DI ODIO DI AMORE
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CAP: 40/?
AUTORI: Dhely&Kalahari
SERIE: original
PAIRING: Pirecrate+Pherio; Dionide+Idrio
RATING: NC-17
NOTE: nulla che non sappiate già
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Dionide era intelligente, una delle menti più promettenti nelle tribù del deserto.
Eccelleva in ogni campo: matematica, geometria, astronomia, medicina;
aveva mani tanto pure, consacrate per nascita, che poteva poggiarle sulla
pietra sacra senza che la pelle ardesse e si consumasse; aveva occhi, neri e
penetranti, che facilmente coglievano pensieri e intenzioni. Gli uomini
più grandi lo amavano, vedevano in lui quella ricchezza d'animo che era in buona
parte difettata a suo padre, quella capacità di comprendere e di sedurre con
uno sguardo, di volere e di ottenere.
Oh se lo amavano. Aveva avuto sin da bambino quei modi suadenti, quella loquela
nobile e quella sincerità che da animi retti e onesti non poteva non essere
apprezzata, lodata intimamente. Era cresciuto sicuro, perfettamente ubbidiente
alla volontà degli anziani e di Kassim, col cuore
tutto volto ai datteri e all'arte del guerrieri del
deserto, con quella goccia di superficialità che speziava
la coppa ricolma della sua profondità. Così era stato la
grazia delle oasi, la palma di cui andare fieri ed orgogliosi.
Ma poi, da un regno lontano, era giunto quell'Astre.
Un principe di stirpe orientale, con l'anima del cobra reale,
che avevano tollerato tra le loro tende per quattro mesi ogni due anni, allorché
nell'anno di mezzo c'erano i mesi in cui era il loro giovane signore ad essere
ospitato a Persepoli. Dionide, il loro
amatissimo bocciolo, iniziò ad essere strano: c'erano stati mutamenti avvenuti
da un giorno all'altro, altri eran stati lunghi. Apparvero
improvvisamente i primi sguardi da Sfinge e, quel che era ancora più
impressionante, per quanto fossero intelligenti e
mirate le punizioni di Kassim, di volta in volta quando
Dionide tornava dalla capitale persiana era meno docile. E' pericoloso far
maturare un uomo lontano da casa, dove il suo carattere
può assorbire deliberatamente elementi nocivi al suo ruolo e alla sua felicità.
Accadeva invece, e nessuno di loro poteva contravvenire alla volontà d'un re che aveva disposizione sulla floridità
dei loro commerci, e che già s'era preso un gioiello di vitale importanza per
l'oasi. Tutti temevano che il ratto del primogenito da parte del padre, sarebbe
stato superato da quello del figlio, Astre, che già legava a sé e al proprio
mondo il diletto secondogenito di Kassim, la gioia
dei loro occhi.
Inquieto, Kaju-Naama, l'unico ad avere intima
confidenza con Kassim, s'era recato dall'amico un
giorno. Innanzi al tè bollente, rosso e denso come il sangue, rarissimo, del
mezzogiorno, si erano immersi in una discussione su quel figlio: di notte non
dormiva, si faceva più astuto ad evitare rimproveri e sempre più arduo da
decifrare, sempre più lontano da loro e da Firuzeh. Quando il principe se ne andava, lasciando l'orizzonte, per giorni Dionide
sprofondava in un torpore che quasi pareva volontario, di sogni e di immagini,
senza che ci fosse un modo definitivo per allontanargli l'angoscia dal cuore. Che correva, oltretutto, molto più in profondità di quel che sembrasse.
La loro preoccupazione cresceva quanto più Dionide diventava grande e, prematuramente,
indipendente non dai loro consigli e dalla loro saggezza, di cui invece
rimaneva sempre in intelligente e aperto ascolto, bensì sciolto dall'autorità
delle loro figure come padri nella sua vita intima. Obbligare i cardini
dei suoi cancelli, però, avrebbe significato distruggere la sua sicurezza di uomo, e avrebbe portato più danno che soluzione.
Kassim aveva scosso il capo, e insieme erano giunti alla conclusione che forse una somiglianza con
gli stranieri, un'amicizia così profonda col futuro sovrano sarebbero potute
giovare a Firuzeh, compensando l'ibridità di quel
carattere impuro. Naama, che non era
il padre e poteva parlare con tanta arditezza chiese, come se stesse pensando
ad alta voce, se questo avrebbe segnato la sua infelicità: i desideri suoi
volavano ben oltre il mondo di cui sarebbe stato il signore.
Kassim aveva ribattuto, secco, che il sangue non era
acqua, che prima o poi i difetti di un secondogenito sarebbero venuti fuori, e
che Dionide sarebbe comunque sopravvissuto. Tutto era, fuorché debole e, alla
fin fine, sarebbe stato un reggente mediocre, in grado se non di accrescere la
prosperità di Firuzeh, almeno di conservarla molto bene e di consegnarla, un
giorno, a un vero primogenito. E
poi con quel femmineo principe, forse qualcosa di buono sarebbe anche potuto
venire. Gli anziani della tribù sarebbero stati lì, e Dionide li avrebbe sempre
ascoltati, si sarebbe consigliato con chi aveva più esperienza e aveva visto e
udito più cose. Per fortuna, non era uno
sciocco.
