NOTE: le parti racchiuse tra i cancelletti ## denotano flashback, parti della storia ambientate nel passato. In origine avevo usato un carattere diverso per evidenziare la cosa, ma in formato solo testo non è possibile (o sbaglio?)
Le parentesi quadre (che si svolgono dopo le tonde, tanto per far felice il mio ex prof di mateca) indicano invece pensieri, più o meno consci, dei protagonisti.


In un paese d'estate

di Unmei

parte I


DLIIIIIIN DLOOOOOON
......
...
DLIIIIIIIIIIIN DLOOOOOOOON
...
..."Arrivo, arrivo!"
Sarah aprì la porta, trovando dall'altra parte suo fratello Matthias, completamente fradicio d'acqua, i boccoli castano chiaro appiccicati alla testa.
"Bravo, bravo, continua a dimenticare le chiavi."
Lui si sfilò le scarpe sul pianerottolo ed entrò in casa sgocciolando sul parquet.
"Vado subito a farmi una doccia, sono troppo giovane per morire di polmonite."
"Prima devo dirti--"
"Me lo dici dopo! Sto morendo di freddo!"

Ormai erano sull'orlo della primavera, ma quell'inverno gelido ancora non voleva demordere; tutto un giorno di pioggia ghiacciata e battente, quei tre minuti da percorrere a piedi che c'erano dalla fermata del bus a casa sua erano stati sufficienti per inzupparsi fino alle ossa.
Accolse con gratitudine il getto d'acqua calda che gli sciolse i muscoli, e si crogiolò nel tepore con aria beata. Passare ore sotto la doccia poteva anche essere uno spreco energetico, ma era troppo bello. troppo piacevole.
'Vediamo. docciaschiuma al cioccolato, sapone alla fragola, shampo alla vaniglia. bleeh, è terribile! Sembra che sia esplosa una pasticceria! Ma perché ogni volta che va Sarah a fare la spesa torna con questo genere di cose?'

Si diresse in cucina, avvolto nel suo accappatoio candido, strofinandosi i capelli con un asciugamano; erano da poco passate le cinque e Sarah preparava il tè, canticchiando sulle note di "Bridge over trouble water", trasmessa alla radio, steccando terribilmente su ogni nota alta.
"Poveri Simon & Garfunkel. Se fossero morti si rivolterebbero nella tomba." 
Commentò Matthias, sedendosi al tavolo. Lei gli mise davanti una tazza di tè allo zenzero e un piccolo vassoio di biscotti all'arancia, e gli si sedette di fronte, con un sorrisetto acido, ma non rispose.
"Ho dovuto usare i tuoi mefitici prodotti 'prodotti schiumogeni' ed ora lascio una scia di profumo da fare invidia ad una battona."
"Uhm.sai come si dice.impara l'arte. potrebbe tornarti utile un giorno."
C'era qualcosa di diverso nel modo in cui Sarah ribatteva ai suoi punzecchiamenti. sembrava un po' distratta.un po' distante.
"Ah, già. prima non dovevi dirmi qualcosa?"
"Già. appunto. Matthias.fra tre giorni parto."
Lui sbatté gli occhi.
"Dove vai?"
A lei crollarono le spalle.
"Lo sai da sei mesi! Quel lavoro in Francia!"
"Che cosa? Ma non doveva essere da settembre?"
"Sì, ma oggi mi hanno telefonato, annunciandomi che, se ero interessata, c'era la disponibilità di inserirmi già ora nello staff. Ovviamente ho accettato."
"Sì, certo, hai fatto bene."
Matthias si rigirò pensierosamente la tazza fra le mani. Aveva sempre proclamato di stare contando i giorni che lo separavano dall'avere l'appartamento tutto per sé, ed ora, improvvisamente, l'idea lo metteva in apprensione. Forse perché non si aspettava che sarebbe accaduto così in fretta.
"Per te va bene, Matt? Sei sicuro?"
"Certo che sì - si sbloccò - non sono mica un ragazzino!"
"Non dovresti avere problemi di denaro. L'alloggio è di proprietà. ci sono anche i soldi che ci hanno lasciato mamma e papà.poi c'è il tuo lavoro, non prenderai una gran cifra, ma se non ti dai alla bella vita dovrebbero più che bastarti. E di sicuro a farti la spesa ci penserà la nonna, che come suo solito non vorrà essere rimborsata."
"So badare a me stesso! È solo che.che mi hai colto alla sprovvista, ecco."
"Uhm. un maschio di diciannove anni non è in grado di badare a se stesso! Non sei neanche capace di stirarti una camicia!"
"Neanche tu lo sei!"
"Comincio a prepararmi le valigie!"
Sarah trotterellò fuori dalla stanza ignorando la constatazione, poi tornò indietro, affacciandosi dallo stipite:
"Ehi, perché non mi accompagni? Puoi chiedere qualche giorno al tuo capo."
"Uhm.sarebbe bello. ci proverò."
"Vai grand'uomo, fatti valere!"
Esclamò Sarah, andando verso la sua camera.

Matthias finì il suo tè, lasciandone un po' giusto per evitare di bere anche le foglioline sfuggite al filtro della teiera.
Si sentiva... strano.
La casa sarebbe stata così silenziosa.
Aveva paura di sentirsi solo, non ci era abituato, ecco tutto. Sarah era sempre sicura di sé e convinta di ciò che faceva. si buttava in qualsiasi avventura apparentemente senza alcun timore. E aveva solo tre anni più di lui, non decenni d'esperienza.
A lui, l'idea di partire per un paese straniero di cui conosceva poco la lingua, cominciare un lavoro nuovo, in mezzo a persone sconosciute e più competenti avrebbe messo una terribile agitazione; avrebbe camminato su e giù per la casa, intrattabile e nervosissimo. Sua sorella invece canticchiava tranquilla preparando i bagagli.
Ma non era forse sempre stato così? Il padre gli aveva sempre rimproverato la sua immotivata insicurezza, sin da quando era bambino; era un aspetto del suo carattere che era diventato abbastanza bravo a mascherare con i suoi amici, ma in famiglia era stato davvero impossibile. E poi aveva l'impressione, da qualche tempo, ormai, che gli mancasse qualcosa. Non sapeva esattamente che potesse essere, ma ogni giorno che passava gli dava l'idea di un'occasione persa, di uno spreco irrecuperabile. Quasi come se tra lui e la sua vita, la sua vita vera, quella che gli spettava di diritto, ci fosse uno spesso muro di vetro; così vicina, così irraggiungibile. Come se il tempo gli stesse sfuggendo tra le mani, inesorabilmente.ed era troppo
giovane per provare quel tipo di sentimento.
"Mah, ci sarà qualcosa di sbagliato in me." Considerò, lavando la tazza."...e poi devo smetterla di avere paura del mondo!"



