NOTE: le parti racchiuse tra i cancelletti ## denotano flashback, parti della storia ambientate nel passato. In origine avevo usato un carattere diverso per evidenziare la cosa, ma in formato solo testo non è possibile (o sbaglio?)
Le parentesi quadre (che si svolgono dopo le tonde, tanto per far felice il mio ex prof di mateca) indicano invece pensieri, più o meno consci, dei protagonisti.


In un paese d'estate

di Unmei

parte III


Seduto sulla panchina Matthias si godeva il tepore del sole primaverile, che finalmente si era deciso a mostrarsi. Lavorare ad orario continuato nella libreria gli dava occasione di essere libero piuttosto presto di pomeriggio, un vantaggio di cui era felicissimo; solo di venerdì gli capitava di restare in negozio fino a sera, interrompendo la giornata con una pausa, come quel giorno; in quel caso usciva, faceva una passeggiata, mangiava all'aperto, se il tempo lo permetteva, invece di sbocconcellare un panino nel retro della libreria.

I giardini erano verdi, fioriti e profumati, i vialetti percorsi da lavoratori che avevano avuto la sua stessa idea, da impiegati senza giacca e con la cravatta allentata, e da studenti con lo zaino sulle spalle. Non mancava nemmeno chi faceva jogging, abitudine che aveva tentato di acquisire pure lui, rinunciando dopo qualche svogliato tentativo a causa della propria pigrizia.
Nel complesso la tranquillità era così totale che gli sembrava quasi d'essere in vacanza, ed era impossibile non riuscire a rilassarsi con un'atmosfera simile.

"Non mi interessa assolutamente!"
Quella voce leggermente alterata lo strappò alla sua contemplazione bucolica.
"... l'avevo la pazienza, ma l'ho decisamente esaurita!...in questo caso, o se ne va quello o me ne vado io, faccia un po' lei... ecco bene. appena torno ne parliamo, arrivederci."
Con un gesto secco, l'equivalente della cornetta sbattuta sul ricevitore, la persone che aveva parlato chiuse la comunicazione del cellulare. Matthias riconobbe immediatamente Keith, ma non gli aveva mai visto addosso un'espressione così irritata. sul suo viso aveva incontrato sia sguardi seri che sorrisi ironici, e un'aria tanto dura sembrava fuori posto, completamente inadatta a quel volto.

Il suo vicino gli passò davanti speditamente, guardando dritto davanti a sé, senza nemmeno notarlo.
Fu solo dopo che l'aveva ormai superato di qualche passo che rallentò, fermandosi, e si voltò a guardarlo, come se avesse captato la sua presenza con la coda dell'occhio e l'informazione non fosse stata immediatamente decodificata dal cervello.
"Ehi, buongiorno."
Lo salutò infine, e permettendo alla propria espressione di schiarirsi tornò verso di lui.

"Che fai da queste parti?"
"Solo una passeggiata per calmarmi i nervi. Problemi con un nuovo collaboratore."
"Ah...ho sentito. Cerca di non arrabbiarti troppo, tanto non ne vale la pena. Cioè...lo so che non sono affari miei e che non conosco la situazione, però, è un peccato rovinarsi l'umore per questioni di lavoro, ti pare?"
Matthias ricordava fin troppo bene l'umore nero di suo padre, i suoi silenzi lunghi giorni e giorni, tutto perché non riusciva a separare la professione dal resto della sua vita, facendone, involontariamente, risentire anche la sua famiglia.

"Proverò a fare come dici, ma non ti assicuro niente." Rispose Keith, che lentamente tese una mano verso di lui, e, sfiorandogli un orecchio, la insinuò delicatamente fra i suoi capelli.
Matthias rimase paralizzato, con il respiro bloccato in gola e gli occhi sbarrati, a fissare il volto dell'altro, che si era fatto assorto e lontano.
Quel tocco inaspettato stava ingarbugliando ogni pensiero coerente, anestetizzando la percezione della vita intorno per attirare su di sé tutti i suoi sensi.il profumo di Keith, il calore della sua mano,  il colore dei suoi occhi, il rumore del suo respiro.
Un palpito diverso gli scosse il cuore, più profondo, più forte, più vivo di tutti gli altri.
Bella...era bella quella sensazione.
No, non erano i pensieri giusti da avere quelli...ma tuttavia quell'incantesimo era innegabile e stordente; perché Keith gli stava facendo una cosa simile? E perché gli faceva quell'effetto?

Le labbra di Keith tremarono appena, come se fosse stato sul punto di dire qualcosa e si fosse ricacciato a forza le parole in gola; abbassò le palpebre per una frazione di secondo e poi e ritrasse la mano.
"Foglia."
Disse brevemente.
Il resto del mondo tornò a impossessarsi dei sensi di Matt, il profumo dolce dei tigli nascose quello amaro di Keith, le voci dei ragazzi che ridevano  coprì il suono del respiro di lui.
Matthias guardò interrogativamente il vicino, che con un sorriso lieve gli mostrò una piccola foglia di un tenero verde primaverile.
"L'avevi tra i capelli."
"Oh!"
Mormorò, sentendo di avere quasi voglia di arrossire, e di darsi dello scemo, per aver scambiato quel gesto per una carezza.
E anche, soprattutto, per aver per un momento desiderato che lo fosse veramente.
Il fatto era che ci somigliava terribilmente, ad una carezza. 
Doveva trovare al più presto un argomento di conversazione, per evitare di pensare all'accaduto più del necessario.
"Keith, mi stai facendo venire il torcicollo. Non ti potresti sedere?"
"In verità dovrei andare...però...d'accordo, mi fermo un po'. - prese il posto accanto a lui, passando le braccia dietro lo schienale della panchina e alzando il viso a guardare il cielo terso.
"Mi consideri indiscreto se ti chiedo che lavoro fai?" Domandò Matthias, cercando di non scrutare troppo palesemente il suo profilo.
"Beh, diciamo che...mi occupo di computer e sistemi informatici, e che ultimamente, oltre a cercare di condurre alla ragione dei cervelli elettronici, devo fare la stessa cosa con dei cervelli bacati. Tu cosa ci fai qui, invece, Matthias?"
"Io aspetto il pranzo. Anzi, eccolo che arriva."
Con un cenno della testa,  indicò una signora che stava sopraggiungendo lungo il vialetto. Keith la guardò, poi fissò Matthias con uno sguardo esageratamente perplesso.
"Sei un cannibale?"
Il ragazzo più giovane roteò gli occhi.
"Beh, finalmente mi hai fatto una battuta, così ora sono sicuro che sei davvero tu e non un replicante. Quella è mia nonna; nella mattinata mi aveva telefonato dicendo che mi avrebbe lei portato qualcosa da mangiare, così le ho dato appuntamento qui. Ah, il suo nome è Estelle."