Tuttavia, l'amore e l'affetto per il giovane signore non era
diminuito. Anzi: diveniva affascinante, galante senza perdere la schiettezza, estremamente decoroso in pubblico e bello, splendido, e
cosciente di esserlo sempre ordinato e preciso, sempre più acuto.
L'infelicità tuttavia, dormiva accanto a lui sul guanciale e sul cuore gli gravava
senza sosta. Aveva preso a cambiare amanti su amanti, a provare tutti i tipi di
vino e tutti i nettari e, in Persia, chissà quale altro vizio. Suo padre, per
farlo rimanere coi piedi in terra, gli aveva affidato
mano mano vari compiti, e tutti li portava a termine.
Anche i lavori che più richiedevano tempo e pazienza, li
sbrigava in fretta e non c'era difetto che potesse costargli rimprovero.
Pareva posseduto da uno spirito maligno: divorava il tempo e riusciva a
dominare gli animi; sfruttava la sua intelligenza intuitiva negli affari che Kassim gli metteva tra le mani, e come una tigre
inesorabilmente strappava al contendente la carne che più gli aggradava, e
quanta più ne poteva. Senza violenza lui, col sorriso, con gli occhi abissali e
il collo
tornito sotto i capelli corvini.
Schiacciava la nuca dei nemici sotto il tallone, estirpava l'erba malsana con
una fermezza che metteva paura, e allo stesso tempo sapeva ponderare con mente
lucidissima le situazioni, lasciando correre quando abbisognava. Era oscuro,
indecifrabile. Diveniva potente e conosciuto, una forza innominabile ed
indomabile. Dava una sicurezza vastissima agli uomini e alle donne della sua
oasi, ma qualche anziano, e Kassim in prima fila,
iniziava a preoccuparsi molto seriamente della situazione.
Chi crea, può anche distruggere e la volontà di Dionide
sembrava una trottola a vento impazzita da una tempesta infinita.
Fino a che un giorno, con gli occhi d'agnello, belli e puri, del tutto simili a
quelli della sua prima giovinezza, era venuto dal padre e gli aveva chiesto
umilmente, con mezza voce, di far suo uno schiavo.
Chi? Ah, quel musico che portò il mercante fenicio mesi fa. Ma
è ancora vivo? Era mezzo morto quando è arrivato. Perchè
lui? Un musico?
Sì!
Bravo?
Sì!
Lo guardò, successivamente, quello schiavo,
domandandosi in cuore quale mistero dovesse contenere quella creatura per fare quell'effetto su un Dionide che oramai reputavano perduto.
Un greco. Né eccezionalmente bello, a parte per la linea e il colore degli
occhi; né nobile; né scintillante d'un fascino simile a quello del persiano e
anzi, pareva molto austero, retto, testardo a mantenere un contegno che ormai
la sua condizione di schiavo avrebbe dovuto cancellare da
tempo. Era un fico molto giovane, duro e aspro, che non si morde con piacere e trasporto, non morbido e non dolcissimo
tra le labbra. Eppure quel giorno Dionide domandò che fosse
suo, affinché lo deliziasse col suono della sua voce, affinché ne potesse
predisporre ad ogni ora del giorno senza dover attendere che adempisse a
qualche altro compito.
Passarono i mesi, veloci, e anche la scomparsa nel nulla di Astre
parve gravare un po' meno nel cuore di Dionide. Aveva riacquistato una certa pacatezza,
una calma colma di gioia, e il demone sembrava essersi dileguato nel nulla. In
realtà si era ritirato nel cuore del giovane signore, aveva perso quei terreni
fertili che aveva trasformato in sentieri di magma. Dopo l'eruzione di fuoco
come di miele continuo dall'alveare, sole e luna erano
tornati ad alternarsi nel cielo.
Kassim era invecchiato all'improvviso, e nel giro di
poco, troppo poco, era morto.
Così dolce e bello era lo sguardo dello straniero, anche lui così amabile, così
affabile e gentile, volenteroso e rispettoso, e così felice era lo sguardo di
Dionide, che ben presto i lacci del divieto si fecero più lenti, e la sua
presenza diveniva abitudine.
Il Greco aveva riportato la pace su uno spirito inquieto, era significato l'alba
dopo una notte lunghissima e oscura. Tuttavia, c'era qualcosa di inquietante che vibrava nel petto dei tuareg ogni volta
che coglievano, e raramente accadeva, uno sguardo scambiato tra i due. Non
sapevano quanto fosse stretto il nodo che li teneva
insieme. Se ne fossero stati consapevoli forse la loro paura sarebbe stata più grande della fiducia che avevano nel loro
giovane signore.
