Endless Dark

parte II

di Sad


Passarono due anni, ormai eravamo adolescenti, e mentre tu assomigliavi sempre di più a quella donna io mi riflettevo nelle vesti di un uomo sconosciuto.

Incominciasti a fissarmi.

Ed anche io ricominciai a farlo.

La tua bellezza si era amplificata.

E io ci ricaddi ancora una volta.

Come un monte da dover superare, per perseguire una meta.

Ma su quel monte la luce del sole era troppo luminosa perché non amassi esserci.

Faceva caldo lì. Era piacevole.

 

Come lo era guardarti, quando ti accorgevi del mio sguardo insistente, e ti voltavi imbarazzato.

In quelle occasioni ero felice.

Mi sembrava di averti solo per me.

Cominciammo anche a parlarci.

Qualche frase, ma per me importante per respirare in quel vuoto soffocante.

 

Finché non arrivò quel giorno.

 

Ringrazio Dio per ciò che è successo.

 

Quel giorno tu mi hai salvato con i tuoi sorrisi puri e genuini.

Era il nostro tredicesimo compleanno e mentre mi dirigevo nella mia stanza tu mi afferrasti un braccio.

Mentre parlavi a bassa voce per non farti udire da nostra madre, mi sospingevi in una stanza, in cui non mi ero mai trovato.

Quasi non riuscivo a comprenderti quando al centro della sala mi indicasti un pianoforte.

Ti mettesti seduto allo sgabello e prima di posare le dita affusolate sui tasti mi dicesti che quello era il regalo per il mio compleanno.

Avevi composto un brano per me.

Credo di non essere riuscito ad afferrare subito le tue parole.

Era successo tutto troppo velocemente.

Ebbi paura.

Anche in quel momento ebbi paura, di affidarmi troppo a quelle emozioni, cercando di reprimerle ancora una volta sotto una facciata indifferente.

Ma non era così.

Stavo per morire, il cuore batteva così velocemente che lo sentivo rimbombare nelle orecchie.

E se quella era la morte avrei voluto scoprirla prima.

Incominciasti a suonare poggiando velocemente le dita sui tasti, alzando il viso in un atteggiamento serio, quasi triste, producendo quella melodia, la mia melodia.

Era per me.

Quando considerai questo, cominciai a piangere come un bambino, proprio di fronte a te, che non avrei mai voluto che mi vedessi in quei momenti.

Mi ripiegai su me stesso, piegandomi a terra, mentre tenevo le mani sul viso, cercando di non farti scorgere quanto eri potente sulle mie emozioni.

Ti bloccasti appena udisti i miei singhiozzi.

Avanzasti incerto verso di me, verso la mia figura stesa a terra a piangere senza alcun ritegno.

Mi afferrasti le mani scansandomele dal viso.

Avevi un’espressione così turbata che mi sembrasti ancora più indifeso del solito.

E dolce.

Mi guardavi sconfitto, riducendo gli occhi a due fessure, mentre mi chiedevi scusa.

Avevi paura di aver commesso qualche errore.

Invece proprio il fatto che era tutto perfetto mi aveva sconvolto.

Non sapevi più cosa fare, e mentre mi stringevi ancora i polsi cominciarono a cadere delle gocce calde anche dai tuoi occhi.

Ero confuso.

Avevi il volto arrossato e rigato di lacrime, mentre ti stringevi a me chiedendomi scusa.

Battevi la testa contro il mio petto, portando le mani sulle mie spalle, cercando sicurezza in me.

 

Solo adesso comprendo il vero motivo di quel piante di quelle scuse sommesse.

 

In tutti quegli anni mi avevi abbandonato a me stesso e volevi che io ti perdonassi.

Ed io lo feci.

Subito.

 

Inevitabilmente, mi sentivo colpevole per aver causato quelle lacrime, e assieme alle tue scuse giunsero anche le mie.

Ti strofinai la schiena massaggiandola, per far cessare quei gemiti che ti scuotevano il fragile petto.

 

Non ebbi tempo di poter comprendere.