La donna indossava un abito blu vivace, lungo e svolazzante; aveva capelli di un biondo tenue e il suo viso conservava  lineamenti fini, nonostante l'età. Benché si fosse appena seduto, Keith, al suo avvicinarsi, si era cortesemente alzato per salutarla e cederle il posto.
Lei lo studiò per un po', cercando di abbinare al suo viso il nome giusto, ma senza riuscirci.
"Non lo conosci ancora, nonna. Lui è Keith, un mio nuovo - il cervello di Matthias rovistò tra i termini cercando quello giusto; cos'era Keith? Un nuovo conoscente? Un nuovo vicino? Oppure un nuovo. - ...amico." Decise infine, e si sentì soddisfatto della scelta, e sicuro di non aver abusato del termine.
Quella parola fece sorridere interiormente Keith, ma gli diede anche una fitta di tristezza. Forse non era poi così urgente affrettarsi a tornare in ufficio: che lo aspettassero pure un po', mica era indispensabile... ma improvvisamente sentiva anche di non poter più restare lì, di non riuscire più a sostenere la differenza tra il passato e il presente.
"Bene, io...io devo proprio andare, adesso. Magari una volta passo a trovarti in libreria."
Matthias aveva fatto per accennare un saluto ma si bloccò, sorpreso. 
"Come fai a sapere che lavoro in una libreria?"

[Oh, merda!]
Mentalmente Keith si coprì la faccia con una mano; in teoria lui non avrebbe dovuto sapere che occupazione avesse Matt, visto che l'informazione gli era giunta un paio di giorni prima dai Custodi...
E quella non era certo la spiegazione che poteva dargli.
"Ah, beh... sei stato tu a dirmelo."
"Io? Ma quando?"
Chiese Matthias,  perplesso 
"Prima. Non ti ricordi?"
Il ragazzo più giovane aggrottò pensierosamente le sopracciglia, confuso. 
Decidendo di approfittare di quel momento per distrarlo dall'argomento, Keith incalzò.
"Non ti preoccupare se ti sfugge, dopotutto pare che già a partire dai venticinque anni le cellule neurali comincino a decadere."
"Ma io non ne ho ancora compiuti venti!"
"Beh, vorrà dire che sei un tipo precoce."
Constatò dottamente Keith.
"Proprio non vuoi farti sfuggire un'occasione per prendermi in giro."
Matthias indossò un piccolo broncio da bambino offeso, e l'altro ridacchiò.
"Consolati, io prendo in giro solo le persone che mi piacciono. Arrivederci, signora. Ciao, Matt, ci vediamo."

Fece appena qualche passo per allontanarsi, ma venne chiamato ancora una volta.
"Ehi, aspetta un po', giovanotto!"
A fermarlo non era stato il nipote, ma la sua arzilla nonna.
"È da quando Matthias era piccolo che conosco tutti i suoi amici, e mi va di continuare così, sai? Forse sarà perché è il mio unico nipote, e questo mi rende apprensiva, e un po' perché ne avrei voluti altri. Così mi arrangio con dei 'nipoti adottivi' - disse la donna con un sorriso - Dunque ti chiedo, Keith, ti piace la cucina orientale?"
Senza capire bene cosa c'entrasse con il resto del discorso, lui annuì. 
"Molto bene, allora domani sera sei invitato a casa di Matt a cena. Vi cucinerò un intero menù cantonese, a patto che voi andiate a comprarmi tutti gli ingredienti che mi serviranno. Domani è sabato, sei libero?"
  "Lo sono, ma. non sarà un disturbo, per voi due?"
"Ma niente affatto! Tu hai altri impegni, Matt?"
"Beh, no."
"Molto bene. Allora domani, verso le tre, passa da Matthias. Vi darò la lista di quello che mi serve e poi mi metterò a cucinare; è una cosa che adoro e sentirai quanto sono in gamba."
"Non ne dubito, madame."
Rispose con un piccolo inchino galante Keith, prima di girarsi e andarsene. 

"Certo che è davvero un bel ragazzo, quel tuo amico, sarà interessante conoscerlo. - commentò la signora, aprendo la borsa termica e porgendo una lattina di thè freddo al nipote - .se avessi cinquant'anni di meno ci avrei provato."
"Ma nonna!!!"
"Ho detto qualcosa di male?"
Chiese innocentemente Estelle.

*****************************************************

Accidenti anche a sua nonna, e a quelle sue manie giovanilistiche! Quella donna non doveva assolutamente avere idea dell'imbarazzo in cui lo aveva messo.
...invitare Keith a quel modo...
...anche se ne era contento non era certo quella la maniera per farlo...
...e poi, in ogni caso, avrebbe dovuto interpellare lui, prima!...
Matthias passò in rassegna per la quinta volta tutti, o quasi, i capi d'abbigliamento che il suo armadio conteneva, ancora senza avere la più pallida idea di cosa indossare.
Cercò di capire, dal riflesso nello specchio, quale colore gli donasse di più, ed infine, esasperato, indossò un paio di jeans blu scuro e uno stretto maglioncino beige con la zip.
[Che scemo, ho impiegato tre quarti d'ora per decidermi.peggio di Sarah quando doveva uscire con il suo ragazzo! Ma perché diavolo poi mi deve importare tanto di cosa indossare e di come appaio, nemmeno fosse un appuntamento galante!]
[Certo che no, agli appuntamenti galanti non ci sono nonne presenti.]
Si bloccò e fissò il proprio riflesso con aria di rimprovero. L'ultimo pensiero era stato davvero da imbecilli, nessuna meraviglia che Keith si divertisse tanto a prenderlo in giro.
---Oh, via, ma se non aspetti altro!---
---Non è vero!!---
---Bugiardo!---
---E stai zitto!---
Richiuse l'anta dell'armadio di scatto,  per togliersi da davanti la propria immagine che sembrava guardarlo con insano divertimento; d'accordo essere nati sotto il segno dei Gemelli, ma battibeccare con se stessi era davvero eccessivo.
[Sicuramente Keith in questo momento non è affatto agitato.]


