D’ODIO DI AMORE
___
CAP: 42/?
SERIE: original
AUTORI: Dhely&Kalahari
RATING: Nc-17 fisso (così non sbagliamo!) Angst.
NOTE: un *nuovo* pg che attenta alle coronarie di chiunque lo legga! “Figlio” dell’ispirazione di Kalahari. A lei gloria e merito!
___
Simile a una stella pellegrina incedeva per i corridoi sterminati, venati di nero e cobalto e crema e oro. Il palazzo del Re, il santuario del Dio: c’era la solennità inscritta in quei marmi, un’impronta lasciata da generazioni di sovrani. Tuttavia adesso l’aria era impregnata d’un olezzo fastidioso: gente, mercanti e ricche sanguisughe, andavano e venivano; moltissimi avevano morte e intrigo negli occhi, molti adulazione, alcuni parevano di animo nobile, ma erano codardi e opportunisti. Pochi erano gli uomini col petto ardente e l’ingegno affilato. Pochissimi quelli degni di un rispetto sincero e cordiale, con cui scambiava un vicendevole accenno col capo quando lo incrociavano, raramente perché uomini di siffatta pasta non solevano più camminare liberi per il palazzo, e neppure parlare apertamente.
Lui era fin troppo lucente per quelle ombre fitte, ed esse lo temevano.
Chiare erano le sue vesti, ma non d’un chiaro ordinario: avevano carpito i cromatismi liquidi dell’aurora, del sole che sorge sulle colline, nei templi, al di là dei rami nella giungla, in riflesso a un fiume sacro sgorgato dalle chiome fulve d’un dio invincibile; del sole che fiorisce sull’orizzonte del mare, che esplode tra le nevi ghiacciate del tetto del mondo, sulle nere tegole appuntite e gli stendardi di seta. Scuri erano i suoi capelli, fluenti e profumati da mirra, da essa soggiogati in ciocche che parevano corone di rose, e giocavano con un che di serietà composta fino ai reni circondati da una cinta, impreziosita da intarsi d’argento. Da essa pendeva una spada, di indicibile manifattura, con la testa d’elefante che a orecchie spalancate mugghia; pareva un’arma leggera, eppure nessuno tra quelli che la fissavano, stupiti, avrebbe ardito sguainarla; da essa pendevano nastri viola, ed essi tenevano insieme piccole file di perle. I fianchi di quell’uomo, tuttavia, non erano della gente d’Oriente, assieme alle spalle lo rassomigliavano più alla perfezione greca, ma il colore della pelle, bruno e reso morbido e levigato e profumato da sapienti strofinature e segreti unguenti, indicava un’origine più africana.
Ed in effetti molti popoli gli avevano dato diversi nomi, cosicché sembrava più un dio che cambia abito e si reincarna in Arabia, in Persia, in India, in Tibet e in Cina, un dio che passa per mille vite e da esse coglie i frutti migliori, e attraversa il fiume di un’esistenza lucente e piena di bellezza e verità.
Più un dio che un uomo.
E poi c’erano i suoi occhi. Nessuno aveva visto in un altro volto incastonato il colore di quegli occhi. Il tramonto glielo invidiava, la primissima aurora arrossiva quando, mentre sbocciava, lui già mirava seduto a gambe incrociate il lontano giro del cielo. Sulla fronte, tanto che ricadeva tra le sopracciglia, pendeva una luna crescente al quinto giorno, e ai suoi polsi tintinnavano bracciali d’avorio.
Vestito come un principe, nobile il sangue nelle vene, ma non persiano.
Kamali.
Un nome indiano, nato dal cuore di quel continente gravido di ricchezze e pericoli, di colori, profumi e putrefazione insieme.
Kamali.
Ed egli era bello, e lo sarebbe rimasto fino alla fine di questa vita.
_____
Il cuore batteva d’ansia, veloce, più veloce di come i passi volavano sulla terra che si sgretolava piano, divenendo sabbia sottile e il cielo scurissimo era il presagio lontano d’un’alba limpida.
Pherio non vi fece caso, seguì il ripido sentiero che fiancheggiava la scogliera, incurante che, se avesse messo un piede in fallo avrebbe potuto cadere, ferirsi, magari addirittura spezzarsi l’osso del collo: che problema stupido poteva essere quando doveva affrettarsi per Pirecrate?