Eri stato strappato via dalle mie braccia.

Ancora una volta, lei mi fissava con quella espressione indifferente.

Gli occhi socchiusi sotto le sopracciglia bionde non esprimevano nulla, mentre mi scrutava.

Eppure quando vide la tua reazione, la tua voglia di resistere a quelle braccia insistenti, lei cambiò volto.

Solo astio ora provava verso di me.

Ora mi scorgeva sotto una nuova luce.

Ero diventato un nemico per lei.

Aveva timore che ti saresti allontanato a causa mia.

Temeva che le tue ali potessero prendere il volo, senza di lei, lasciandola qui, sola, nel buio che era la sua vita?

Aveva ragione, ma ti teneva con catene, troppo strette perché potessero sciogliersi.

Come le chiamasti? Ah sì...Amore.

 

Mi fece tornare in camera, mentre con lo sguardo cercavo ancora il tuo volto, ormai stretto fra le sue braccia.

Eppure ti intravidi.

Eri amareggiato e continuavi a singhiozzare, mentre muovevi la bocca, da cui però non usciva nemmeno un fiato.

 

Quando rientrai nella mia stanza, mi sentì terribilmente afflitto.

Ero stato capace di farti piangere, ma non di far cessare le tue lacrime.

 

Mi stesi sul letto, cercando di non pensare a nulla, sicuro che lei avrebbe corretto le imperfezioni del pianto sul tuo volto.

Sicuro che lei avrebbe guadagnato dal mio fallimento.

Non riuscì a prendere sonno, mentre contemplavo la felicità in un’altra vita, una vita libera della sua presenza, dove noi ci saremmo potuti comportare da fratelli.

 

Ma purtroppo il torpore arrivò troppo presto, e con esso la fine dei miei desideri infranti.

 

Mi svegliai frastornato, la luce del mattino aggrediva i miei occhi stanchi per il pianto.

Mi alzai, mi lavai e mi vestii come ogni mattina.

Non era però una mattina qualsiasi, involontariamente speravo che il suo comportamento nei nostri confronti sarebbe cambiato.

Certo che le tue lacrime l’avessero aiutata a comprendere.

 

Ma non fu così.

 

Quando scesi per la colazione, nulla era mutato.

Addirittura non mi era più permesso di consumare il mio pasto assieme a voi, ma in un’altra stanza, neanche fossi un ospite indesiderato.

 

Ero furente.

 

Perché era così cieca?

Davvero non si accorgeva degli sguardi che mi lanciavi?

Della tua voglia di parlarmi, e più di ogni altra cosa, di conoscermi?

Vivevamo insieme da più di due anni.

Eppure ancora non sapevo nulla su di te. Su mio fratello gemello.

 

Sapevo che non ti saresti mai opposto a quel suo volere, eri troppo soggiogato dal suo carattere e dal suo amore.

Mi alzai con tutta l’intenzione di riuscire a farmi comprendere.

Dopotutto non è ciò che fanno tutte le madri?

 

Aprì piano la porta, per non interrompere ulteriormente la vostra discussione, ma appena mi percepiste vi bloccaste.

Tu mi guardasti con espressione spaventata, mentre scuotevi la testa, cercando di mettermi in guardia dalla brutalità di nostra madre.

Non mi fermai, continuando ad avanzare verso di lei.

Lei che mi scrutavi con quegli occhi colmi di disinteresse nei miei confronti.

Occhi che mi intimorivano, maggiormente.

Eppure continuai a proseguire verso la sua direzione.

 

Pronuncia piano le parole, delicatamente e più educatamente possibile.

E’ quello che pensai, ma che non riuscì in alcun modo ad attuare.

Ero troppo frustato arrabbiato e spaventato per comportarmi correttamente e coerentemente ai miei pensieri.

Parole alle quali non mi ero mai soffermato a pensare fuoriuscirono dalla mia bocca come un fiume in piena.

Gli incubi che fino a quel momento ero riuscito ad annullare all’interno di me, stavano prendendo forza; tutto ciò che nemmeno ero in grado di accettare di pensare lo riversai all’infuori di me, su di lei, la causa della mia sofferenza.

