Disclaimers: i personaggi non mi appartengono ma sono del maestro Inoue (eddai, solo un prestito! una sola volta!) io non ci guadagno nulla (sigh)

 dedicata ad hinao che ha avuto l'onere di leggerla in anteprima l'altro giorno e che mi ha gentilmente spinto a postarla qui il più in fretta possibile.

 

 


Favola

di SaraNeikos



“Oro e pietre preziose.

Bei vestiti, tanti giocattoli.

Lezioni di etichetta e di equitazione.

Lunghi corridoi straripanti di splendenti ricchezze.

Viveva in quel luogo che tutto sembrava fuorché una casa.

Poteva fare tutto ciò che voleva e avere tutto ciò che desiderava, ma non gli interessava.

Tante persone sconosciute, così simili tra loro, erano pronte a riverirlo e a soddisfare ogni suo capriccio.

Quello era il loro compito fin dal giorno della sua nascita.

Dopotutto era il principe di quel regno.

Bello come un angelo; occhi di cielo, pelle di neve e capelli d’inchiostro.

Non parlava quasi mai. I suoi sorrisi erano rari come perle nere.

Una bella bambola in un mondo incantato.

Per molto tempo aveva ignorato il suo nome; era “il Principe”, nessuno osava chiamarlo in altro modo.

E come tale si comportava.

Rigido, impettito, osservava il padre nella grande sala delle udienze. Quelle erano le uniche occasioni in cui poteva incontrarlo.

Lui, bambino, seduto a fianco del tutore, mentre l’uomo, irraggiungibile e distaccato, sedeva sul maestoso trono al centro della stanza.

E in quel momento non era il padre: era il Re.

Lontano da lui, lontano da chiunque.

Al suo fianco la Regina. Fragile, sottile, bella.

Silenziosa.

Non parlava mai quando avevano modo di incontrarsi, camminando negli ampi corridoi decorati.

Quando accadeva, lei si fermava e gli donava una carezza ed un sorriso.

E il Principe continuava per la sua strada, col volto ancora inespressivo ma il cuore più leggero.

Spesso si fermava a guardare il paesaggio fuori dalle grandi finestre. E quando giungeva il tramonto, si sedeva sul tappeto della sua camera, immergendosi negli ultimi raggi di quel sole morente.

Calore.

Un’altra dolce carezza per l’anima.

E fissava i campi bruciati da quella calda luce dorata, sperando di poter afferrare il sole e tutto il suo calore.

 

Questa era la sua vita.

 

 

Il tempo passò, da bambino divenne ragazzo.

Non parlava col padre, ma solo col Re.

Niente più carezze dalla madre, col loro dolce calore a lenire la solitudine.

Ma erano rimasti i raggi di sole in cui rinfrancarsi. Anche se da molto non erano più sufficienti.

Si affacciava alla finestra, osservando il mondo oltre quelle alte mura, cercando di immergersi in quel panorama pieno di colori e suoni che non conosceva.

“Sono il Principe di questo Regno. E non l’ho mai visto.”

E rimaneva a fissare il mondo esterno a lui sconosciuto, in silenzio.

 

Una risata.

Spalancò gli occhi, sorpreso da quel suono così allegro e pieno di vita che giungeva da fuori.

Da quel mondo che ignorava.

Voleva scoprire a chi appartenesse quella musica che tanto lo attirava.

Voleva la felicità che sembrava fluire da essa.

Si sporse allora dalla finestra, posando il suo sguardo verso i campi sottostanti.

Lì, troppo lontani per essere visti chiaramente, c’erano due ragazzi.

Uno di loro era il proprietario di quel dolce suono, che lui sentiva come miele nell’anima.

E mentre il principe osservava quelle figure, il sole tramontava delicatamente, per la prima volta ignorato.

Passò così i suoi giorni, osservando quei due il più possibile.

Invidiando la loro allegria.

Anelando la loro libertà.

Rimuginando continuamente sul suo mondo, gabbia dorata da cui non riusciva a fuggire.