###Le fiamme nel camino erano altissime, vivaci; a lui piaceva guardarle, ed osservare le ombre danzanti che disegnavano sui muri e gli oggetti; ascoltare il crepitio del fuoco, respirarne il profumo. Si poteva dire che il fuoco avesse un profumo? A lui pareva di sentirlo, ed era buono, confortante. In quella stanza si sentiva completamente in pace, gli sembrava il posto più sicuro del mondo. No, in realtà gli sembrava che il mondo fosse tutto lì, tranquillo e perfetto.
"Buonasera, Ewan. Sognavi?"
Il ragazzo trasalì leggermente e, rivolto lo sguardo verso l'alto, vide Sir Edgard al suo fianco, che si slacciava il fermaglio dorato del mantello, sulla spalla destra. Balzò in piedi, imbarazzato; i passi del suo padrone erano sempre leggeri, e sulla paglia intrecciata che copriva il pavimento erano stati assolutamente silenziosi.
"Perdonatemi! Non vi avevo sentito! Ero distratto e..."
"Non c'è nessun problema. Non avevo certo intenzione di rimproverarti per una cosa simile."
Edgard stava sorridendo, e il ragazzo si sentì immediatamente più sicuro.
Quel giovane duca, alto ed elegante, in tanti anni, quasi otto, non aveva mai usato una parola dura contro di lui, né aveva mai alzato la voce. Era sempre stato gentile, generoso, sin dal primo giorno. Ewan prese dalle sue mani il mantello e lo piegò con cura, poggiandolo su una cassapanca.
"E' stata una battuta ricca?"
Edgard avvicinò la propria sedia al fuoco e si rilassò contro l'alto schienale. La luce delle fiamme giocava sui suoi capelli corvini e sul suo viso.
"Sì, ma mi sono annoiato. La caccia non mi diverte particolarmente,  preferisco i tornei."
Ewan, come ogni sera, gli servì una coppa di vino speziato, e dalle labbra, involontariamente, gli sfuggì una frase che tante volte avrebbe voluto pronunciare, ma senza mai trovarne il coraggio.
"Non mi piace che partecipiate ai tornei."
Resosi conto delle proprie parole, si portò una mano alla bocca, quasi sconvolto dal proprio ardire; sebbene il suo padrone fosse molto permissivo verso di lui, capì di essersi preso una libertà troppo grande.
Edgard alzò un sopracciglio, e fermò la coppa a poca distanza dalle labbra.
"Perché?"
Ewan si torse le dita, e sedette sulla balla di fieno di fronte al sedile del duca. Accarezzò nervosamente la stoffa pesante di cui era coperta, seguendo con la punta delle dita i fiori ricamativi sopra.
"Sono. pericolosi. Mi sembrano solo grandi zuffe confuse. - tacque per  qualche secondo, ma Edgard non diede segno di essersela presa per le sue parole - centinaia di persone, che si combattono senza una ragione! È terribile!"
" Si combatte per provare il proprio valore, la propria abilità, ecco la ragione. Ogni gruppo deve essere ben organizzato, ogni cavaliere deve dare  il meglio di se stesso, come se si trattasse di una vera battaglia. Spesso i combattenti vengono da molto lontano, viaggiano a lungo per parteciparvi, rischiando il loro onore, i loro possedimenti, il loro futuro, anche la loro nobiltà. capisci cosa intendo? - il suo volto era acceso d'ardore, come sempre, quando parlava di quelle sfide cavalleresche - Di giorno si combatte, e la sera si danza e si banchetta. Ci sono artisti e giocolieri, mercanti, musici, poeti! I tornei sono feste, non zuffe."
"Ma in una festa non ci sono feriti! Né tantomeno dei morti! Invece in ogni torneo essi abbondano! Non sono finte battaglie, non sono solo esercizi di guerra se le armi che vengono usate sono affilate e letali, se il sangue che inzuppa il terreno è autentico!"
L'impeto che aveva messo in quelle parole era del tutto insolito in lui, di solito così timido e remissivo.
Ewan ricordava il figlio minore del conte di Durham, un giovane bello e dai capelli rossi, trafitto da una lancia nel cuore in una di quelle 'feste'. E come lui, tanti altri. Morti dunque per divertimento? Morti con gioia? Certo morti inutilmente, e spesso privati anche di una sepoltura cristiana, perché la Chiesa disapprovava quello sport crudele.
E il gemello di Edgard, Thomas, in quei giochi di guerra, aveva perso una falange del mignolo sinistro, ma era stato fortunato, perché la daga era stata a un soffio dal privarlo dell'intera mano.
Ad Ewan si torceva lo stomaco quando doveva aiutare il padrone a vestire l'usbergo e il giustacuore; si sentiva disperato nell'assisterlo quando organizzava l'accampamento, ed era ancora peggio vederlo partecipare a quei combattimenti con un impeto e un coraggio che rasentavano l'incoscienza.
Ma di quella sua angoscia Edgard non si era mai accorto.
"Perdonate le mie parole. Non ho il diritto di contestare le abitudini del mio signore, ma temo per la sua incolumità. Ho solo... paura di perdere il mio padrone."
Mormorò infine, con lo sguardo basso e le guance soffuse da un leggero rossore.
Per circa un minuto l'unico rumore udibile fu il crepitare delle fiamme; poi il  nobile sorrise al suo servo, che aveva ancora gli occhi inchiodati al pavimento.
"D'accordo."
Ewan alzò il viso per guardarlo, confuso.
"Avresti potuto parlarmene prima; se disapprovi tanto i tornei, e se sei così gentile da preoccuparti per me, vorrà dire che non vi prenderò più parte."
Il ragazzo più giovane boccheggiò, incredulo, in subbuglio per la naturalezza insita in quella voce, e quasi certo d'avere capito male, poiché nessun padrone avrebbe mai rinunciato ai propri divertimenti per compiacere un servo.
"Ma...ma..."
Edgard finì il suo vino, e gli sorrise di nuovo, rassicurante.
"Non vi partecipo certo per i premi in denaro, né perché mi piaccia combattere. Le guerre purtroppo sono necessità crudeli, soprattutto per i nobili...ad esse non mi potrei sottrarre; invece ai tornei concorro solo per amore della strategia sul campo di battaglia, come gioco d'intelligenza. Ma se ti causa tanta sofferenza vedermi impugnare la spada, affinerò le mie astuzie solo sulla scacchiera. Questo ti rasserena?"
Ewan fece un tremante cenno affermativo con la testa, senza parole, abbagliato ed incantato dagli occhi color dell'ambra del suo signore, splendenti tra lunghe ciglia corvine.
Occhi profondi come un lago.
E pieni di luce e calore, esattamente come il fuoco che lui tanto amava. ###



"Biiip bip! Biiip bip! Biiip bip!"
Matthias allungò di malavoglia un braccio fuori dalle coperte, e spense la sveglia.
Accidenti, quel sabato non doveva andare a lavorare, ma si era dimenticato di disattivare l'allarme. Poco male, ci avrebbe messo un minuto a riaddormentarsi. quello non era certo un problema.
Si voltò su un fianco, abbracciando pigramente il cuscino.
"Edgard."
Mormorò, prima di cedere ancora al sonno.


