Disclaimers: racconto originale, ambientato in un luogo ed in un tempo imprecisato ma che io immagino molto simile al mondo islamico medioevale.
Note: come dicevo la fic è originale, però mi sono liberamente ispirata ad una vecchia canzone di De' Gregori "Pezzi di vetro". Chi la conosce si accorgerà facilmente che ho sostituito l'uomo che cammina sui pezzi di vetro con un funambolo. Ringrazio comunque questo cantante, che amo tanto e che è per me fonte di continua ispirazione. 


L'uomo del filo

di Petra

parte I



La carovana del circo arrivò all'inizio dell'estate, il giorno precedente a quello della grande festa e attraversò tutta la città, prima di fermarsi proprio al centro della piazza.
Davanti ai nostri occhi attoniti sfilarono prima i banditori dalle giacche sgargianti, annunciati dai cupi tamburi e dalle trombe squillanti e subito dietro i carri dai tendoni multicolori, come enormi vele spiegate nel cielo di un azzurro abbagliante.
I carri erano guidati dalla gente più straordinaria che avessimo mai visto. Pareva che ogni razza del mondo avesse mandato nella nostra città un suo rappresentante. C'erano uomini del deserto, avvolti nei mantelli azzurri, dietro ai quali a stento s'intravedevano gli occhi color petrolio; e c'erano giganteschi uomini d'ebano, dai denti abbaglianti come i cerchi che portavano alle orecchie; e zingari dell'est, riconoscibili per i pantaloni a sbuffo e le guaine delle spade di cuoio damascato strette ai fianchi; e uomini del nord dalle barbe bionde come l'oro; e vi era un'intera famiglia di nani, vestiti come i leggendari elfi, coi cappelli a punta e gli stivali verde foresta; e fanciulle in fiore che viaggiavano assieme ad enormi donne barbute; e poi animali d'ogni specie: cani, bertucce, pappagalli e merli parlanti; e, persino, chiuso in una gabbia, un'enorme felino maculato che strizzava gli occhi gialli e sbadigliando mostrava una fila di denti aguzzi contro il rosso sangue della gola.
Al passaggio di  quell'ambaradan gli artigiani avevano tralasciato il loro lavoro, si erano affacciati alla porta della loro botteghe, e se ne stavano a bocca spalancata, abbagliati da quello splendore. Poi era toccato ai commercianti abbandonare incustoditi i mucchietti di monete sui banconi, e agli scribi le loro penne piumate, e persino nel tempio gli austeri sacerdoti avevano interrotto il loro perenne salmodiare e si erano affacciati alle ogive ricamate delle finestre insieme ai loro scolari, ritornati fanciulli. E anche alle finestre dei ricchi signori si potevano intravedere, al di là delle gelosie arabescate i luccichii degli occhi e dei denti delle
donne. 
Uno svolazzare di monelli scalzi e cenciosi, eccitati come uccelli, chiudeva quel corteo da sogno, con uno stridio di urla e risa.