***************

Finì di asciugarsi i capelli e diede un'occhiata all'orologio; era quasi ora di andare.
Sarebbe stata una giornata lunga, ma pur sempre troppo breve, ...ancora doveva iniziare e lui già stava pensando al momento in cui lo avrebbe dovuto salutare, augurargli la buona notte.
Chissà se lo avrebbe potuto baciare.solo sfiorargli la fronte, o la guancia, posandogli una mano su un braccio, sarebbe stato solo un piccolo contatto, ma meglio di niente.
No... forse sarebbe stato meglio salutarlo solo a parole, visto e considerato che probabilmente Matt già lo considerava un tipo abbastanza strano, e non c'era bisogno di dargli altri incentivi  in quel senso; e inoltre non era nemmeno sicuro che sarebbe stato capace di fermarsi a un casto bacio, una volta che lo avesse avuto tanto vicino a sé .
...perché un uomo che sta morendo di sete non è capace di limitarsi a bagnarsi le labbra, se trova dell'acqua; deve bere e bere, fino a non poterne più...fin quasi a soffocarsi...e lui aveva una terribile voglia di togliersi il fiato in quel modo.

***

Erano le tre precise quando Keith bussò alla porta di Matthias. 
Si guardarono per un momento in uno strano silenzio impacciato, e rimasero entrambi immobili dove si trovavano, fino a quando Matt si scostò e Keith, per la prima volta, mise piede  nella sua casa.
"Sono in anticipo?"
"No, niente affatto. Anzi, ti avviso, è mia nonna ad essere perennemente in ritardo, probabilmente ci toccherà aspettarla per mezz'ora."
"Hai già idea del menù?"
"No, ma di sicuro ci spedirà a comprare nei negozietti più piccoli e sperduti della città. Accidenti, non si può invitare qualcuno a cena e mandarlo a fare la spesa. Che figura!"
"Non mi dispiace, anzi, sarà divertente."
"Allora...mentre aspettiamo...che ne dici di una partita a Tekken?"
"Non so...non ci ho mai giocato."
"Sul serio?"
Keith rispose con un cenno affermativo.
"Dai, ti insegno!"
Propose Matthias, spingendolo verso il divano.

***

"Ma come diavolo fai?!"
Esclamò Matt, un buon numero di partite dopo, esasperato.
"Non lo so. Schiaccio i pulsanti a caso. Però mi sto divertendo." Ghignò Keith, che dopo le iniziali sconfitte aveva iniziato a vincere un incontro dopo l'altro, senza avere assolutamente idea di cosa stesse facendo.
"Con te non ci gioco più."
Si lamentò Matthias, mettendo da parte il pad, e Keith gli sgomitò allegramente.
"Avanti, cercherò di non farti troppo male!"
"Ehi, guarda che se voglio ti distruggo!"

Lo squillare del telefono li interruppe, e Matthias andò all'apparecchio promettendo vendetta.
"Pronto?...ah, ciao! Come mai. eh?...capito. Non ti preoccupare... ma  perché? - Matt lanciò un'occhiata a Keith che lo osservava dal divano - no - diede un'occhiata all'orologio - non ce ne eravamo accorti! Eravamo distratti...okay, ci sentiamo domani, allora."
Riattaccò e tornò verso il suo vicino.
"Keith, hai visto che ore sono?"
"Le...- l'altro diede uno sguardo al polso e spalancò gli occhi incredulo - le cinque e mezza! Ma...?!"
"Ho parlato ora con mia nonna, che si scusa tanto di non averci potuto avvertire prima, ma ha dovuto accompagnare all'ospedale una sua amica che si è sentita male. Niente di grave sembra, ma la signora in questione è un po' spaventata e così lei ha deciso di rimanere a tenerle compagnia. Questo per noi significa...niente cena. Ehm, scusa. Mi spiace di averti fatto perdere tempo."
Disse infine, imbarazzato, e genuinamente dispiaciuto.
"Nessun problema. Tu comunque non hai altri programmi, vero, per oggi?"
"No."
"Sai cucinare?"
"Neanche un uovo bollito."
"Bene, nemmeno io! Allora scendo a prenderti fra tre ore."
"Eh?"
"Ti porto a cena fuori."
E senza neanche aspettare una risposta, lo salutò e uscì dall'appartamento, lasciando Matthias quasi stordito a fissare la porta.
"Mi porta...a cena...fuori?"

*********************************

"Eccoci qui."
Annunciò Keith, fermandosi davanti ad un piccolo portone socchiuso, di legno scuro.
Il locale si trovava completamente all'estremità opposta di Londra, in una vecchia via piccola e non molto frequentata; all'esterno recava solo una piccola insegna, che sarebbe passata del tutto inosservata ad un occhio distratto, o semplicemente ignaro della sua presenza.
"Prima abitavo da queste parti."
Aggiunse, aprendo la porta e facendo cenno a Matthias di entrare. 
Lui lo fece, solo per trovarsi in una piccola stanza dove l'arredamento era costituito solo un paio di sedie e delle vecchie stampe in bianco e nero appese alle pareti.
Poi notò la rampa di scale piuttosto ripida che scendeva ad un piano inferiore.
"Prego. Ora di scendere negli abissi."
Disse Keith facendogli strada.