"Ehi!. Ehi, Matt, sveglia!"
Andrew non stava avendo molto successo a svegliare il suo amico. La famosa puntualità di Matthias: l'appuntamento è alle dieci, e alle undici meno venti è ancora a ronfare beato...no, era esagerato dire così. la maggior parte delle volte il suo amico era puntuale, ma capitava qualche volta che si scordasse completamente gli impegni, probabilmente a causa del fatto che era spesso con la testa fra le nuvole. Sarah lo aveva fatto salire, ed era subito uscita affidandogli l'incarico di buttare giù dal letto il fratello, un compito che poteva rivelarsi abbastanza divertente, dopotutto.
Usando come pinze l'indice e il pollice gli tappò il naso, aspettando l'ovvia reazione. Matthias si mosse, s'agitò un po', corrugò la fronte, poi spalancò gli occhi e aprì la bocca per riprendere fiato. Compiaciuto del
proprio successo, Andrew lo lasciò andare.
"Ma sei un cretino, allora!"
"Oh, preferivi essere svegliato con un bacio?"
Tanto per rendere l'idea, Andrew sporse le labbra schioccando bacini.
"No, avrei scelto piuttosto di dormire in eterno. "
"Bella cosa da dire al tuo migliore amico."
Matthias lo spinse via e si alzò stiracchiandosi, sentendosi. spaesato.
Qualcosa mancava.Qualcuno mancava. Gettò un'occhiata all'orologio gli scappò un leggero 'oh!'. Cosa che non sfuggì all'altro.
"Ecco, bravo, 'oh!'. Abbiamo dodicimila cose da fare e lui dorme. Vabbè,sbrigati almeno."
Nella fretta di recuperare un po' del tempo perduto, Matthias accantonò la sensazione così intensa provata poco prima, anche se un sottile senso di disagio continuò a serpeggiargli nell'animo per tutto il giorno.


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'Non ti occorrerà cercarlo, lo troverai lo stesso.'
Ecco ciò che gli avevano promesso Coloro che giocavano con le esistenze degli uomini come con dei soldatini. Gli avevano assicurato che sarebbe bastato seguire lo scorrere della vita, ed essa stessa avrebbe pensato a guidarlo da lui, e che lo avrebbe riconosciuto immediatamente, nello stesso momento in cui le loro esistenze si fossero incontrate ancora, per riprendere la loro storia là dove si era interrotta.
Era la sua seconda possibilità. una vita in attesa, forse inutile; perché una volta che avesse rincontrato Ewan, e che egli lo avesse riconosciuto.
Nulla lo avrebbe obbligato ad amarlo ancora.
O ad accettare di essere amato da lui.
Il suo volto nello specchio era incredibilmente simile a quello che aveva quando il suo nome era Edgard, quasi come se si fosse addormentato nel XII secolo per svegliarsi, una mattina, nel XXI. si chiese se fosse così anche per colui che un tempo era un ragazzo biondo, minuto e sensibile. Che aspetto aveva ora il suo viso? Ed il suo cuore? Chissà se anche Ewan ricordava, e se sì, fino a che punto.
Lui sin da piccolo aveva avuto memoria della sua vita passata; era già un adulto, ma nel corpo di un bambino. Non aveva mai potuto essere spensierato come i suoi coetanei, vivendo di giochi e di sogni, di amori infantili e adolescenziali. aveva sempre dovuto convivere e soffrire con tutti i suoi ricordi di zucchero e di sale, lontani, ma così vividi, . Ricordi. 
Il giorno che si incontrarono.lui aveva diciassette anni, ed Ewan... Ewan era solo un bambino.


###Edgard era l'orgoglio e la disperazione di suo padre. Orgoglio, perché quel figlio era intelligente e di mente sveglia, garbato nei modi ed abile con la spada e nell'arte delle armi in generale. Mancava ancora d'una certa esperienza, ma sarebbe diventato un ottimo cavaliere ed un degno erede, un giorno. sarebbe stato difficile decidere chi, tra lui e Thomas, sarebbe divenuto il nuovo signore; il gemello, nato solo pochi minuti dopo Edgard, era egualmente intelligente e capace, ma talvolta troppo impulsivo, caratteristica che poteva diventare scomoda, se non dannosa, in guerra, come in politica e negli affari.
Edgard era anche la sua disperazione per via di certe idee troppo anticonvenzionali.  Il duca padre temeva quasi che, prima o poi, quel suo figlio sarebbe stato scomunicato; disertava le messe e non rispettava i digiuni, leggeva libri pagani e addirittura si era permesso di criticare l'utilità delle Sante Crociate, definendole sprechi di vite e denaro in nome di un'ideale falso, che la religione non aveva bisogno di reliquie o di templi, che andava vissuta, se la si voleva vivere, esclusivamente con l'anima, e senza l'intermediazione di preti o papi, che non era il nome del dio che adorava a stabilire il valore di un uomo.
Aveva persino affermato, un giorno, che il peccato non esisteva, ma che era un'invenzione degli uomini di Chiesa per esercitare maggior potere sulle persone, che al massimo poteva esistere la 'colpa', e questa dipendeva solo dalla sensibilità, da metri di giudizio esclusivamente personali, non da quelli scritti in un libro di secoli prima.
Quella volta gli aveva dato uno schiaffo, ma se ne era subito pentito, soprattutto vedendo l'espressione delusa sul volto del figlio.
Con quelle sue idee sfiorava il limite dell'eresia, e anche rendendosene conto non aveva assolutamente intenzione di scendere a più ragionevoli termini. Dove lo avrebbe condotto questo suo modo di ragionare?
Quel ragazzo dalle idee ribelli stava tornando alla sua dimora dopo una passeggiata, in un giorno di giugno profumato e limpido quando, attraversando l'alta corte, vide un ragazzino trasportare faticosamente una gerla quasi più grande di lui; la cesta doveva essere pesante, ed il piccolo arrancava sotto di essa, fino a che non mise un piede in fallo, e si sbilanciò in avanti.
Edgard gli era abbastanza vicino da riuscire a prenderlo prima che cadesse, e, scattando, lo afferrò con ottimi riflessi, tenendolo in piedi. 
"Grazie signore."
Le parole non  erano che un sussurro imbarazzato. 
"Credo che quella sia troppo pesante per te. Non avresti dovuto caricarla tanto."
Tenendo gli occhi bassi, il bambino fece un cenno affermativo con la testa.
"Avanti, dalla a me. Te la porto io, se mi dici dove devi andare."
Senza aspettare una parola, Edgard gli sfilò la gerla e se la mise sulle spalle, stimandone il peso come ben superiore ai dieci chili, e rimase in attesa di indicazioni.
"Allora. di qua."
Il ragazzino lo tirò per la manica, e lui lo seguì, lasciandosi condurre lungo strade che conosceva a memoria, tra gli sguardi increduli dei villani. 
Sogghignò leggermente al pensiero di cosa avrebbe detto di lui suo padre se lo avesse visto in quel momento.
"Come ti chiami, ragazzino?"
"Ewan, signore."
Rispose il piccolo servo che aveva un'aria più rilassata rispetto a poco prima; a pensarci bene, Edgard aveva avuto la sensazione, quando lo aveva afferrato impedendogli di cadere, che il bambino si aspettasse di essere  sgridato.
Probabilmente non veniva trattato nel migliore dei modi, si disse. 