Non ricordo bene, poiché tenevo lo sguardo basso e gli occhi chiusi, ma lei senza degnarmi di una risposta mi coprì col suo amore infinito.

 

Cominciò a picchiarmi, mentre io disperato continuavo a chiamarla, cercando di farle comprendere la pazzia dei suoi gesti.

Si fermò.

Ed io sperai che fosse grazie alle mie suppliche, al suo pentimento nei miei confronti, per non avermi mai amato e permesso di amare.

 

Ma non fu così, quando alzai lo sguardo eri al suo fianco, pregandola di smettere, e piangevi ancora, sempre a causa mia.

Mi portai le mani al viso per coprire le mie continue colpe.

 

Che essere miserevole.

 

Perché anche volendo non riuscivo a riscuoterti dal torpore e dall’infelicità?

Avrei voluto vederti ridere più spesso, far cessare i tremori delle tue esili spalle attraverso i miei abbracci, avrei voluto capire assieme a te che cosa significasse realmente vivere.

 

Ma credo che questo non sia mai accaduto.

Tutti i miei buoni propositi sono spariti assieme alla figura di quella donna.

 

Ti chiesi di uscire dalla stanza, per non mostrarti ulteriormente la mia debolezza nei tuoi confronti.

Se tu avessi capito che non esistevano limiti a ciò che avrei potuto fare per te, sarebbe diventato troppo rischioso.

Io avevo paura della solitudine, ma maggiormente delle nuove sofferente che avrei potuto ricevere dal provare troppo amore.

Io ti amavo troppo.

Io la amavo troppo.

Purtroppo solo ora riesco ad accorgermene, subivo proprio perché provavo amore nei suoi confronti.

 

In quel momento, mentre mi trovavo a terra calpestato dai suoi insulti e dalla sua rabbia, e cercavo di spostare il mio sguardo verso il suo, mi accorsi che piangeva.

Sorpreso, mi alzai da terra, cercando di confortarla e finalmente abbracciarla, ma si scansò, arrivando al tavolo posto dietro di lei e appoggiandovisi.

Mi guardò e tra le lacrime apparve sul suo volto un sorriso di rassegnazione, un sorriso triste, di chi cerca di frenare le lacrime, ma non fa che aumentarne il flusso.

Cominciò a parlarmi, lentamente.

Fino ad allora le uniche parole nei miei riguardi erano stati ammonimenti, ad oggetti da non toccare e a stanze da non poter visitare.

Nulla di più.

 

Mi parlò in modo strano, un atteggiamento calmo e amabile, che non avevo mai visto nemmeno nei tuoi confronti.

Sembrava una ragazza innamorata, mentre si rivolgeva a me usando un altro nome.

Un nome mai udito prima.

Immediatamente compresi che non ero io l’interlocutore del suo dialogo introspettivo.

 

Cominciò a ridere, di gioia pura, piegando quel flessuoso collo verso destra, com’era suo solito fare.

Continuando a parlare di fatti e luoghi, a me completamente oscuri, improvvisamente si immobilizzò, spalancando gli occhi, oramai fissi nei miei da parecchi minuti.

Corrugando le sopraciglia si portò le mani al volto, stringendole su quelle guance lattee, provocando dei segni rossi a forma di mezzaluna su tutta la loro superficie.

Il riso di poco prima si trasformò in un pianto sfrenato, tramutando con esso l’algida bellezza di nostra madre in una disperazione tipica dei bambini.

 

La guardavo con occhi affranti.

Io, così piccolo, cosa potevo fare per confortarla?

Nella mia mente sapevo con certezza che se avessi nuovamente provato ad avvicinarmi, mi avrebbe allontanato, con quella sua malagrazia, tipica nei miei confronti.

Così, non resistendo oltre a quella scena, attraversai la stanza, e prima di chiudermi quell’episodio alle spalle, mi voltai, serrando nel mio cuore il suo sorriso e il tono delicato, immaginando che fossero entrambi solo per me. 

