D’ODIO D’AMORE

 

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CAP: 43/?

 

SERIE: original

 

AUTORI: Dhely&Kalahari

 

RATING: NC-17. angst.

 

NOTE: le solite degli ultimi 40 capitoli ^^!

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Ebbe così inizio: occhi negli occhi.

 

Astre non aveva avuto bisogno di parole per capire che pasta d’uomo avesse di fronte: lo spirito che animava quel corpo aggrazziato e saldo riluceva nelle iridi violette, scheggiate in mille angoli che sapevano spaccare la luce, infrangerla in toni caldi e sfumati, spire di vento e fuoco che parevano venire e tornare da un mondo tutto rinchiuso in un petto senza pareti. Bastò un nome che non sentiva da tanto tempo, che quasi il principe di Persia aveva dimenticato, un nome sussurrato durante l’elegante presentazione, perché comprendesse.

Ma Astre non aveva dimenticato il Capitano.

 

Il Capitano Kamali, degli Immortali.

 

Il cuore battè più forte nel petto, Astre si sentì i polsi rinvigorire di nuova linfa e la fronte spalancarsi come un fiore di loto innanzi a quella presenza. In lui riconosceva quel fedele di cui una volta suo padre gli aveva fatto menzione, un uomo affondato tra le pieghe di paesi lontani e remoti, nell’estremo Oriente. Il piccolo principe lo aveva cercato nelle pietre sacre, aveva frugato le capacità che iniziavano a sbocciare tra le sue mani di stregone, versando fiumi di incenso e polvere d’argento nei venti maestosi dell’inverno con la speranza che la primavera gli riportasse, sussurrandogli nelle orecchie regali, notizie riguardo quell’uomo. Uno scultore di corte, non abbastanza anziano da essere chiamato maestro ma pupillo di un abilissimo artista, aveva ottenuto di poter scolpire una statua del ragazzino tuareg prima che partisse, immortalandone le fattezze sulla parete delle stanze che avevano ospitato il futuro Capitano.

 

Il principino non aveva mai creduto che nell’espressione di un fanciullo acerbo come lui stesso era, nel suo portamento, potesse esistere la nobiltà e l’autorità che lo scultore aveva eternato. Quando glielo avevano confermato, s’era sentito punto come se avesse scoperto che qualcuno gli aveva scagliato una freccia intrisa di veleno. Come osava uno straccione delle sabbie apparire seducente quanto lui? Aitante e saldo si stagliava a tutto tondo dalla parete, con le labbra austere e le ciglia penetranti, la fronte piegata in un’espressione di dominio e allo stesso tempo dolcezza, quanto su una siffatta bocca aleggiava un sorriso proveniente dal mondo degli spiriti. Se l’anima di Astre non fosse stata in sé elevatissima e di nobiltà fulgente egli l’avrebbe odiato e avrebbe ordinato di fare a pezzi quella scultura. Invece, piegando il capo circondato da una coroncina d’argento, aveva steso le labbra in un ampio sorriso e assottigliato gli occhi.

 

Spesso, in seguito, si era chiesto il senso di ciò che era accaduto quel giorno, durante quell’incontro con una statua di marmo gelido, non abituata ad essere mirata se non dai servitori che toglievano la polvere da mobili non utilizzati ma non dalla parete, perché sulla statua vegliavano i venti e, tra le sue pieghe, cantavano note sospese fino al suo ritorno.

 

Dionide, Dionide Astre l’aveva incontrato di persona e ne era rimasto stregato in una maniera profondamente diversa. E questo non solo perché era di carne e sangue, non marmo. Dionide era il lussureggiare della vita, l’arcano mistero che si svela sempre in maniera diversa e sorprende, caccia lasciandosi cacciare, è rincorso rincorrendo, e che ama con passione e con foga che stordiscono; essere nel suo sguardo era essere al centro del mondo, innalzati in un luogo di cui non si comprendeva bene la natura ma che, se non fosse presto svanito, avrebbe fatto dimenticare ogni cosa esistita in precedenza.

 

Kamali invece era adamantino, screziato e pieno di sfumature e angolazioni. Essere investiti dal raggio del suo sguardo era essere spogliati e lasciati senza difese innanzi a uno spirito celeste. Astre, ora che lo ebbe proprio davanti, sentì sotto i piedi svettare il sentiero che lo avrebbe portato alle stelle. 

 

In lui vide quello che gli serviva e si ritrovò a sorridere suadente dietro il velo multicolore che gli nascondeva il volto.

 

Per un attimo la mente fu solcata da un’immagine che non poté non paragonare a quello che aveva innanzi agli occhi: ma quanto Pirecrate sembrava … sciatto affiancato a Kamali! Quanto la sua veste rossa era umile e lisa accostata ai lini fini, alle stoffe preziose, infilate di perle e di schegge di luce, pietre preziose che come spille ne trattenevano i lembi e ne abbellivano le frange! Quanto Kamali pareva il portatore d’una conoscenza, d’una visione del mondo completa rispetto al limitato ragazzo che mai aveva veduto qualcosa al di fuori della minuscola e gretta Sparta! Quanto Pirecrate era un sassolino sul quale era inciampato lungo il cammino, mentre Kamali un sentiero degli dei!

 

E dopo giorni che non usciva, dalla fatica, dalle sue stanze, ecco che il destino gli faceva incontrare la vera spada che avrebbe guidato la sua vendetta.

 

Kamali era ciò che gli serviva, lo sentiva dentro con una sicurezza tale che non poteva sbagliarsi: era la scintilla divina che portava nell’animo da quando era nato a star destandosi, a spandere intorno scie di luce, esprimendosi non più solo nei suoi sogni complessi o nelle immagini incorporee che gli venivano a far visita da desto. Avrebbe reso quei sogni una reltà che si poteva stringere tra le mani.