Nelle cucine l'aria era profumata di spezie, l'attività fervida, in preparazione della cena, e nessuno fece caso subito alla loro entrata, ognuno era troppo assorbito nel proprio lavoro per badare ad altro. Edgard si guardò intorno con interesse, non gli era mai captato di entrare in quei locali.
"Allora, dove vuoi che la posi?"
Domandò. Ewan lo tirò ancora, accompagnandolo alla tavola più grande, dove Jonin, il corpulento capo cuoco, stava preparando la cacciagione che avrebbe costituito le portate principali.  L'uomo alzò gli occhi nel momento in cui Edgard gli depositò davanti la gerla, brontolando qualcosa sul fatto di averci messo troppo tempo. Poi, con un'esclamazione,  si accorse di non avere di fronte il suo piccolo sguattero, ma la figura elegante del figlio del padrone. Impallidì e prese a pulirsi nervosamente le mani sul grembiule, balbettando parole di saluto e scuse al nobile; la sua reazione non passò inosservata, e presto tutti i lavoranti, uno dopo l'altro, avevano cessato le loro attività, e guardavano in allibito e intimorito silenzio l'ospite inatteso che aveva varcato la loro soglia.
"E tu, moccioso, come ti salta in mente di disturbare in questa maniera il giovane signore? Chiedi perdono per avergli recato noia!"
Jonin alzò minacciosamente una mano sul ragazzino, che chiuse gli occhi e si riparò istintivamente con un braccio, come se fosse abituato ad essere battuto; ma Edgard afferrò saldamente il polso dell'uomo, bloccandolo.
"Lascia stare questo bambino. Gli hai affidato un compito superiore alle sue forze. è troppo esile perché possa compiere una simile fatica. Quindi che non si ripeta."
"S.sì, signore. Ma..."
"Inoltre non mi ha arrecato alcun disturbo."
Edgard lasciò andare il cuoco, che abbassò il braccio e si massaggiò il polso indolenzito.
Ewan, intanto, guardava ad occhi spalancati il ragazzo che lo aveva aiutato. 
Non si era chiesto chi fosse, aveva solo immaginato si trattasse di un soldato della guarnigione, o magari di un paggio...non si era reso conto che quello sconosciuto era troppo riccamente vestito per appartenere a una di quelle categorie.
Il nobile si accorse di quello sguardo, delle domande che esso racchiudeva, e si chinò per essere all'altezza del viso del bambino e poterlo guardare negli occhi.
"Il mio nome è Edgard; sono il primogenito del duca di queste terre. Anche tuo padre lavora in questo posto, Ewan?"
"No, signore. Lui è morto."
La voce era lieve con un filo di vento.non solo la timidezza era tornata, ma si era anche mescolata alla soggezione; nonostante ciò, la gratitudine per l'essere stato salvato dalle botte di Jonin era perfettamente leggibile sul quel viso un po' scarno. Il capo cuoco s'intromise, preoccupato di guadagnare qualche punto nella stima del figlio del suo signore. 
"Era uno degli stallieri, ed è morto di febbri un anno fa, poco tempo dopo sua moglie. Ewan non è in grado di tenere a bada dei cavalli, così l'ho preso qui; avevo bisogno di un garzone e visto che ormai ha dieci anni è grande abbastanza per lavorare. In cambio gli do qualcosa da mangiare e un posto dove dormire."
[Probabilmente pane secco ed un pagliericcio con una coperta logora, con in più botte gratuite... ed ha l'ardire di considerarlo un merito!]
Pensò ferocemente Edgard. Niente di che stupirsi se Ewan avesse quasi paura del prossimo.
"Dieci anni... avrei detto di meno."
Considerò infine, raddrizzandosi. Lavorare in una stalla, oppure in una cucina, ma anche nei campi, o essere l'apprendista di un fabbro, erano tutti  mestieri troppo faticosi per quel ragazzino dagli occhi grandi: era troppo gracile, probabilmente aveva patito anche lui per le febbri. Lavoro pesante, malnutrizione e, a quanto pareva, maltrattamenti, gli avrebbero reso la vita breve ed infelice.
Non sarebbe vissuto a lungo, se lo avesse lasciato lì; ma se avesse potuto aiutarlo in qualche modo... era sicuro che si sarebbe ben ripreso. Però era pur sempre figlio di servi, non di uomini liberi, e come tale era vincolato a lavorare per la sua famiglia. Troppo giovane per dargli la libertà, troppo esile per faticare, almeno per il momento.che altro poteva fare? Rimaneva una sola cosa possibile, a suo parere.
Gli accarezzò la testa, lisciando le folte ciocche bionde.
"Trovati un garzone più robusto, Jonin, e trattalo meglio di come hai trattato lui. Questo è un ordine."
"Perdonate, signore, ma che volete dire?"
Edgard ignorò completamente l'uomo, rivolgendosi invece al ragazzino.
"Desidero un servitore personale e sono libero di scegliere chi voglio; perciò da oggi tu verrai a stare con me. Ti spiegherò tutto ciò che sarà tua mansione e t'insegnerò a farlo se non ne sei capace. ma stai tranquillo, sono di poche pretese.  Sei mai stato nella dimora signorile, Ewan?"
"Mai, maestà."
Il giovane si mise a ridere di cuore e gli scompigliò i capelli in quello che era un gesto d'affetto a cui Ewan non era più abituato da tempo.
"Guarda che non sono mica un re. Anzi, per il momento non sono nemmeno duca. Avanti, ora, andiamo."
Mentre percorrevano fianco a fianco la loro strada, la mano piccola di Ewan s'infilò dentro la sua, spontaneamente, e il ragazzino lo guardò con i suoi infiniti occhi azzurri, pieni d'adorazione Quel giovane gli sembrava alto e forte come il più splendente dei cavalieri, ed era colui che lo aveva portato via da quel posto che detestava, da quell'uomo che lo faceva piangere tutti i giorni.

