braccia e rovesciando indietro la testa, lasciando che l’acqua scorresse sul suo viso e tra i suoi capelli. Lasciando che provasse lei a lavare via tutti quei ricordi, se ne era capace.

Lo aveva allontanato, con delicatezza ma con decisione.

“Allora, ciao…” aveva buttato lì, soffocato dall’angoscia che iniziava a montargli dentro. Stupide, stupidissime parole, ma non gli era venuto in mente nulla di meglio. Soltanto quella foglia di ginko sospesa sul suo letto, sola nel muro bianco. Magari avrebbe dovuto chiedere alla mamma di disegnarne due, quella sera.

***

Un grazie agli Afterhours e alla loro Pelle (che per forza di cose ho dovuto modificare…), e ad Haruki Murakami per tutto quello che scrive.

 



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