Li guardai passare con invidia. L'anno prima anch'io sarei stato insieme a loro, scalzo ed urlante,  senza alcun pensiero al mondo se non quello di aggiungere baccano al baccano. Anzi, ancora tra loro riconoscevo alcuni dei miei compagni, più piccoli di me, che passando davanti alla bottega di mio padre mi fecero un cenno di saluto, prima di correre via.
Ma l'anno prima ero ancora un bambino, mentre adesso ero un uomo. La cerimonia del taglio del codino, avvenuto lo scorso inverno, aveva sancito la mia entrata nell'età adulta e l'abbandono delle abitudini da monello di strada.
Di solito a dire il vero ero fiero dei mie capelli rasati sulla nuca, dei mie ampi calzoni neri e del piccolo coltello che mi pendeva alla cintura. Avevo accettato il mio nuovo stato con una dignità davvero degna di lode, come  mi assicuravano gli occhi di mio padre, che si posavano su di me con uno sguardo che mi riempiva il cuore di orgoglio.
Eppure in quel momento avrei volentieri abbandonato ogni conquistata dignità, mi sarei tolto i sandali dai piedi per correre dietro ai compagni di un tempo, con la tunica indecorosamente alzata sulle gambe nude.
Seguii con occhi ansiosi il corteo finché sparì, inghiottito da una strada laterale. Sapevo che si sarebbe fermato al centro della grande piazza e lì gli uomini del circo avrebbero piantato le tende e avrebbero cominciato a costruire, sotto gli occhi strabuzzati dei bambini i capannoni delle loro meraviglie.
Sapevo anche che nessuno di quei ragazzini si sarebbe mosso da lì finché non fosse sopraggiunta la sera e l'aria non si fosse riempita dei richiami rauchi delle loro madri. Ma la sera era il momento migliore, perché il circo si sarebbe gremito di luci, odori di cibo, canti e balli, che sarebbero continuati fino a notte tarda, a dispetto del sonno, calato su ogni altra  parte della città. In realtà, lo spettacolo, vero e proprio, doveva cominciare solo l'indomani al calar del tramonto, però, fossi stato io il proprietario del circo avrei fatto pagare il biglietto ai mocciosi e ai perditempo, fin da quella prima straordinaria serata.

Sospirai, rientrando lentamente nella penombra della bottega di mio padre, e mi sedetti dietro il bancone, ricominciano lentamente ad incolonnare i numeri sul registro. Di solito mi piaceva annusare l'odore di cuoio che impregnava l'aria e ascoltare il mormorio appena accennato degli apprendisti che si mescolava al leggero stridio della mia penna sulla pergamena.
Ma quella sera tutto sapeva di prigionia.
Tentai ugualmente di concentrarmi sul mio lavoro e proseguii alla meno peggio per un tempo indefinito, scacciando dalla mia mente ogni pensiero estraneo.
Dopo un po' sentii i passi di mio padre fermarsi davanti a me. Alzai gli occhi ed incontrai il suo sorriso lievemente ironico. Sorrisi a mia volta, tornando subito ad incolonnare le cifre. 
"Basta per stasera," lo udii esclamare, con tono di comando. Rialzai gli occhi e vidi che si rivolgeva agli apprendisti.
Sorrisi di nuovo. Mio padre era un uomo giusto, pensai, sapeva quanta voglia avevano quei giovani di raggiungere le loro famiglie in quella vigilia di festa, perciò permetteva loro di interrompere il lavoro prima del solito. 
Gli uomini si alzarono dai loro banconi con un mormorio di soddisfazione, li vidi riporre velocemente i loro arnesi e togliersi i camici, chiacchierando allegramente.
Io tornai diligentemente ai miei registri. Ma la voce di mio padre accarezzò l'aria.
"Moibe, non hai sentito, ho detto basta per stasera".
Alzai gli occhi su di lui, dritto davanti a me.
"Ma non ho ancora finito, padre."
Egli  sospirò drammaticamente, sollevando gli occhi al cielo.
"Moibe, lo so benissimo che muori dalla voglia di andare a veder piantare i tendoni del circo, quindi smettila di fare il martire, posa quella penna e scappa, prima che ti faccia assaggiare la mia cintura come quando eri un moccioso pestifero".
Risi di sollievo e di vero divertimento, anche perché lui non mi aveva mai sfiorato in vita sua. Nemmeno per accarezzarmi, a dire il vero, ma tanto meno per picchiarmi.
In un attimo fui fuori dalla bottega, libero e felice, diretto alla grande piazza delle meraviglie.