Erravano?
Naama guardò il cielo stellato, seduto a gambe
incrociate sul tetto squadrato della piccola casa. L'aria era
molto fresca, le stelle scintillavano come lucciole, belle e maestose.
S'alzò un vento improvviso, un vento che cambiava senza posa direzione. L'anziano
uomo chiuse gli occhi, ascoltandolo: sussurrò, a lungo.
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Il pensiero volava spesso, in quei giorni di clausura nella piccola stanzetta,
al misterioso signore che alle terme gli aveva porto il braccio e l'aveva
risollevato, asciugando le sue lacrime infantili. E
arrossiva, sempre, volendo ma non potendo cacciare il ricordo, per essersi
comportato in una maniera tanto ignominiosa per un uomo, per non essere forte abbastanza
da lottare contro il dolore. Adesso la caviglia stava meglio, anche se ogni
tanto lanciava qualche piccolo sussulto. Le vesti che gli erano state
generosamente donate giacevano raggomitolate in un
angolo lontano dagli occhi della gente, affinché nessuno gli facesse domande al
riguardo.
Con lo sguardo a volte si coglieva a cercare quel punto, e accarezzava col cuore doni tanto preziosi e cari.
Oh! ma quel suo cuore si accendeva di un pacato calore
al pensiero che forse sarebbero stati prestiti una volta che il Caso li avesse
fatti reincontrare. Dentro sentiva la nettissima
certezza che sarebbe accaduto e in un tempo non lontano.
Ma intanto gravavano sul suo capo pesanti compiti, e
nel petto affondavano profonde le grinfie della tristezza. Per le parole di Astre, per la lontananza forzata tra lui e Dionide.
Eppure qualcosa gli sussurrava che forse era un bene, e che forse non respirare
la sua stessa aria gli avrebbe reso le cose più chiare l'avrebbe aiutato a
riacquistare quella fermezza mentale di cui tanto adesso aveva bisogno. E magari anche un po' di pace nel cuore, quella forza che
non lo aveva mai abbandonato nella sua vita, quella schiettezza sgorgata dalla limpidezza
della sua intuizione.
Quant'era ormai? Anni, Astre aveva proprio ragione, e
molte cose erano cambiate. Piano piano erano affondate nel corpo e nell'anima in una maniera tale
che adesso lo spaventava, che si scopriva terribilmente sofferente quando
Dionide non era accanto a lui, che si scopriva distante quando lo aveva
vicino.
Perché?!
Lo amava, dei se lo amava! Per il suo affetto sopportava
di esser lasciato ad un pozzo, sotto il sole cocente a
far la fila, mentre altri sostavano e chiacchieravano all'ombra! Per il suo
amore tollerava il pensiero di.. Oh, no, follia! Folle
folle insano! Innamorato! Sentiva la voce di Astre, sottile e sussurrata, appena al lato del viso e
quel sorriso acre e doloroso lo sentiva e capiva, sapeva che c'era ragione
in quei discorsi anche se lo impaurivano: che pensi forse, forse che egli t'amerebbe
ancora così tanto se potesse conoscere ora i tuoi pensieri?
Che per tutta la vita saresti disposto a non rivendicare la libertà che è tua,
pur di non essere allontanato da lui! Che pur di poter fare del tuo petto un
guanciale per i suoi riccioli spumati di balsamo, la notte, saresti
disposto, pallido per l'insonnia ma con le guance arrossate dal calore del sangue,
a vegliare ore in attesa che torni dal letto di sua moglie! Che
dignità c'era in questo?
Nessuna.
Stava diventando pazzo, come pazzo era Astre, si sentiva braccato da fiamme contrastanti,
ardeva consumandosi pian piano, temendo di morire sotto quei colpi mortali e
piangendo nell'intimo nella paura di non poter vedere il suo volto ancora una
volta! Com'era bello il suo Dionide, come, ai suoi occhi, lo sarebbe rimasto
per sempre, anche se il sole prematuramente segnava il viso di quella stirpe di uomini, anche se i suoi capelli scuri un giorno sarebbero
divenuti castani, e poi bianchi! Com'era bello il suo volto, quanto care le sue
mani, quanto desiderati i suoi baci, quanto familiare il suo corpo, quanto
splendente il suo sorriso!
Ma lui era soltanto uno schiavo. Uno schiavo non merita un simile signore. Tuttavia,
per potergli stare vicino, solo uno schiavo poteva essere né, oltre a quella
del suicidio, v'era altra alternativa. E se proprio un
giorno quel pugnale affilato se lo sarebbe immerso nelle
carni sanguinanti, allora sarebbe stato quando Dionide avrebbe smesso di
guardarlo e amarlo: che quelle palpebre potessero versare lacrime, che quell'anima sublime potesse soffrire, questo pensiero era
peggio della stessa morte e, cosa vergognosa, valeva molto di più del
ripristino della sua dignità di uomo.