La prima cosa che notò fu il silenzio.
Un silenzio relativo: c'era una musica appena udibile di sottofondo, e il brusio delle conversazioni degli avventori, che parlavano e ridevano sottovoce, il tintinnare lieve delle posate.
Le pareti erano affrescate di un rosso screziato, e da esse occhieggiavano specchi dalle contorte cornici in ferro battuto e dipinti dai colori violenti, negli stili più diversi e contrastanti. Alzò gli occhi e guardò a bocca aperta un lampadario di cristallo blu grande quanto la sua stanza Era un posto assolutamente diverso da quelli che era abituato a frequentare con i suoi amici, chiassosi, movimentati e disimpegnati.
Lì, invece, si accorse con disagio, c'erano clienti in giacca e cravatta...pensò che il suo abbigliamento fosse del tutto inadatto, ma poi notò un gruppo di ragazzi in jeans e scarpe da ginnastica, seduti intorno ad un tavolo rotondo, che sembravano non preoccuparsi affatto della cosa.
Nel complesso, il tutto aveva un'aria abbastanza dispendiosa.
"Keith - chiese sottovoce al suo compagno che aveva fatto un cenno a un cameriere - Quanto costa mangiare in questo posto?"
"Non preoccuparti, ho detto che offro io."
"Appunto! Non voglio assolutamente che-"
"Stai tranquillo, la prima volta che sono capitato qui temevo di rimetterci anche la camicia. Invece, nonostante le apparenze si paga poco.  Credo che sia  un modo per fare ammenda del pessimo servizio che i camerieri OUCH!"

Un colpo di bloc-notes aveva raggiunto Keith sulla nuca.
"Non capiti da queste parti da due mesi e appena lo fai inizia già ad offendere?"
Un uomo dai capelli grigi e l'aria imponente era praticamente comparso alle loro spalle.
"Il 'padrone di casa', Matthias - spiegò Keith, massaggiandosi la testa . - Un tavolo per due, Doug?"
"Di qua."
Disse con aria brusca, accompagnandoli.

Matt notò altre stranezze di quel luogo.il pavimento, che era un intarsio geometrico che rischiava di far venire il mal di mare a chi lo fissasse troppo a lungo, e i tavoli e le sedie, che erano spesso scompagnati, così come lo erano le tovaglie, piatti e bicchieri.
L'uomo li fece sedere ad piccolo tavolo rotondo, sparì per un attimo, fece ritorno con una bottiglia di vino bianco e ne versò loro due calici e se ne andò un'altra volta, annunciando che le portate non avrebbero tardato.

Matthias assaggiò con circospezione il bianco, che aveva un sapore secco a cui non era abituato...non proprio era abituato a bere vino, a dirla tutta...si guardò in giro e si accorse di un'altra cosa che gli parve strana.
"Keith, e il menù?"
"Quello non c'è."
"Come, scusa?"
"Beh, sai, non serve: qui mangi quello che ti portano, stesse cose per tutti...e speri che ti piacciano. Di solito la cucina è semplice ed ottima, stai tranquillo. "
"Non so perché, ma credo che da te non potessi aspettarmi altro che un posto simile."
Keith ridacchiò.
"Vedi, probabilmente se il padrone di questo ristorante, quell'uomo di poco fa, dovesse campare con i soldi che guadagna qui, sarebbe già alla fame da un pezzo. In realtà la sua è più che altro una passione, un hobby... non so esattamente che lavoro faccia in realtà, ma è piuttosto ricco, un autentico 'self made man'. Considera questo posto una specie di cafè...no, di 'restaurant des artistes', lo tiene aperto solo un paio di giorni a settimana, si sbizzarrisce in cucina, strapazza i clienti e di tanto in tanto accetta anche pagamenti 'non monetari'".
Spiegò, indicando vagamente l'ambiente intorno.
"Se ti sembra che questo posto sia la più terrificante accozzaglia di pseudo-arte che tu abbia mai visto, è perché qualcuno ha voluto pagarsi la cena alla maniera del buon Van Gogh: con un quadro...dubito che questi saranno mai venduti per milioni di sterline, però. Idem gli specchi, gli intarsi... tutto il resto...opere di artisti frustrati che hanno ricevuto almeno un po' di soddisfazione."
"Però! - esclamò Matthias, che aveva infine vuotato il calice - è interessante! Mi piace questa idea...e tu lo hai mai fatto? Hai mai pagato con un opera d'arte?"
"Opera d'arte? Io non la chiamerei così...comunque sì, una volta. Ai primi tempi, poi ho deciso che in fondo Doug mi stava simpatico e che non volevo infierire su di lui con altri orrori."
"Ma dai. E dov'è??"
Matt si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa che gli potesse sembrare nello stile del suo amico, ma senza successo. Keith sembrava voler nicchiare sull'argomento, e dovette insistere per un po', prima di riuscire a soddisfare la propria curiosità.
"D'accordo, allora. è proprio alle tue spalle."
Matt si voltò con un certo entusiasmo, e s'impietrì immediatamente.
Quello non era ciò che immaginava.
Era lontanissimo da qualsiasi cosa cui avesse potuto pensare.
Keith era ironico, brillante, leggermente stravagante.
E il quadro, invece, era cupo.
Angoscioso.
Agghiacciante.
Era una tela dai colori tetri, un'unica immagine filiforme che sembrava un fantasma, circondata, quasi divorata, da figure grottesche che emergevano dalle tenebre, contendendosela, graffiandola; volti ghignanti, terribili, che si sovrapponevano fra loro, proporzioni distorte, aggrovigliate, confuse, e rabbiosi schizzi rossi di vernice attraversavano il dipinto come spruzzi di sangue. Guardando il quadro sembrava che quelle immagini si fondessero e prendessero forme nuove, disegnando ogni volta un'angoscia diversa.

Matthias si voltò repentinamente verso Keith., sorridendo forzatamente.
"E'...ehm, come dire...notevole. Impressionante. Come si intitola?"
"Cena di Natale in famiglia."
Rispose serissimo il pittore.
"Keith! Vuoi piantarla?"
"Beh...non ha titolo, in realtà. Parliamo d'altro che di quella crosta,  Matt, che costituisce la mia intera produzione . Fu solo per provare a dipingere, ma non è certo la mia passione."
"E per questo sia ringraziato Iddio." Commentò Doug, tornato con la prima portata ed una nuova bottiglia.

***

Dopo un paio d'ore, sazio di cibo e di chiacchiere, Matthias contemplò il tavolo disordinato e colui che sedeva all'altra parte di esso.
Che strano, si sentiva la testa un po'... ovattata. E leggera. 
Quando si alzarono per andare via, le ginocchia non sembravano molto intenzionate a sorreggerlo, apparivano invece più propense a piegarsi, e camminando sbandò, cosa che gli fece scappare una risata soffocata.
"Che hai, Matthias?"
"Niente...solo che forse sono un po'...sbronzo?"
"Sbronzo? Ma non abbiamo bevuto poi molto."
"Sì, ma io sono astemio. Cioè, lo credevo...ero astemio, prima, ecco."
"Hai fatto male a non dirmelo, e ancora peggio a bere."
"Beh."
Lo sguardo di Matt era un po' vacuo, e si fissò su Keith come a dire 'volevo solo provare'.