Perché Pirecrate era l’unica persona che avesse mai dato un senso alla sua vita, con lui s’era sentito completo, non giudicato, accettato. Se gli fosse successo qualcosa…
La sagoma d’un corpo adagiato sulla sabbia, immobile, il mare si srotolava a pochi passi da lui: gli s’inginocchiò accanto, passandogli una mano fresca sulla fronte. Calda, morbida nelle piccole pieghe tra le sopracciglia un po’ tese. Lasciò andare aria che non sapeva di aver tenuta imprigionata in fondo alla gola, baciò le amate labbra chinandosi su di lui, respirando il suo profumo con tutto il cuore, trattenendo tra le dita adesso salde i lembi del mantello con cui s’era avvolto le membra, quel mantello di lana e lino, caldo, scarlatto, che ripredeva vita e colore mentre esplodeva l’arancio sull’orizzonte. Pianse, fuori di sé, in segreto e silenzio, adagiandoglisi accanto, quanto più stretto poteva, scavando nella sabbia l’impronta del proprio corpo, riprendendo a respirare. Quando gli sfiorò il collo con la tempia, il petto forte modulò un piccolo suono: le palpebre scure si schiusero appena, le braccia sfaldarono il nido di stoffa e assonnato coperse entrambi, di fianco.
Pherio si lasciò abbracciare, stringere, con una forza che diveniva grande tanto più la coscienza tornava; si lasciò conficcare le unghie nella carne sui reni e dietro una spalla, tendendosi come la gazzella che ormai è raggiunta dal suo cacciatore, che inciampa e cade per la forte zampa che la soverchia, ma che, pur con le bianche zanne conficcate nel collo, solleva alti lamenti verso il cielo azzurro. Sconfitto, crollata la muraglia dopo che il generale nemico ha piantato la propria lancia nella feconda e morbida terra al centro del cuore, non sentì più il dolore, ma abbandono, soddisfazione.
Gioia che, versata dall’altro del cielo e sgorgata dalle profondità della caverne sotterranee, lambiva ogni lembo di terreno, entrava nelle spaccature e le sanava, lavando via la polvere estranea del tempo e degli atti crudeli, delle tempeste che avevano inaridito la radice di ciascun germoglio che aveva osato spuntare lì.
Anche per Pirecrate, un tempo lontanissimo, un desiderio che improvviso gli era nato nel cuore, e l’aveva spaventato, e l’aveva reso incapace ormai di pensare e di concentrarsi, attento solo ai rumori del vento e a qualsiasi espressione del sempre accigliato viso bruno. Che era accaduto dopo? Non lo ricordava, né osava volerlo: aveva rimosso ogni istante dell’inferno che l’aveva ghermito e in catene l’aveva tenuto rinchiuso nel buio senza acqua né cibo, col collo morbido legato ad una trave, sicché neanche chiudere gli occhi poteva senza il terrore che la corda si stringesse senza che le mani avessero potuto far qualcosa per allentarla.
Erano i tempi in cui il principe straniero era giunto a Sparta, pieno d’orgoglio e di stizza, con una mente acutissima e pericolosa in grado di minacciare anche gli uomini più forti della loro gerousìa. Un gatto dalla lunga schiena, bello del suo immenso fascino e nel suo fascino terribile. E a lui il compito di seguire ogni suo movimento, di tenerselo sempre dietro e rivelargli il meno possibile di Sparta, o almeno nulla più che egli potesse cogliere col suo solo sguardo.
Era stato occupato in altro, aveva già cancellato e dimenticato, ma quanto meno teneva a guardare Pirecrate, tanto più quel testardo lo sfidava e si parava sulla sua strada. Come se già da allora avessero saputo, come se già da allora non fossero stati capaci, per propria natura, a stare lontani. Non avessero *potuto*. E adesso i loro corpi nudi premevano l’un sull’altro, le loro anime intrecciavano lunghissimi fili gli uni con gli altri: nodi di brace dorata.
Pirecrate prese un profondo respiro, con le labbra che sapevano ancora fortemente di vino.
