DI ODIO DI AMORE
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CAP: 41/?
SERIE: original
AUTORI: Dhely&Kalahari
PAIRING: Pirecrate+Pherio (anche se si marca aria di crisi); Dionide+Idrio
RATING: NC-17, angst -un sacco di angst-.
NOTE: le solite degli ultimi 40 capitoli!
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Qualcosa era cambiato.
Mutato.
Forse per sempre?
Pherio non lo sapeva, in tutta coscienza non sapeva come rispondere, e cosa, soprattutto. Era solo stanchezza, o ad essa somigliava, era una spossatezza profonda che gli trafiggeva il cuore, e l’anima. Era sentir le membra grevi già la mattina quando era da levarsi, era la difficoltà di parlare, di rivolgersi alle proprie occupazioni, organizzare, preparare. Era quello stano fastidio nel vedere Pirecrate, nel sentirlo chiacchierare leggero, nell’intenderlo occuparsi di tutto, di mille cose che non riusciva a non trovare, tutte, stupide e vuote.
Non era qualcosa che avesse un senso ma era difficile anche tirare un respiro dopo l’altro e guardare Pirecrate, come un folle, disperdere la propria energia in azioni senza un vero significato lo irritava più di quanto nulla l’avesse mai irritato.
Avrebbe voluto, Pherio, poter chiudere gli occhi. Chiudersi in una stanza, ovunque, e dormire. Dormire davvero però, non come capitava ogni notte, ormai, che non era altro ormai che un lungo susseguirsi di attimi inquieti in cui non riusciva a riposare.
Dormire sì, dormire davvero: un sonno profondo e senza sogni, un sonno lunghissimo… un sonno forse da cui non avrebbe mai domandato di risvegliarsi. Abbeverarsi alle acque del Lete e poi giacere lì, nel nulla.
Alcuni credevano che spesso, dopo un periodo più o meno lungo, le anime dimentiche del proprio passato, nella morte, chiedessero la possibilità di reincarnarsi. Pherio sapeva che, se così fosse stato, a lui questa tentazione non sarebbe mai venuta.
No: mai.
Ma morire. Perché simili pensieri? Perché proprio ora, che aveva tutto ciò che avrebbe mai potuto desiderare? Ora che aveva l’amore, ora che… ora che sulla sua vita sentiva splendere il sole, ampio e tiepido, ora voleva solo ombra, Pherio, e dormire, riposare, come se la sua anima fosse esausta, troppo stanca per reggere ancora la felicità.
O solo la vita.
Era solamente la tensione, accumulatasi troppo greve e troppo rapida, si diceva come una litania: era troppo preoccupato per la festa della vendemmia. Era tutto così nuovo per lui, e poi Pirecrate: sembrava un fanciullo a cui avessero appena regalato un mondo nuovo in cui scorrazzare libero come un cavallino brado. Pirecrate era sempre stato confusione e agitazione, Pirecrate era sempre stato vita libera e fluente, spumeggiante e impetuosa… era questo che l’aveva legato a lui, era questo suo essere sempre, assolutamente se stesso in qualunque frangente, in qualunque istante, fosse di avversità o di serenità.
E dunque se Pherio, alla sua vita, non poteva chiedere nulla di meglio, se Pirecrate si dimostrava in ogni istante sempre più l’uomo che amava, la sua doveva essere solo una preoccupazione di fronte a un incarico per il quale nessuno l’avrebbe giudicato, al contrario di come era sempre accaduto nella sua vita precedente.
Ora era libero: ed esserlo era terrorizzante, dava le vertigini e intimoriva e … no, non era solo quello. Ma non trovava un nome a quello che sentiva, al fremito che gli azzannava il costato, al sudario greve che gli agghindava l’anima e al suo cuore che pesante gli batteva in petto, senza fremiti, senza alcun desiderio, come se tutto fosse secco, come se tutto fosse inutile e sfocato.
Pherio si strinse appena nelle spalle: aveva freddo, ma era un freddo che nasceva dalle ossa, da dentro, e che pareva in grado di riuscire a ghiacciare anche il mondo che veniva in contatto con lui.
Poteva essere solamente stanchezza.
Non *doveva* essere altro ché non avrebbe potuto permetterselo. Che non se lo sarebbe permesso. Ora che aveva tutto: come poteva gettar via ogni cosa?
Eppure.
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Eppure doveva essere da qualche parte.