Il suo compagno lo guardò prima con un po' di rimprovero, poi lo osservò impensierito.
"Ti senti bene?"
"Solo un po' strano...non ti sei mai ubriacato tu?"
"Una volta, ma non di vino."
"Birra?"
"Vodka."
"Ah...bravo, e poi dici a me."
Keith scosse la testa, lasciò i soldi vicino al conto lasciato poco prima da un cameriere e fece il giro del tavolo.
"Adesso ti porto a casa."
"Ma è appena mezzanotte! È ancora presto!"
Protestò inutilmente, mentre Keith, presolo gentilmente, ma fermamente, per un braccio, lo guidava verso l'uscita.

Dopo essere riuscito nell'impresa titanica di salire le scale, letteralmente aggrappato al braccio del suo compagno, e di fare la breve passeggiata fino alla macchina, Matt si abbandonò sul sedile, senza riuscire nemmeno più a tenere la testa dritta, sbadigliando.
"Mi è venuto un sonno, Keith, all'improvviso...dì, sono sempre così le sbornie?"
"Magari lo fossero."
"Non lasciarmi addormentare adesso, però...sarei un maleducato a farlo."
Barbugliando aggiunse qualcosa di incomprensibile.
"Sei proprio andato, vero? - Keith gli allacciò la cintura di sicurezza e gli reclinò appena un po' il sedile - Avrei dovuto immaginarlo, comunque,...hai l'aria di uno a cui per ubriacarsi basta la Coca Cola."
"Hhmm."
******


"Avanti, ormai ci siamo."
Continuando a sorreggere Matthias, Keith aprì la porta, e mentre varcava la soglia  accese la luce; a quel chiarore improvviso, Matt strinse gli occhi, emettendo un lamento di protesta.
"Ti dà fastidio? Adesso la spengo."
Keith si affrettò a portarlo fino al divano, in sala, adagiandovelo con cautela. Lasciò la stanza nella penombra, illuminata solo dalla luce fioca di una lampada da tavolo.
Guardò il viso del ragazzo, e gli sembrò pallido e stanco ...prima ubriacatura...forse era già tanto che non si fosse messo a vomitare.
Si inginocchiò vicino al sofà e accarezzò con il dorso della mano la guancia di Matthias.
"Mi dispiace tanto, Matt. Mi sento in colpa."
"No...non mi hai mica costretto; e poi mi sono divertito questa sera, sono stato bene. Keith, era così dolce quell'ultimo vino, vero? Mi è piaciuto tanto. Com'è che si chiamava?...Ce ne compriamo una bottiglia, una volta, che ne dici?"
I suoi erano occhi socchiusi, l'espressione trasognata, e le labbra arrossate spiccavano incredibilmente sul suo viso. Matthias sembrava lì solo per lui, e Keith provava un disperato bisogno di baciarlo; se avesse ceduto ai propri desideri avrebbe sigillato quella bocca con la sua, rubandogli il fiato.
No... ancora troppo presto, l'unico risultato che avrebbe ottenuto agendo in tal modo sarebbe stato quello di far fuggire da sé Matthias.
Non poteva stargli oltre vicino, non quella sera, non in quelle condizioni.

In silenzio, gli sfilò le scarpe e poi gli tornò accanto, sistemandogli un cuscino sotto la testa e sussurrandogli nell'orecchio.
"Ora ti preparo qualcosa di caldo da mandare giù, poi ti metto a letto e vado via, così potrai riposare  tranquillo, va bene?"
Fece per tirarsi su, ma la mano di Matthias si chiuse intorno al suo polso, bloccandolo mentre era ancora chino su di lui.
"Non andare."
"...Matt?"
"Per favore, rimani. Non mi va di stare da solo. Non mi piace. Stai qui questa sera."
Per sottolineare le sue parole, si portò la mano di Keith al viso, sfiorandone il dorso con la guancia, con deliberata lentezza, come a ripetere la carezza di poco prima.

Keith si morse le labbra, sentendo la propria volontà cadere a pezzi, lasciandolo spoglio, nudo e inerme davanti ai propri sentimenti. Matt non si poteva rendere conto di cosa gli stessero facendo quelle parole; di quanta gioia, ma anche di quanto dolore, gli stessero recando.
"Come vuoi tu."
Acconsentì infine, e lo sollevò con delicatezza; gli sedette vicino, prendendo tra le braccia il suo corpo ormai quasi abbandonato nel torpore, abbracciandolo e scaldandolo.
"Grazie." Gli disse con un sorriso sinceramente riconoscente.

Cosa importava, dopotutto? Matthias già quasi dormiva, semi incosciente della situazione, fiducioso nel suo abbraccio; anche se per un attimo lui avesse ceduto, probabilmente il mattino dopo non avrebbe ricordato niente, o lo avrebbe fatto in maniera nebulosa e confusa.
Esatto... per Matthias non sarebbe cambiato nulla, mentre lui avrebbe potuto almeno riprovare per un momento la dolcezza che non aveva mai dimenticato, e che aveva sempre rimpianto.
La nostalgia si sparse nel cuore di Keith come olio profumato da un'anfora rovesciata, spandendosi lentamente ed emanando la sua fragranza  di fiori secchi e polverosi, e lui vi si arrese.

