PARTE: 3/4
DISCLAIMER: Qs personaggi sono miei e ci
faccio quello che voglio
Enjoji
di Ki-chan
Il sole stava sorgendo quando gli occhi di Enjoji si aprirono lentamente.
Non si ricordava bene cosa fosse successo dopo l’abbraccio di Akira.
L’unica cosa che gli tornava alla memoria erano le sue parole, dette con
rabbia con frustrazione, e il suo corpo che tremava come un pulcino e le
mani forti che lo avvolgevano, il suo calore rassicurante poi il buio.
Si alzò senza far rumore e si mise le scarpe e il cappotto. Mentre usciva,
vide Akira addormentato sulla poltrona e il suo cuore si fermò colmo di
tristezza e angoscia.
Quella mattina c’era un leggero vento che gli accarezzava il volto. Il
freddo era insopportabile sembrava che mille spilli si conficcassero nella
sua pelle … ma il suo dolore non era causato dal freddo.
Quello che gli lacerava il cuore era la paura di essere disprezzato da Akira,
la vergogna, il disonore, le sue parole, parole che non avrebbe mai voluto
pronunciare. Adesso aveva paura, paura di leggere nei bellissimi occhi
azzurri come il ghiaccio di Akira il disprezzo che lui stesso provava
guardandosi allo specchio.
Le strade erano ancora pressoché deserte, i negozi stavano aprendo. A breve
Tokyo avrebbe ricominciato a vivere, si sarebbe svegliata sotto il cielo
grigio colmo di nuvole, gli operai sarebbero andati al lavoro, le mamme
avrebbero accompagnato i figli a scuola e poi sarebbero andate a fare la
spesa, gruppi di studenti in divisa scolastica avrebbero invaso le vie con
le loro risate, le strade sarebbero diventate impercorribili, la frenetica
vita del cuore pulsante del Giappone avrebbe ricominciato, come ogni
mattina.
Ma non in quel momento, quando gli edifici venivano lentamente illuminati
dalla luce solare, le persone erano nelle loro case, nei loro letti, quando
non era né notte né giorno.
*** ***
Da quanto stava camminando? Non lo sapeva neppure lui, non sapeva neanche
dove stesse andando, non aveva una meta, voleva solo non tornare a casa, non
dover guardarlo negli occhi, non dover parlare con lui.
Stava scappando da lui e da se stesso, da quello che era diventato o che era
sempre stato.
La gente gli passava di fianco lo sfiorava e se n’andava incurante e
ignara del suo dolore. Vide davanti a lui, appoggiati al muro due ragazzi
giovani, entrambi ridevano divertiti, felici e spensierati, anche lui era
così, ma adesso cos’era?
Passò di fronte ad una grande vetrina, si fermò, rimase ad osservare la
sua immagine riflessa. Ormai era un uomo, un adulto, bello, rispettato e
temuto, i soldi certo non gli mancavano. Ma lui si odiava, non poteva
accettare quello che era, la sua omosessualità, la sua vita, lui.
La notte era il momento più difficile, ritornare a casa sapendo di aver
ucciso, maltrattato e picchiato, entrare nel suo grande e lussuoso
appartamento … inesorabilmente vuoto, freddo. Andare a letto e cercare il
calore umano accanto a se che non avrebbe mai trovato. Vagare nella notte in
cerca d’amore, compagnia e calore e trovare solo corpi da fare suoi, corpi
vuoti, freddi. Li cercava ugualmente perché altrimenti sarebbe impazzito,
ma adesso il suo corpo, il suo cuore, erano vuoti, come quei corpi, era
sporco, macchiato e ferito. Era disgustato di se stesso.
Un fiocco di neve, il primo, gli si posò leggero sul naso, ridestandolo dai
suoi pensieri. Piccolo, freddo,delicato e raro. Alzò il viso verso il
cielo, tanti soffici fiocchi bianchissimi, come petali di fiori, cadevano
lenti e serafici. Gli bagnarono il viso, lo accarezzarono e si sciolsero
subito dopo sulla sua pelle liscia e arrossata per il freddo. In
quell’istante tutta Tokyo, insieme con lui si fermò per qualche attimo ad
ammirare quella rara meraviglia della natura, dimenticando il dolore e la
tristezza che opprime ogni persona.
Allora la sua mente fu travolta e sommersa dei dolci ricordi
dell’infanzia, le lotte nella neve con Akira, l’enorme pupazzo di neve
che insieme costruirono e tante altre vicende del periodo che lui riteneva
il più bello della sua vita, la giovinezza passata con Akira, quando erano
solo amici, grandi amici, come fratelli, non conoscevano ancora il mondo,
erano solo due ingenui ed innocenti bambini. Niente amore, lavoro e tutti
quei problemi che gli adulti si portano dietro come una croce, che li
distruggono e che li rendono le ombre di se stessi … quello che era
diventato anche lui un adulto che ha fatica si poteva considerare un essere
umano.