Ovunque il cielo palpitava come margherite al vento estivo, e fin’alla volta dalla Luna argent’ammantata saliva l’odore del vino, fiume d’ambrosia alle ritmate e musiche bacchiche, alle risate, alla fatica intera d’un giorno, che al calar della notte non termine aveva, ché sacro quello era lavoro, e terminato esser doveva senza pausa concedersi. E tutta Siracusa ballava, era desta, e, cantando senza sosta, lavorava.
La terra singhiozzante pativa unisoni colpi, e impetuosi, dei piedi, ovunque fremevano le foglie sugli alberi di rame e di rubini al fragore delle voci che fendevano l’aria un unico grido forgiando, il corto respiro scandendo affannato, potente, dei petti. Ovunque un sollevarsi pesante, appresso a movenze frementi, di quei brandelli di veste dal vino non bagnati, e dal sudore; il rosso e l’arancio sul rosa infocato delle guance e sull’ardore degli occhi. Ovunque sulla terra bruna il susseguirsi di orme da piedi tonanti scavate, indurite dal forte nettare cavato via ai chicchi di fiamma al canto di antiche canzoni. E il fuoco ardeva da far impallidire la Luna.
L’aria, essa stessa, era pregna di cose così tante, di così tante sensazioni e infuocate immagini, che da rider veniva e cantare e ballare anche solo ad esserne sfiorati.
Pirecrate sentiva il cuore in petto. Lo sentiva ora come mai, come se intorno fosse circondato da nemici ghignanti e terribili, scintillanti nel bronzo e piumati nelle creste dei loro elmi, stretta nella dita una spada grondante di sangue. Erano uomini, ma per lui erano demoni che facevano rumore: un suono tanto dolce, tanto amabile, come quello del corteo bacchico, alle sue orecchie era improvvisamente divenuto sgraziato e insopportabile, minaccioso, non appena s’era accorto che Pherio non c’era. Che Pherio mancava da un po’.
Non ci poteva essere gioia, né festa, se Pherio non c’era, se non c’era chi era caro al cuore e all’anima, chi dava un senso a tutta quella follia.
I suoi piedi avrebbero preferito muoversi danzando fino a esser tramutati in gesso dalla fatica piuttosto che rimanere lì immobile, a guardarsi intorno, solcando la folla, teso e sperduto. Ma il suo compagno non era lì.
Non lì.
Dove?
Tirò indietro, secco, i ricci selvaggi che in lunghe onde corpose pesavano sul petto ansante, con labbra dischiuse recuperò il respiro e con iridi lucide si guardò intorno: perché non tornava?
L’immagine di un’altra festa, antica e sfumata da mille altre sensazioni più intense e preziose che l’avevano seguita: Firuzeh e le sue diverse assonanze, le braccia, il danzare, gli occhi di Astre, e il volteggiare dei mille veli leggeri sotto il cielo del deserto. Nel cuore s’aggrumò il sangue in uno scavo profondo, e si ordinò di distogliere i pensieri da una memoria tanto nefasta e funesta. S’obbligò a scacciarlo dalla mente, stringendo le palpebre, indifeso.
Questa volta l’aveva osservato allontanarsi, ma aveva creduto stesse andando a sciacquarsi il viso sudato dopo un intero pomeriggio a gareggiare, loro due, per chi riuscisse a cavar via dai rami più grappoli con la piccola falce lucente. Sfida! La più amabile contesa che il suo spirito avesse mai intrapreso, l’affanno più dolcemente viscerale che aveva dominato le ali del tempo e del mondo: mentre il loro spirito gareggiava al massimo delle possibilità, le loro anime intrecciando le dita si prendevano per mano, e i loro occhi si cercavano e rincorrevano, sfuggivano, schivi, per orgoglio e pudore. Per felicità. Non c’era mai stato, nella sua vita, vento più bello, tramonto più pago, profumi più penetranti, respiro più amato. Era sembrato che ne andasse della loro stessa vita, anche se non era null’altro che un gioco di cui nessuno dei due aveva dato voce alle regole.
Un gioco che si costruivano insieme, perché vicini erano i loro cuori e quando si sfioravano, essi si riconoscevano.
Parità, alla fine, e sotto le sopracciglia chiare s’era accesa una luce intensa, ma opaca, e sulle labbra s’era accennato un sorriso, ma pallido. Fosse stata sufficienza, fosse stata insoddisfazione, Pirecrate l’avrebbe compresa, anche se non avrebbe avuto senso, ora, sentirsi umiliati da un pareggio tra loro.
Invece.. un velo.