Gli baciò i capelli, profumati e spettinati.
  [Lo so che non dovrei...]
e, continuando ad accarezzarlo con le labbra, scese sulla fronte,
[così è come se mi stessi approfittando di te, ma...]
... sugli occhi chiusi, sulle ciglia umide e sulla bocca tenera, che lo accolse con un sospiro, incurvandosi per un breve istante in un sorriso e poi ricambiando  quel bacio leggero, schiudendosi per lui, invitante.
[...ho bisogno di tutto questo...]
Gli abbassò la zip della maglia, esponendo la pelle chiara e liscia, e mentre Matthias inarcava la schiena verso di lui, percorse sinuosamente con le dita la strada invisibile dalla gola al petto, fermandosi   a sentirgli battere il cuore.
Era un battito forte, sicuro. Non un sogno, non un ricordo, quella era la realtà.
Dentro al bacio Matt mormorò il suo nome, e fu più di quanto lui potesse sostenere: sentì qualche lacrima raccoglierglisi negli occhi e sfocargli la vista; si staccò dal ragazzo, curandosi di tergerle via ancora prima che cadessero.
"Scusami."
"Per cosa? - mormorò Matthias, interrompendolo e raggomitolandosi contro l'uomo che lo stava stringendo - E perché vicino a te mi sento così bene? È come se tutti i pezzi della mia vita fossero andati a posto in una volta sola."

L'altro posò brevemente un dito sulle labbra di Matthias, chiudendole.
"Dormi ora, non dire più nulla, o non risponderò delle mie azioni."
"Mmhh.buonanotte, Keith. Tu mi piaci, sai?"
"E tu sai che ti amo?"
Sussurrò lui, così piano che Matthias lo sentì appena, mentre già scivolava nel sonno.

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#########Qualcosa gli stava solleticando il viso, passandogli lievemente sulla guancia, sulle labbra e sotto il naso.
Scosse la testa con una smorfia leggera, e  ondeggiò una mano come per scacciare una mosca.
Funzionò solo per un paio di secondi, poi, di nuovo, qualcosa stava vagabondandogli tortuosamente sulla faccia, svegliandolo definitivamente e facendogli aprire gli occhi.
"Alla buon ora!"
Esclamò Edgard, seduto accanto a lui, con in mano il lungo filo d'erba che aveva usato per stuzzicarlo.
Ewan si guardò intorno disorientato;  si trovavano all'ombra una quercia, nel mezzo di una radura, i loro due cavalli erano a qualche metro di distanza, quieti.
"Mi ero...addormentato?"
"Ci eravamo addormentati - rispose il duca alzandosi in piedi e stiracchiandosi - ed anche per qualche ora: a giudicare dalla posizione del sole, deve essere tardo pomeriggio, ormai. Sarebbe ora di tornare al castello."

***
Quella mattina il padrone aveva provato a insegnargli a tirare con l'arco, ma dopo qualche suo maldestro tentativo aveva deciso, per l'incolumità degli abitanti del castello e della corte, che sarebbe stato meglio andare a far pratica in un luogo il più deserto possibile.
Tuttavia, dopo una prolungata serie di tiri, ed un pallidissimo miglioramento della mira, Edgard aveva obiettato che forse proprio non c'era verso.
"Stanco, Ewan?"
Gli aveva chiesto.
"Mi fa male il braccio."
Si era lamentato lui, abbassando l'arma e massaggiandosi l'arto dolorante: gli sembrava che tutti i suoi muscoli fossero tesi contro la sua volontà, contratti dalla spalla fino alle dita.
"Beh, non sei certo abituato ad applicare una forza simile. Lasciamo perdere, è meglio, o ti farai del male sul serio."
Ewan aveva restituito l'arco e la faretra al padrone, un po' a malincuore, ma riconoscendo che aveva perfettamente ragione.
"Forse - propose - potrei riuscirei meglio con la balestra."
"Può darsi; non affatica il braccio e si può mirare meglio; però è più difficile da maneggiare...ma anche più efficace nell'uccidere."
Aggiunse, dopo una pausa. L'ultima precisazione lasciò interdetto Ewan, che improvvisamente si sentì lieto di riconsegnare le armi al legittimo proprietario; per lui quello era stato solo una specie di gioco, uno sport, e si era quasi dimenticato a cosa servissero veramente i dardi: non a colpire bersagli immobili e inanimati, ma a trapassare corpi vivi, spargendo sangue e morte.
Ad ognuna delle frecce che lui aveva goffamente seminato per la radura, in battaglia, nelle mani di un abile arciere, sarebbe corrisposto un cadavere.

Edgard sembrava assorto nel propri pensieri, quando continuò a parlare.
"È diverso, sai, ammazzare qualcuno con una spada o farlo usando una di queste - disse, tenendo una freccia davanti agli occhi - Quando usi l'arco sei lontano dal tuo nemico, non vedi la sua espressione quando lo colpisci, non vedi i suoi occhi mentre muore...è più facile, sembra quasi più pulito. Puoi dimenticarti che sono persone e considerarli solo dei bersagli."
Ewan sapeva benissimo che il suo padrone aveva già ucciso, ed anche più di una volta, anche se era un argomento di cui non parlavano quasi mai.
"E funziona, questo modo di pensare?"
Gli aveva domandato, ed Edgard aveva risposto con un sorriso che era una smorfia.
"Non sempre...non sempre."
Poi, con sollievo di Ewan, avevano completamente cambiato discorso, ed erano andati a chiacchierare all'ombra del grande albero, dove, a quanto pareva, si erano poi addormentati entrambi.
"Vado a prendere i cavalli, allora."
Annunciò il ragazzo, alzandosi e correndo verso i due animali.

**************

Avevano appena superato la prima cerchia di mura, che si erano accorti che durante la loro assenza era capitato qualcosa di grave: l'agitazione era palpabile, densamente mescolata alla stessa aria che respiravano.
"Sei tornato, finalmente!"
Edgard fermò il cavallo, immediatamente imitato da Ewan, e smontò, andando incontro al fratello che lo aveva chiamato.
L'unica cosa che poteva a prima vista distinguere i due gemelli era il fatto che Thomas portasse il pizzo; per il resto, erano l'uno l'immagine speculare dell'altro: stessa corporatura, stessa acconciatura, quasi la stessa voce, anche se quella di Thomas era avvelenata da una vena di alterigia del tutto assente in Edgard. La discrepanza tra le personalità dei due, un tempo lieve, sembrava crescere di giorno in giorno.
"Si può sapere cos'è tutto questo trambusto?"
Thomas alzò un sopracciglio e sulle sue labbra si disegnò un ghigno divertito.
"Molto presto qualcuno penzolerà appeso ad una corda, caro fratello."
"Un'impiccagione? Che cosa è successo di tanto grave da--"
Chiese Ewan, che si era avvicinato ai due; ma Thomas diresse verso di lui uno sguardo così tagliente che lo fece indietreggiare di un passo.
"Non ti è stato insegnato a parlare solo se interpellato, sguattero?"
"Ewan - prese la parola Edgard, pacatamente - porta i nostri cavalli nella stalla e dà loro da mangiare, poi torna nella mia camera, riponi l'arco e controlla che tutti i lumi siano ben pieni d'olio."
"Sì, signore."
Rispose, affrettandosi ad ubbidire a quanto gli era stato ordinato, contento di potersi sottrarre agli occhi freddi di Thomas.