Edgard si sentiva veramente soddisfatto della soluzione che aveva trovato; non aveva alcun bisogno di un servitore, anzi, non sapeva esattamente cosa avrebbe fatto fare a Ewan, ma andava bene così: si sarebbe sentito male con se stesso se lo avesse lasciato, anche per un solo giorno di più, nelle mani di quel rozzo cuoco privo di ogni sensibilità. Decise che gli avrebbe insegnato al ragazzino a leggere e scrivere, ad apprezzare la musica e la poesia. e che avrebbe cancellato ogni sua tristezza e paura.
...Quel pomeriggio le loro mani si erano strette per non lasciarsi più, ma questo ancora non lo immaginava. ###



Perfetto...semplicemente perfetto. Era appena tornato da Parigi, e Londra aveva immediatamente pensato a dargli il benvenuto. Per prima cosa, giunto all'aeroporto gli avevano rubato il portafoglio. Frugandosi nelle tasche era riuscito a mettere insieme abbastanza spiccioli da riuscire a prendere un bus e ad arrivare al suo quartiere. Aveva lasciato la città sotto la pioggia, e sotto la pioggia la trovava ancora, e fradicio d'acqua, con la sua sacca a tracolla, si chiese perché avesse deciso di mettersi i jeans bianchi, l'unico paio firmato che possedesse, proprio quel giorno. 
Dulcis in fundo.aveva dimenticato le chiavi, per la centesima volta nella sua vita e se ne era reso conto solo quando si trovava ormai sulla soglia del palazzo. Solo che in casa non c'era nessuno che potesse aprirgli; l'unica cosa che poteva fare era suonare da un vicino e chiedere di poter fare una telefonata; chiamare sua nonna e domandarle di portargli il duplicato .
Sperando che l'arzilla signora non fosse al suo corso di yoga.
O a quello di pittura.
O a quello di astrologia.
Una volta le vecchiette stavano in casa a ricamare e preparare torte per i nipoti, invece di girare il mondo a quel modo.
Matthias lesse i nomi vicini campanelli del citofono, cercando di decidere chi, tra i suoi vicini, costituisse il male minore. Notò che l'unica targhetta lasciata in bianco recava ora un nome, ' Keith Willberg'. Il solo alloggio libero nel palazzo era quello esattamente sopra al suo; evidentemente c'era stato un trasloco proprio nei giorni della sua assenza. 
Senza pensarci fece le sue considerazioni ad alta voce.
"Speriamo solo che questo Willberg.sia almeno una persona civile, non come quei maleducati dell'ultimo piano. E speriamo anche che non sia un rumoroso rompiscatole."
"Mah, riguardo alla civiltà, per il momento mi fanno ancora entrare nei ristoranti. In quanto al rumore, quando parlerò da solo cercherò di farlo a bassa voce."
Matthias sobbalzò letteralmente e si voltò di scatto per vedere, all'altezza dei propri occhi... un impermeabile scuro. Più su, c'era il viso divertito del suo nuovo vicino di casa. Ciuffi di capelli neri spuntavano da sotto il cappuccio, e, nonostante il tempo inclemente, portava occhiali da sole dalle lenti azzurre.
Matthias si ritrovò completamente privo di parole. Fissò l'altro, cercando di trovare qualcosa di intelligente da dire per tirarsi fuori dall'imbarazzo. Quello che invece gli riuscì di fare fu starnutire.
Il leggero sorriso sul volto dello sconosciuto, Keith Willberg, si allargò impietosamente
"Hai dimenticato le chiavi?"
Chiese con garbo, guardandolo, o meglio, studiandolo, perché i suoi occhi stavano percorrendo con attenzione tutta la sua fradicia figura. 
"Perché, si vede tanto?"
Senza rispondergli l'altro gli passò davanti ed aprì il portone, imponendo alle proprie mani di smettere di tremare, e gli fece cenno di precederlo all'interno.

Matthias osservò di traverso il nuovo arrivato, che si era abbassato il cappuccio rivelando capelli piuttosto lunghi e lisci,  insieme al quale stava attendendo l'ascensore.
[Ho già esordito con una pessima figura.tanto vale farne un'altra.]
"Scusa...so che è invadente da parte mia, ma potresti farmi fare una telefonata?"
Willberg gli disse che non c'era alcun problema e un secondo dopo le porte dell'ascensore si aprirono. In silenzio salirono fino al quarto piano.

L'alloggio, nella disposizione, era identico al suo. C'erano ancora scatoloni in giro, quadri incartati appoggiati contro le pareti. C'era persino il parquet sul pavimento, e a dire che aveva un aspetto migliore di quello a casa di Matthias. Dal soffitto pendeva una lampadina appesa al filo elettrico, che gettava una luce quasi malata nella stanza, ed uno specchio era stato appeso vicino all'entrata, ma era tutto ancora troppo spoglio, non c'era niente che potesse dare un'idea precisa sul carattere della persona che vi abitava.
"Ho ancora un sacco di lavoro da fare."
Disse il giovane spiegando l'ovvio, poi gli porse un cordless.
"Fai pure con comodo. Io vado di là per un momento."