Un’espressione impossibile, sottilissima, debole, un abbassarsi appena della fronte come se all’improvviso la mente fosse stata ripresa, sgridato il cuore d’aver dimenticato qualcosa di fondamentale e di aver osato gioire... dopo di ciò s’era rifiutato con molta veemenza di andare a danzare con lui sull’uva da spremere.
Pirecrate s’allontanò in un silenzio mortale dai frastuoni della festa, sui passi della loro dimora, tra le mani il proprio mantello, sulle guance il soffio d’un vento all’improvviso gelido. Persino i servi non erano in casa, e tra le mura riecheggiavano i suoi passi, sul pavimento rimanevano dipinte le orme di fango speziato dal vino rosso, mentre i flauti echeggiavano nella vallata. Non aprì bocca, non lo chiamò, entrò nel salone e, come aveva pensato, era lì, accanto al fuoco domestico, seduto su vimini e cuscini.
Grano, grano maturo erano i capelli che ricadevano su una tempia, ma gli occhi che sapeva chiarissimi erano nascosti dalle ombre partorite dalle fulgide braci che, ormai, avevano consunto tutto il legno e morivano nel braciere. Qualcosa di terribile, come un artiglio che ghermiva direttamente il suo costato lo scosse, e Pirecrate sentì un brivido colargli dentro l’anima: prese con una mano un’altra sedia, piano, facendo per accostarsi a lui, quando Pherio disse parole che affondarono, frecce scagliate dall’alto d’una torre fin nel nocciolo del suo petto.
“Lasciami solo.”
Non ti voglio qui.
Non ora.
Forse mai più.
Forse qui non ci dovevamo essere… *io* non dovevo esserci.
Non al tuo fianco.
…
Non rispose, non poté. Ad attenuare il silenzio attonito ci fu solo il miagolio di Leonida che gorgheggiava accarezzato, in grembo, da quelle mani chiare e gentili, ad occhi chiusi e zampine molleggianti. Pirecrate rimise la sedia dove l’aveva trovata, chiedendosi quale fosse, in quell’istante, il luogo cui Pherio apparteneva, dove aveva senso, allora, che rivolgesse i propri passi.
Ovunque tranne che lì. Lì che era la sua, la *loro* casa, la loro dimora. Il focolare domestico stava morendo, e con esso lo spirito della famiglia che essi erano: e questa era una maledizione che Pirecrate non credeva sarebbe riuscito a reggere. Allontanato di nuovo dal calore, privato del senso d’appartenenza: in solitudine. Al freddo.
Di nuovo. E non ricordava gli avesse mai fatto tanta paura.
E Pherio lontano che gli voltava le spalle avvolgendosi in espressioni così austere che facevano presagire l’avvicinarsi d’una tragedia.
Pirecrate tremò di fronte a quel pensiero, lui che mai aveva tremato di fronte a uomini o dei.
Uscì all’aperto, dove l’aria entrava gelida nei polmoni e dava la netta impressione di essere ancora in vita.
Si mise il mantello sulle spalle, si recò alle botti dove avevano provvisoriamente deposto i fiumi di vino, e non si diede la pena di contare i calici che ne bevve: lo fece sentir meglio, lo fece venir meno.
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Una civetta singultò alla finestra, funesto lamento di morte.
Pherio sollevò appena la fronte, fissando lo sguardo verso il cielo ancora oscuro, cercando di distinguere tra i ciuffi neri di pino le forme dell’animale sciagurato, di cogliere l’oro freddo degli occhi rotondi per ordinarle di andarsene di lì. Come osava! Un’ombra di rabbia gli salì dal petto, una scossa di luce tra caverne di ghiaccio rovente, ma non ebbe forza se non per digrignare appena i denti.
Esausto, il capo ricadde indietro, un cuscino gli avvolse pronto la nuca, un sospiro uscì dalle labbra fredde. Cantasse pure, cantasse fino all’arrivo dell’alba il suo annuncio di sventura: un sudario avrebbero messo sulla sua fronte, un sottile velo nero, e finalmente non ci sarebbe stata più la prigionia dell’esistenza. Cantasse la civetta, e portasse quel che prometteva, finalmente!
Non era morire sullo scudo, non era morire velati del proprio sangue, con il polso che, fermo, trattiene l’elsa, pronto ad affondare la punta rossa nel petto di chi avrebbe voluto spogliarlo delle armi; non era morire rapiti dal cielo, l’anima che, come ad alcuni sacerdotesse e sacerdoti baciati dagli dei capitava, abbandonava il corpo che s’accascia di lato senza un singhiozzo; non era morire col capo sul guanciale di chi si ama, coi capelli bianchi sparsi sulle fronte.