Phèu phèu, povero cuore.
Phèu phèu.
Non ce la faceva, no, questo sentimento era troppo più grande di lui, e tanto
più impossibile da reggere nel cuore di quella notte scura che troppo aveva
portato. Troppo perché lui solo, ora, potesse reggere.
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La luce del primo giorno, infine, giunse. Essa entrava così nella stanza come
in un diamante, fendendo retta e accecante, fredda, l'aria volteggiante di
pulviscolo. L'alba arrossava quel che era pallido e smorto, ma tanto erano
scarlatti i drappi persiani nelle case, che pareva
esser piovuta sulla terra pioggia di sangue vischioso. L'animo greco
rabbrividì, nonostante tutt'intorno fosse un calore
opprimente, colto in un momento così fragile e delicato come quello del
risveglio: quali sogni l'avevano riempito mentre era stata immerso
profondamente nel buio? Non ricordava immagini, suono, cose; solo totale ombra,
pesante, e dubbi. Paura. Di ombra
leggera un angolo un'attesa senza emozioni né pensieri d'una luce nuova.
Aveva indugiato ad aprire le palpebre. Quell'istante
era eterno, sospeso, non avrebbe mai osato profanarne
la sacralità: era il suo futuro che vedeva? Era questo allora il suo destino?
Questa la sorte? Ne soffriva.
Già ne soffriva, come se tutto fosse già deciso, come se il destino gli si fosse
mostrato come un giudice implacabile che l'avrebbe piegato al suo volere, a
qualunque costo. Idrio però poteva parere dolce e fragile, ma il suo animo era
cristallo puro e sapeva cosa andava fatto anche se non c'era nessuno ad
obbligare i suoi passi.
Ma, ora, tra le braccia, con le membra tiepide aderenti a quelle sue calde sotto
ben due coperte pesanti, si apriva la sua strada.
Astre.
Ed essa era così chiara e limpida, da non parer quasi reale, bensì frutto dell'immaginazione;
era così assurda, che all'intelletto era follia.
Egli respirava piano, così lentamente da voler come assorbire attimi di pace in
cui il soffio vitale arrivava ai polmoni senza dover combattere con una gola
contratta, in cui il cuore non collassava con due o
tre colpi angosciosi, per poi rallentare e rallentare ancora, fino a che
toccare la pelle significava lasciare bianchi segni che il sangue non sanava
per lunghi interminabili secondi. Idrio aprì gli occhi, per vedere se fosse
vero sul serio tutto ciò che sentiva, tutto ciò che sapeva. Guardò Astre: la
luce colpendo le ciglia nere ombreggiava le guance pallidissime, i capelli stancamente
si poggiavano sul cuscino, sulla pelle, le labbra non avevano la forza di
tenersi chiuse.
Gli abbracciò il capo, massimamente curante di non
svegliarlo: folle! Astre era folle, indubitabilmente, e per amore! Questo era
il prezzo che aveva dovuto pagare, quel povero cuore, così alto? Il giorno che
aveva voluto avere al suo fianco le due vite più care, aveva invece intaccato
la propria: dì funesto. Cuore, padrone crudele, padrone intrattabile! Così a
fondo Astre aveva amato e, dunque, ecco la manifestazione di quell'agonia, la concretizzazione
della maledizione che scoteva petto, che avvelenava e offuscava la mente. Come
non piangere con lui? Come trattenere quelle lacrime che Astre non era capace di versare?
Entrambi pazzi, entrambi invischiati in reti profonde e acuminate che l'amore
aveva teso per catturarli e ucciderli: ora si trovavano soli, l'uno di fronte
all'altro, e ciò che pareva distinguerli era solo il modo in cui ognuno di loro
si poteva di fronte al male. Entrambi… uguali, in un certo senso, e vicini,
dunque, e null'altro trovava aver senso nel marasma che quella notte aveva
partorito.
Le lacrime potevano lavare le ferite dell'animo, potevano aiutare a che si cicatrizzassero prima. Le sue magari sarebbero
potute servire al Re come unguento dolente, visto che da sé non sarebbe
più stato in grado di procurarsele … giovane, disperato Astre, il cui cuore
stracciato aveva perso ogni possibilità di tenerlo in vita: come abbandonarlo?
Idrio ricordava quelle parole con cui il persiano avrebbe voluto ferirlo, e sarebbe
stato capace di riscriverle senza sbagliarne una. Ma quell'abbraccio, quella forza disperata con cui aveva stretto Astre
mentre era caduto in ginocchio, con l'unico pensiero che stesse per morire e
che non sarebbe sopravvissuto aveva reso tutto diverso. Egli voleva ferire
Idrio, ma, invece le sue parole erano una lama che il Re puntava contro se
stesso, e senza pietà affondava. Il suo cuore non aveva resistito e cedendo le
ginocchia e le membra s'era accasciato come una
bambola senza vita, gli occhi lucidi e spalancati, come quelli di una bambola
di cera che si liquefaceva lentamente...
