Storia: One shot
tratta dalla Cronaca di gioco on line istituita dalla Corte Borgia (di cui mi
pregio essere stato Cronachista) tra il 2001 e il 2004. Sebbene vi siano
riferimenti a figure e fatti storici veramente esistiti, al tempo della
narrazione tutti i personaggi citati sono vampiri legati tra loro da una
particolare linea di sangue, che scaturisce, appunto, dalle vene di Cesare
Borgia
Eco di
pietra
di Cauchemar
Dalle
innumerevoli vasche di pietra disseminate per il vasto ambiente si sollevavano
nubi di vapore. L'aria ne era impregnata e riscaldata. L'umidità rendeva
lucide e sdrucciolevoli le sponde consunte delle vasche e il pavimento di
lastre di pietra, pesanti i tendaggi bianchi che dividevano a intervalli
regolari alcune porzioni di sala, alcuni tirati, come grandi vele in attesa di
un vento che non sarebbe venuto, altri flosci come sudari vuoti.
Michele Corella era immerso in una delle vasche, le braccia allargate sul
bordo, il capo reclinato all'indietro. L'acqua aveva reso neri e lucidi i
capelli corvini, arricciandoli in anelli di smalto intorno al volto bruno. Gli
occhi grigi, socchiusi, guardavano fissi il soffitto basso, attraverso le
ciglia imperlate di umidità. Il corpo immobile non creava il minimo disturbo
alla superficie dell'acqua, tanto che avrebbe potuto essere immerso anche
nella pietra.
O essere pietra lui stesso.
Chiuse gli occhi, li riaprì.
Lottava con i ricordi, Michele, ancora una volta. Era uno scherzo crudele. Ti
convinci di aver ucciso ogni innocenza in te, di essere al di là di ogni
redenzione, di aver perduto la grazia irrimediabilmente, eppure, a distanza di
anni, di secoli, ci sono fantasmi ancora in grado di farti male, così male…
Sollevò la mano, portandosela davanti al volto. Le vene azzurrine correvano
sotto la pelle tirata in una ragnatela sinuosa. Osservò le due mani insieme.
Mani forti, eppure eleganti. Le mani di un letterato o di un soldato. Di un
umanista. Di un assassino.
Immerse le mani nell'acqua calda e chiuse di nuovo gli occhi.
Inarcò il capo all'indietro, facendo disegnare al collo una curva vulnerabile.
Riaprì gli occhi, quasi con rabbia. Perché ogni volta che li chiudeva lui era
lì? Ramiro… Non il cainita che aveva incontrato quella sera, il volto mutato
dai secoli e dalle arti oscure dei manipolatori della carne. Non il nemico che
lo aveva minacciato, rivelandosi e rivelandogli le ragioni del suo odio.
No….vedeva il giovane austero che un tempo gli era stato amico.
Austero e silenzioso, la figura composta di abate e santo, gli occhi scuri
colmi di pietà, le labbra avare di sorrisi. Troppo serio per le loro bravate
di ragazzi, troppo arguti i suoi motti, e pungenti, tanto da irritare più che
divertire. Eppure era con loro, sempre, e Michele ricordava in un momento
tutte le volte in cui, volgendo il capo nel furore di una mischia, come in
quello di una dissertazione letteraria, mentre gli occhi vagavano oltre i fumi
del vino in una sala già senza contorno, o oltre le forme generose di
fanciulle senza nome e senza volto, quando l'attenzione scemava durante la
santa messa, o le interminabili convocazioni del Santo Padre, sempre lo
sguardo di Ramiro de Lorqua aveva incontrato il suo e nel suo si era
specchiato.
Sospirò.
Sollevò le mani piene di acqua calda e se la fece ruscellare tra i capelli,
sul volto levato.
Che differenza faceva ormai? Che differenza aveva mai fatto, in realtà?
Il rimpianto non aveva senso, non in quel caso. Perché Ramiro aveva sbagliato,
Ramiro aveva tradito, e Cesare era stato costretto…no, Michele era stato
costretto, per il bene di tutti, per il bene del Sogno, a fare ciò che aveva
fatto.