Ma meritava forse altro?
Ricordava bene il suo passato: lui fanciullo e suo zio che lo batteva per ogni respiro in più che rubava al mondo; suo zio che, con costanza e pazienza, aveva fatto in modo di scavargli nelle carni e nell’anima il ricordo di ciò che era, che se poteva vivere era solo una grazia che poteva essere revocata in ogni istante, che nulla era per lui, né la felicità, né il futuro. Si ricordava di se stesso, fanciullo, la pelle non più bianca ma violacea e rubina all’alba, alla Pista d’addestramento, con tutti gli altri ragazzi che lo fissavano con sufficienza e gli adulti che distoglievano gli occhi: aveva imparato più tardi che i padri avevano il diritto di battere i figli ma nessuno poteva mai infliggere pene così severe. Se lui fosse stato davvero figlio di Sparta, suo zio sarebbe stato accusato e processato perché il futuro della città andava plasmato ma non ucciso di botte.
Ma lui non era figlio di Sparta. Lui era uno scherzo del destino, un qualcosa che non aveva valore. Non gli era consentito avere una famiglia perché il suo sangue corrotto non si poteva eternare, non poteva avere una casa… non gli era consentito nulla, se non obbedire. Obbedire solo e sempre doveva.
Ora tutto era svanito: non aveva più nulla a cui obbedire: forse l’uccello portatore di sventura era l’ultimo messo che la sua esistenza avrebbe mai ricevuto. Solo la morte era ciò che spettava a uno come lui, e allora: che la morte venisse. Anche indegna, anche solitaria.
Come uno straccio gettato di lato dalla vita: era quello che gli competeva, era tutto ciò che era per lui. Non aveva altro, non l’aveva mai avuto. Il resto era solo menzogna e sogno, desiderio: e suo zio aveva ragione a sforzarsi d’insegnargli che lui *non* poteva sognare, non poteva desiderare perché nulla era per lui. Lui non poteva. Lui non doveva. Aveva vissuto le sue settimane di follie, in cui aveva quasi creduto che il mondo potesse capovolgersi, che si potesse diventar uomini e liberi solo perché si aveva denaro sufficiente per comprarsi un titolo, come se tutto quello non fosse una questione di sangue e di destino.
Ora il sogno era finito, e non riusciva a trovar la forza di aprire gli occhi ed accettarlo degnamente che faceva male anche il solo sfiorarlo con la mente: e se avesse perduto anche quel poco di dignità che gli era rimasto avrebbe pianto d’amarezza e dolore.
Parole e discorsi, sogni sognati e condivisi: in quello e per quello aveva vissuto negli ultimi periodi ma innanzi all’ora estrema, a cosa valgono le promesse e le parole umane? Noi che siamo soltanto il soffio di un istante? Cosa valeva quel che diceva Pirecrate, cosa valeva il sentimento adamantino che li teneva uniti e inseparabili, alfine?
Il sentimento era nulla, era un qualcosa di frangibile, di inutile quasi. Gli dei, dei sentimenti degli uomini non se ne facevano nulla, che non erano quelli doni degni da presentare poiché essi erano solo la fragile ancora di umani sciocchi e fatui, incapaci di accettare il proprio destino. Coi piedi sull’abisso, con gli occhi eternamente fissi su un punto che non si vede, solo: che ne era adesso di quel tempo passato insieme?
Eppure quello era tutto ciò che non gli permetteva d’affondare il capo nelle nere acque stigee, e lasciare che la tenebra ricoprisse per sempre il suo sguardo; era ciò che gli lasciava calore nel petto, ciò che faceva schiudere la bocca trepidante e lo teneva legato al mondo: tutto il resto era pietra e cenere, tutto il resto era una enorme sala opaca, di cui soffitto pavimento e pareti non ci sono e si perdono nel buio infinito, riempita di momenti tristi, indistinguibili; tutto il resto non era più nulla, anche se un tempo l’aveva lacerato, anche se un tempo aveva sofferto pene atroci in notti in cui neppure Artemide è mai generosa abbastanza da rischiarare la terra, e non c’era stato giorno abbastanza cocente da imprimere sulle pelle liscia, bianca, vergine, un minimo segno in grado di fargli dimenticare la scottatura sul cuore.