Avrebbe voluto conoscerli, solo per poter vedere da vicino la loro felicità.

E raccoglierne così anche solo le briciole.

 

Infine prese la sua decisione.

 

 

Loro lo osservarono sorpresi.

Stupiti dalla sua bellezza e dalla regalità che mostrava, austera e fredda come ghiaccio.

Non avevano mai parlato con dei nobili e certo non si aspettavano di aver davanti il Principe.

E lui questo lo sapeva.

Perciò rimase zitto.

 

“Qual è il tuo nome?”

“…”

“ Allora?”

“Kaede”

“Io sono Hanamichi”

 

Un sorriso caldo. Occhi splendenti, capelli di fuoco, come il sole morente, e pelle come oro.

Ora sapeva a chi apparteneva quella risata.

E tutti i giorni non riusciva a fare a meno di incontrarlo.

Poter fuggire così da quel mondo che sempre più sentiva come una prigione e librarsi nel cielo, anche solo per poco tempo, assaporando quell’attimo di libertà.

E di vita.

Spesso lui e il ragazzo dai capelli di fiamma litigavano, finendo anche in rissa, mentre l’altro tentava invano di fermarli.

Picchiare un nobile era ritenuto un fatto inammissibile e comportava una severa punizione. Se si trattava del principe era prevista anche la pena di morte.

Ma al rosso sembrava non importare. E ciò veniva apprezzato da Kaede perché, per un momento almeno, non era più un principe, ma solo un ragazzo come tanti che desiderava solo divertirsi ed essere felice.

Ma non sempre le cose prendono la direzione da noi sperata.

Si danno per scontato fatti e situazioni, si prega spesso che non accadano cose in grado di distruggere ciò che si è faticosamente creato e vissuto fino ad un determinato momento.

Ci si appella ad ogni santo e divinità, spirito o demone, per scongiurare l’inevitabile quando ormai ci si sta per scontrare addosso.

E tutto quello che resta è solo silenzio e devastazione.

Questo vale per tutti, anche per i principi.

La grande cerimonia del casato, a cui partecipavano tutti i nobili e che veniva festeggiata anche con banchetti e cortei per la cittadella.

Lui, al fianco del padre e del fratello minore, in sella ai loro cavalli da parata avevano sfilato per le contorte vie della capitale e del castello, salutati ed osannati dalla folla.

E nel mezzo c’erano anche loro.

Aveva rivolto loro uno sguardo sfuggente, freddo. E loro avevano ricambiato sgranando gli occhi.

Era il principe ereditario.

Doveva essere distaccato da tutto e tutti, e come tale si comportò.

Ma non per seguire l’etichetta. No.

Semplicemente aveva avuto paura di quegli occhi e di ciò che avrebbe potuto leggervi dentro.

Inganno, tradimento, stupore, sconvolgimento, confusione. Forse anche rabbia.

Per la prima volta da molto tempo aveva preferito nascondersi dietro la sua maschera da principe.

Fuggendo come un vigliacco.

 

Da quel momento cambiò tutto.

 

 

Non tornò più nei campi al tramonto.

I primi giorni evitava di volgere il suo sguardo verso quella stretta finestra che tempo prima gli aveva mostrato un mondo che aveva cominciato ad amare profondamente.

Quel mondo che ora non gli apparteneva e che sembrava lontano e sbiadito come un sogno lo è alle prime luci dell’alba.

Quella vita che aveva bevuto come il più dolce tra i nettari ora gli era preclusa.

E per evitare di soffrire ancora si dedicò completamente al suo ruolo di principe ereditario e futuro sovrano.

Vi si immerse completamente, cercando di dimenticare tutto ciò che aveva imparato ad amare e ad apprezzare in quei mesi.

Inutilmente.

Ogni tanto, quando si trovava solo nella sua regale camera, si sedeva sul tappeto come quand’era un ragazzino, a bearsi dei caldi raggi del sole morente.