Era dicembre inoltrato, presto sarebbe stato Natale. Il fuoco ardeva nel
camino, e la sua luce era la sola ad illuminare la stanza fredda. La figura di
Cesare ne era aureolata, come quella di un angelo, e il suo volto sbalzato dal
rosso delle fiamme assumeva la tragica gravità di una statua di cattedrale.
Aveva parlato senza voltarsi. Non ce ne era bisogno. Michele poteva indovinare
anche così l'espressione del suo viso, la luce e l'ombra che si rincorrevano
nei suoi occhi, imitando il moto dei pensieri nella mente in tumulto. Non
aveva reagito alla notizia della congiura. Forse se lo aspettava, forse già lo
sapeva. O forse nemmeno quello poteva più toccarlo, scalfire la corazza
impenetrabile di quel principe senza regno, troppo giovane eppure già antico.
Lui stesso, Corella, aveva trovato a fatica le parole per denunciare gli
alleati di un tempo, Oliverotto, Vitellozzo… Ma quando Cesare si era infine
voltato verso di lui, in volto in ombra circondato dalla luce dorata, e aveva
aggiunto all'elenco dei congiurati Ramiro, allora sì, la sicurezza di Michele
aveva vacillato. Aveva osato replicare, aveva tentato di capire. Ma non c'era
nulla da capire. Le ragioni di Cesare a volte erano ineffabili come misteri
della natura, ma mai egli parlava senza cognizione di causa. Ramiro doveva
morire.
Corella si costrinse a distogliere il pensiero da quei ricordi. Il soffitto
della sala da bagno gli premeva sul capo come una lapide di marmo. Gli occhi
grigi si velarono di ombre scarlatte, mentre il corpo scivolava sotto il pelo
dell'acqua, scomparendo. Rimase così, gli occhi aperti in quella nuova realtà
acquorea, i capelli fluttuanti come alghe nere , il corpo così bianco da
apparire azzurro. Una volta da ragazzo era quasi affogato. Non ricordava come
fosse caduto nel fiume. Era in castigo, come spesso accadeva. Gli dissero che
si era buttato per salvare un cagnolino. Non lo ricordava. Aveva battuto la
testa contro una roccia e aveva sentito le forze abbandonargli il corpo,
renderlo molle come l'acqua che lo trascinava in giù, intridendo gli abiti,
avvolgendolo con braccia possessive. Non aveva sentito paura. Non aveva
sentito dolore. Era dolce lasciarsi andare così, senza pensieri, in un
abbraccio che non gli era negato, ma che anzi lo reclamava come suo. Negli
anni della sua giovinezza e della sua maturità, perfino dopo, quando era
rinato ed era divenuto ciò che era, Michele aveva rammentato, di quando in
quando, quella sensazione, con inquietudine, ma anche con un'infinita
consolazione. La morte lo aveva preso tra le braccia, lo aveva cullato come un
figlio molto amato, e lo aveva lasciato andare, con la promessa che sarebbe
tornata. Ed ogni volta che lui, Michele Corella, sicario e assassino,
mercenario e dispensatore di morte, si era sentito rifiutato, rinnegato,
misconosciuto, aveva pensato a quella promessa sussurrata dalle acque fredde,
dalle correnti mobili. Lui apparteneva a qualcuno, lui era parte di qualcosa.
Le membra, abbandonate sott'acqua, si fecero più pesanti, mentre intricati
grovigli neri, come rampicanti sottopelle, apparivano lungo tutta la
superficie del suo corpo, disegnandovi una mappa misteriosa. Il corpo toccò il
fondo di pietra della vasca con un tonfo ovattato. La luce sopra la superficie
sembrava così lontana, una finestra sul cielo irraggiungibile.