Ora che l’animale notturno suonava la sua triste preghiera, ora che neanche la brace restava del fuoco domestico, ora che ogni cosa era silenzio e tenebra, Pherio sentiva il proprio respiro, sentiva proprio quel cuore proprio che stonava nel petto, incerto ma denso, come la superficie del mare, e s’abbandonò al suo scorrere. Morivano pensieri, morivano sentimenti. Pace. Quando fu pronto, le onde marine si raccolsero in un nocciolo sempre più caldo, più rovente, fino a che l’acqua divenne fuoco.
Pirecrate.
Singhiozzò, battendo con una tempia sul vimini non coperto dal cuscino. Una spada a doppio taglio entrava e usciva dall’anima. Scattò in piedi, inciampò sul mantello, si guardò intorno come se egli fosse lì, come se non l’avesse mai cacciato.
Come aveva potuto? Che aveva fatto? Non doveva allontanarlo! Non poteva! Pirecrate era lì, con lui, al suo fianco che doveva stare, che *voleva*!
Aveva chiesto al Dimano, mesi prima di andarsene, di lasciare l’ilota al suo destino, di non esser tanto folle di voler legare il suo proprio fulgido fato a quello di uno schiavo, ma egli non aveva ubbidito, ed era rimasto lì, l’aveva fra le braccia e l’aveva protetto, l’aveva tenuto insieme e aveva cercato di farlo anche quando la sua stessa anima si stava sfaldando. Ora il suo posto era lì.
Lì con lui.
E lui l’aveva scacciato. Era stato così … stupido …
La civetta cantava, e se non fosse stato per lui? Lui che adesso sentiva ogni fibra delle membra, sentiva ogni lembo d’anima gemere per un dolore che aveva rotto l’argine, e adesso si versava copioso come il sangue dal femore, per un dolore umano, che faceva arrossare la fronte e inumidire gli occhi, tremare le mani?
E se fosse accaduto qualcosa a Pirecrate?
O se Pirecrate avesse deciso di compiere qualcosa di sciocco?
Pherio iniziò a correre sulle piastrelle di cotto, poi sui ciuffi d’erba smeraldi, senza curarsi di portarsi un mantello o un lembo di stoffa per proteggersi dal freddo della notte, su sentieri oscuri, non illuminati da lampade e neppure dalla Luna nascosta da una nube di piombo.
Solo quando la sua ombra fu nuovamente distinguibile giunse alla festa, dove ancora si ballava e si cantava. Chiese e chiese, col collo che riprendeva fiato così magro e tornito da parere quello d’una gazzella, gli occhi e le ciglia liquidi e caldi piegati dalla preoccupazione finché una ragazza gli domandò cosa stesse facendo, lei che aveva i capelli legati sotto le orecchie, lunghi e neri, gli occhi nocciola e le guance rosse, ma non per la danza, e un manto che si stringeva intorno alle spalle, lo sguardo di chi era appena tornato alla festa e già tenta di riallacciarsi dopo aver perso qualche passaggio. Lei gli disse che Pirecrate era sulla spiaggia, un po’ lontano di lì e che no, non stava male, dormiva beato ma aveva bevuto. Lo seguì con lo sguardo mentre s’allontanava, senza aver aggiunto una parola, tenendo aggrottate le sopracciglia.
“Melania tutto apposto?”
“Credo di avere combinato un guaio, Teodora.”
“Cosa?”
“Dopo, dopo!”
“Ah! Non vale. La sottoscritta non ti tiene mai sulle spine! Ma non mi dire: Anfitene?”
“Sht, arriva Leandro!”
“Ragazze cosa fate lì! Venite, le donne stan tirando fuori i dolci di miele!”
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Era librarsi in cielo sulle cristalline dita dell’aurora. Sentirsi avvolto di pace, nell’intimo completo e pieno: felice. Vedere i colori ad occhi chiusi, camminare tra le valli del mondo: loro due sdraiati in un talamo di dei; ai propri piedi le foglie e i fiori dei cinque eoni, finalmente e di già riuniti nell’eternità, abbracciati e non più divisibili.
Era già un assaggio più che dolce del paradiso.
Un giardino sospeso nel cielo, le acque che lo circondavano e le stelle che formavano scie luminose ove poggiare i piedi. Dionide l’aveva condotto sin lì, una notte lontana, e ai cancelli più remoti di un mondo divino si erano fermati a contemplarne una bellezza che tuttavia non potevano ancora godere. E nulla poteva essere coparato a quel luogo, se non l’abbraccio di Dionide.