 

Astre mosse la sinistra nell’aria, compì un mezzo arco, le dita a mimare un gesto arcano, segretissimo. Se qualcun altro avesse veduto l’avrebbe scambiato per un gesto lieve, e civettuolo, di una donna cui si poteva, in facoltà della sua grande bellezza, perdonare tutto. Kamali vide, ricordò, comprese: le sue labbra si stesero, immobili, in un sorriso ubbidiente, un sorriso cui anche Astre stesso, e con lui il dio che stava nascendo al posto delle carni calde e appasionate, rischiò di rimanere prigioniero. Tentato. Eccola, lì era la pericolosità di quell’uomo quanto lì era la sua fedeltà. Il principe non si sarebbe meravigliato se egli fosse stato un domatore di serpenti.

 

L’inchino che le aveva rivolto nel presentarsi si approfondì, velato d’un più profondo rispetto. Null’altro fu detto fra di loro, ma Astre non aveva bisogno di udire la sua voce.

 

Tre giorni addietro, quando la luna era stata piena e perfetta, simile a uno specchio dei sogni infissa nel cielo morbido di vellute spire, Astre s’era rinchiuso nel suo mondo interno e aveva aperto i portali che tenevano imprigionati i demoni ai suoi ordini. Il potere gli aveva lambito i polsi, gli aveva segnato in maniera invisibile la pelle e il cuore aveva cantato, salmodiando, le frasi che doveva.

 

Aveva imposto le mani sulle membra scheggiate che aveva di fronte solo dopo aver compiuto i sacrifici prescritti, perché il greco non s’impressionasse e, stupidamente, non s’opponesse in qualche modo. Egli stava per divenire Re, e Dio, eppure non avrebbe mai potuto curare un mortale da un marchio impresso da un altro dio.

 

Ma Idrio, il musico muto, non possedeva più alcun marchio rovente nella carne, come se il segno del dio crudele avesse scelto un altro, più degno. La carne violata, così, poteva essere curata da lui, lì, nelle stanze interne e segrete del palazzo di Persepoli, stanze preziose di cui tutti avevano dimenticato l’importanza visto che non vi era nessuno a custodirle e i nuovi regnanti non le tenevano in alcun conto.

 

Nella notte vi erano penetrati, dopo che Dionide, a quanto pareva, più volte aveva testato di persona la totale mancanza di sorveglianza di quell’ala dimenticata dell’antico palazzo. Era stato così semplice che non avevano tardato a muoversi. Quella notte di novilunio Dionide, lo stregone del deserto, non aveva avuto spade tra le mani, bensì un involto che teneva stretto con la massima cura; il Greco gli era stato dietro, con un’agilità e un passo veloce e sveglio che aveva destato un lieve stupore in Astre. Mai fidarsi di un Greco, né dio né mortale.

 

Dionide e i suoi erano rimasti fuori dai portali di giada, pronti ad intervenire affinché nessuno disturbasse il compiersi della Magia e, spezzando la concentrazione, rendesse i demoni liberi di scaricare sul mondo degli uomini i propri istinti distruttivi.

 

I tre neonati erano stati uccisi e sgozzati secondo il rituale.

 

Un olio raffinato secondo tecniche arcaiche gocciolava lentamente in un bacile d’acqua mercuriale che ondeggiava scintillando d’argento vivo.

 

Le tavole di smeraldo, risvegliate dal loro millenario sonno, riportate dopo un tempo impensabile alla loro legittima sede, scintillavano saggezza, colpite secondo la giusta angolazione dalla luce delle stelle che provenivano da una serie di finestre poste in alto, adibite proprio a quello. Del loro ritrovamento solo Dionide poteva fregiarsi il merito, e forse Astre sarebbe dovuto essergli riconoscente di avergli fatto dono di un simile potere. Già, se soltanto Astre non fosse stato certissimo che era per Idrio, e per lui soltanto, che quei ricettacoli di luce e mistero adesso giacevano tra le sue mani, unico nell’universo a conoscenza della chiave per attivarli, unico nato sotto le giuste stelle.

 

La cintura di Orione scintillava in una delle aperture, perfettamente centrata, come se gli dei avessero sistemato gli astri perché esse si specchiassero in quel modo nei buchi di quell’edificio umano, non viceversa. Sirio palpitava come un piccolo cuore candido sopra il capo di Idrio. Mercurio era un gioiello che si riverberava sulla fronte di Astre.

 

I bracieri bruciavano pietre preziose e resine profumate e antiche che conservavano, nel loro interno, vestigia di antichi animali.

 

Il corpo semi dormiente del greco giaceva immobile su quello che sembrava un altare di pietra, derivato da un unico blocco che risaliva all’inizio dei tempi, che solo una folgore del Dio supremo era riuscito a scalfire.

 

Astre aveva imposto le mani su quella gola sottile e aveva annodato i fili strappati, come se il giovane greco fosse stato null’altro che una cetra di carne e sangue.

 

Le stelle s’erano mosse, Astre no.

 

Astre era rimasto immobile: perno ideale di quel cielo, del mondo tutto. Aveva incanalato le energie  richiamate, e le aveva utilizzate. I minuti erano divenuti ore, le ore gradi percorsi sulla volta celeste da stelle e pianeti e costellazioni.

 

Il sole stava per arrossare l’orizzonte.

 

Le sue mani tese si ripiegarono, delicatamente. Le abbandonò ai suoi fianchi riprendendo a respirare. Chiuse gli occhi quando Idrio li aveva riaperti, confusi e tramortiti.

 

Astre era svenuto.

 

Idrio aveva urlato.

 

E ora Astre, ripresa coscienza di sé, passeggiando senza meta lungo i corridoi che gli appartenevano per diritto di nascita, incontrava il Capitano della guardia personale del re.

 

Kamali.

 

Il fratello maggiore di Dionide. L’odiato fratello maggiore, quella presenza che aveva gravato sulle spalle dell’attuale Reggente di Firuzeh come una maledizione.