Conosceva quel dolore, Idrio. Avrebbe potuto prendere il re per mano, ed accompagnarlo
lungo le tortuose strade che portavano all'Ade.
Avrebbe potuto sì, ché Idrio conosceva come andavan mossi quei passi e Astre. Astre non si sarebbe
opposto a quello.
E invece eccoli lì entrambi! Avrebbe voluto
destarlo per dirgli che era ancora in vita, per fargli vedere che ancora poteva
guardare il mondo dei vivi, e che se ancora si poteva
aprire gli occhi su di un'alba, allora c'era ancora la possibilità di vivere. Ed era infinitamente dolce sentirsi in quella maniera… a
casa.
Ché Astre era a casa propria ora.
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Doleva il petto, ma ancor più doleva il cuore: quel cuore che non era organo di
carne e sangue, ma ricettacolo invisibile delle passioni umane.
'Distingui ciò che è reale da ciò che non lo è': il dio così a lui s'era rivolto.
E lui, maestro d'inganni, era stato ingannato. Maestro
nell'incantare e trarre a sé era stato incantato e poi gettato di lato. Sfuggito
come fosse un lebbroso e non innalzato come la
divinità che in lui risiedeva meritava.
Doleva sì il costato e il freddo ghermiva da ogni dove. Sperava, Astre, che quello
fosse solo un incubo ma sentiva bocconi di carne
rimaner ghiacciati al tocco di pensieri
alieni che non potevano essere suoi, spiriti malefici che gli si rivoltavano
contro e che attaccavano per spogliarlo di ogni
dignità e potenza.
Distinguere il reale dal falso, dalla menzogna. Conosceva Astre il sapore, il
suono, la consistenza d'una menzogna. Lo conosceva
perché con la menzogna era sopravvissuto per anni in luoghi in cui l'unico
desiderio di molti era quello di farlo a pezzi: non ucciderlo ma distruggerlo,
piegarlo. Lui era Re e il Re non era stato piegato. Perché lui era Dio.
Non era stato sconfitto, non poteva essere sconfitto.
Ma come nelle più amare leggende, quel cuore che rendeva vive e rosee le carni
degli uomini, battendo addosso a polmoni dal respiro tagliente e freddo, li aveva accesi di fiamme tremende; il sangue s'era mutato in
densa lava che, al gelo del diniego, s'era freddata ed era divenuta dura come
acciaio. Non aveva fodero, ovunque fosse posata distruggeva, e da niente poteva
essere distrutta. Forse il tempo l'avrebbe resa meno mortale, e più lenta
nell'affondare, più terrificante nello strazio d'una agonia
più lancinante. Non aveva potuto immergerla tra le costole dei suoi nemici, ed essa
era affondata invece nel *suo* costato, strappando e trafiggendo: tranciando
ogni possibilità di rivedere la luce della vita.
Lui stesso era caduto nella trappola a lungo tesa per catturare altre prede, afferrato
nel profondo. Lui che voleva prendere al laccio la nobile bestia che, sinuosa e
nobile gli girava intorno senza mai solo avvicinarsi d'un
passo, per anni l'aveva blandita, l'aveva convinta ad avvicinarsi, con bocconi
prelibati e carezze, ecco che, d'un tratto lui stesso, il Re, il cacciatore era
stato preso dalla rete che gli occhi della tigre dorata aveva teso, nel buio
della notte per lui. Ed aveva gioito durante quella
caduta, sì, che quella bestia indomabile e forte, impossibile e unica ora
sarebbe sempre stata legata a lui, e lui a lei, per sempre.
Ma qualcuno gliel'aveva strappata.
Quell'amore che non poteva provare, lui che era Re,
per una bestia mezzo sangue, gli era stato strappato dalle dita, dal costato. E
non avevano avuto il coraggio di assassinarlo, quel sentimento, come se
volessero condannarlo a un sempre peggiore tormento. e tormento era stato: tormento incredibile, infinito.
E ora: tradito dal più fidato, dall'unico fidato.
Voltava gli occhi intorno, occhi che facevano male come se fossero stati strappati
con le dita. Nel buio completo e assoluto. Era cieco. Non c'era più nulla nel
suo mondo. Però…
O sì, si ricordò che qualcosa restava. La mente fissò lo sguardo verso quella
luminescenza opaca, pastosa: quella corona che brillava pensante a un palmo da lui, verso la quale doveva tendere ogni suo
muscolo striato dal sangue della rete. Grazie a lei, un po' di luminosità
tornava. Null'altro ora avrebbe potuto ottenere ché
ormai né l'amore né la fiducia facevano più per lui.
Il velo era stato squarciato ed era rimasta solo amarezza: la verità, nuda, era
fredda, scarna, affamata e orrida megera. Eppure quella era la vita se ad essa si toglievano gli orpelli e gli ornamenti con cui essa
si adornava.