Idrio schiuse le palpebre. Sotto la guancia, il petto nudo di Dionide; intorno ai fianchi, le sue braccia nobili; tra le dita, i suoi capelli scuri. Così vicini che sentiva il suo cuore, il respiro sfiorargli la nuca.
Ogni sorriso nasceva per la luce nel suo sguardo, per ogni frase gentile. Come si poteva amare tanto? Avrebbe voluto destarlo e insieme lasciarsi sollevare dal vento e dal fuoco, con le vesti intorno i loro corpi come le foglie d’alloro e di vite, investite dall’arcobaleno e dalla fresca rugiada. Avrebbe voluto poter cantare l’oceano sconfinato di emozioni che gli scaldavano il petto, eternare un istante tanto felice, che tanto significava per lui.
Dionide. Voleva pronunciare il suo nome, infondere in esso l’amore e la felicità; forse se l’avesse fatto, frenare il pianto sarebbe stato più semplice, e le lacrime si sarebbero tenute nascoste. Al pensiero che quello Sposo non sarebbe più stato più accanto a lui, la terra si lacerava e il cielo si faceva buio, il sole una luna pallida e sanguigna, funesta, la luna un bottone di vetro, tanto fragile che invocarla l’avrebbe infranta per sempre. Il paradiso era ancora molto, molto remoto.
Dionide.
Tremò, represse un singhiozzo: così no, non ce la faceva a pensare di poterlo lasciare, non adesso, non così, che lo teneva stretto. Eppure era adesso che avrebbe dovuto tener ferme le intenzioni, inattaccabile la volontà: quando gli avrebbe detto che lo lasciava, il suo signore non avrebbe risparmiato nessuna via per opporsi, e il solo pensiero di dover resistere a quegli assalti gli fermava il fiato in gola. Avesse potuto dirglielo subito, quanto meno sarebbe stato male! E se soltanto fosse stato come diceva Astre! Quanto sarebbe stato meno doloroso!
Fosse stato meno forte il sentimento che li teneva legati per la vita.
Un movimento, languido, d’un felino che agita la coda e scuote il capo, che fu assecondato dal corpo snello di Idrio, che gli si tolse da sopra. Le labbra calde calarono sul suo orecchio, domandarono che non andasse. Poiché lui non poteva rispondere, Dionide preferiva che la via di comunicazione tra loro due fossero i gesti e gli occhi. E allora il loro mondo si faceva un altro mondo, cera scolpita a caldo da elementi sempre nuovi, morbida e flessibile, incomprensibile da qualsiasi profano.
Un giardino sacro, a suo modo eterno, i cui cancelli erano chiusi e in cui scorrevano fiumi di latte. Con le sue spine tra le rose bellissime, aghi nascosti in cui spesso incappavano loro stessi. Ma nessuno poteva toglierlo a loro! A loro apparteneva. Solo questo importava! Il tempo divorava e si avviluppava su se stesso, ma il loro presente era una cosa sacra e ogni respiro diveniva intenso come la forza d’un abbraccio. Adesso che sapeva avrebbe dovuto affrontare la lontananza fisica dal suo Sposo, proprio l’idea di questa morte gli rendeva i momenti di vita, come quello di ora, ancora più preziosi ed intensi.
Si lasciò sovrastare, sorridendo all’ardore del suo sguardo, cingendogli il collo con le braccia, schiudendo le labbra ai suoi baci.
Una voce al di là della tenda, che custodiva labilmente la loro stanza, si intromise.
“Dopo!”
“Dionide è urgente!”
Gli occhi di Dionide si fecero ghiaccio spaccato, adagiato su un cuore pulsante di magma rovente. La fronte ricadde sul cuscino, guancia a guancia con Idrio che continuava a stringergli le spalle, ma già cercava il suo volto con le mani per farlo andare al suo dovere. L’uomo del deserto sussurrò piano la promessa di tornare presto, anche se entrambi sapevano che non sarebbe dipeso da lui. Ora che il silenzio mortale correva tra loro, che sul filo del coltello tentavano di tenersi uniti nel cuore, ogni separazione era dolorosa e amara. Come se un giorno di quelli, molto, troppo presto, lasciandosi le mani, credendo di rivedersi presto, invece sarebbero stati destinati a non rivedersi più. Dionide s’alzò, velocemente si tolse le vesti notturne, morbide e semitrasparenti intorno al suo corpo ben fatto, e si vestì per giorno. Per ultimo si pose intorno alle tempie un lungo drappo, imprigionando quei capelli bellissimi sotto una coltre spessa di blu.