 

Sorrise, di nuovo, più crudele e compiaciuto per una coincidenza che veniva proprio nel momento in cui si stava preparando a sferrare il colpo più forte al traditore dei patti e dell’amicizia. Di nuovo qualcosa di inspiegabile gli fu sussurrato.

 

Astre mosse una mano a indicare uno dei mille corridoi che perforavano il palazzo.

 

“Vieni con me, Capitano, ho una persona da farti incontrare. Da farti incontrare *di nuovo*, se i miei occhi non m’hanno tratto in inganno.”

 

Il silenzio era stato loro compagno. La splendida dama che accompagnava il Capitano, a due passi da lei, alle sue spalle: qualcosa che non suscitava né scandalo né stupore in nessuno, neppure se la dama in questione s’era sempre mostrata così schiva e poco portata alla conversazione con estranei.

 

Astre aprì un ampio portale che doveva portare ad uno degli appartamenti privati messi a disposizione degli ospiti e invitò Kamali ad entrare con un bellissimo gesto della mano. Le imposte non avevano fatto alcun rumore, come se il vento stesse le avesse sollevate. Dalle loro spalle pentrava una grande luce, facendo di loro due soli che spuntano all’orizzonte e strappano le dolci ombre d’un sereno crepuscolo.

 

Tutto era perfetto e prezioso, scintillante; tutto aveva un odore particolare, come se fossero stanze abitate da anni che avessero assorbito in sé il profumo dei loro residienti. Kamali, estremamente sensibile agli odori, intuì subito la presenza di due persone ma non riusciva a distinguerle. Non ebbe il tempo di avanzare e farsi padrone dello spazio. Tutta la sua attenzione venne rapita da altro.

 

Giaceva sul letto, seduto, come una statua, come se fosse fatto di marmo e le carni, chiare e giovani, fossero un velo d’alabastro rosa. Le vesti chiarissime, fino alle caviglie, a malapena scivolavano in una carezza leggera ed elegante intorno alle spalle; al crepitare dell’aria s’erano mosse leggermente, come leggermente s’era scostato quel drappo, pendente dall’alto del letto, che schermava alla vista e alla luce l’immagine intima dei due.

 

Kamali restò turbato innanzi a quella visione improvvisa, lo riconobbe: sembrava una creatura  marina di spuma e sale, un figlio della marea. Egli cantava, in un greco così pulito che raramente Kamali ne aveva udito uguale.

 

“Appartenni all’Ellade.

Ora, Idrio infelice, a me il Fato chiede

amaro in sacrificio, e ardente il sangue

rifugge dalle membra.

Ora il cuore si spacca;

E geme; e urla; e freme. Si dibatte,

condannato al supplizio.

Restare nel palazzo

tra echi in svettanti stanze,

o restare da chi amo?

Amore, e ti ama, e ti odia

Chi a te così perviene

Come son io, preso in petto da folle

Passione per lui. Per te!

 

Tu, che con ampie mani

sfioravi le caviglie mie tremanti,

su corde d’improvviso

silenti, corde di cetra divina;

tu, che coi baci della tua bocca

consolasti dolore

amaro, dimmi, amore:

continuerai ad amarmi?

O odierai quella che chiami ‘del mio

Cuore l’anima’? Te, dormiente, guardo,

privato del dolce oblio

che i mortali consola del lor pianto.

O diletto, avvenente

sei. Dionide, ha il tuo nome l’amore!

 

Appartenni alla Grecia.

Fui strappato al suo suolo intorno a Sparta,

viaggiai per terre e mari.

Mi spogliarono, mi umiliarono

E da me non ottennero che onore.

Adesso, invece, che Idrio

Dovrebbe farsi più deciso e saldo,

la passione lo piega,

lo spirito lo strugge

e devasta. Le lacrime dei suoi occhi

al cielo farebbe volare, colmo

di stelle, e con lui piangerebbe l’Uranio.

E intonerebbe, inclito:

-Quando son nato non me lo dicesti,

Padre, che la vita è sofferenza.

Ed io, che qui son giunto tra le bianche

Rose, i cui petali intinsi nel sangue

Dei miei piedi trafitti,

e proprio io, ora, l’estrema illusione

vado perdendo, e penso:

gli dei m’han tutti relitto in deserto

piano, ove l’amore arde

così forte che gli occhi

divengon presto ciechi.-

 

Un sospiro, accanto a me.

I tuoi capelli abbracciano il cuscino,

i tuoi occhi il privano di luce il mondo,

 

Dormi, Dionide, non destarti adesso

Che sto piangendo: è l’ora della prova.”

 

C’era il vento, e c’era il fuoco nella sua musica. Né lui né il suo Re si mossero, incapaci di spezzare l’incanto.

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Il dolore non era dolore. Era come un laccio viscido che si stringeva intorno all’animo, stritolando e annientando. Era soffocare in un mare melmoso che non lasciava scampo.

 

Non era dolore, no. Il dolore era quando il corpo urlava dalla fatica, era quando la pelle si spaccava sotto le cinghiate, le urla d’odio, quando il cuore si sfaldava al tocco degli sguardi di schifata superiorità. Il dolore era il sole torrido sul capo, la lingua gonfia contro un palato arso, polvere rossa ovunque e la spada che pesava sul palmo e faceva fendere i muscoli che tremavano.

 

Era qualcosa di diverso. Qualcosa di profondo e terribile.

 

La solitudine era qualcosa a cui era avvezzo.

 

Ma la solitudine di Sparta era spoglia e aguzza come gli spigoli di roccia viva che si ergevano contro il cielo sempre troppo sgombro di nubi. La speranza non aveva trovato una dimora confortevole in quella terra aspra ed inospitale, e le leggi che scandivano la vita non le erano congeniali: là Pherio aveva imparato a vivere senza speranza alcuna. Siracusa era differente: l’aria sapeva di mare e fertile era la terra grassa, fragranti i profumi che riempivano la vita di colori che scintillavano sì come una spada dal filo appena forgiato, ma insieme essi potevano scolorarsi in un’infinita gamma di morbidi sentori. Era davvero una terra benedetta.