Niente amore niente fiducia: non rimaneva nulla.
Solo, lontano, l'eco di un respiro che echeggiava il proprio.
Lo scolorarsi d'una pietà densa e fresca insieme, come il succo colato dell'aloe
fragrante lasciato asciugare sulle membra morbide.
Mare: il rumore del mare.
E il desiderio di sentir riempire quel pesante silenzio da una nobile voce. Lo
scoprirsi terribilmente stanco ed assetato.
Ma il desiderio era lì, ed abitava placido la sua anima, come se fosse l'unica cosa a cui avrebbe potuto guardare ora per
trovare un minimo di sollievo al vuoto enorme che era stato scavato nella sua
anima.
Nella sua anima.
Anima nera.
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Dionide rientrò. I capelli sciolti, umidi, si piegavano sulle spalle candide del
suo manto, incorniciandogli il volto. Era già mattina, e la sua bellezza fiera
graffiava l'aria.
Idrio stava tendendo la prima corda per una nuova cetra, avvolgendola strettamente
intorno al piolo, fatto scorrere dentro al legno, in
perfetto incastro. Alzò gli occhi, un gesto secco, alla ricerca d'una stoffa con cui potersi tenere indietro i capelli che
gli ricadevano sul volto. Faceva assai male ferirsi con una corda che salta, e lui non era intenzionato a guadagnarsi un'altra
cicatrice sulle mani.
Il signore dei tuareg fu deliziato a quella vista, gli si fece vicino e gli passò
un nastro di buon lino scarlatto, rimproverandolo per gioco, per non essersi
ancora alzato in piedi a dargli il buon giorno, come invece era suo compito
fare.
'Viziato d'un uomo!'
Se si concentrava abbastanza, riusciva a ricordare esattamente la voce di Idrio come se in quell'istante
la stesse ascoltando, la stessa tonalità piena di vita e di aspra dolcezza che
sapeva piegarsi nelle mille sfumature dei sentimenti. Un usignolo. Il *suo*
usignolo.
Ed infatti egli sollevò il capo per poterlo fissare
negli occhi, gli occhi smeraldi che ancora brillavano intensamente per la
concentrazione in cui si erano immersi, qualche ciocca che sfuggiva alla stoffa
rossa già annodata, rendendolo ancora più desiderabile. Parve, ed tristemente lo era, un guerriero privato di spada e
scudo, valoroso e disposto a combattere anche a mani nude. Ci fu qualcosa di
strano tuttavia nel suo sguardo sincero, qualcosa che forse Idrio voleva
esprimere ma che Dionide non indovinava assolutamente, e ne era,
a dire il vero, un bel po' inquietato.
Non ebbero tempo.
Non avevano *mai* tempo.
Arrivò un uomo dei suoi, Dionide si voltò per informarlo
sulle mosse della giornata. Il citaredo, sospirando pesantemente, con la testa
leggera e la vista sfumata, pizzicò la corda, fremendo, come una foglia inerme
innanzi al vento gelido dell'ultimo autunno, a quel suono cristallino, puro,
sonante. Per un istante, un attimo benedetto, si dimenticò di tutto quanto quel
che lo circondava, godendo intimamente della musica che, seppur non trovasse voce
per vibrare, echeggiava forte e frastornante nella mente. Apriva, la vibrazione,
come una porta, un varco su un universo perfetto, cristallino, puro come questo universo non avrebbe mai potuto essere.
Eppure non trovava sollievo in quel mondo geometrico, si sentì incapace ed estraneo
all'esametro. Guardò Dionide, lo fissò con un fuoco e con un abbandono
disperato che mai nella sua vita gli avevano trafitto
l'animo, e silente cantò i primi due versi di ditirambo che riusciva ad
evocare.
Dioniùson, òs pepsùchen èn telèi theòs
Deinòtatòs, anthròpoisì d'epiòtatòs.
Trattenne a stento le lacrime.
"Dov'è Astre?"
Al suono di quel nome familiare si scosse, infelice!, vide Dionide che entrava
nella stanza. Non c'erano porte, solo drappi consunti e polverosi, e la camera
del Gran Re riceveva poca luce. Il signore del deserto lasciò scostata la sua
tenda, muovendo i suoi passi con grande fermezza ma
con una mano che, Idrio la vide bene, tremò dietro la tenda.
Il Re era seduto su uno sgabello, le spalle scoperte ma lo scialle aggomitolato
ai suoi piedi; il volto vigile ma provato da una sofferenza senza nome. Quegli occhi solo ogni tanto si animavano davvero,
sfolgorando pari ai tuoni del cielo, e le sue parole come frastuono divino
s'abbattevano sull'eleganza della lingua di Dionide, agitando una frusta
avvelenata in segno di minaccia e rancore in apparenza; nel profondo, e coglibile solo da una persona al mondo, che aveva visto e
sorretto la notte tremenda: in segno di disperata difesa.