La luce pioveva in rade lame azzurrine attraverso le inferriate che si
aprivano sulla parete del corridoio, non più che piccole feritoie. Nelle celle
non c'erano aperture. Solo la pesante porta di legno, dalle cerniere di
metallo, con una finestrella da cui veniva passato il cibo ai prigionieri in
grado di muoversi. Per coloro i quali, come Ramiro, non vi era possibilità di
movimento, essa era inutile. Così appeso ai ceppi, spogliato delle sue ricche
vesti e reso nudo e inerme, aveva in sé tutta la bellezza di un martire. Il
corpo bianco rigato di sangue raggrumato era teso, scavato nelle sue forme
dalla luce fumosa delle torce. Lo aveva osservato a lungo, Michele, con pietà
e con la reverenza che da sempre egli attribuiva ad un'agonia. Lo aveva
guardato senza parlare, senza avvicinarsi, il volto chinato in avanti coperto
dai capelli incrostati di sangue. Poi si era avvicinato, emergendo dalle ombre
che fino ad allora lo aveva avvolto, rivelando il volto celato dal cappuccio
del mantello. La mano aveva sfiorato il fianco dolente dell'uomo incatenato,
che si era infine accorto di lui e aveva volto lo sguardo annebbiato.
Le labbra screpolate e spaccate si erano mosse per parlare, ma solo un sibilo
ne era uscito. Michele aveva fatto sciogliere le catene che lo tenevano appeso
al soffitto della cella e Ramiro era scivolato a terra senza un suono, come un
pupazzo di stracci. Corella gli si era accucciato di fianco, osservandolo. Era
strano come cambiava il volto di un uomo poco prima di morire. Era come se
esso presentisse la morte e se ne adeguasse, assumendone i tratti. E Ramiro
sapeva che sarebbe morto quella mattina, che Michele era lì per quella
ragione. Aveva sollevato il volto, guardandolo torvo da sotto la massa
arruffata dei capelli, gli occhi annebbiati dal dolore, dalla stanchezza. A
Michele era parso di scorgere l'ombra di un sorriso arricciare le labbra,
rivelare le gengive.
Ma non era espressione da Ramiro.
Ramiro non avrebbe sorriso.
Ramiro non avrebbe pregato.
Ramiro non avrebbe supplicato, né inveito.
Ramiro rimaneva a guardarlo, silenzioso e immoto come una lapide, come un'alba
senza sole.
Cosa farai dunque ora, Michele Corella?…
Quanto a fondo spingerai la lama in nome del tuo Principe? Quanto a fondo nel
tuo cuore?…
Di nuovo Michele si costrinse a tornare in sé, strappandosi ai ricordi.
Dalla sua tomba d'acqua percepiva i rumori del Palazzo come un ronzio soffuso,
l'eco di un suono siderale vagante nello spazio infinito.
Se si poneva in ascolto li poteva riconoscere. Il violino di Aleksej che
piangeva, da qualche parte sul tetto, tra lo zampettio dei corvi e il loro
frullare d'ali…. Lo stridere delle lame di Giuliano che recideva i gladioli
nella serra, uno ad uno, con la lentezza e la meticolosità che si riserva ad
un'esecuzione… Kostas, da qualche parte fuori dalla stanza da bagno, che
misurava a lunghi passi nervosi il corridoio, aspettando che lui uscisse…
Sorrise a quel pensiero, malgrado tutto.
Cesare sarebbe stato presto di ritorno dal campo di Nero. Kheras e Malakiah si
muovevano appena sulla torre, scambiandosi sussurri, mentre Salevius,
semisdraiato sul tappeto a sfogliare un libro, come un ragazzino qualunque,
alzava di quando in quando gli occhi chiari e antichi, ascoltando i loro
discorsi, un ricciolo rosso avvolto intorno al dito sottile, in un gesto
abituale.
Chiuse gli occhi, mentre lasciava che il suo corpo levitasse lentamente verso
la superficie dell'acqua. Emerse con uno sciabordio, infinite cascate e
ruscelli precipitarono dalle sue membra, riempiendo conche e pieghe del corpo,
spianando alture e colmando avvallamenti, come in un paesaggio in mutamento.