Quando arrivai i lavori erano già a buon punto. Almeno la maggior parte delle tende era issata e i padiglioni cominciavano a sorgere come funghi colorati. 
Mi misi a vagare in mezzo alla confusione, cercando qualche faccia conosciuta con la quale commentare gli avvenimenti, quando qualcosa attirò la mia attenzione. 
A pochi passi da me, alcuni giganti biondi assieme ad altri neri come la notte, stavano sollevando due pali lunghissimi, perpendicolari contro il cielo. Non avevo mai visto prima niente del genere, così mi avvicinai incuriosito. Quello strano armeggiare aveva attirato un bel numero di spettatori, che se ne stavano a guardare, a bocca spalancata, i pali  rizzarsi lentamente . Riconobbi tra loro un ragazzino mio vicino di casa e mi avvicinai.
"Rousse, ma che sta succedendo?" chiesi al bambino.
"Oh, ciao Moibe, hai visto che strano?" disse lui, appena mi riconobbe.
"Ma che cos'è?" ripetei.
"E' per l'uomo del filo".
"Che uomo del filo?" chiesi sbalordito.
"Sì, l'uomo del filo. Metteranno una corda tra quei pali,"  continuò lui, indicandomi col dito la traiettoria di quell'ipotetica corda, "E un uomo ci camminerà sopra, da un palo all'altro. Non è incredibile?"
Guardai il punto indicato dal suo dito e calcolai la distanza tra la cima dei pali e il terreno.
"Ma che vai dicendo, scemo, nessuno può camminare su una corda, cadrebbe di sicuro e a da quell'altezza si spezzerebbe la schiena. Come ti viene in mente un'idiozia simile?"
Il bambino mi guardò indignato, poi indicò uno dei due giganti biondi.
"E' lui che me l'ha detto. L'uomo del filo camminerà là sopra, proprio sulle nostre teste. E senza rete di protezione, né corda di salvataggio" aggiunse con aria convinta.
Alzai lo sguardo verso il cielo che cominciava ad imbrunire.
"I bambini credono a tutto quello che gli si dice" pensai. Ma non dissi niente, perché improvvisamente mi accorsi di qualcosa che riluceva da un'estremità all'altra dei due pali. Era senza dubbio una corda e oscillava lievemente, mentre  i giganti tentavano di tenderla il più possibile sul vuoto.

****
La sera dello spettacolo la piazza della nostra città aveva assunto l'aspetto di un mondo di fiaba. Tutte le tende erano state drizzate e sventolavano  al leggero soffio del vento. C'era nell'aria un odore di eccitazione ed allegria ed un rumore assordante di musica, urla e chiacchiere della gente. Tutti erano vestiti a festa e i volti sorridevano e salutavano.
Mi recai da solo allo spettacolo, perché mio padre odiava la confusione e in circostanze simili preferiva sempre rimanere a casa. Mia madre, invece, era morta quando ero ancora un bambino e di lei ricordavo a stento una voce che mi cantava una melodia le cui parole le avevo dimenticate assieme al resto.
Da piccolo erano i miei zii che mi portavano al circo, insieme ai loro figli e figlie. Le loro intenzioni erano buone, eppure mi umiliava sempre un po' vedere i miei parenti che mi pagavano i dolci, e non osavo mai chiedere niente di più per non dover pesare troppo. Ma quell'anno era diverso, perché avevo preteso di andarci da solo, come una persona adulta che sa badare a se stessa. Mio padre aveva fatto un po' di storie, ma poi con un sospiro aveva finito per acconsentire.
Vagai per un pezzo da un padiglione all'altro, divertendomi alla vista della donna barbuta o dell'uomo più forte del mondo che piegava sbarre di ferro. Entrai anche nel padiglione della belva che avevo intravisto la mattina prima. Un banditore, davanti all'entrata della tenda affermava che si trattava di una tigre, mitico animale delle giungle d'Oriente, e che per catturarlo dieci uomini avevano perso la vita, tanto era feroce quell'animale e fino a tal punto amava la libertà. I bambini ascoltavano a bocca aperta.