“Io non ci credo, non ci ho voluto credere, Pherio! Dimmi che non è vero, dimmi che Polinice ha mentito…”
E intanto la sua presa si faceva più calda, più accorata. Pherio cercò i suoi occhi, per indagare in essi e cercare il senso delle sue parole, per fargli sentire che era lì e che l’ascoltava, per dimostrargli che avrebbe risposto. Per confutare qualsiasi menzogna con un sorriso, o per annuire rassegnato a una verità.
Qualsiasi cosa, in coscienza sapeva, gli avrebbe risposto colmo di estrema verità. Ora che si sentiva pronto, e sicuro, ora che con l’alba erano come svaniti i veli scuri che gli avevano ottenebrato l’anima Pherio aveva sperato che la sua notte personale avesse avuto termine. Ora che tutto terminava, ora tutto aveva inizio.
Di nuovo: e solo senza i gravami del passato si poteva costruire una casa che svettasse più alta della dimora degli dei…
Ciò era quello che gli fioriva dentro, in quell’istante, rorido di speranza e d’uno spalancato futuro. Aveva temuto per Pirecrate, per la sua incolumità, e saperlo al sicuro era l’unica cosa che paresse contare in quei momenti.
Come l’olimpico alle gare tende i muscoli e lascia con violenza il giavellotto che fenda l’aria sibilante e densa, ecco così, con lo stesso impeto si schiusero le labbra di Pirecrate.
Non c’era alcuna traccia malevola, né intenzione maligna: solo pura apprensione era dipinta in quel viso stropicciato e sconvolto, sul quale l’oblio aveva lasciato rari segni. Ma Pherio fu colpito a fondo.
La spada dei Dimani, di prezioso e duro ferro non avrebbe potuto allo stesso modo sfondare, in un attacco, tutte le sue difese, divellergli il costato e trapassargli il petto in quel modo.
Neppure la folgore prediletta dal padre degli dei avrebbe potuto strappargli la carne di dosso in quel modo, esponendolo e insieme …
Pherio batté le palpebre proprio in quell’istante in cui la voce di Pirecrate doveva aver raggiunto le sue orecchie. Non udì: non volle udire. Non *potè* udire, né comprendere.
“Non ci ho creduto, e non ci credo, ma Pherio, e tu dimmi, lo voglio sentire dalle tue labbra che non è così! – piegata era la voce di Pirecrate, piagata di pena e preoccupazione e insieme di odio, un furore bruciante, ardente, in grado di render pazzi – Riguardo la condanna di Kakeo? La *colpa*? Davvero fu un uomo tanto infame da macchiarsi di un simile … disgustoso, atroce delitto, Pherio?! Non è vero, non è vero ed io lo so… Ma … ma non ti capisco più. Il tuo dolore è tanto grande che io non lo comprendo. Non mi parli, non mi guardi, non vuoi che io… sia con te. E poi perché, anche ora, distogli gli occhi? Cosa celi che io no posso sapere? Sono il tuo compagno! Io … io t’amo Pherio! Davvero ci fu … incesto …”
La voce sicura, stentorea, che non si piegava mai, ma che scintillava in battaglia più che il bronzo, quel tono sicuro che tonante, aveva fatto capitolare le sue difese, che lo aveva lasciato nudo e inerme di fronte ai suoi propri sentimenti ora si abbassò in un singhiozzo a modulare quella parola che era un marchio, un infamia, un orrore e peggio…
Per quanto potessero essere gretti e meschini gli dei dell’Olimpo, una sola azione avevano in spregio e in orrore: esserne macchiati, anche solo da uno schizzo sfuggito per caso era indegnità perenne, orrore e tormento. Non v’era mai vittima in casi simili: la vittima era associata al carnefice perché qualcuno doveva aver in qualche modo suscitato la lussuria bruciante le carni per spingere un uomo timorato a compiere una blasfemia simile. Perché se il caso aveva fatto unire, col destino, due corpi dello stesso sangue in un legame contrario a qualunque morale, a qualunque legge e giudizio, ebbene: il destino aveva indicato due peccatori, due traditori, due infami che erano bollati dallo spregio perenne. E dove non fossero giunti gli uomini, con le loro leggi, a rendere monda la terra dalla presenza di certe creature, il fato avrebbe comunque portato a termine il suo compito ed avrebbe annientato chi in questo modo era così segnato.