E senza accorgersene si ritrovava in piedi davanti alla grande finestra ad osservare nuovamente quel mondo di campi dorati.

E al centro del campo, due figure in piedi.

Col cuore pesante, si allontanava velocemente da lì, tirando le pesanti tende a coprire la vista di quel luogo.

Invano.

Perché tutto di quei luoghi continuava a vivere nei suoi ricordi, nel suo cuore.

Colori, suoni, calore. Per quanto tentasse di allontanarsene, essi rimanevano lì.

A volte sollevandolo, altre distruggendolo.

Finché un giorno cedette e si affacciò dalla sua camera, posando i suoi occhi su quella vista, cercando di catturare quanti più attimi di libertà e vita potesse.

E lo vide.

Lì, in mezzo al campo dove lo aveva conosciuto quel giorno di inizio primavera insieme al suo fidato amico.

In piedi, lo sguardo rivolto verso il castello e le alte mura che lo circondavano.

E il cuore del principe perse un battito.

Lui era ancora lì.

E rimase a fissarlo, fino a quando il sole non scese completamente e le tenebre resero difficile distinguere la sua figura.

Pensando.

Desiderando tornare indietro e poter nuovamente ascoltare quello strano ragazzo pieno di vitalità ed allegria e afferrarne così la vita e la gioia che sembrava possedere in grandi quantità.

 

 

Autunno, inverno, primavera.

Un nuovo anno era iniziato. La natura era rinata nuovamente.

Tutte le sere il principe si fermava a guardare i campi al di là delle mura, cercando con gli occhi la sagoma di quel ragazzo che tanto gli era entrato nell’anima.

Troppo distanti tra loro per vedersi attentamente, ma consci della presenza l’uno dell’altro.

Sperando di poter tornare a quei momenti spensierati di solo un anno prima, quando ancora erano solo ragazzi come altri, che parlavano e litigavano, si arrabbiavano e si divertivano.

Ma ora aveva obblighi e doveri a cui non poteva sottrarsi, e sempre meno tempo per guardare il paesaggio esterno, con i suoi abitanti e con lui.

E il suo sguardo si faceva sempre più cupo, mentre il suo atteggiamento diventava più freddo e scostante.

Fino a quel tardo pomeriggio.

Non lo credeva possibile.

Era lì.

Hanamichi.

Il ragazzo dai capelli di fiamma, pieno di vita, rissoso e generoso.

E come sfondo il giardino al limitare delle spesse mura, con i suoi cinguettii e i suoi fruscii.

 

“Dato che tu non venivi più al campo, ho deciso di venire io qua da te”

“…”

“… beh? Non dici niente?”

“… Grazie”

 

La maggior parte delle volte si limitavano a fissarsi da lontano, il principe osservandolo dalla sua stanza e il popolano seduto in mezzo al campo, lo sguardo verso l’alta finestra.

Rare erano le volte che i due ragazzi avevano modo di incontrarsi in quel giardino silenzioso e pieno di pace, lontano dagli occhi altrui e dalle falsità di corte.

E passavano il tempo seduti a poca distanza l’uno dall’altro, Hanamichi che raccontava la sua vita e Kaede che lo ascoltava. Assaporando le parole ricche di gioia e di vita fuoriuscire da quelle labbra sempre sorridenti.

Capaci di scaldargli l’anima e il cuore.

E ritrovandosi sempre più spesso a fissarle, a desiderarle.

A volerle baciare e possedere.

E allora volgeva il viso verso il giardino lì attorno e le mura impenetrabili che lo cingevano.

Odiandosi per i propri pensieri.

E ancor di più per il proprio ruolo di principe.

 

 

L’estate era infine giunta al suo culmine.

Un tripudio di suoni e colori.

Ma che per il principe non erano altro che copie pallide e privi di spessore di quel caldo ragazzo che conosceva.

Era diventato il suo sole, ciò di cui non poteva fare assolutamente a meno.

Calore in grado di sciogliergli l’anima.