 

Una terra cara agli dei, e dunque: che ci faceva lui, lì?

 

Pirecrate non era colpevole di nulla anche se non poteva non pensarlo senza sentire una punta di tristezza perforargli il cuore.

 

Aveva fatto tutto quello che aveva potuto, tutto quello che gli era stato insegnato: aveva cercato di essere accomodante, s’era sforzato d’obbedire a Pirecrate, come aveva obbedito a Kakeo, aveva cercato di  non pesargli con le sue fissazioni, con le sue sensazioni. Aveva cercato di non infastidirlo, aveva cercato… aveva cercato di non essere ciò che era. Aveva cercato di non mostrare com’era terribile e orrendo, e brutto e …

 

Forse lui era una razza che poteva sopravvivere solo nella terra aspra di Sparta. Forse, non poteva vivere altrove. Non poteva vivere con nessuno.

 

Era stanco.

 

Forse aveva sbagliato nel non tornare a Sparta. Lì sarebbe stato messo a morte, e avrebbe potuto finalmente riposare. Finalmente. Senza dover tacere e chinare il capo, senza sforzarsi di obbedire, senza far tacere il suo cuore, senza dover …

 

Pirecrate aveva ragione: come poteva fidarsi di lui? Chi poteva fidarsi di lui?

 

No, non era offeso, arrabbiato, con Pirecrate. Lo amava.

 

Dei, sì, lo amava.

 

Non era colpa di Pirecrate se lui non era in grado di vivere in quel modo, se lui non riusciva a … vivere.

 

Comprendeva Pirecrate, capiva il senso di quella domanda: come poteva non fargliela? Amava Pirecrate e sapeva, con una precisione assoluta, che pure Pirecrate lo amava. Proprio per questo gliel’aveva chiesto. Si poteva amare qualcuno che si fosse macchiato di un crimine simile? E poi aveva preteso fiducia: Pherio dovette ricordarsi che a lui non era *dovuta* alcuna fiducia, anzi. Lui era un barbaro, nel sangue, il figlio di un vile violentatore che s’intrufolava di segreto nei sacri templi per violarne le vergini.

 

Per lui non c’era possibilità alcuna di fiducia.

 

Pesante era il cuore in petto, e sentiva cenere in bocca. Tutto era vuoto e grigio. E tutto il mondo che intorno a lui girava perdeva di colore, di calore. Avrebbe potuto uccidere Pirecrate con quello che si portava dentro: non era degno e il Dimano era troppo …

 

Pherio chiuse le mani nelle mani e si scoprì che non tremava. Strano, si sentiva percorso da infinite scariche di tensione e dolore che facevano contorcere i muscoli e sussultare i nervi. Gli occhi non riuscivano a mettersi a fuoco su nulla, si velavano improvvisamente di lacrime che evaporavano prima di poter essere versate, e così di seguito in lunghi cicli dolorosi.

 

Sofferenza.

 

La sofferenza era oscura e pesante, dentro. Qualcosa con cui non era mai riuscito a scendere a patti, qualcosa che non era mai riuscito a contenere. Era una malattia che era nata con lui, e non poteva liberarsene.

 

Chiuse gli occhi. Nel nulla in cui viveva il suo cuore in un attimo rimbombarono i passi felpati di Leonida che, entrato dalla finestra, gli si stava avvicinando, per accoccolarsi sul suo grembo. Era solo un gatto.

 

Era morbido fra le dita, piacevole.

 

L’unica cosa di bello che sentisse dentro di sé, insieme al vuoto, che non sempre dava dolore, e alla mancanza, che a volte era un bene.

 

Pirecrate non meritava uno come lui. Pirecrate poteva pretendere molto di più. Pirecrate meritava tutto, non un fiore che stava morendo, i petali che cadevano uno per uno, portati via da un vento di morte e sofferenza. Il sentore della decadenza ovunque e tutto ciò che toccava si trasformava in cenere. Non voleva far questo a lui.

 

Pherio si sentiva stanco, stremato.

 

Davvero non c’erano altre spiegazioni: non riusciva a vivere lontano da Sparta. Non poteva vivere senza suo zio che non faceva altro che sputargli addosso, che odiarlo: tramite il suo odio egli si levava in parte di dosso il peso della sua colpa infinita, e grazie a quello riusciva a sopravvivere. Il sangue che suo zio gli cavava dalle vene era un salasso medicinale, lui che aveva un sangue avvelenato: non l’aveva mai saputo eppure, probabilmente, suo zio lo batteva fino a lasciarlo alla soglia della mortesolamente per farlo sopravvivere.

 

Leonida iniziò a fare rumorosamente le fusa.

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“Che vuoi che voglia? Parlare con Dionide!”

 

Astre era seccato e, come sempre quando era in quell’animo, aveva reclinato il capo di lato, assottigliando gli occhi coi polsi sottili ben piantati sui fianchi snelli, fili di capelli che pendevano dalle tempie dorate. Era sublime, era terribile, Astre, nella pacata insofferenza che mostrava, Idrio lo sapeva, lo vedeva. E sapeva che c’era offesa in quegli occhi lucidi come ossidiana stellata, nonostante l’espressione del viso rimanesse enigmatica e morbida, pericolosa e insieme piacente. Un brivido lo percorse, e il desiderio di compiacerlo lo prese con uan forza che raramente aveva provato: Astre era Re, era nato per esserlo e tutto il suo spirito era trapunto da questa consapevolezza, eppure in quell’istante Idrio non poteva che allungare le braccia e proteggere il suo amante.

 

“Sono notti che, per servire te e servirti bene, non chiude occhio! No, non verrà svegliato. Ripassa dopo.”

 

A Persepoli non s’era mai sentita una tale prova d’insolenza nei confronti d’un Re.

 

Un sospiro profondamente adirato che divenne quasi divertito, un sibilo tra i denti e la lingua che schioccava sul palato.