 

Il corso degli eventi continuò più o meno inalterato, per un altro anno.

Dopo ciò che era accaduto, la mia stanza era stata spostata nell’ala non ristrutturata di quell’enorme villa, pervenuta in eredità a nostra madre dai suoi facoltosi genitori.

Ovviamente quel suo nuovo gesto, era per sottolineare, come se ce ne fosse bisogno, il disprezzo che provava per me.

Ma era una cosa che non mi infastidiva, anzi non stare più a contatto con lei mi rese allegro.

 

Presto avremmo iniziato a frequentare il collegio, dove nostra madre aveva iscritto entrambi, non ritenendo il caso di continuare i nostri studi con un insegnante privato.

Cosa piuttosto insolita che si interessasse alla mia istruzione, consapevole delle mie infrequenti partecipazioni alle lezioni.

Non volli farci caso.

 

Ormai era solito che io rimanessi l’intero giorno con la famiglia dei nostri domestici, che con la loro spensieratezza mi riscuotevano un animo quasi del tutto intaccato,

aiutandoli nella manutenzione della tenuta.

Svegliando all’alba il primo mese estivo mi scivolò addosso senza alcuno sforzo.

Tutto quel moto all’aria aperta, mi rafforzò il corpo, diventato ormai maturo, crescendo anche in altezza.

Non permettevo loro di chiamarmi per nome.

Essendo tuttora umiliante, quel nome che mi porterò addosso per sempre, pesante come la peggior tortura.

Il segno di colpe mai commesse.

Quell’allegra famiglia, però mi trattava come se ne facessi anch’io parte, non con quel temuto rispetto elargito ai nobili, ma con affetto.

Mi divertivo a comportarmi finalmente come un ragazzo della mia età, assieme a Tom, il figlio del maggiordomo, e mi piacevano gli sguardi che sua sorella Susan mi lanciava.

Così che, inglobato totalmente da questa nuova prospettiva mi dimenticai di tutto il resto.

O meglio, diciamo che volli scordarmene, per quanto non sentissi più la mancanza di nostra madre, della tua presenza ero in costante bisogno.

Ricordo che attendevo con impazienza il giorno delle tue lezioni di pianoforte, andando ad origliare sotto la tua finestra, meravigliandomi sempre di quanta grazia sapevi donare a delle semplici note.

 

Ma ero nell’età della pubertà, ed a te preferì ben presto il predominio degli istinti, scoprendomi molto volubile al fascino femminile, che erompeva in una passione che non credevo capace di provare.

Era piacevole rimanere per delle ore, fissi entrambi su quel cielo azzurro mai stanchi di osservarlo, con la sensazione dell’erba soffice sotto i nostri corpi abbracciati.

Volevo bene a Susan, ma più che dolcezza nei suoi riguardi era semplice desiderio carnale.

 

I pomeriggi avanzavano, e con essi l’imbrunire sempre più veloce delle giornate, segno che quella magnifica stagione stava per terminare.

 

Mentre, ero intento, nel quotidiano scambio di piaceri con Susan, mi accorsi di un leggerissimo fruscio, e in seguito di un singulto proveniente dalla soglia della scuderia.

Frettolosamente, mi scostai dal corpo steso sotto il mio, rivestendomi, per poi assicurarmi, che nessuno della famiglia di Susan avesse assistito alle occupazioni della figlia.

Ma una volta fuori, fu una testa bionda a sbucare dai cespugli dove si era accovacciata.

 

Eri tu.

Che mi guardavi con rimprovero misto ad imbarazzo, scandendo parole che nemmeno degnavo di ascoltare, capendo che il corpo che desideravo steso sotto il mio non era quello di Susan, ma il tuo. 

Il corpo caldo che si contorceva per le mie carezze invocando il mio nome, sempre con maggior impeto avrei voluto fosse quello di mio fratello.

 

E mentre pensavo tutto questo, continuavo a sprofondare nel marciume della mia vita, portandoti al mio fianco, infliggendoti gioie e dolori.