E la madre, da tempo distante, ora lo guardava attentamente, la preoccupazione dipinta sul volto.

 

“Kaede… sai che fiori sono questi?”

“… tulipani, madre…”

Un sorriso calmo.

Complice.

“Sono i fiori dell’amore”

“…”

“Donali a chi devi”

 

Il Re l’aveva convocato nella grande sala.

Immensa, fredda e distante.

Così come il discorso che fece.

Doveva scegliersi moglie e prepararsi al suo ruolo di sovrano.

E mentre pronunciava queste parole di piombo, il fratello minore continuava a guardare il padre, la tristezza negli occhi, per non essere mai stato considerato importante quanto l’altro figlio.

Si allontanò velocemente da quel luogo che di colpo era diventato soffocante ed opprimente e si rifugiò nella sua stanza.

Lontano da tutti e soprattutto dalla sua famiglia.

Dolore, rabbia, disperazione, oppressione: sentimenti che lo stavano distruggendo.

Per quanto odiasse la situazione, lui era il principe. E come tale doveva comportarsi.

Non poteva ribellarsi.

E sempre più spesso si ritrovava ad indugiare con lo sguardo verso quelle mura insormontabili e quel mondo così vicino ma così distante in cui viveva il suo sole.

Diviso tra ciò che doveva e ciò che desiderava.

Bramando di poter abbracciare quel ragazzo che gli era entrato così profondamente nel cuore.

Detestando il proprio compito di re che gli spettava.

E vedeva gli occhi di quella furia rossa spegnersi un po’ di più ogni volta che si incontravano.

Devastandolo.

Doveva decidere in fretta, prima che tutto ciò che era riuscito faticosamente ad afferrare gli sfuggisse come sabbia tra le dita.

 

 

Una mattina come tante, col sole alto e splendente nel cielo terso.

Servi e nobili che giravano per il castello, animandolo.

E la Regina, silenziosa e con gli occhi velati di tristezza, camminava verso le stanze del figlio maggiore.

Trovandole però vuote.

La grande finestra spalancata.

Un sorriso sollevato e sincero le si formò sulle labbra sottili mentre la voce della sparizione del principe giungeva fino al Re.

Sul letto giacevano, sovrapposti, un tulipano e la piccola corona, simbolo del principe ereditario.”

 

 

 

Chiuse il libro.

Era stata una faticaccia leggere per uno come lui, ma ne era valsa la pena. Finalmente quelle due pesti si erano addormentate. Era un genio, no?

Si alzò stiracchiandosi i muscoli indolenziti. Era rimasto per troppo tempo seduto a terra in una posizione molto scomoda ed ora ne risentiva. Ah, ma gliel’avrebbe fatta pagare! Chiedergli aiuto e poi svignarsela subito!

La porta della piccola camera si socchiuse lentamente, facendo entrare un raggio di luce più intenso di quello della abat-jour accesa lì accanto.

Yohei si affacciò, lo sguardo diviso tra il preoccupato e lo stupito.

“Sei riuscito ad addormentarli?”

Hanamichi si avvicinò all’amico, spingendolo lontano dalla porta.

“Certo che sì! Dopotutto sono un genio in tutto ciò che faccio! Cosa ti aspettavi, scusa?” fece, lo sguardo corrucciato e dubbioso, pronto a fare a botte alla prima risposta sbagliata.

“No, niente” riprese l’amico, allontanandosi preventivamente dal rosso.

“E ti pareva! Nessuno mai che si fidi del genio!” sbottò seccato.

Entrarono in cucina, lo stomaco di Hanamichi che brontolava rumorosamente, chiedendo soddisfazione.

Il moretto sorrise mentre guardava l’amico frugare nel frigorifero in cerca di cibo.

“Comunque… grazie per essertene occupato tu…”

“Cosa? Oh, sì, giusto… ma questa è l’ultima volta che mi fai uno scherzo del genere… la prossima volta dimmelo prima!”