 

“Se non lo vuoi svegliare tu, lo sveglierò io”, e Astre con voce tagliente e penetrante turbò il sole del primo mattino.

 

*Dionide*.

 

Lo disse così intensamente e con una simile freddezza che Idrio avrebbe voluto afferrare le schegge impazzite del suono e imprigionarle nella mano, a costo di vederla trafitta e sanguinante. E forse ci sarebbe riuscito a far tacere il suono, trattenere le parole divenute punte aguzze di freccia avvelenata.

 

Forse.

 

Abbassò la fronte, fissando gli occhi sul volto di lui, turbato e già all’inizio del risveglio. Il mattino fulgente disegnava lunghe ombre sulle loro membra, nonostante molta luce fosse fermata dai drappi pendenti intorno a loro. Dionide sospirò, socchiuse le palpebre con una smorfia. Idrio si alzò per scostare le tende e solo allora notò che assieme ad Astre c’era qualcun altro.

 

Il persiano portò una mano graffiante per scostarsi con attenzione il velo dal volto, per rivelare nella pienezza i suoi lineamenti duri e scaltri, che s’ammorbidirono in una espressione volutamente ipocrita.

 

“Adesso ho la tua attenzione caro Dionide?”

 

L’uomo del deserto si tirò su, forti i muscoli del ventre e teso il viso, i capelli mossi che ricadevano intorno alle spalle, le ginocchia che si piegavano per incontrate i gomiti. La luce rese incandescente il suo sguardo.

 

“Ce l’hai”

 

La voce venne fuori roca, volutamente provocante, e Astre se ne sentì mortalmente infastidito.

 

“Guardalo bene. Lui è il mio generale.”

 

Indicò con un cenno della mano all’uomo al suo fianco. Dionide cercò di distinguerne le fattezze, controluce: era un uomo alto, pareva saldo, ma d’altronde se Astre lo elevava a un simile rango non poteva che essere così. Nulla di eccezionale, ed estremamente seccante. L’occhio del mercante ricadde però sulla straordinaria cintura intorno ai fianchi, da cui pendeva una spada mirabile.. Una testa d’elefante scintillante, simbolo di una quiete possente in grado di trasformarsi in sublime possenza.

 

Un elefante.

 

L’India.

 

Quanti uomini vengono dall’India a servire la Persia?

 

Dionide sentì dentro riemergere, fredda, una fitta: sudore gelido sulla fronte, il respiro rappreso nei polmoni, un velo nero a coprire gli occhi, veleno nel cuore. Non aveva dimenticato, dopo tanti anni…

 

Non aveva dimenticato quella notte di vento, una brezza intensa che spirava dal cuore dell’oasi, che con sé portava i sottilissimi grani rossi attraverso i drappi volteggianti tra le scure assi di legno, con il cielo che si rivelava in piccoli spicchi che tendevano ad allargarsi, come fiori notturni al sorgere della Luna piena, e il sole che rendeva nitidi i contorni anche ai suoi occhi di bambino. Non aveva dimenticato quando sua madre l’aveva condotto nelle stanze di suo fratello, luoghi che conosceva molto bene, perché insieme passavano la maggior parte del giorno. Ricordi aspri, ricordi che avrebbe preferito dimenticare: ma persino mentre dormiva, anzi, soprattutto mentre era rapito nei reami celesti dei prati onorici, qualcosa di quei giorni tornava sempre a tormentarlo, e lui per anni s’era portato dentro il peso insopportabile di memorie odiate. Solo Idrio, dopo anni di acre vergogna e odio, gli aveva restituito la pace, aveva dolcemente fatto affondare nella terra ancora fresca e libera del suo cuore nuovi semi, coi suoi baci, con i suoi sguardi, col suo modo di cantare, di rendere le frasi versi bellissimi, amabili come il vellutato miele.

 

Idrio aveva teso un velo su quella parte del suo passato che con così tanta insistenza gli aveva avvelenato l’anima, eppure certi ricordi non si potevano cancellare, e ora l’amarezza non era tanto trovarsi innanzi a un fratello che lo aveva rinnegato nel modo peggiore, con le menzogne, ma che Astre, pur sapendolo e sapendolo *bene*, gli aveva condotto innanzi agli occhi... no: era nel sentirsi di nuovo rigettato tra fiamme che lo spirito rinnegava, alle pendici di una montagna arida che ora, proprio in quei giorni, non aveva la forza per scalare nuovamente.

 

Idrio gli porse il suo manto blu, Dionide cercò la sua mano sotto la stoffa e gli venne da sorridere: il suo fu un sorriso sofferente, ma la voce fu terribile. Teneva loro le spalle, Idrio affranto era al suo fianco, e li guardava con quell’affetto profondo che gli era solito, a invocare silenziosamente un perdono che però, purtroppo, nessuno avrebbe dato.

 

Perchè nessuno di loro era un uomo pietoso che poteva intenerirsi per un dolore dato e che poteva venire evitato.

 

Perché nessuno era colpevole.

 

“Pare che finalmente hai trovato un braccio destro che reputi degno.”

 

Idrio spostò lo sguardo su Dionide e non potè che stare in silenzio, nell’attesa che tutto finisse. Anche Kamali non accennò una sillaba, un sospiro, né dai suoi occhi si poteva intuire un sentimento più sconvolgente o doloroso agitato nel cuore; nulla: muto rimase, ad osservare, cosciente che, pur toccandolo in una maniera imprevedibile, quel dialogo tra il suo Re e il signore dei tuareg non lo riguardava, per adesso, quando sarebbe stato perfettamente inutile… Cosa inutile? Vanità delle illusioni: molto tempo prima aveva deciso di recidere ogni filo col suo passato.