*** ***
Una frase continuava a rimbombargli nella testa: io non ti odio e non ti
disprezzo, non posso farlo … qualunque cosa tu faccia! La dolcezza di
quelle parole gli ricolmava il cuore ma non sapeva se Akira le aveva
realmente pronunciate oppure era solo un parto della sua fantasia, dei suoi
sogni. Alla fine arrivò alla triste conclusione che era molto più
credibile che
fossero solo parte dei suoi sogni e non certo parole uscite dalla bocca di
Akira.
Vagò per tutto il giorno senza meta per le strade della città, senza
capire come, si ritrovò ai piedi della torre che troneggiava sulla città.
Decise di salire, era da tanto che non lo faceva … … ormai erano poche
le cose che faceva, la sua vita era lavoro, lavoro e ogni tanto passava la
serata in quegli squallidissimi locali … certo poi c'erano le liti
quotidiane con il padre e il continuo tentativo di allontanarsi da Akira,
dimenticarlo, diventare una persona autonoma senza dover dipendere sempre da
lui.
*** ***
Aprì lentamente gli occhi, il sole era già alto nel cielo, evidentemente
la sera precedente si era addormentato sulla poltrona. Si alzò,
stiracchiandosi e sbadigliando poi si diresse verso la camera di Enjoji che
trovò deserta.
“ se n’è andato … è uscito e io non mi sono nemmeno accorto … che
stupido che sono … non c’è da stupirsi, quando vuole sa essere molto
silenzioso, farebbe invidia a un felino. Speriamo stia bene … e che non si
cacci nei guai … in questo periodo e strano.”
Prese poi il telefono e compose il numero.
«Pronto»
«Shinji? Sono Togashi!»
«Capo … Cosa desidera?»
«Dovresti farmi un lavoro molto delicato … e voglio che sia fatto alla
perfezione!»
«Di cosa si tratta?»
«Devi pedinare Inawa, voglio sapere cosa fa con chi s’incontra e perché.»
«Ma è un appartenente all’associazione?!»
«Non ti ho scelto per questo lavoro per fare domande!
Voglio un lavoro perfetto e soprattutto nessuno lo deve sapere. Comincerai a
pedinarlo adesso e stasera voglio un rapporto dettagliato sui suoi
spostamenti. … … ricordati, voglio la massima segretezza … … mi sono
rivolto a te perché conosco la tua bravura in queste cose vedi di non
deludermi.»
«Certo, sarà fatto. Stasera troverà nella casella di posta elettronica il
mio rapporto»
*** ***
Era in cima alla torre, il vento freddo gli sfiorava il volto e la neve
cadeva leggere posandosi, per qualche secondo, delicatamente sul suo lungo
cappotto nero, prima di sparire definitivamente, testimoniando la caducità
delle cose. Sotto di lui la città, splendida e attraente come un essere
vivente, in continuo movimento, mutamento, evoluzione.
Quanto sono stupidi gli uomini, si affannano per vivere una vita che non
potrà essere mai loro, un esistenza fatta di dolore e sofferenza, eppure
continuano a vivere … soffrendo e sperando in cose vane e irrisorie. Si
ostinano a vivere … alcuni lo chiamano istinto di sopravvivenza, altri
codardia, paura di mettere fine al dolore … perché vivere?
Perché continuare a soffrire? Per chi continuare ad esistere?
*** ***
Era orami sera quando Enjoji decise di tornare nel suo appartamento sperando
di trovarlo deserto o forse desiderava l'esatto opposto, forse voleva
trovarlo seduto sulla poltrona ad aspettarlo, pronto a rassicurarlo e dirgli
che tutto questo era solo un orribile incubo. Però non avrebbe mai ammesso
a se stesso di aver bisogno del suo compagno di una vita, di Akira, perché
avrebbe voluto dire ammettere la sua debolezza e riaprire una ferita troppo
dolorosa, avrebbe voluto dire negare tutto ciò che era diventato in quegli
ultimi anni, vanificare i suoi sforzi per allontanarsi dalla persona che
amava ma che non sarebbe mai potuta essere altro che un grande amico.
Titubante aprì la porta del suo appartamento. Le luci erano accese. Senza
fare alcun rumore entrò, raggiunse l'ampio e lussuoso salotto da cui
provenivano delle voci, probabilmente prodotte dalla televisione. Era lì!
Davanti a lui seduto sul suo divano, bello forse più del sole, che lo
fissava con sguardo severo. Era rimasto impassibile quando era entrato, non
un cenno, non una parola … perché parlare? Bastavano i suoi occhi a far
capire ogni cosa … il suo disappunto, la sua delusione, il suo rammarico,
la sua condanna.
Lo conosceva quello sguardo e ne era impaurito, l'ho aveva già viso quella
volta nel vicolo, tanti anni fa (ne ho già parlato prima … quando si
incavola da morire con lui perché era stato imprudente e per poco non si
faceva ammazzare NdK).
Akira, alzatosi, si fermò solo a un passo da lui e rimase immobile senza
dire nemmeno una parola, lui lo avrebbe preferito, meglio delle parole
d’odio che quel silenzio e quello sguardo che gli penetrava dentrofino
all’anima.
Era imponente, non solo per la sua statura, dopotutto non era molto più
alto di lui, ma tutto in lui suggeriva potenza, decisione, autorità.