Matthias fece un breve giro del salotto e andò alla finestra. Era lo stesso panorama che vedeva dal suo appartamento, solo che era un piano più su. Ma la prospettiva già cambiava. quasi fosse un altro posto, un'altra città. 
Quanto grigiore in quel quartiere. città grigia sotto un cielo grigio, e acqua che da esso continuava a scendere. quella pioggia era monotona e malinconica, come la vita in certi giorni in cui sei stanco di tutto; cadeva sempre con lo stesso tono, ticchettava sui vetri, scorreva lenta lungo di essi come lacrime. Però la preferiva ai temporali, che lo spaventavano da sempre.il rumore dei tuoni gli causava illogici e gelidi brividi lungo la schiena, e detestava livido illuminarsi del cielo ad ogni lampo. Da bambino, durante quegli sfoghi della natura, si rifugiava piangente sotto le coperte, o si nascondeva dentro l'armadio della sua camera, con le ginocchia strette al petto e gli occhi serrati, letteralmente terrorizzato a pensarci dopo tanti anni, il ricordo gli faceva quasi tenerezza.
Poggiò a terra la sacca, sedette su una poltrona e chiamò sua nonna.

Non era assolutamente sua intenzione origliare, ma la voce di Matthias gli arrivava chiaramente fin nel bagno, dove era andato ad appendere l'impermeabile ad asciugare. Colpa delle pareti troppo sottili. Un tempo i muri venivano costruiti più spessi. Molto, molto più spessi.

"Ma ti dico.no, non sono da un mio amico, altrimenti non ci sarebbe problema. Non posso restare qui a disturbare.nonna! Ma...ma...va bene, va bene, d'accordo. Sì, ci vediamo dopo."
Con un sospiro un po' esasperato chiuse la chiamata.
"Ci sono problemi?"
Matthias guardò il suo nuovo vicino, tornato da lui a piedi scalzi, con le mani infilate nelle tasche posteriori dei jeans. Notò anche che continuava a portare gli occhiali da sole. Forse era fotofobico, o qualcosa del genere.
"Sembra che mi toccherà pazientare un paio d'ore. in ogni caso adesso vado."
"Vai dove? Ad aspettare sul pianerottolo, seduto sullo zerbino di casa tua? Davvero molto saggio. "
"Non mi va di disturbare oltre."
Spiegò Matthias restituendogli il telefono e alzandosi.
"Grazie di tut-"
Si voltò per raccogliere la sacca, ma si bloccò: sulla stoffa chiara della poltrona era rimasta, evidentissima come se l'avessero disegnata, la sagoma del suo corpo, lasciata dagli abiti bagnati. L'ultima sillaba del ringraziamento gli morì in bocca.
Si girò nuovamente verso Willberg, che guardò prima la poltrona con un sopracciglio inarcato, e poi lui con aria interrogativa. Matthias ricambiò lo sguardo e riuscì finalmente a dire qualcosa; un desolato: 
"...Ops."
Keith si coprì educatamente la bocca con una mano, soffocando una risata.
Matthias fu piuttosto perplesso da quella reazione.
"Ti ho rovinato una poltrona e lo trovi divertente?"
Chiese, quasi sospettoso.
"No, è per via dell'espressione che avevi, veramente comica."
[Vale a dire che ha riso di me?]
".senti, mi spiace molto.avrei dovuto stare più attento. Se vuoi-"
"Lascia stare, vorrà dire che scoprirò subito se la fodera è veramente lavabile come mi ha assicurato il negoziante quando l'ho comprata. cioè stamattina. Piuttosto, non credo ti faccia bene rimanere con quei vestiti. ti presto una tuta da ginnastica, poi, se desideri, vai pure."
"D'accordo, allora. Grazie per la gentilezza."
"Oh, non è niente. Sai, in questo modo è più facile che la gente si fidi di me, così poi posso attirarla a casa mia, farla a pezzi e riempirmi il congelatore di provviste."
Matthias sentì i propri occhi spalancarsi ed il sangue defluirgli  dalla faccia.
"Scherzo."
Matthias fece il conto di quante volte lo sconosciuto lo aveva preso in giro in quel quarto d'ora. Tre? Quattro? Di più?
"Beh, con quel che costa la carne potrebbe essere un'idea per risparmiare."
Ribattè scrollando le spalle, sentendosi soddisfatto di essere riuscito almeno a dire qualcosa che somigliasse ad una battuta, prima di fare definitivamente la figura dell'imbranato.


Gli scalini erano freddi e non esattamente comodi; Matthias, vestito in una tuta grigia troppo grande per lui, sbuffò, pensando che dopotutto avrebbe anche potuto accettare l'ospitalità di quel ragazzo.
Due chiacchiere.magari una tazza di tè. poi almeno quel tipo era giovane, avrà avuto solo qualche anno più di lui. di sicuro alcuni argomenti in comune li avrebbero trovati.
Puntò i gomiti sulle ginocchia e appoggiò il mento fra le mani; beh, poiché era stato proprio lui ad offrirgli di poter aspettare a casa sua...poteva andare a suonare e dire d'avere cambiato idea.
Prese in considerazione l'ipotesi, ma la scartò quasi subito; si era lamentato dei vicini rompiscatole e non gli andava di comportarsi come tale; quindi avrebbe continuato ad aspettare seduto sullo scalino fino all'arrivo
di sua nonna.
"Che noia, però!"
Esclamò, alzandosi in piedi. Le vertigini lo aggredirono all'improvviso, e si aggrappò al corrimano per non cadere; gli sembrò che il pavimento si muovesse sotto i suoi piedi, che le pareti ondeggiassero, sfocate. Si portò una mano alla bocca, trattenendo un conato di vomito. Lentamente si lasciò di nuovo sedere, a testa china, mentre pensieri confusi parlavano nella sua mente.

###."Mi dispiace...è colpa mia...è solo per colpa."
Il resto della frase soffocò fra i singhiozzi; tutte le lacrime trattenute che gli annebbiavano la vista cominciarono a scendere liberamente dai suoi occhi, bagnandogli il viso, raggiungendogli le labbra e regalandogli un sapore amaro.
"Non hai nessuna colpa, Ewan, semplicemente perché essa non è quella che tu credi. Ascoltami. Guardami. - asciugò il suo viso e lo tenne delicatamente fra le mani fresche - Se colpa c'è, essa appartiene solo alla crudeltà del mondo. Forse anche a me, ma certo non a te. Mai, a te." .###

La vita riprese le tinte di sempre, le voci svanirono. Matthias rimase ancora tremante aggrappato convulsamente alla ringhiera, pallido e con il cuore che pompava troppo forte, troppo velocemente; rialzò la testa con circospezione, temendo altre vertigini, ma esse non arrivarono. Sentì gli occhi bruciargli, e si accorse di avere le guance bagnate da lacrime bollenti, che non si era accorto di aver versato. Le terse via lentamente, con la punta delle dita, toccandole quasi con stupore, e inspirò in profondità e con attenzione, per vincere il nodo strettoglisi nel petto, che rendeva quasi doloroso respirare.
"Ma se io n-non ci fossi stato, a-adesso... - balbettò - adesso cosa? Cosa mi succede?"
L'immagine nella sua mente era breve e incisiva come il flash di una macchina fotografica, e come tale continuava a rivederla, appena sbiadita, se chiudeva gli occhi.
.Era il viso di un giovane, bello e addolorato.
[Vorrei che fosse di nuovo qui...]
...Era triste per me, non per se stesso.
[...Lui mi ha difeso...]
...E il tocco delle sue mani era così consolante.
[...Sin da quando ero un bambino.]
Rimase a pensare a quel volto, a quelle parole, accucciato sul secondo scalino, e fu così che sua nonna lo trovò quando arrivò per consegnargli le chiavi.