La vittima e il carnefice erano due facce di una stessa moneta che andava gettata nel fuoco purificatore perché fosse fusa e sparsa e annientata e neppure più riplasmata ma gettata in un magma incandescente da cui non c’era più ritorno.
Incesto.
Se suo zio avesse compiuto un simile atto davvero egli non avrebbe mai più avuto il coraggio di mostrare il volto al cielo. Ma se questo fosse stato compiuto *con* lui … gli occhi di Pherio divennero enormi. Grida mute lanciate fin dal profondo della sua anima, del suo cuore. Una deflagrazione troppo potente, un dolore che non aveva fine… un comprendere che uccideva, e lacrime di acido che gli bruciavano le guance, la pelle chiara delle gote, colandogli sul collo, strappandogli brandelli di carne.
Esposto, di nuovo, il costato, scrutato e interrogato… e non creduto.
Tutto si ruppe dentro di lui, tutto crollò al suolo, come mille coppe di cristallo che venissero rese polvere da una mano invisibile ma troppo potente.
Incesto.
Comprendeva Pirecrate cosa stava dicendo? Sarebbe egli stato come … come un panno candido macchiato perennemente di sangue fratricida, uno di quegli oggetti sacri e terribili che potevano venir custoditi solo nei segreti remoti di templi vuoti. Odiato, disprezzato, temuto. Un orrore vivente che neppure la morte aveva voluto reclamare per se.
Avrebbe forse egli potuto custodire per anni, nelle sue carni, un segreto così mostruoso, permettendosi il lusso di vivere tra i suoi simili? Permettendosi di *vivere*?
“Cosa pensi che io sia?!”
Urlò, Pherio, sconvolto, la gola chiusa in una morsa così dolorosa che le parole faticavano a trovare una via nel grumo rovente di carne ch’era divenuto.
“Pherio, non …”
“Tu dici che m’ami ma non *comprendi*! Non sai nulla! NULLA! Di me! – si voltò di scatto, sfuggendo il suo sguardo, ora lui furioso, offeso, distrutto, annientato – Credi che avrei protetto al mia vita se fossi… se fosse accaduta una cosa simile?! Credi che non mi sarei lasciato cadere io stesso, con le mie gambe, dalla rupe più alta per la vergogna e l’orrore? Credi che … - un singhiozzo asciutto, dai denti affilati e terribili gli si conficcò nel fiato – Credi che avrei mai permesso che qualcuno … *tu* mi toccassi se avessi avuto sul corpo i segni di un’ignominia simile? Credi forse che avrei forse potuto fingere e nascondere ciò che non può stare nascosto per una vita intera, e officiare i riti senza che cascassi morto, il cuore strappatomi dal petto da una qualche divinità irata? O forse non mi si sarebbe frantumato da solo in petto per la vergogna e… e lo *schifo*?!”
Silenzio.
Pirecrate annaspò.
“Non ci ho creduto… ma Polinice…”
“Polinice! – aveva gli occhi lucidi, Pherio e Pirecrate sapeva che stava per piangere, ora, come chi ha troppo sopportato, e troppo s’è indurito per poter reggere un altro assalto che credeva, *sapeva* non sarebbe più venuto, ché di lui si fidava, ché sapeva non c’era più alcun nemico, e invece… invece. – Polinice come Astre. Basta dunque una parola di chiunque che mi getti fango addosso e tu ci credi.”
“No! Non Polinice! Pherio, ti prego, fammi spiegare…”
“Non c’è nulla da spiegare, Pirecrate, nulla! Se non avessi creduto non avresti chiesto. Tu, dunque, pensi davvero che io sia un indegno…”
“No!”
“E allora cosa? Cosa c’è che non capisco, dunque? Ogni minimo dubbio che un uomo poco fidato ti sussurra nelle orecchie in te trova così rapido appiglio… e più grande è l’infamia più sei tentato di crederci…”
“Lo *sapevo* che non era vero! Io…”
“Tu mi consideri un indegno! Tu mi consideri uno che possa …dirti quello che ti ha detto nonostante sia sozzo fin nel midollo da una aberrazione simile! Tu credi che io avrei permesso a mio zio di mettermi le mani addosso e poi, dopo, comportarmi come mi comporto con te?! E’ questo che pensi di me?!”