Ci vollero due ore abbondanti prima che il suo padrone rientrasse nella propria camera. Edgard si levò di dosso parte dei vestiti, rimanendo solo con i pantaloni e la camicia ricamata; si versò da bere e andò a sedersi sulla sua abituale poltrona, allungando le gambe e lasciandosi sfuggire un mezzo sospiro.
"Proprio non ci mancava che questo!"
"Cosa è successo, signore?"
"Uno dei vassalli di mio padre è stato ucciso."
Rispose,  puntando il gomito su uno dei braccioli e appoggiando il mento sul pugno; Ewan si avvicinò, mentre lui continuava la spiegazione.
"Il barone Murray. Hanno trovato il suo cadavere stamattina, poco prima di mezzogiorno, in un campo, infilzato più volte nella pancia con un forcone."
"Terribile!"
Esclamò Ewan, genuinamente inorridito. La vittima non era certo la migliore delle persone, anzi. Murray era un individuo bieco e violento, ma una morte come quella non l'augurava nemmeno a lui.
"Vostro fratello ha parlato di un'esecuzione, dunque vuol dire che è già stato trovato il colpevole?"
"Esattamente. Uno dei braccianti...Martin Bells, mi pare sia il suo nome."
"Che cosa?! Martin?!"
Esclamò Ewan, sporgendosi istintivamente verso il suo padrone, nel chiedere la conferma.
"Esatto, lo conosci?"
"Sì, io...beh, a dir la verità conosco meglio il suo figlio più grande, John... ma Martin è un brav'uomo, mi sembra impossibile che possa essere stato lui! Sono proprio sicuri, signore?"
"Beh, lo hanno trovato nei pressi del campo dove è stato rinvenuto il cadavere, che vagava sotto shock, e aveva sangue sui vestiti, perfino nei capelli e pare anche che poco tempo fa, davanti a molti testimoni, tra i due fosse scoppiato un alterco, finito con Murray che prendeva a colpi di scudiscio la schiena di questo tale Bells."
"So che barone aveva preso da qualche tempo a divertirsi ad angariare la famiglia di Martin, e a importunarne volgarmente  la figlia...questo almeno è quanto mi ha detto John. Non mi ha mai raccontato i fatti nei particolari, ma suo padre doveva essere veramente esasperato, o disperato, per fare quanto ha fatto!"
"Di questa storia non so nulla, ma, in ogni caso, tra un paio di giorni quell'uomo sarà impiccato."
Concluse Edgard, bevendo tranquillamente l'ultimo sorso di vino.
Quell'indifferenza impressionò Ewan, che fissò il proprio padrone in silenzio per qualche istante, prima di parlare nuovamente.
"Ma...ma...senza neanche un processo?"
"C'è già stato, e c'è già stata anche la sentenza: ora stanno montando la forca. Non pensarci troppo, Ewan, se ti fa impressione... nessuno ti obbligherà ad assistere all'esecuzione."

