Dog Eat Dog
parte XIII
di Hyoga & Snatch
Reynolds fissa come al solito il
soffitto basso e costellato di macchie della roulotte. Prova a muoversi,
sospira cercando una posizione più comoda.
La schiena gli fa male. Ha una ferita sulla scapola, piccola quanto
profonda e insidiosa.
Solita acqua gelida e trasparente, ai lavatoi. Qualcosa di pulito e puro
in quella merda di posto.
Si muove ancora, ma i polsi legati gli impediscono di girarsi come
vorrebbe.
Rimane fermo, le mani strette sulle catene cromate, gli occhi aperti.
Attenti, anche se non c'è nulla da vedere.
Il ragazzo è nell'altro letto, una sigaretta che compie il solito viaggio
labbra-dita sufficienti volte da consumarsi fino alla base. L'odore,
mescolato a quello della palude, ha ironicamente un retrogusto che sa di
whiskey… Distillato passato su braci roventi, torbido e ammorbante.
Piove, da quasi due ore.
Quando sono arrivati ai lavatoi il cielo era grigio, l'aria più pungente e
umida, la terra morbida sotto le scarpe.
Reynolds ascolta il monotono scrosciare della pioggia, il suono diverso
delle gocce sulle canne o sulle foglie larghe delle ninfee. O sull'acqua
marrone e stagnate. Quanta pioggia ci
vorrebbe per lavare tutta questa sporcizia?, si chiede. Per lavare
il fango, la puzza marcia e pesante del limo, gli insetti ematofagi che si
infilano dappertutto.
E per lavare finalmente questa roulotte marcia, sporca, incrostata di
fango e persa in un mondo putrescente e soffocante.
E tornano i ricordi. Quei famosi ricordi che entrano ed escono dalla testa
in punto di morte.
Ha cercato di cacciarli via, ma sono ormai giorni che convive con la
consapevolezza della fine, e a lungo andare anche la sua volontà sta
cominciando a sentire la fatica.
Un'esercitazione con la pioggia. Pioveva così, forse anche di più. Ricorda
le sue preoccupazioni per le armi, non voleva che si bagnassero.
Era in una buca in mezzo al fango, i vestiti inzuppati, e lui si
preoccupava del fucile.
E nel frattempo non riusciva a togliersi dalla testa le parole di suo
padre: esercitazioni in attesa di una guerra che forse non arriverà mai.
Ci aveva passato la vita, a prepararsi per una guerra che forse non
sarebbe mai arrivata.
Anche da poliziotto. Esercitazioni supplementari di tiro, corsi,
qualifiche.
E pensa ai suoi colleghi. Colleghi poliziotti, ovviamente. Si chiede se lo
staranno cercando. Si chiede, anche e soprattutto, se avrebbe potuto
evitare tutto quello che è accaduto dalla dottoressa in poi.
La fuga di Norton. Aveva preso tutte le precauzioni? Era stato negligente?
Imprudente? Aveva agito con imperizia?
Sicuramente, tutto ciò sarebbe stato stabilito da un'apposita commissione.
A tempo debito, una volta fuori di lì.
Guarda la pioggia, che continuava a cadere con monotona perseveranza.
Fuori di lì. E’ questo il
problema.
Si sposta di nuovo sul materasso. Ripensa alla sensazione piacevole del
bagno.
Non piacevole come la prima volta, comunque.
Questa volta la consapevolezza di avere gli occhi dell'altro puntati
addosso gli aveva dato una sorta di fastidio. Cosa strana, perché da anni
era abituato a spogliarsi davanti a perfetti estranei senza nessun
problema.
Eppure, stavolta si era tenuto tutto il tempo scrupolosamente di spalle o
di tre quarti rispetto all'altro.
Aveva anche provato una sorta di fastidio nel togliersi gli abiti di
fronte
a lui.
Imbarazzo…?
Qualcosa non era andato per il verso giusto. Troppo facile pensare che il
problema fosse la pistola che aveva praticamente sempre puntata addosso, o
le manette che gli stavano segando la pelle dei polsi.
Il problema non è quello.
Il problema è che quando, ormai nudo e quasi del tutto pulito, si era
voltato, anche il ragazzo teneva lo sguardo basso.
Non era pudore, non diciamo cazzate. Un negro che si fa una sega di fianco
a te sa a malapena cosa sia il pudore. Non era neanche rispetto e, se lo
era, non era certo il rispetto che Reynolds chiamava tale. Non qualcosa di
riconoscibile.
Il parto di tutta quella melma e di quell'assurda situazione, che aveva
dato
luce a una serie di piccoli gesti inconcludenti e indefinibili, ecco
cos’era.
Come tra bestie, le parole smettono di definire la ragione, e la ragione
diventa poco più che un ninnolo secondario, relegato in qualche antro tra
l'istinto di sopravvivenza che ti alita sul collo e la smania di ergere la
testa più in alto.
Ai lavatoi il ragazzo gli aveva lanciato il disinfettante, assieme a
rasoio e, onore, uno spazzolino.
Il ragazzo aveva guardato altrove mentre Reynolds purgava anche le ferite,
e aveva guardato altrove anche quando, in roulotte, lo aveva ammanettato
al letto e gli aveva sollevato la maglietta per spruzzare un po' di alcool
sulla ferita che incideva la sua scapola.
Poi, era scesa la sera, e la pioggia, e il pasto era stato drammaticamente
simile a un lontano ricordo.
Una razione K consumata all'incerto riparo di un autoblindo, con l'acqua
che sgocciolava gelida lungo l'acciaio della fiancata. Erano rimasti
impantanati nel letto di un fiume e avevano dovuto spostare tutto il
plotone a piedi, zaino in spalla, nel buio, scivolando nel fango tenace.