“Pherio…”
“Allora sei tu il mentitore, dei due, Pirecrate! Dici che sei il mio compagno e presti orecchio a qualunque sconcezza! Tu non mi credi!”
“Pherio!”
“Chi credi che io sia?! – ringhiò, Pherio, senza più forze, tradito di nuovo e ancora, caduto nello stesso inganno, ferito nello stesso modo. Ma a fondo, dei, così a fondo… - Dannato, dimmelo! Guardami negli occhi e dimmelo! Se non trovi fiducia per me, allora vattene! Cosa te ne fai di uno come me se mi credi capace di atrocità simili? Cosa *vuoi* da me se mi giudichi così poca cosa da poter … accettare che mio zio …”
Gli mancò la voce proprio quando i termini non sorgevano alla mente per dire ciò che non poteva esser chiamato col suo nome.
Impossibile da spiegare era ciò che era associato alle creature incestuose e Pherio aveva reagito insultato nel suo più profondo della sua purezza: ché lui era sempre stato conscio della sua diversità, del suo essere un mezzo sangue, del suo, dunque, non essere virtuoso quanto gli altri suoi compagni. Ma nonostante le uccisioni, i sotterfugi, il fango in cui era stato obbligato a crescere, aveva speso ogni singolo istante del suo tempo a mantenere e curare una parte infinitesimale di sé stesso, purissima, come un bocciolo candido dai petali tralucenti chiarore, così delicato che non poteva essere esposto se non ai tocchi più lievi, che andava difeso, e protetto: e lì risiedeva tutta la poca purezza di cui disponeva. Ma esisteva. C’era quel nocciolo di pietra preziosa e levigata, lucente e senza macchia: strappargli questo era negare l’unica cosa che di sé stesso avesse intatto. Era rifiutarlo. Era ucciderlo.
Che il suo compagno fosse stato sfiorato dall’idea che lui potesse essere così …intimamente degradato, così senza speranza, così marchiato da un destino avverso che non solo si esplicava attraverso il suo essere palesemente uno straniero ma anche tramite questo buco che gli negava ogni possibilità di essere considerato degno … gli mancò il fiato, per un attimo gli parve di dover morire lì, sul posto, annientato dal troppo dolore, dalla fatica di portare a termine un respiro dietro l’altro.
Pirecrate scattò a sedere, sollevando le mani come per trattenerlo, mentre Pherio, inconsapevole, fuggiva già, allontanandosi piano da quel contatto che ora non sarebbe stato in grado di sopportare.
“Pherio, aspetta!”
Ma Pherio aveva chiuso gli occhi, in piedi, immoto. Immobile come una statua, lo sguardo asciutto, ora, e acuminato di dolore, un dolore senza fondo che si legava a tutto ciò che poteva per rimanere in vita, per non venir spazzato via dalla collera e dalla vergogna che gli spazzavano l’anima.
Non aveva più nulla ora: ora davvero aveva perduto tutto.
Il politico accorto che era parlò in vece sua, una voce sottile ma ferma. Un voce che riempì Pirecrate d’inquietudine, alla quale non riuscì a ribattere.
“Pirecrate, ci avevo pensato, sai? Da un po’: tutto questo ti appartiene almeno tanto quanto appartiene a me. Fu dato in dono a mio zio per qualcosa di cui né tu né i tuoi siete a conoscenza, ma d’altra parte, è giusto che Kakeo risarcisca, almeno dopo la morte, Aristide per tutto quello che gli ha fatto. Ho fatto preparare tutte le carte da settimane, ormai: metà di tutto questo è tuo. Lasciami qualche giorno, e presto sarà *tutto* tuo. Partirò.”
Pirecrate sentì il cuore in gola, dolente.
“E dove andrai?!”
Lo sguardo che ebbe in cambio mai l’aveva visto, e mai neppure avrebbe pensato si potesse donare, uno sguardo simile. Vuoto e dolente. Infinito su un dolore che non era neppure più sofferenza, ma che si mostrava come un buco, un varco sul nulla. E Pherio non era perduto, no: Pherio fissava l’infinito baratro e il vuoto che si spiegava ai suoi piedi con la candida indifferenza di chi abbia realmente perduto tutto. Che non abbia più nulla a cui dire addio.
Si strinse nelle spalle.