Il soffitto era ancora sopra di lui, ampie arcate che si abbracciavano.
Aveva posato la mano sulla sua spalla, chinato il capo finchè i loro capelli
non si erano sfiorati. Sembrava essere lui ora ad avere bisogno di conforto.
Il corpo di Ramiro si era irrigidito, così vicino che Michele percepiva ogni
sua tensione, ogni brivido. La pelle, sotto il sangue e lo sporco, conservava
il suo profumo.
Mai gli capitava di sentirsi vicino ad un altro essere umano come nel momento
in cui stava per togliere la vita. Non nella tenerezza furente dell'amplesso,
non nella fraterna condivisione di un dolore, o di un premio.
La vicinanza non era per Corella. La comunanza non era per Corella.
Lui lo sapeva, e lo sapeva anche Ramiro.
Senza un suono aveva sciolto la catena che teneva arrotolata intorno al polso.
Ricordava un giorno d'estate, lontano nella memoria, eppure così vicino nel
tempo. Non erano poi tanto più vecchi di allora, ma come potevano allora
essere così spensierati quei fanciulli che correvano nudi sulla riva del
fiume, riempiendo l'aria di alte strida, di risate e spruzzi che
s'infrangevano nei raggi del sole in schegge di arcobaleno?
Eppure erano loro, Ramiro e Michele, e c'era Cesare, sottile e acerbo come un
giovane albero, e Juanito Grasica, e altri ragazzi i cui nomi si erano perduti
nei meandri della storia.
Quante volte erano tornati laggiù, dove il fiume si piegava in un'ansa dolce,
amorevole come un braccio di donna? Erano cresciuti come le canne che
s'immergevano nella riva fangosa, fioriti come fiorivano i loro fiori selvaggi
e strani.
Michele Corella aveva preso a sgranare gli anelli della catena, come si sgrana
un rosario.
Una notte la città era in festa. Il re francese se ne andava, convinto di
essere vincitore, in realtà beffato dal papa e dai suoi figli. Roma,
prostrata, stuprata dall'assedio, tornava alla vita, con nuova baldanza, e le
strade erano invase dalle danze, dalle risate, dai canti, in un'orgia di vita
disperata. Sotto il cielo illuminato a giorno dall'oro delle fiaccole, Ramiro
e Michele si erano ritrovati a caracollare lungo l'argine, fino al fiume,
ebbri e folli, aggrappati l'uno all'altro per non cadere, ed una volta caduti
incapaci di sciogliere quel viluppo di membra disordinatamente sparse
sull'erba umida di rugiada. Così riversi l'uno sull'altro, il respiro che
beveva il respiro dell'altra bocca, il petto scosso dallo stesso riso, si
erano persi per un istante nello stupore che accomuna gli esseri umani, che la
pelle non è che aria, e la carne non è che acqua, e che due corpi possono
essere uno, così come possono esserlo due anime distinte.
Michele aveva sollevato la catena e l'aveva fatta passare intorno al collo di
Ramiro, con una delicatezza da amante. Il metallo freddo aveva fatto fiorire
sulle sue spalle una corona di brividi. Si era portato alle sue spalle.
Qualcuno lo stava chiamando, fuori dalla sala.
Kostas, forse. Cesare doveva essere tornato…
Michele si alzò in piedi nella vasca, lasciando che l'acqua gli precipitasse
lungo il corpo. Scosse vigorosamente i capelli neri, facendo esplodere una
pioggia di gocce intorno, ed uscì.
Per l'ultima volta gli occhi grigi come un cielo d'inverno si posarono sulla
superficie dell'acqua, appena increspata, come a voler scorgere ancora ciò che
il tempo aveva allontanato, come una corrente profonda che gli abissi
inghiottono. Ma non c'era nulla da ricordare, nulla da dimenticare.
Volse il capo alla porta. Questa volta era stato Cesare a chiamarlo, una
flessione silenziosa nella sua mente. Si avviò, gocciolante, verso l'uscita.
Le volte del soffitto si ripetevano come un'eco di pietra.
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