 

Ma Dionide…

 

Ricordava Kamali una stanza. Un giorno di vento. Le ciglia ancora imbrattate da lacrime versate di nascosto e presto asciugate con un lembo della veste, i propri pochi averi riposti con cura in sacche, pronto per salire sul cavallo assieme a uno zio e ad essere condotto nella reggia di Persepoli. Paura, sì, nelle profondità del petto, smarrimento, l’orrenda e viscida sensazione, insopportabile, di essere trattati come oggetto e merce, come una veste preziosa che suo padre, Kassim, si faceva dare dai mercanti (assieme a molte altre cose) in cambio di un’ora di ristoro.

 

La loro madre aveva accompagnato Dionide per mano fin a quella stanza che presto non sarebbe stata più sua, lui che era il primogenito di Firuzeh, lui che invece avrebbe dovuto avere tutta l’oasi, un giorno. Strappato, portato via, consapevole in maniera lucida e lacerante di doversi comportare bene.

 

Dionide era abituato a venire da lui. Sempre erano stati insieme, sebbene corressero ben tre (o quattro?) anni tra le loro età. Dionide conosceva la via, ma quel giorno la loro madre, quasi volendolo accompagnare verso una via di morte e desolazione, l’aveva guidato. E lì l’aveva lasciato.

 

 

“Non per nulla è un vero primogenito.”

 

Dionide annuì col capo, voltandosi, un sorriso di circostanza che non presentava una minima piega, perfetto e vuoto, elegante senza avere sapore d’ipocrisia, guardando Astre come se fosse trasparente come l’aria e altrettanto inconsistente. Come se il persiano non avesse alcun potere su di lui, come se nulla e nessuno potesse non solo fargli del male ma anche solo impensierirlo. Il manto blu intorno alle spalle gli dava una parvenza di re, perché solo i tuareg conoscevano il segreto di tingere in quella tonalità le vesti: sature come il cielo notturno e illuminate da un bagliore interno che resemblava una Luna timida, eterea e quasi invisibile. I suoi occhi, la sua fronte, la linea del naso e delle labbra rievocavano molto di sua madre, bella anche in quei suoi ultimi giorni che vennero troppo presto, ma le sopracciglia e la maniera d’arricciarsi del mento, i capelli e l’espressione erano del padre. Vigore e autorità di un vero capo.

 

Kamali chinò il capo, lo salutò come ne è degno un guerriero tuareg, come ne è meritevole un Reggente che ama la propria terra e la custodisce con ogni forza e pensiero. Dionide non ricambiò il favore con altrettanta serenità e disponibilità ma ugualmente piegò le spalle davanti ad Astre, prima di scomparire in un’altra stanza.

 

Astre sapeva avrebbe dovuto sentirsi contento, almeno un poco appagato: Dionide non lo mostrava apertamente, ma dentro doveva avere la follia che lo rodeva. Allora perché l’unico impeto che adesso sentiva era quello di corrergli dietro, stringerlo a un muro e conficcargli un pugnale nel petto? Sentir morire tra le sue dita quel cuore, sentirlo proprio, sentire che apparteneva a lui e lui soltanto, almeno nella morte… E velargli quel bellissimo volto di traditore, infedele bugiardo, con la seta più nera e corvina della notte stessa. Come avrebbe potuto tradirlo nella morte? Quale altra maniera esisteva per tener legato a sé..  

 

Impallidì, per mascherare il collasso del sangue dal collo alle tempie si velò nuovamente il volto, tagliente da far male allo sguardo, affermando che si ritirava nelle sue stanze.

 

Il Capitano fece profondissima riverenza, Idrio lo seguì allontanarsi di spalle con occhi preoccupati e pieni d’affetto poiché, percezione di cui non si sapeva spiegare l’origine e il significato, sentiva l’ombra nera che attendeva in un angolo, aspettando il momento propizio per ghermire il persiano. Ma non trovò parole per dire la sua pena, che, poi, sapeva, non sarebbero state ascoltate.

 

Non da Astre, che stava per essere consumato fino all’osso da un odio incomprensibile e vuoto, arrogante e terribile, devastante. Si chiese, Idrio, cos’era rimasto ora di quell’Astre che aveva incontrato in Sparta e seppe che non poteva rispondere.

 

Ma forse non s’era sbagliato del tutto su di lui: Idrio sentiva il dolore di Astre, e sapeva che aveva sempre riconosciuto un uomo dall’animo cattivo da uno che così si comportava solo perchè troppe frustate il destino gli aveva riservato.

 

Astre aveva amato: non poteva essere cattivo un uomo che aveva amato.

 

E Idrio aveva percepito bene la forza del sentimento che il Persiano aveva nutrito, folle, per uno spartano. Ma tutto fra di loro s’era alzato per impedire il fiorire di quel sentimento: e poi lo strappo, la fuga, il tradimento, parole mai dette, gesti mai spiegati, mai tempo a sufficienza, nè desiderio di capire, di darsi un’opportunità di comprendere i veri sentimenti e i motivi di coloro che erano stati attori di quel dramma. Per comprendere il suo proprio dolore.

 

Il dolore era distillato ed era divenuto odio, un odio corrosivo e assoluto che uccideva Astre stesso, insieme a tutto ciò che toccava. I suoi occhi divennero lucidi dalla pena.

 

Idrio abbassò appena il capo di fronte allo sguardo muto e insistente di quel Kamali. Ora l’aveva riconosciuto, sì, quel gentile senza volto che l’aveva sorretto quando il pavimento, per un attimo, gli era parso franasse sotto i suoi piedi.

 

Kamali: gentile, ed elegante. Attraente, sì, ché Idrio aveva occhi per vedere e una sensibilità sottile che sapeva andare oltre all’aspetto fisico. Ma il cuore di Dionide aveva spasmato dal dolore quando l’aveva veduto e lui, piccolo greco perduto lontano dalla sua patria, in piedi fra un Astre colmo di furia e dolore, un Dionide soffocato dal passato e dal rimpianto e un Kamali, immobile e suadente, non doveva neppure chiedersi verso chi avrebbe porto le mani.

 

Ora poteva solo voltare ogni tanto il capo, e pregare per Astre, tra una carezza e l’altra al suo amato Dionide.