Una mano fu sollevata, da essa scivolò via una manica ricamata, ricadendo sul gomito. Un sorriso mite sulle labbra silenziose, una timida richiesta di un ultimo abbraccio. Dentro, nascosto, un disperato bisogno di sentirsi chiamare un’ultima volta. Sul palmo chiaro calarono i polpastrelli del suo signore, sulla sua bocca quella del suo signore, intorno alle spalle le braccia del suo signore. Egli, labbra sulle labbra, sorrise quanto più dolcemente poteva, ma nel suo sguardo volarono saettanti tanti pensieri, e sul viso ricadde l’ombra. Su quello splendido viso ridente, la luce s’affievolì, come una spada spezzata da una pietra troppo dura e aguzza.
S’alzò e se ne andò.
Idrio si sentì il cuore trafitto dalle schegge impazzite di quella luce violata. Ombra, oscura ombra, e sangue copioso come linfa colante da tronco d’ulivo trafitto da scure impietosa. Tentò di reggere il contraccolpo, ma non appena si guardò intorno, ritrovandosi solo al centro d’un mondo troppo grande, di un mondo che tutta una vita d’impegno non sarebbe bastata a far suo, si sentì girare la testa. Ricadde sul lenzuolo, come morto, lo spirito posseduto da demoni implacabili, simili a gorgo o tempesta che mugghiano un grande grido al cielo levando. Non ci sarebbe stata risposta. Né lui la voleva, perché sapeva che non c’era una spiegazione a tutto quello, perché il sentiero in se stesso doveva comunque portare da qualche parte. Come esser stato strappato alla Grecia gli aveva dato Dionide, adesso essere sradicato da Dionide avrebbe portato qualcos’altro.
Come gli veniva dato, gli veniva tolto. Tutto qui. Tremò, dentro e fuori, versando lacrime e singhiozzi, affondando il volto nel materasso, le unghie nei palmi.
Ogni fiato di stoffa che gli scivolava indosso gli faceva nascere dentro un brivido di arido gelo che gli graffiava l’anima. Astre impallidiva ad ogni istante, ogni delicata piega che ne sottolineava il corpo, ogni impalpabile traccia di colore che ne mutava l’incarnato, che rendeva incredibilmente lucidi i suoi occhi e morbidamente rosee le sue labbra perfette.
Labbra che non si sarebbero vedute, nascoste dietro la seta traslucida, trattenuta su una tempia da un grande spillone lucente, prezioso e ricercato, argento e oro che si intrecciavano a una rarissima perla scura, lucida d’ematite, e mille schegge di luce, quarzi e pietre nobili che inondavano di colori quel viso celato dietro il velo fine che metteva in mostra i lineamenti impeccabili di quel volto che poteva essere scolpito nel marmo tanto erano perfetti.
Solo gli occhi si mostravano al cielo, sottolineati da bistro denso sulle palpebre, alla moda d’Egitto, e nella loro liquida, insaziabile mobilità mostravano tanto, forse troppo dello spirito del loro possessore.
Ma Astre, nonostante la finezza delle vesti, la ricercatezze estrema dei gioielli, la preziosità di ogni oggetto che avesse addosso, aveva l’aspetto d’una semplice donna: la più nobile e preferita concubina del Signore del Deserto, ecco come avrebbe messo piede, dopo anni, per la prima volta, nel palazzo reale di Persepoli.
Ben nascosto da quell’immagine illusoria, stava il Re. Il Persiano che con un gesto rapido avrebbe potuto affondare un pugnale affilatissimo nel petto di qualsiasi uomo, una mossa ingannevole e mortale, ficcando gli occhi feroci e oscuri nel volto sgomento. Un coltello che giaceva, accucciato come il ghepardo al meriggio, di essere impugnato e liberato, rivelato all’aria della notte con un semplice colpo di polso, sfoderato dal grappoletto di perle bianche sul fermaglio, fodero inatteso.
Lui, Astre, Re di Persia, erede di un regno che sarebbe stato il più grande e fulgente che mai sotto quel cielo si sarebbe visto uguale… agghindato come una concubina, come la favorita di quell’infido traditore di Dionide!
Tutto, da giorni, stava provando, quel maledetto, per renderlo succube, per coprirlo di ridicolo e infamia, per piegarlo, per … oh ma non sarebbe servito! Non avrebbe, con così poco, potuto legarlo a lui per sempre, non sarebbe mai stato un burattino fra le sue mani! Astre fremeva di sdegno e di furia ma ben poco era quello che ora potesse fare: poteva sopportare una situazione simile se in quel modo fosse potuto entrate finalmente nel *suo* palazzo, dove, sapeva, l’attendevano uomini realmente fedeli o, almeno, facilmente comprabili ai suoi scopi.