Stanco di girovagare, infine, mi diressi al centro della piazza.   Essa era delimitata dai due pali posti uno di fronte all'altro e collegati dalla corda tirata. I pali erano infitti all'estremità di una pista di legno circolare, rialzata sul terreno, così che la corda, tesa sulle nostre teste, ne segnava il diametro. Intorno alla pista uno steccato di legno marcava i confini della zona dello spettacolo separandola da quella degli spettatori.
Era ancora presto quando arrivai e non vi erano molte persone accalcate intorno alla pista, mi fu facile perciò prendere posto  ai bordi del rialzo, appoggiato proprio allo steccato.
Lo spettacolo cominciò tra le fiamme e l'odore aspro del mangiatore di fuoco e continuò con l'intermezzo comico dei nani. Poi fu la volta del giocoliere che ci incantò facendo volteggiare nell'aria le sue clave colorate. Ma ci divertì soprattutto il matrimonio delle due bertucce e, in particolare, la sposa con l'abito nuziale e il velo che le copriva il volto scimmiesco divenne la beniamina dei bambini.
Stavamo ancora ridendo, quando i quattro giganti che avevo visto il giorno prima entrarono nel centro della pista, portando delle grosse fiaccole. Li seguivano altri uomini  ciascuno con una fiaccola spenta nelle mani. La loro entrata fu sottolineata dal ritmo profondo dei tamburi. Poi gli uomini si disposero a cerchio intorno ai due grandi pali, infitti nel terreno, e i giganti passarono a turno ad accendere le fiaccole. Un minuto dopo il centro della piazza era illuminato come fosse giorno.
Noi tutti guardavamo quei preparativi con mormorii di stupore, quando all'improvviso, dall'ombra sbucò un giovane avvolto in un mantello azzurro cupo. L'uomo raggiunse il centro della pista e salutò il pubblico con un gesto aggraziato, poi scattò in avanti e con due salti raggiunse uno dei due pali. Nel frattempo uno dei giganti aveva recato una scala e l'aveva appoggiata al palo. L'uomo si tolse il mantello e con un sorriso sulle labbra  cominciò ad arrampicarsi. Un mormorio di stupore si diffuse tra il pubblico.
Frattanto quello raggiunse la cima del palo e con abilità si issò sulla torretta e rimase lassù immobile per una attimo, dritto contro il cielo del tramonto, col mantello gonfio per il vento.
Un attimo dopo l'uomo allargò le braccia e allungò un piede verso il vuoto. Un senso di vertigine mi afferrò alla gola e dovetti chiudere gli occhi. Nel silenzio irreale che seguì sentii risuonare un "oh" di meraviglia. Allora riaprii gli occhi e vidi, al di sopra della mia testa, l'uomo che camminava appeso al vuoto. Avanzava in linea retta, oscillando appena e poggiando con circospezione un piede alla volta davanti a sé, ma la sua testa era diritta e il suo sguardo seguiva, lontano, il cerchio dell'orizzonte sereno. Non potevo vedere il suo volto ma avrei scommesso che sorrideva ancora di quel lieve, ironico sorriso con cui ci aveva degnati, noi animali terrestri, prima di salire in cima alle scale.
Al centro del percorso una folata di vento improvviso fece oscillare violentemente la corda. Un gemito d'angoscia sorse dal petto di tutti noi e i respiri si strozzarono in gola. Ma lui, l'uomo del filo, si limitò ad assecondare con l'agile corpo l'oscillazione, e nemmeno per un momento si degnò di abbassare lo sguardo verso i suoi piedi, saldamente aggrappati alla corda invisibile.
Subito ricominciò ad avanzare. Con pochi passi ancora raggiunse l'altro palo e con un ultimo, lieve balzo, come se volesse infine spiccare il volo, piantò saldamente i piedi sulla torretta, all'altro capo del filo.
Rimase fermo un attimo piegando lievemente la testa di lato, quasi a complimentarsi con se stesso, poi  chinò lo sguardo verso il basso, a ricevere l'ovazione del pubblico.




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