 

Kamali, invece... sarebbe stato forse qualcosa, ma un domani, e ora Idrio non riusciva ad arginare la sofferenza del presente, il futuro era per lui troppo lontano.

 

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“Mangia qualcosa, Pirecrate.”

 

“Non ho fame.”

 

“Vuoi qualcosa di caldo?”

 

“No Mecenate.”

 

“Antioco, porta qui nuovi sandali per il nostro ospite, e tutto quel che serve per la colazione. Tu, Pirecrate, sdraiati sul triclinare e dimmi cos’è che ti affligge.”

 

“Pherio.”

 

“Pronunci il suo nome con dolore, figlio di nobile stirpe. Ma, stammi bene attento, ascolterò solo dopo che tu abbia mangiato e bevuto, affinché non si dica che a mia ospitalità sia debole e non accada che tu stia male, nel corpo, per tutto il giorno a causa d’una sofferenza a cui, te lo prometto, stiamo per trovare rimedio.”

 

Gli occhi blu e tempestosi evitarono il suo sguardo, mortalmente messi in imbarazzo, avvolti , come quando era entrato nella sua dimora a chiedere consiglio, da un’indefinibile aura di dolore.

 

“Non ho fatto nulla per meritare tale generosità.”

 

“Troverò il modo di farti ricambiare. Sai, giusto ieri pensavo a una cosa, ma è ancora presto per parlartene, spartano! Piuttosto, adesso, saziati di questo buon succo e di questo buon pane con le olive. La madrepatria è ricca, e ha seminato bene uomini e destini in queste terre prima dimenticate: le sue colonia son rigogliose, colme di eccellenza. Come ti trovi nella nuova dimora?”

 

“Una casa all’altezza di un principe.”

 

“Kakeo sapeva scegliere bene chi aiutare.”

 

“E chi odiare.”

 

La risposta che fu un sussurro dimesso, così poco consono a un uomo com’era Pirecrate fece preoccupare davvero Mecenate, ma non ne fece parola apertamente che, era certo, non sarebbe servito. Non in quel modo.

 

“E se t’odiò, immaginati quanto sia inferocito, adesso, impotente, nell’Ade, a vedere un Dimano che vive sotto uno di quei tetti che gli appartennero! Ah, vedo che sorridi, Pirecrate, e questo mi fa piacere! E’ così raro vedere un sorriso sui vostri volti, ragazzi, quando invece siete nell’età felice. E vedo che mangi: bene anche questo. La festa della vendemmia è una splendida celebrazione, ma lascia le viscere languenti per qualche giorno. Un po’ d’attenzione alimentare basta per risolvere il problema.”

 

“Siete molto gentile, Mecenate.”

 

“Voglio che tu mi consideri come un zio: volli troppo bene al padre per non accogliere il figlio. Ordunque: voglio sentire tutto quello che ti senti di dirmi, e riferiscimi quanto più puoi. Intervenendo, voglio conoscere tutto quel che ci può essere utile.”

 

Pirecrate prese un profondo respiro come chi si stesse preparando per un combattimento. Ma non aveva ancora sollevato lo sguardo sul suo interlocutore: non più una sola traccia di vergogna, ora, ma sofferenza.

 

“Abbiamo litigato. E’ stata colpa mia: Polinice… uno spartano, il capo del gruppo che ci doveva riportare a Sparta, mi ha riferito l’accusa con cui Kakeo era stato messo a morte. E io ho chiesto a Pherio se fosse vero. Non l’avessi mai fatto! E io sapevo che non era vero! Però… avevo paura dei silenzi, di tutti quegli sguardi abbassati, quelle ombre sulla fronte.. avevo paura e non lo comprendevo. Ora ho paura di star perdendolo.“

 

Mecenate fissò il volto contrito e triste, e il suo, di volto, si fece severo, camuffando lo spavento che s’era tramutata in una gioia strana mista a grave pensiero.

 

“Dimano! Che maniera di parlare! Ti rimprovero, sì, perché non è parlar da uomini.“

 

“Ho sbagliato tutto, sin dall’inizio. Pherio ha detto di voler partire.”

 

Mecenate si commosse, ché era impossibile davvero non farlo di fronte a un’espressione così pura di affezione. Ah, Aristide sarebbe stato davvero orgoglioso di quell’uomo che Pirecrate era divenuto! E, di certo, se esisteva un Ade, Kakeo aveva tutti i motivi per essere furibondo: nonostante tutti i suoi sforzi non era riuscito a piegare Pherio, rendendolo storpio nell’animo, strappandogli ogni possibilità d’essere amato, e neppure ad avvolgere il cuore di Pirecrate in eterne spire di risentimento e odio.

 

“Dimano, ascolta: ha detto questo ma, nel suo cuore, non può volerlo. I Panfili son sempre stata gente libera: di stirpe sono testardi e astuti, e Pherio non fa eccezione. Credi davvero che avrebbe diviso con te la casa e gli armenti e le dolci colline innanzi alla spiaggia dorata se non fossi tu colui che gli è più caro al cuore? E’ in grado di vivere da solo. Invece ha voluto, e continua a voler te. Forse se ne è temporaneamente dimenticato.”

 

“Allora non sono importante.”

 

“No: forse lo sei troppo, lui non sa come esprimerlo e, allora, cerca di allontanarti.”

 

“Come dovrei agire, allora?”

 

Mecenate corrugò la fronte: in un attimo dovette decidere cosa dire, o meglio, *quanto*, e come. Le sue labbra assunsero una piega amara: lui aveva giurato e non sarebbe venuto meno alla sua parola, non solo per una sorta di orgoglio nei confronti del proprio onore, no, ma perchè, ora, proteggere quei due ragazzi gli sembrava davvero la cosa più importante che avrebbe mai potuto fare.