“Eddai, nemmeno io sapevo che mia sorella volesse mollarmi i suoi cari figlioletti stasera, se no non avrei mai preso appuntamento con quella bella ragazza…”

“A proposito, come è andata?”

Il rosso si voltò verso Yohei, un panino in bocca e lo sguardo puntato sull’altro.

Il moro sorrise.

“Eh… questi non sono affari che ti riguardano… dopotutto, io non ti vengo a chiedere come passi le tue serate infuocate con Rukawa, no?”

Hanamichi per poco non si strozzò col cibo che stava ingurgitando.

“Cos… cosa?! Ma a te che importa?!” saltò su, rosso come i suoi capelli.

“Vedi?... no… scusa… davvero, non volevo insinuare… eddai, sta calmo! Stavo solo scherzando!” Yohei si alzò velocemente dalla sedia, pronto a scappare, mentre il rosso lo guardava vergognoso e furioso in volto.

“Dove credi di andare?!”

Nel giro di pochi secondi la testa rossa si mise ad inseguire l’amico per la casa, pronto a porre fine alle sue domande a suon di pugni e testate.

La corsa terminò qualche minuto più tardi, quando uno Yohei stanco e preoccupato si era arreso, promettendo di evitare altre domande o riferimenti imbarazzanti.

“Che sia l’ultima volta, chiaro?” sibilò arrabbiato Hanamichi.

“Sì, sì, scusa… spero solo che con il casino che abbiamo fatto adesso non si siano svegliati…”

“Ah, già! Oh, beh, tanto sono i tuoi nipoti; toccherà a te farli addormentare di nuovo!” ghignò.

Il suono del campanello li fece voltare verso la porta.

“Beh… penso che il tuo principe sia arrivato…” sorrise Yohei, allontanandosi fulmineamente dalla portata del rosso.

Hanamichi si avviò verso l’uscita borbottando e maledicendo certi amici stupidi che si ritrovava. Sulla porta, l’amico scambiava due parole con Rukawa, che stringeva un involto tra le mani.

“Dai, andiamo” disse, afferrandogli un braccio e salutando il moretto, dirigendosi poi verso casa.

 

Rukawa camminava silenzioso al suo fianco, mentre lui non la smetteva di raccontare in che modo aveva passato la serata e tutti i metodi che aveva messo in atto per far addormentare i due bambini.

“…”

“Non sono stato un genio immenso?” fece tronfio.

“Già… e poi per poco non li hai svegliati di nuovo… idiota…”

“Come osi!?” si inalberò il rossino.

Rukawa sbuffò e si fermò di colpo.

Hanamichi lo fissò sorpreso. Non aveva reagito come al solito e il suo volto era serio, se ne era reso subito conto.

“Non so cosa mi sia preso oggi. Non so nemmeno perché l’ho fatto. Ma ho pensato fosse il momento giusto”

“Di che parli?”

Il moro gli porse l’involto di carta che teneva ancora in mano. Il rossino lo guardò perplesso, poi iniziò a scartarlo.

E si bloccò.

Stupore, sorpresa, confusione. E poi comprensione, felicità, amore.

Kaede ancora non riusciva a credere come fosse possibile cambiare espressione in modo così chiaro e veloce. Era facilissimo leggere il suo viso, così limpido e sincero.

Ed era anche per questo che lo amava.

Hanamichi gli saltò al collo, le braccia strette in una morsa dolce e calda e il corpo premuto contro il suo. Non sapeva se ridere o piangere, urlare o baciarlo fino allo sfinimento. La felicità gli sembrava troppa. E non gli importava sapere di trovarsi in mezzo ad una strada, con gente che poteva vederli.

“Ti amo, ti amo, ti amo…” ripeteva felice ad un Rukawa sempre più imbarazzato.

Perché aveva appena ricevuto la dichiarazione più bella della sua vita e non riusciva a staccarsi dal suo ragazzo.

Stretti nella mano teneva un tulipano e due fedi d’oro.