“Via. Che importa dove? Da nessuna parte ho una casa, qualunque posto andrà bene.”
“Non lo voglio! – urlò Pirecrate, affondandogli le dita nelle spalle, trattenendolo fisicamente, disperato e affranto mentre sentiva che gli stava sfuggendo via, il suo spirito, come una nebbia densa di perla che gli scivolasse dalle dita – Non voglio *niente*! La terra, le viti, gli olivi… tutto questo non è mio! Non voglio nulla! Tutto questo non è nulla, Pherio! Io voglio te… ti prego, non andare! Non *puoi* andare! Non *devi* andare! Non devi lasciare questo… tutto questo per … per colpa mia. Odiami piuttosto! Odiami! Sono uno sciocco, ma io credevo, te lo giuro, che-”
“Non mi devi spiegazioni, Pirecrate.”
Il Dimano s’infuriò, distillando nella rabbia la sua paura.
“Sì, te le devo! Queste spiegazioni ti spettano, sono tue, lo sai? Sì, come sono tue le mie scuse … anche se sono inutili, e non te ne farai niente. E so che non ti servono e so che non le vuoi ma ti prego, ti prego Pherio! – quegli occhi enormi e limpidi si posarono finalmente su di lui, anche se vuoti, anche se feriti a morte. Pirecrate si sarebbe ucciso con le sue proprie mani per poter metter fine a quel dolore, quella sofferenza che lui aveva incominciato – Ho bisogno di te. Sono un idiota, un indegno, quel che vuoi… ma non andartene. E’ colpa mia, ma per gli dei: ho avuto così paura! Non mi parlavi, eri sempre tanto lontano e io ho temuto …il peggio … oh dei, Pherio! Non so cosa credevo davvero quando ho iniziato a parlarti ma… avevo paura. Paura di … *Ho* paura di perderti. Non voglio perderti, ti prego! Non andare… ovunque tu voglia andare. Oppure portami con te…”
“Lasciami in pace.”
Pherio si voltò e non disse più nulla, scomparendo nella prima luce dell’alba.
_____
La luce si schiantava sul marmo nero, infuocandolo come il mare d’una baia bianca, e dei frammenti che schizzavano, tutt’intorno, l’aria fragrante faceva tizzoni ardenti. Ma le colonne erano troppo alte perché il sole, sebbene basso e carminio sull’orizzonte, potesse illuminarle nella loro magnifica interezza: man mano che svettavano verso il soffitto, tanto in alto che parevano sostenere la volta stellata, solo l’oro dei pesanti cordoni intorno a tende scarlatte baluginava nell’oscurità. Non era ancora il momento di accendere le fiaccole. Di notte pochi uomini camminavano negli interminabili e intricati corridoi; soltanto le sale interne godevano ancora di vita spumeggiante, di banchetti e divertimenti fino all’alba. Tutto era luce come se le stelle venissero catturate e affisse tra colonne e portali, e il cielo stesso, come uno specchio di velluto nero, riflettesse lo spettacolo magnifico.
Non era ancora notte, però lui, fulgida pietra partorita dall’oro fuso del sole, già l’assaporava. La Persia era magnifica: i suoi colori sgargianti gli ricordavano quelli dell’India, e la sua maestosità le corti d’Egitto. Sperava ardentemente che, almeno di notte, il palazzo, gigante assopito, schiudesse un poco le palpebre e rivelasse quella maestà che non poteva risplendere intorno al capo di un impostore. Kamali era preoccupato: tanto lungo il viaggio di ritorno, e soltanto per ritrovare una Persia non molto superiore a una provincetta qualunque.
Così diversa l’aveva trovata. Probabilmente era l’incuria e lo stato in cui la teneva un re incapace, ma molto merito lo avevano i suoi occhi: agli occhi del bambino tutto era stato grande e sconfinato; immense e irremovibili le mura del palazzo; senza termine il librarsi dell’acqua dalle bocche delle fontane, un arco strettissimo contro l’azzurro quasi perenne e un tuffo impetuoso negli specchi, limpidi e screziati dei marmi incesellati sul fondale, ai piedi della statua che l’aveva scagliata. Ma, al di sopra di tutto, la pioggia aveva immortalato una parte della sua anima, per sempre, aveva scolpito nel fondo dei suoi occhi uno sguardo che non era mai riuscito più a togliersi. La prima pioggia della sua vita: temporale notturno, un rollare del vento al di là dei rami nei cortili, un imbrunirsi del cielo interrotto dai lampi dei nembi, un fragore meno assoluto della tempesta che si schianta tra le rocce di Firuzeh e scudiscia i pali e le tende.