[Possibile che non capisca cosa intendo dire?]
Si chiese scoraggiato Ewan. Edgard era un uomo intelligente e gentile, e allora come poteva parlare con tanta naturalezza di una condanna a morte?
Possibile non gliene importasse davvero nulla?
"Pa...padrone?"
Chiese, inginocchiandosi vicino alla sedia di Edgard, per poter essergli il più vicino possibile.
"Sì?"
Il duca si volse verso di lui, ed Ewan pregò di riuscire ad essere abbastanza convincente nel fare la richiesta che aveva in mente.
"Volevo domandarvi, pregarvi.di intercedere per il condannato, di fargli ottenere la grazia."
Sul viso fino a quel momento rilassato dell'aristocratico si diffuse rapidamente lo stupore. Inclinò la testa di lato, fissando il suo valletto, cercando di capire se stesse scherzando.
[No, non scherza affatto.]
Si disse infine, dopo averlo guardato bene negli occhi, azzurri e colmi di ansia
"E quest'idea da dove arriva, Ewan?"
Chiese pazientemente, incrociando le braccia sul petto.
"Beh io...l'ho detto. Conosco abbastanza l'assassino, e so che non è un uomo cattivo, non può avere ucciso a sangue freddo, premeditatamente."
"Che abbia agito in preda alla rabbia o che avesse premeditato tutto, il risultato finale non cambia, ti pare?"
"No, non cambia, ma...ma come si sentirà ora la sua famiglia? Martin ha moglie, e cinque figli. e sono miei amici, chissà come stanno soffrendo. Io credo che lui volesse solo difendere le persone che ama, e che per questo meriti il perdono. Sono sicuro che non farebbe mai più del male a nessuno."
"Ewan, tu sai così poco...le cose non sono tanto semplici - sorrise Edgard, spostandogli una ciocca di cappelli biondi dietro un orecchio - Non si tratta solo di fare una distinzione tra una vittima che meritava la morte che ha fatto ed un assassino che ha agito per proteggere se stesso o qualcun altro. Vedi, io non sapevo nemmeno dell'esistenza di questo Martin, fino a due ore fa, però conoscevo bene il barone Murray e certo non lo rimpiango; so che individuo viscido e spiacevole fosse, tanto da domandarmi perché mai mio padre avesse voluto accordargli il potere di cui lo aveva investito. Tuttavia... non sarebbe certo un bene assolvere il suo assassino."
"Ma per quale motivo?"
Qualcosa gli sfuggiva, nel ragionamento di Edgard, le tessere del mosaico non volevano incastrarsi.
"Vedi - spiegò l'altro - per preservare il potere dobbiamo mantenere l'ordine, la netta divisione tra i diritti ed i doveri di ogni classe sociale. Il tuo amico poteva avere tutte le ragioni del mondo per uccidere il barone, ma non avrebbe mai dovuto farlo; ora egli dovrà essere punito principalmente per insegnare a tutti cosa accade infrangendo determinate regole: la sua esecuzione sarà di monito ad altri. Pensaci, Ewan, che messaggio si potrebbe trarre da un perdono, in questo caso? Che un inferiore può impunemente ammazzare un superiore? Noi non possiamo permettere in nessun caso la diffusione di un simile pensiero, pena la perdita della supremazia."
Un brivido di freddo si stava insinuando lungo la schiena di Ewan. Inferiore e superiore? Lui aveva sempre considerato una simile distinzione valida solo nella gerarchia militare, a cosa la stava invece applicando Edgard? Temeva di averlo capito benissimo, anche se sperava ardentemente di sbagliare.
"Io credo, però, che concedendo una grazia il Duca vostro padre verrebbe ancor meglio stimato che non mandando alla forca quel pover'uomo."
Tentò ancora una volta.
"Certo che lo sarebbe, ma solo dalla plebe, non dai vassalli, ed è il loro rispetto quello che più conta. Se Murray fosse stato ucciso da un suo pari, o da un uomo di miglior lignaggio, il suo assassino ora starebbe allegramente brindando al suo cadavere. Ma le cose sono andate in maniera diversa, e ora tutto si risolverà com'è necessario che sia. E poi, pur se spregevole, Murray era un nobile, mentre Bells è soltanto un servo."
Quell'ultima distinzione si impresse crudelmente  Ewan, confermando atrocemente il suo sospetto.
"Soltanto un servo? Privo di valore.- mormorò con voce appena udibile-...come me."
Edgard spalancò gli occhi, mentre il resto del discorso che era sua intenzione fare andava a morirgli in gola; c'erano altre parole che avrebbe voluto dire, ma gli rimasero strozzate dentro, mentre, impreparato, guardava l'espressione ferita che lui stesso aveva causato.
"No, non come te."
Disse, allungando ancora una mano verso di lui, ma il ragazzo si ritrasse prima che egli riuscisse a toccarlo, e si mise al di fuori della sua portata.
"E che cosa differenzia me da lui?"
"Ewan..."
[Che tu sei mio.]
Edgard scosse via quel pensiero dalla propria testa, e non aggiunse altre parole al nome che aveva appena chiamato.
Tornò ad appoggiarsi allo schienale, con il busto eretto come si fosse trovato su un trono, e gli occhi chiusi.
"Non riesci a capire cosa intendo, vero?"
Chiese con tono distante e assorto, provando tuttavia un senso di rimorso, che si acuiva al ricordo dello sguardo infelice di Ewan.
Ma non c'era niente di cui pentirsi, no? Aveva semplicemente esposto le cose così come stavano.
Aveva solo detto quello che pensava.
"Capisco molto bene, invece, e chiedo scusa per aver insistito tanto, senza averne alcun diritto."
Il silenzio cadde pesante, aprì un baratro, tracciò tra i due una distanza che non c'era mai stata prima.
Era forse l'incomprensione, o al contrario, il fatto di comprendersi entrambi per la prima volta;  nessuno dei due riusciva più a trovare qualcosa da dire, e nemmeno sentiva il desiderio di farlo.
Come se ormai ogni argomento fosse finito, la fiducia tradita, il filo spezzato.


Quella finta quiete durò fino a quando venne annunciata la cena; allora Edgard si alzò, infilò una nuova tunica e la cintura e infine si accorse che il suo valletto ancora non si era mosso, ma sembrava completamente assorto nel suo metodico lavoro di sostituire i lacci di cuoio consumati, sostituendoli con altri nuovi, da una delle sue giubbe.
All'ora dei pasti, Ewan era sempre sceso assieme ad Edgard: serviva a tavola come coppiere e poi raggiungeva gli altri valletti in una piccola stanza, per mangiare a sua volta. Accadeva così sia per i pasti informali che per le cene sontuose, da anni...ma, a quanto pareva, non quel giorno.
"Ewan, allora?"
"Vi chiedo di poter rimanere qui, per quest'oggi, se possibile. Non ho nemmeno fame, padrone."
"Non è possibile che tu non abbia; quest'oggi hai consumato parecchie energie e abbiamo anche saltato il pranzo."
"Sto dicendo la verità.
Il duca scrutò Ewan, che continuava a badare alla propria opera, evitando accuratamente di guardarlo. Era palese che il suo servitore si stesse comportando così perché si sentiva amareggiato, e probabilmente non si rendeva conto che il suo atteggiamento costituiva una mancanza di rispetto...non che Edgard avesse intenzione di farglielo notare... però avrebbe potuto tranquillamente ordinargli di alzarsi e seguirlo, anche con la forza, senza accettare alcun tipo di rifiuto.
Invece decise di lasciarlo lì da solo, e senza più dirgli nulla uscì dalla stanza e andò al banchetto.

Pochi secondi dopo la chiusura della porta, il ragazzo, gettò da una parte il proprio lavoro. In realtà lo aveva finito ormai da un pezzo, ma aveva continuato a disfarlo e rifarlo solo per tenersi occupato  il più a lungo possibile.
[Sono un tale...ingenuo... E stupido, anche.]
Pensò malinconicamente Ewan, andando a sedersi sul suo letto, appoggiandosi al muro.
[Mi ero dimenticato della differenza tra lui e me... ai suoi occhi Martin non ha alcun valore, e non ne ho nemmeno io, probabilmente]- si strinse forte nelle spalle, inspirando profondamente -  [È giusto che sia così, credo...perché così è sempre stato.]
Strinse le mani sulla pancia che gorgogliava.
Era vero, era affamato, ma sentiva anche che non sarebbe riuscito a trattenere per più di due minuti qualsiasi cosa avesse mandato giù.
Martin era chiuso in una cella buia e sporca...
I suoi famigliari erano nell'angoscia...
Edgard banchettava con ricche portate fra gente del suo rango...
E lui era rimasto da solo a pentirsi di aver parlato, di aver chiesto quel favore che era stato ignorato con belle e crudeli parole.
[Questa giornata era stata così bella... non è giusto che sia finita così...proprio...non è giusto.]




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