Ritrovato che avesse le leve di comando, avrebbe fato scontare a Dionide ogni singolo respiro singhiozzato nella gola. L’avrebbe fatto a pezzi, lentamente, nell’anima … perché su se stesso aveva imparato che solo ciò che affondava, come un coltello di ghiaccio avvelenato nel cuore, era ciò che poteva uccidere davvero. Era l’unica cosa che avesse mai avuto il potere di ferirlo: un paio di occhi limpidi come il cielo di primavera e chiari, per tutti gli dei, così chiari e belli e impossibili, in cui era scritto un ‘no’ perenne e insieme un chiarore così puro che sapeva affondare direttamente nella carne e squarciare fino ad arrivare dentro, dove mai nessun pugnale sarebbe potuto giungere.
Un pugnale bellissimo, lui che era Astre, lui che era Principe, lui che era nobile, ed esperto di mille inganni era stato tradito da cosa non sapeva neppure lui.
Chiuse gli occhi, Astre, drappeggiandosi le vesti intorno al corpo con perizia ed attenzione. Il passato era doloroso da affrontare senza odio, senza che il freddo della vendetta cauterizzasse le ferite, rendesse anestetizzato il vuoto.
S’era fidato, per lui s’era acceso d’una tiepida simpatia, di Pirecrate, che gli aveva portato via la stella che, per la prima volta nella sua vita, gl’aveva illuminato l’esistenza.
S’era fidato da sempre di Dionide, lui così onesto, lui così aperto, e luminoso e ridente. Con lui e per lui s’erano schiuse le sue labbra nobili mille e mille volte. E Dionide gl’aveva strappato il cuore nel petto, l’aveva calpestato e probabilmente ora era serenamente compiaciuto del dolore che era riuscito a infliggergli.
Il motivo di tutto quello non lo trovava e non lo cercava neppure: che gli importava? Nulla davvero. Avrebbe architettato la sua vendetta ma ora doveva puntare ad un obiettivo che gli fosse più accosto, e insieme, più vitale.
Rientrare nel suo Palazzo era il primo passo da compiere per ritornare in possesso di ciò che i traditori gli avevano strappato: come se una corona che, con l’inganno, fosse posata sulle tempie indegne bastasse, da sola, a donare la regalità. Lui era Re, e la sua stella sarebbe tornata ad essere luminosa ed unica, dopo aver scalzato dal trono l’erba grama che l’aveva soffocato.
Astre sapeva essere forte.
Astre era nobile sovrano e con il corretto, grave atteggiamento, avrebbe ripreso possesso di ciò che era suo.
Una sola cosa nella sua vita aveva perduto e mai più, aveva giurato, sarebbe accaduto.
Pensò all’oro di quei capelli fra i quali mai più avrebbe potuto passare le mani e sentì una fitta al cuore. Ma cancellò il dolore, ché esso non aveva più senso. Cancellò ogni cosa, perché la malinconia poteva essere una debolezza e ora lui non poteva concedersi di essere fragile.
Presto sarebbe divenuto Re: sarebbe divenuto Dio. E un dio non aveva debolezze. Non aveva rimpianti.
Il passato era una stele funeraria che gli giaceva nel petto, in un campo arso, che era stato verde e fiorito come il più bel prato. Lui stesso era arso e desertico.
La mente era ciò che guidava la sua esistenza, ché la sua mente era l’unica parte di sé rimasta intatta e forte. Adamantina.
Sorrise acre, Astre, i suoi occhi brillavano ora come schegge di pietre lucidate a specchio che sapevano uccidere, che potevano annientare un’anima con un solo sguardo.
Avrebbe sopportato d’abbigliarsi come una femmina, mostrandosi come una schiava, come una concubina. Avrebbe potuto sopportare ogni cosa, ora che il suo cuore era stato strappato e fatto a brandelli.
Presto sarebbe divenuto dio, e presto tutto il dolore passato non avrebbe più avuto alcuna importanza. Non avrebbe più avuto peso. Semplicemente sarebbe stato come se non avesse mai provato nulla del genere.
Sorrise, di nuovo, Astre, ma il sorriso scemò, divenne lontano, e doloroso. Venato d’una sofferenza che non poteva trovare parole per essere detto. Ma neppure quello aveva una qualche importanza.
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