Sì, molto era cambiato. Forse se l’era anche aspettato, ma troppo aveva visto e troppo era passato sulla sua pelle perché la delusione per lo stato delle cose fosse qualcosa di più che un fastidio pulsante. Il re lo guardava con diffidenza, se non con astio. Sapeva di non piacere a quei consiglieri vili, che prima o poi avrebbero chiesto la sua testa. Eppure restava a Persepoli. Non era il giuramento fatto a un’età tenera a trattenerlo, no, e neppure il suo saldo disprezzo per gli spergiuri; non era una fedeltà cieca che lo teneva al servizio di uno stolto. Era il Destino, un destino che dentro il suo cuore tesseva la sua via. A volte aveva guardato indietro, nelle notti troppo buie, e aveva cercato in sé qualcosa del suo antico e autentico nome, quello datogli dal padre che l’aveva generato. Aveva trovato solo quel Destino, quel vento implacabile ma fedelissimo e sempre veritiero che indica al tuareg perduto la strada di casa, liddove è deserto e morte.
Non troppi giorni innanzi era giunto, proprio dal cuore del deserto, il Signore dei Tuareg. Kamali lo andava cercando da un’intera giornata, nel palazzo, perché una piccola parte di lui aveva conservato negli anni i ricordi più cari di quel bimbo. E poi si narrava già, trascinando la storia di bocca in bocca, lungo i corridoi tortuosi, che, al suo fianco, andava sempre la sua favorita: splendida perla di chissà che spiaggia ma rara e preziosa, incantevole per chiunque le avesse posato gli occhi addosso.
Ebbene, per la vita di adesso e le reincarnazioni future, Kamali voleva vederla: sapeva che tipi di fiori dai meravigliosi petali serici potessero nascere tra dune e ciottoli assetati di mai vista pioggia. Lo sapeva bene perché aveva visitato, in anni lunghi e distesi, tutti i territori di cui si avesse notizia. Era stato fin a sfiorare i regni del sole nascente, la terra della seta, ove i fiori s’intrecciavano con le foglie lunghe e profumate delle piante di te e incredibili, maestosi animali letali camminavano nel folto di foreste dense di umidori aromatici. Aveva conosciuto uomini vestiti di pelli di bestie feroci, che si pitturavano il volto per sembrare più terrorizzante agli occhi dei propri nemici.
Aveva visitato regni e tirannie, stati e territori vasti quanto mezzo mondo e liberi, ove gli uomini solo osavano avventurarsi di passaggio, rischiando di perdervi non solo la vita ma peggio, la propria anima. Aveva incontrato gente di mille e mille fogge eppure conosceva bene il fascino arcano sprigionato dal cuore della terra rossa senz’acqua che si spandeva ai confini della Persia, su cui un solo uomo dominava, in una città che era un misero accampamento di tende ancorare al suolo da funi e bastoni ma da cui passava ogni ricchezza si volesse soddisfare.
Kamali sapeva che prigione il deserto può divenire: prigione per il cuore e lo spirito fino a che il corpo potrebbe non più voler sapere cosa esiste al di là dell’orizzonte.
Lui era stato fortunato: destinato alle arcane conoscenze del cuore del tempio, era stato richiesto dal Re di Persia come pegno di buona intenzione. E da Persepoli, che all’inizio odiava e temeva, aveva iniziato a vivere.
Il Grande Re aveva ottemperato ai suoi obblighi, aveva fatto di lui uno degli ufficiali di più alto grado degli Immortali, la guardia privata di Sua Maestà, e … e gli aveva fatto conoscere il mondo. Il tempo, gran livellatore, aveva fatto maturare Kamali ed ora aveva occhi ben spalancati su un mondo che sempre meno gli riportava immagini della sua magica terra natia. Ma quello era e rimaneva un mondo che conosceva e amava.