Il Tuareg mantenne la calma fino ad un certo momento. Poi, con un gesto di rabbia,
fece piombare giù la tenda dietro di sé e i loro duri colpi erano frasi mortali
sussurrate con tutta l'astuzia. Idrio s'alzò in piedi, facendo mezzo passo,
frenando il cuore nel petto. Astre stava male! Dionide non
doveva! No!
Si guardò intorno, cercando la salvezza. Prese la propria
cetra, la strinse al petto chiedendole perdono. La fece cadere per
terra: i nervi e i tendini, le ossa, non ultimate nella loro costruzione,
s'infransero al colpo e risuonarono acute, gementi. S'accasciò su di loro,
sentì il signore dei tuareg che usciva dalla stanza e veniva a vedere se stesse bene. Aveva dipinta la morte
sul volto. Idrio avrebbe voluto averne l'antidoto.
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"Partenope? Questo è il suo nome?"
"Bianca come il latte, ma maledetta. - sussurrò
l'uomo dallo strano accento, mentre mostrava, con un cenno elegante e un po'
addolorato della mano una meravigliosa puledra schiumante - Docile e
mansueta solo con le donne. Figlia di campioni, ma se da lei
vuoi un puledrino. Mph. Non aspettarti da lei
nulla: mai un cavallino in tutta la sua vita, non si lascia montare né in sella
da un uomo, né in gravidanza da un maschio. Viene da qualche regione
dell'Est, la portarono dei mercanti anni fa. "
Pirecrate lodò dentro di sé l'onestà dell'uomo e si avvicinò al recinto, tenendo
sulla cavallina lo sguardo fisso. Non era di stazza grande, eppure aveva zampe
poderose, tutte candide, zoccoli grigi e occhi nerissimi. Ruotavano intorno con
una certa indifferenza, con un fuoco nascosto. Non si lasciò carezzare,
muovendo il capo in maniera piuttosto brusca e minacciosa.
Lo Spartano, incredibilmente, comprese, e decise di lasciarla perdere, come se
in quegli occhi si muovessero i fantasmi di un'intelligenza troppo simile a quella umana per non averne rispetto. Ma
tornò da lei il giorno dopo, e quello ancora e quell'altro
successivo, finché ottenne, dalla bestia stessa, il permesso di badare a lei
nella sua stalla fino a che non l'avesse portata a casa. Ché,
nonostante il parere contrario del venditore stesso, Pirecrate l'aveva vista,
quella bestia luminosa e chiara, e aveva saputo, improvvisamente, che essa era
lì per lui. Che doveva esser sua: che non poteva che esser
sua.
Per Pherio.
Sorrideva della propria idea.
Arrivava la mattina presto, con l'alba, se ne andava
la sera tardi coi ricci che sapevano di biada e legno. Ben presto aveva
iniziato a chieder a Pherio di andar con lui, ed egli un giorno lo accompagnò,
silenzioso e oscuro in volto, lasciando da parte le miriadi di
impegni e di provvedimenti in vista della raccolta dell'uva e della
spremitura; insieme compirono il cammino al
fianco del sole arancio, gustando l'aria mattutina con la leggerezza della spuma
del mare e il Dimano sperò che tutto quello bastasse a render più lievi i
pensieri grevi del suo compagno, di cui s'avvolgeva da giorni, ma di cui non
faceva mai parola.
Non appena Pherio l'ebbe vista, però, divenne
freddo e fragile come l'alabastro: s'avvolse in una patina indecifrabile lo
sguardo, le labbra divennero incapaci persino di articolar parola.
Con quel volto trafitto, nel tempo, da allora più volte aveva insistito affinché,
una volta riscattatala, la lasciasse in libertà tra i ruscelli e i boschi.
Pirecrate inizialmente rimaneva disorientato innanzi al calore di quelle
preghiere, nel dubbio atroce di aver compiuto un misfatto terribile, di aver affondato il pugnale nel cuore d'una creatura
innocente, senza essersene neppure accorto. Aveva pensato di abbandonare il
proprio proposito ma il giorno in cui era andato a sciogliere per sempre
la corda rossa che teneva chiuso il travato che la teneva nella stalla, ella gli si era subito avvicinata, accostata ai legni, col
muso che cercava la sua mano.
L'aveva lasciata libera col cuore che grondava tristezza.
Partenope aveva corso al galoppo le salite e le
discese lì intorno. Era scomparsa alla vista. Lo Spartano rimase lì per il
resto del giorno, seduto su una roccia; lì s'era addormentato nel pomeriggio, e
aveva sognato Idrio dolce. Gli aveva detto qualcosa in quel sogno strano, pieno
di luce chiara, distesa, e colma del rollio placido del mare. Si dispiacque immensamente di non
potersene ricordare, una volta che aveva riaperto gli occhi. Ma il suono della voce era stato quello che si ricordava:
gli aveva versato miele nelle orecchie, aveva sorriso nella sua maniera
spontanea e serena.