Keith stava seduto a gambe incrociate al centro divano, con le braccia conserte e lo sguardo lontano; una tazza di caffè nero era stata lasciata a raffreddarsi sul tavolino, completamente dimenticata.
Non fece assolutamente caso a Rain e Jahel che gli erano comparsi a fianco, uno alla sua destra, l'altro alla sua sinistra.
"Ma guardalo, una statua perfetta."
Commentò il primo, tirandogli una ciocca di capelli.
"Non credi che faresti meglio a mettere in ordine questo posto, prima di cadere in trance?"
Disse Jahel, dopo essersi dato un'occhiata intorno.
Lui non badò a nessuno dei due, e gli esseri spirituali si scambiarono un'occhiata d'intesa reciproca.
"Non sarà mica morto?"
"Naaah, ce ne saremmo accorti. Si direbbe che dorma con gli occhi aperti."
"Credi sia possibile?"
"Non me ne stupirei, gli umani sono una continua fonte di sorprese."
"Spero che sia così. visto che è sotto la nostra custodia sarebbe seccante se gli capitasse qualcosa di... come dire... .fatale."
"Possiamo evitare che finisca sotto una macchina, ma certo non possiamo prevedere se gli prenderà un attacco cardiaco."
"Ma non è un po' giovane per avere un infarto?"
"E' molto sotto l'età media, ma c'è sempre una probabilità che-"
"Avete finito?"
Chiese gelidamente Keith, stanco di quel chiacchiericcio.
"Quando ci ignori non è che abbiamo molta scelta su come attirare la tua attenzione."
Lui si guardò le mani, che ancora erano scosse dal tremito.
Continuavano a tremare da quando aveva incrociato quel ragazzo. Tutto il suo corpo era preda di brividi; il suo respiro, il suo cuore, i suoi pensieri, tutto andava più veloce. Una voce dentro di lui gli aveva urlato "eccolo".
eccolo, alla fine lo aveva ritrovato, la lunga separazione era finita, la promessa di poterlo rivedere non era stata dunque una menzogna.
Era diverso, nel colore degli occhi e dei capelli. ma il suo viso un po' era somigliante, ed in certi momenti lo era stato anche il suo sguardo. Però... 
"Lui non mi ha riconosciuto."
Mormorò alla fine, stringendo i pugni e sentendo le unghie graffiargli il palmo.
"Sapevi che quasi sicuramente sarebbe andata così."
"Dovrai avere pazienza. Lui ha appena cominciato a ricordare qualcosa, anche se per il momento non capisce quanto sta accadendo. Ma mi raccomando."
"...ricordati i patti."
I due spiriti si erano fatti molto seri, improvvisamente, e assunsero un aspetto quasi solenne.

Rain e Jael. come potevano essere definiti? Non erano spettri o fantasmi, perché non erano mai stati umani. Forse qualcuno li avrebbe potuti definire angeli, oppure demoni, ma una simile classificazione avrebbe implicato un argomento religioso che non aveva nulla a che fare con loro: la struttura del mondo spirituale era piuttosto complicata, e notevolmente diversa da come qualsiasi religione la immaginasse. Lui li aveva sempre chiamati 'spiriti', il che era inadeguato e poco preciso, considerato anche il fatto che potevano rendersi materiali come gli umani, ma per lo meno non del tutto sbagliato.
Rain aveva capelli rosso cupo, vestiva quasi sempre di scuro, ed aveva un senso dell'umorismo piuttosto bizzarro. Jael, per contrasto, con i suoi capelli chiarissimi e la carnagione pallida aveva un aspetto quasi etereo, e tra i due era il più pacato...o almeno lo era stato, visto che l'influenza di Rain lo aveva ormai definitivamente traviato. Entrambi avevano visi senza età, lisci e giovani nella pelle, ma con occhi che avevano visto tutto il dipanarsi della storia, tutta la follia degli uomini. Erano come dei custodi, assistevano
coloro che avevano trovato più straziante abbandonare il mondo umano, e nonostante la loro apparenza giocosa lui aveva imparato che erano responsabili ed inflessibili, se necessario.
Erano stati loro due ad accoglierlo nell'aldilà. come se morire non fosse stato abbastanza traumatico, si era trovato ad avere a che fare con due entità tanto stravaganti.