Non era ritornato al regno di suo padre quando ne aveva avuto la possibilità, non vi avrebbe mai più fatto ritorno: a Persepoli esisteva tutto ciò che avrebbe potuto desiderare.
Anche se il vecchio Re era morto improvvisamente, con lui lontano, e il giovane Principe si diceva assassinato dai Greci infami, anche se ora sul trono sedeva non un diretto discendente dell’uomo di fronte al quale lui, per la prima volta nella sua vita, aveva piegato il ginocchio, egli era uno degli Immortali. Lui difendeva il Re, non l’uomo che viveva sotto quella corona, ed era un dovere che portava avanti con un certo divertimento: gli piaceva osservare la situazione, condurre un’esistenza tranquilla, un momento di pausa e pura contemplazione.
Conosceva intrighi e sotterfugi: non lo impensierivano. Anzi erano macchinazioni così elementari da far ridere i bambini. Povera Persia! Conosceva il covo di vipere venefiche che era quel palazzo, non aveva alcuna sorta di timore a camminare per quei corridoi immensi e splendenti di lacche cangianti e statue e drappi preziosi a chiudere le aperture che davano al cielo.
Si era chiesto, quasi annoiato, cosa ci facesse a Persepoli il Signore del deserto, il *giovane* signore, visto che mai né lui, né suo padre prima di lui, erano venuti a rendere omaggio al Re…eppure gli occhi di un Capitano degli Immortali vedevano lontano e a fondo. E soprattutto i suoi sapevano scoprire segreti velati da infinite cortine trapunte di preziosi fili dorati.
A questo pensava, il Nobile Kamali degli Immortali, quando come una nube oscura ma sottile gli incrociò il cammino. Una nebbia grigia e pesante che per un attimo velasse la pallida falce della luna in cielo.
La perla del deserto.
Fanciulla, o donna: Kamali non lo seppe dire. Le sue movenze erano morbide ed eleganti, flessuose. Nascondeva il sorriso, il bel viso dietro a un velo dai colori sgargianti del tramonto che s’annodavano a capelli, d’un nero profondo, venato di sfumature del blu della notte più cupa. Solo gli occhi parlavano e Kamali seppe d’essere prigioniero.
Non vedeva, Kamali, nulla, non poteva. Ma gli occhi: quegli occhi! Oh dei! Che occhi erano mai, quelli che brillavano in quel modo come lucidi ciottoli d’ossidiana, grigi e preziosi e pesanti, oppure come ferro brunito, tagliente e letale?
Occhi da ermafrodito: amore, bellezza, attrazione e insieme intelligenza sconfinata, pericolo.
No, non era essa una persona qualsiasi. Come Dionide aveva potuto aver scelto di porsi al fianco una creatura simile? Pareva bellissima come le serpi del deserto, e altrettanto velenosa.
Il pericolo glielo si poteva respirare addosso, sulla pelle, bastava guardare le sue mani, come si muovevano rapide a solcare l’aria nelle piccole movenze che l’accompagnavano, bastava intuire il suo passo scaltro, attento a non mettersi mai troppo in luce lungo quei corridoi che erano trappole infide anche per chi sapeva bene dove posare i piedi.
Non erano gli abiti impeccabili, i gioielli preziosi e d’una foggia così inusuale e ricercatissimi a lasciarlo senza fiato. Non era neppure solo la bellezza che da quelle stoffe si effondeva letale, come una malia a cui nessuno riusciva a resistere.
Erano quegli occhi: schegge d’ematite: forti, nobili, alteri, arroganti. Bellissimi. Occhi degni d’essere adorati. Occhi di chi è risoluto alla battaglia.
Occhi di Re.
Kamali stupì se stesso a quel pensiero, ma non poté impedirsi di pensarlo.
Ebbe così inizio: occhi negli occhi.
Il grigio lucido e infinito delle notte scure e insieme, piene di stelle che si riflettano in una polla profonda di acqua immota e le sue iridi aliene, color del fiore della pervinca rampicante, il cuore di un’ametista spaccata da un fulmine divino. L’ematite divenne liquida, più lucida, ferro fuso, e scivolò verso di lui. Il cristallo viola rimase intrappolato nella montatura scintillante che qualcuno aveva intessuto per lui, in quel preciso istante.
Kamali riconobbe il suo Re.
Il Re riconobbe il suo Generale.
___