Non era stato possibile accendere un fuoco, o far asciugare gli abiti
fradici.
Si erano addormentati uno sull'altro come cani randagi, i teli cerati
mimetici addosso. Come cani randagi o cadaveri.
Stessa atmosfera adesso. Pioggia, buio sempre più intenso, una sensazione
di
malinconico disagio e la voglia di essere mille miglia lontano.
Sdraiato sul letto, Reynolds tasta la somiglianza tra oggi e ieri.
Ormai è buio e fuori dalla roulotte la pioggia è come un manto liquido,
come
un nastro che continua a dipanarsi con monotona perseveranza.
L'acqua che è caduta sarà finita negli stagni fetidi, non avrà fatto altro
che allungare il fango raggrumato.
E Reynolds pensa di nuovo all'entità dell'inondazione che sarebbe
necessaria per pulire una volta per tutte la palude, un pensiero
insistente e irrealizzabile. Un diluvio universale in cui troppa poca
gente si salverebbe.
Acqua pura e fredda per spazzare via quella tiepida e putrescente.
Nel buio, arriva un rumore ritmico. Proviene dall'altro letto.
Lieve, dapprima, come il rosicchiare di un topo.
Si volta, aguzza lo sguardo nella luce morente. Si vedono solo sagome, ma
percepisce un movimento sfortunatamente facile da identificare.
Alza gli occhi al soffitto, mormora un'imprecazione tra i denti.
Ma rimane immobile, stavolta non ha intenzione di fare la signora
vittoriana. Non darà all'altro la soddisfazione di protestare per il suo
gesto.
E - quella dev'essere la giornata dei ricordi - gli torna in mente un
episodio di quando era nei berretti verdi.
Il rumore. Quel rumore è lo stesso, uguale identico. Anche il respiro
pesante.
Di colpo si rivede in una buca di notte, primi mesi di servizio, quando
tutto era ancora una novità da scoprire.
"Ce l'hai la ragazza?", quella era stata la prima domanda, morbidamente
sussurratagli all'orecchio. Ricordava ancora il fiato caldo sul collo.
Non aveva saputo cosa rispondere. Non l'aveva la ragazza, ma soprattutto
non gli sembrava un argomento adatto ad una notte di guardia in un
avamposto.
Io ce l'ho la ragazza, aveva
continuato l'altro, ma sono mesi che non
la vedo. E intanto la sua mano armeggiava tra le gambe.
Poi si era rivolto di nuovo a Reynolds.
E’ strano che tu non abbia la ragazza, sei carino...
E gli aveva messo una mano sotto il mento, facendogli alzare il viso,
mentre l'altra mano continuava a muoversi.
A quel tocco, Reynolds ricordava di essersi irrigidito, di aver cercato di
tirarsi indietro.
Ma dove vai? gli aveva sussurrato
l'altro. Siamo fra noi, no? Non devi aver
paura di me...
E la mano si era spostata tra le sue
gambe, risalendo lungo la coscia con una sensuale carezza.
Subito dopo si era sentito baciare sul collo.
Ricordava il pensiero che avrebbe dovuto sottrarsi, protestare. Ma quel
gesto gli era sembrato così intimo, così cameratesco che vi si era
abbandonato quasi con piacere.
Non c'è niente di male... fallo anche
tu...
E si erano fatti una sega insieme, uno addossato all'altro, scambiandosi
aneddoti piccanti e carezze, talvolta un bacio leggero sulle labbra o sul
collo.
Reynolds riemerge bruscamente dal limbo dei ricordi, un gemito di Norton
lo ha richiamato alla realtà.
Si muove a disagio, accorgendosi di essere eccitato.
Accoglie la constatazione con costernato smarrimento: come ha potuto
lasciarsi andare in questo modo?
Ma tant'è: l'erezione gli pulsa dolorosa nei pantaloni.
Rimane per un attimo immobile ascoltando il cuore accelerato.
Le mani si stringono sulle catene d'acciaio facendole tintinnare appena,
ma il ragazzo non sembra darvi peso. Come se Reynolds non esistesse, come
se fosse poco più di un fantasma nella stanza, il letto continua a
cigolare, il brusio del gemito rimane un costante suono roco.
Reynolds volta la testa verso l'altro letto, cercando di penetrare
l'oscurità ormai sempre più fitta con lo sguardo. Immagina il movimento
della mano, immagina su cosa si
sta muovendo la mano e l'idea lo fa deglutire a vuoto, perché si rende
conto che è stato quello il catalizzatore: sapere che Norton era
nell'altro letto a farsi una sega gli ha scatenato il ricordo e la
conseguente eccitazione.
Ok, sono stanco, pensa.
Sto andando lentamente fuori di testa.
Perché non mi troverei così, ammanettato e con il cazzo duro, se non
stessi andando fuori di testa. Cristo d'un dio.
Il letto cigola un'ottava sopra, e il brusio della voce del ragazzo
s'interrompe, deglutito con un uno spasmo.
Analogo nolente spasmo di Reynolds, che sente un'ondata di eccitazione
attraversargli il corpo nel momento in cui l'altro viene.
Quel che segue è uno sfinito ansimare del ragazzo. Le spalle che si alzano
e abbassano, i polmoni che riprendono a pompare con regolarità, e qualche
minuto in cui tutto sembra scemare attorno a Reynolds, lasciandolo solo
con la propria erezione.
Cerca di ignorare il proprio corpo, come ha fatto tante volte. Sa ignorare
il dolore, la fame, la sete, la stanchezza. Ignorerà anche questo. Sebbene
l'eccitazione che non può essere sfogata sia intensa e pervasiva come un
dolore fisico, si costringe a regolarizzare il respiro, a giacere
immobile. Prima o poi, si addormenterà. Prima o dopo l’erezione, ma si
addormenterà.
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