###Jael e Rain erano fianco a fianco, davanti a lui.
"Ben arrivato, Edgard."
"Adesso è tutto finito, puoi dimenticare quanto è successo."
Dimenticare? Aveva pensato lui.mai! Aveva accettato la morte, anche se era stata così ingiusta, ma chiedergli di scordare la vita era inconcepibile; c'erano anche dei bei ricordi, c'era Ewan. e le due cose, a dir la verità, coincidevano perfettamente.
"Questo posto non è male per passarci l'eternità."
"Puoi fare tutto quello che desideri. Conoscendoti, penso che potrebbe interessarti la nostra biblioteca; è praticamente infinita, in essa sono raccolti tutti i libri scritti, quelli ancora da scrivere e quelli che invece non lo saranno mai, destinati a rimanere solo idee nella mente dei loro creatori. Ma se ti annoierai t'informo che ci stiamo organizzando per un campionato di hockey. Ah, già, ma nella tua epoca non era ancora stato
inventato. Allora."
"Dov'è lui?"
Rain inclinò la testa da un lato, un po' deluso per essere stato interrotto mentre si accingeva a spiegare le regole di quello sport che lui adorava.
"Lui? Ah! Beh, capisco la curiosità, ma hai davanti una fila di qualche centinaio di milioni di anime. Dovrai avere un po' di pazienza.ma ti avverto, non è esattamente come la religione del tuo popolo crede. Innanzi tutto non c'è un solo di-"
"Non credo che si stesse riferendo a quello. Vuoi smetterla di parlare a vanvera?"
S'intromise Jael, scoccandogli un'occhiataccia, per poi rivolgersi a Edgard, con un'espressione sinceramente dispiaciuta.
  "Anche lui è qui, ma non lo puoi incontrare."
"Che cosa? Per quale motivo?"
Senza rendersene conto aveva coperto la distanza che lo separava da Jael e lo aveva afferrato per le spalle.
"Non dipende da me, ma qui. voi rimarrete per sempre separati."
"Non ti ho chiesto chi ha deciso questo! Voglio sapere il perché!"
Lo spirito biondo rimase in silenzio per alcuni lunghi secondi prima di dargli risposta.
"Il perché è quello che dentro di te sai già benissimo."
Le mani di Edgard lasciarono lentamente la presa, scivolando sulla serica stoffa della veste di Jael, mentre comprendeva appieno le sue parole.
"C-come?"
"Sono le regole."
"Ma io lo amavo! Non conta forse niente? Non è giusto che..."
"Non possono essere fatte eccezioni, questo lo capirai anche tu. Dovrete restare separati."
"Ci dispiace."
Aggiunse contrito Rain.
"Dimenticalo."
Lo invitò Jael.
"No, questo è impossibile. Se il ricordo è l'unica cosa di lui che mi sia concesso di avere non me la lascerò portare via da nessuno. Non importa quanto sarà doloroso, dimenticarlo sarebbe come tradirlo, per me."
Edgard si morse le labbra e voltò la testa, lasciando lo sguardo correre in quel luogo sconosciuto, ma senza in realtà badare a nulla; poteva anche essere una specie di paradiso, ma a lui sembrava meno accogliente di una palude.
Rain lo osservò per un momento, poi rivolse la sua attenzione a Jael; rimase a guardarlo senza che l'altro se ne accorgesse, e si rese conto di non avere mai visto un'espressione così triste sul suo volto; il non poter fare nulla per permettere il loro incontro lo stava turbando più di quanto non si aspettasse lui stesso.  Però. forse. sfiorò la mano di Jael per avere la sua attenzione e gli sussurrò qualcosa.
L'altro spirito spalancò gli occhi e lo fissò con un misto di speranza e scetticismo;
"Credi davvero che potrebbe funzionare?"
"Non lo so, ma è l'unica possibilità. Forse il Consiglio accetterà la nostra richiesta, forse no, ma non abbiamo niente da perdere, giusto?"
"E' lui a non avere niente da perdere, Rain. In ogni caso, hai ragione tu. D'accordo, appena possibile andremo insieme dal Consiglio.  Edgard!"
Lui si volse distrattamente verso di loro.
"Sii sincero; non rimpiangi nulla?"
"Cosa?"
" Non rimpiangi d'aver scelto Ewan?"
"NO! Che razza di domanda è?"
Gridò in faccia ai due spiriti, che non si scomposero per nulla.
"Rifaresti tutto, dal primo all'ultimo momento?"
Per un attimo Edgard sembrò rabbuiarsi, come malignamente incantato da un ricordo orribile, ma tornò quasi subito a fissare i suoi interlocutori.
"La mia risposta è sì."
"E se nel momento in cui decidesti di prendere con te Ewan avessi saputo quello che sarebbe successo nel vostro futuro, lo avresti accolto lo stesso?"
Gli domandò Rain, questa volta.
"Senza esitare! Io avrei solo cercato di evitare gli errori che involontariamente hanno causato la sua sofferenza... cercherei di essere migliore di quanto non sia stato."
Concluse amaramente.
"Forse possiamo aiutarti, allora."
"Se sei disposto ad aspettare. potreste avere il permesso di reincarnarvi."
"Ma ci sono delle regole che dovrai rispettare." ###

"Li ricordo benissimo, i patti. Sono novecento anni che non fate altro che ripetermeli."
"Potrebbe non essere così facile rispettarli, però, anche volendolo."
"Non gli racconterò nulla! Non lo forzerò a ricordare! Non gli parlerò mai dei punti nodali delle nostre passate esistenze fino a che le sue memorie non vi arriveranno naturalmente."
"Non intendevo questo."
Spiegò quietamente Jael.
"Lo so. scusa, ma sono un po' nervoso."
"Mph!" - Esclamò Rain alzandosi in piedi - "Bah, per tutto il resto della giornata sarai sicuramente inservibile. Credo che non muoverai un dito per occuparti di questo posto... ci pensiamo noi."
Un bagliore azzurro riempì tutto l'appartamento, dilagandosi dalle figure di Rain e Jael. Sembrò essere assorbito dai muri, dai pochi mobili, dal pavimento... quando tutto fu finito, tutte le sue cose erano al loro posto preciso, quello che gli avrebbe dato lui personalmente, e persino la tinta sui muri sembrava data di fresco, il pavimento era scintillante, come pure i vetri.
Gli venne da sorridere.
"Perché non mettete in piedi un'agenzia di pulizie, voi due? Grazie, comunque."
"Sciocchezze. Però manca qualcosa...guarda quel muro com'è spoglio."
"Hai ragione! Jael, tu che dici?"
"Ci vorrebbe un quadro."
Rain sembrò pensarci su, poi batté una volta le mani, come per l'aver trovato una bella soluzione, e sul muro comparve un dipinto.
"Ah! Monet!  Buona scelta, Rain, mi sembra adatto a lui."
"Consideralo un regalo di buon augurio, Edg."
Lui guardò scettico il dipinto che ora stava appeso alla sua parete.
"Trovo di cattivo gusto tenersi in casa la copia di un'opera famosa. ma visto che è un regalo..."
"Davvero troppo gentile."
"Ci vediamo presto, allora."
Gli spiriti svanirono, lasciandolo solo nella sua nuova casa.

....La giornata era stata molto intensa. forse sarebbe riuscito a dormire nonostante l'eccitazione di essere finalmente riuscito ad incontrare Ewan.
Avrebbe finito la cena, poi un bagno, magari una tisana di tiglio e camomilla, e poi a letto. Sedette a tavola con il suo pasto pronto appena uscito dal microonde e accese la televisione per ascoltare il telegiornale.
Una giornalista con un'acconciatura orribile stava leggendo le ultime notizie.
"...alcune ore fa il dipinto "Ninfee, il mattino" di Claude Monet è stato rubato dal Musèe de l'Orangerie di Parigi.  La polizia non sa spiegarsi l'accaduto, il capolavoro è praticamente scomparso nel nulla, il sistema d'allarme non ha registrato alcun."
"RAIN!!  JAEL!!"
Ruggì balzando in piedi, vedendo sullo schermo lo stesso quadro che lui aveva appeso in salotto.
'Stesso' nel vero senso della parola.



Fine prima parte


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