 

“Kakeo è stato condannato per incesto, non ti hanno detto il falso. Ha perso la vita, ogni possedimento, ogni onore. Aspasia sapeva, probabilmente, di una villa a Siracusa. Per questo ha chiesto proprio a me di riscattarvi dai fenici. Se foste tornati a Sparta, non ci sarebbe stata soluzione per Pherio: sarebbe stato accusato e messo a morte anche se, da quel che so, su di lui non ci sono che illazioni. Eppure egli è un uomo puro, estremamente retto, glielo si legge negli occhi: so che è innocente quanto lo sai tu. Qualcos’altro doveva covare sotto la brace d’una simile accusa, qualcosa che credo fosse molto più scottante per tutta quanta la gerousia. Sparta, come al solito, non ha voluto rivelare i suoi segreti, ha condannato un empio e ne lascia in libertà un altro, chiunque esso sia, per motivi che non ci sono dati di conoscere ma, così facendo, ha gettato l’infamia su un innocente. Pherio ora deve dimenticare d’essere stato sfiorato da una simile idea infamante, ha bisogno di tempo, Pirecrate, e del tuo affetto e pazienza.”

 

Uno sbuffo, una lunga ruga di preoccupazione sulla fronte scura e virile.

 

“Purtroppo la pazienza non è una mia qualità”.

 

E Mecenate vide davvero l’uomo, adesso palpitare di luce bronzea al di là delle ramature giovanili.

 

“Se un cacciatore scaglia la freccia troppo presto e manca la preda, la battuta fallisce.”

 

“Non sono un arciere”.

 

Forse, ma solo forse, Astre avrebbe fatto meglio, e non avrebbe mai causato un simile disastro: il persiano sapeva bene dove dirigere i propri colpi ma… Il pensiero, orrendo e ripugnante, che qualcuno potesse scagliare un dardo nel petto della volpe bianca e affondarvi la punta sottile nel cuore, e ferirla e farla soffrire in una maniera indegna ed oscena, lo fece tremare e infiammare di rabbia e sofferenza. A sanare i suoi sentimenti intensi ci fu quell’immagine: una volpe bianca. Astuta e sottile, divina abitatrice delle foreste innevate, dagli occhi penetranti e la pelliccia morbida, soffice, e il muso umido, affilato. D’istinto il Dimano si portò una mano su quel ventre che, anche se coperto da strati di stoffe, era segnato indelebilmente da cicatrici antiche. In quell’istante sentì Pherio profondamente dentro, avviluppato intorno e in mezzo all’anima, i loro spiriti intrecciati e oramai indissolubilmente legati.

 

La mancanza del suo compagno accanto lo fece rinsavire.

 

“Credo di aver capito –sussurrò, scandendo nel suo accento strettamente peloponnesiaco le brevi parole- Penso di sapere come fare.”

 

Mecenate annuì sibilando fra i denti un lieve sospiro.

 

“E’ orgoglioso, ma verrà. Come tu sei venuto da me, lui verrà da te perchè ha bisogno di te più di quanto tu possa immaginare. Mi permetto di consigliarti  alcuni giorni di distrazione: la vita deve sembrarvi monotona lì, senza per adesso contatti vivi con Siracusa. Dammi qualche ora per ponderare un paio di dettagli, e nel pomeriggio verrò a farvi visita.”

 

“Siracusa è la tua protetta, Mecenate, e sono onorato della tua amicizia – si alzò in piedi, la veste purpurea balenò intorno al suo corpo come lingue di fiamma viva -  Poiché vieni a farci visita, e poiché mi aiuti, non posso che volerti come ospite a cena, sempre che tu sia d’accordo.”

 

“Sarà un piacere, nobile Dimano. Adesso i doveri mi chiamano, non posso trattenermi con te.”

 

“Ti sarò debitore per tutta la vita.”

 

“Siracusa aveva bisogno di voi, e un giorno chiamerò te e Pherio per servirci. Per adesso pensate a stare bene. Addio e stammi bene.”

 

Lo spartano si inchinò, profondamente riconoscente, e fu evidente che un gesto simile non l’aveva fatto mai in tutta la sua vita come fu evidente che, adesso, lo compiva con tutta la sincerità nelle vene. Mecenate l’osservò allontanarsi nel corridoio, e il volto divenne più cupo col passare degli attimi.

 

Incesto.

 

La parola aveva dunque trovato terreno fertile in cui fiorire. Qualcuno aveva avuto il coraggio di pronunciarla ad alta voce. Il motivo, però, non importava a Mecenate, tanto più di quanto potesse importargli che fine avesse fatto la carcassa insepolta di quell’ignobile di Kakeo.

 

Chiese allo schiavo di portargli altra uva, facendosi aprire i tendaggi che spalancavano il mondo di Siracusa: la cittadella sorgeva su dolci colline, e il sole la coronava di rose dorate e bianche, mentre il cielo si perdeva nell’orizzonte, e il vento caldo muoveva i rami sobri e austeri dell’autunno. In terra era tutto un manto di foglie. Ma Mecenate ebbe poco animo di godere pienamente delle bellezza d’una città modesta, ma ricca e fiorente.

 

Incesto.

 

Ringraziò che i due ragazzi, affidati dal destino alla sua preoccupazione, non avessero compreso del tutto di cosa fosse stato accusato Kakeo. Mecenate temeva seriamente che, se Pherio ora ne fosse venuto a conoscenza, avrebbe posto termine alla sua propria vita senza por tempo in mezzo.

 

Guardò i chicchi rossi, turgidi, passandoseli tra le dita; qualcuno cadde, in terra, silenzioso. Lui fece qualche passo verso il balcone, da cui vide lo spartano camminare in direzione della sua casa.

 

“Antioco!”

 

“Sì, padrone”

 

“Prepara il mio cavallo.”

 

Ma era troppo orribile, quel pensiero: se già l’idea  che lo zio ponesse le mani sul nipote era rivoltante, il resto nessun uomo dotato di sentimenti onesti avrebbe mai potuto supporlo. E di questo Mecenate fu grato agli dei.

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