Enjoji chiuse gli occhi lentamente, rassegnato, rimanendo immobile e
aspettando uno schiaffo.
Non arrivò.
Dopo qualche istante aprì gli occhi incredulo e ancora più spaventato di
prima. A tal punto arrivava la rabbia e l'amarezza di Akira? Gli impedivano
perfino di schiaffeggiarlo? Lo disprezzava a tal punto?
Dopo alcuni istanti che sembravano secoli, Akira cominciò a parlare,
anteponendo alle sue parole un profondo sospiro.
« ho preparato la cena! Fra poco è pronto in tavola! » e detto questo si
diresse in cucina.
«Non ho fame! Io vado a dormire!»
La porta della camera sbatté alle sue spalle. Si lasciò cadere sul letto.
A dir la verità avevo fame ma pensare di dover sostenere ancora quello
sguardo lo intimoriva. Sembrava che quegli occhi chiarissimi lo
penetrassero, scorgendo nel suo essere tutto ciò che lui negava perfino a
se stesso e gli ricordavano quello che era, quello che era diventato e
soprattutto tutto il dolore che aveva provato e provava ancora.
Era il suo migliore amico, la persona a cui avrebbe dato tutto, anche la
vita, era parte di lui, era la sua fonte di vita, il suo ossigeno, ma ora
non poteva più stargli vicino, doveva fuggire, allontanarsi da lui o il
dolore lo avrebbe sopraffatto. Ma ugualmente sentiva che, senza vederlo,
sentirlo parlare, vederlo sorridere … sorridergli, o anche solo ascoltare
il suo
respiro, sarebbe caduto in un baratro buio, lontano, privo della sua energia
vitale.
Gli occhi lentamente cominciarono a chiudersi sotto il peso della
frustrazione. La realtà degli eventi si spense per lasciar spazio
all’irrazionalità dei sogni.
Un sonno agitato costellato da incubi in cui non poteva mancare la figura di
Akira.
Aveva appena finito di mangiare ciò che aveva preparato ed aveva acceso il
portatile in attesa delle notizie che aveva richiesto al suo collaboratore
quando le emozioni di quella lunga giornata cominciarono ad affiorare
inquietandolo. Era arrabbiato e questo certo non lo poteva negare, era
arrabbiato con Enjoji per come si era comportato, per essere scappato e per
averlo mollato lì come un cretino senza dargli alcuna spiegazione ma era
anche tremendamente preoccupato, lo conosceva abbastanza bene per capire il
suo comportamento e per sapere di non dover sottovalutare ciò che stava
accadendo, sapeva forse fin troppo bene come si sentiva.
Sullo schermo vide che il messaggio che stava aspettando era arrivato, ma
non conteneva ciò che si aspettava. L’e-mail, infatti, conteneva solo un
breve messaggio scrittogli dal suo collaboratore che lo informava di star
ancora pedinando il suo uomo e che ugualmente era meglio se s’incontravano
personalmente per lo scambio d’informazioni. L’appuntamento erafissato
per la mattina seguente.
*** ***
La mattina arrivò implacabile a ricordare agli uomini il loro destino. Un
delicato profumo di caffè gli solleticò le narici riportandolo lentamente
alla realtà. Si era addormentato solo due ore prima sul divano del salotto,
dopo aver passato la notte davanti al computer per risolvere problemi di
lavoro che aveva trascurato, distratto dalla vicenda di Enoji.
Akira lentamente si alzò e raggiunse la cucina, attirato dall’odore del
caffè. Si sedette su uno sgabello e rimase a fissare il padrone di casa che
poco dopo gli pose davanti una tazzina fumante, la accettò volentieri
senza, però, distogliere lo sguardo da quel ragazzo spaurito che voleva
dimostrare al mondo e soprattutto a lui di essere forte, di non aver bisogno
di niente e di nessuno.
Enjoji non disse nulla, bevve il suo caffè e mangiò qualche biscotto e poi
si alzò per andare in camera quando fu fermato dalla voce estremamente
dolce, quasi paterna, di Akira che disse: « io adesso devo uscire per
faccende di lavoro, torno presto. Tu cosa hai intenzione di fare?»
« non devi preoccuparti per me … puoi anche non tornare … » disse
queste ultime parole con un filo di voce, erano quasi in udibili, ma
ugualmente giunsero a Akira come un grido insopportabile. Mantenne il
controllo e con espressione ancora più dolce, sforzandosi di sorridere,
chiese ancora: « hai intenzione di rimanere a casa?»
« non lo so … probabilmente dovrò incontrare Kato »
Kato era il collaboratore di Enjoji all’organizzazione, faceva per lui i
lavori più delicati ed era l’uomo a lui più vicino, dopo Akira, era il
suo braccio destro e uno dagli uomini più fedeli ed affidabili
dell’organizzazione, proprio questo aveva spinto il capo ad affidargli il
figlio, sperando così di poter domare quello spirito ribelle attraverso la
calma e la serietà di Kato che era nell’organizzazione da molti anni e
aveva acquisito molta esperienza.
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