Pirecrate si risvegliò col muso di Partenope lì
vicino, che mandava giù la biada della stalla.
Lentamente, con dolcezza, s'acquistò oltre alla simpatia, anche la sua fiducia.
Dapprima gli permise di cambiarle il fieno, poi di strigliarla senza dover
temere ad ogni momento un calcio sullo stinco. Non che
volesse fargli del male: qualche volta semplicemente esplodeva la scontrosità radicata
in lei, un rifiuto istintivo di vicinanza. Ma mai
nulla che potesse davvero metterlo in pericolo.
Passò qualche settimana, migliorarono le cose con la cavalla ma Pherio stava sempre
peggio anche se egli, della cavalla, non nominava mai nulla: né un rimprovero
né una nuova richiesta. Pherio pareva aver semplicemente accettato come un dato
di fatto la decisione di Pirecrate, e ad essa si accomodava
il meglio riuscisse. Però parlava poco, s'accigliava per nulla, aveva forti
sbalzi d'umore; soprattutto insisteva perché la smettesse con quelle stupide
idee con cui s'era riempito la testa e restasse con lui il giorno, ché c'erano mille cose da compiere, altrettante da
organizzare.
Sapevano entrambi ch'era una scusa.
Pherio non aveva mai avuto bisogno di qualcuno per organizzare o per portare avanti
una tenuta, tantomeno di Pirecrate il quale, solamente, conosceva mille modi
per complicargli quel che in realtà per lui era assai semplice.
Pirecrate, un po' per riflessione un po' per dispiacere, gli rivolse, non una
volta sola, parole che non erano sussurri morbidi e carezzevoli, bensì discorsi
severi, e sensati. Il suo compagno non vi rispondeva mai e finiva che
l'abbracciava, accettava senza nulla aggiungere o togliere, chiudendo le palpebre.
E di notte, ogni notte, nel sonno piangeva, senza far
rumore, bagnando i cuscini. Non poteva, Pirecrate, neppure allungare una mano,
che l'avrebbe destato, e allora la vergogna sarebbe stata
troppo forte per permettere che i loro cuori s'incontrassero.
La vendemmia era per Siracusa un momento di grandissima festa. Pirecrate, pochi
giorni prima, aveva portato la cavallina bianca alle stalle di casa, le aveva
mostrato i campi e lei, intimidita dal via vai
frenetico di gente, aveva finito per abbassare il capo e rintanarsi all'ombra
soffusa del proprio giaciglio. L'aveva liberata dalle redini e accarezzata
sulla fronte prima di lasciarla abituarsi alla sua nuova dimora.
"Pirecrate?"
"Sono qui."
"Ti prego, liberala."
"Vieni qui, Pherio."
Allargò le braccia, disteso come un dio nel pieno del suo splendore sul loro dondolo,
ma in una maniera così umana si muoveva, sorrideva: intenso, caldo. Pherio gli
si sedette vicino, le mani chiare sulle sue ginocchia scure.
"Di cavalli bianchi possiamo averne molti, quanti ne vuoi!
Ma lei lasciala andare."
Lo fissò negli occhi azzurri, così grandi e fragili. L'anima di Pirecrate, talamo
e culla spogli di vezzi, colmi d'affetto, arse forte
al contatto con quella disperazione, al pensiero che qualcosa di tremendo
doveva star muovendosi in fondo al costato del suo compagno. Qualcosa
che cancellava ogni razionalità, che poggiava i piedi su carne viva ma celata
da strati e strati di cieli esterni. Quel nocciolo di vetro verso cui
tutto convergeva, quel purissimo cuore trasparente
Ora l'aveva tra le mani, ora erano caduti i veli di raso, palpitava e vi vedeva
dentro, oscuro, quel sangue sgorgato da ferite innominabili.
Se lo strinse al petto, sentì calde lacrime colare giù dalle pupille. Attese attese:
sapeva ch'egli non era già più lì, lo sapeva dalla
stretta troppo debole ch'egli teneva intorno alle sue spalle. Lo sentì dalle
lacrime: lui, Pherio, che mai aveva pianto. Sentì le onde della burrasca
infrangersi sui bracci distesi del suo porto, così intensamente da farlo
tremare e da fargli accendere ogni luce che potesse
ridare speranza e vista a uno sguardo bruciato dal sale. Pherio poggiò la
fronte bianca contro il suo collo. Pirecrate lo cullò, gli carezzò i capelli, gli
mormorava nelle orecchie, lo avvolgeva di tutta la dolcezza che aveva nel
petto.
"Siamo a casa nostra, dove nulla può capitarci di
male, Pherio. Siamo lontani da tutto, quel che ti può ancora ferire è solo quel
che trattieni dentro. Vuoi parlarne?"
Rispose no, non ancora, ché forse neppure lui sapeva,
che forse neppure voleva saperlo. Si saziò dell'amore, lasciò che come il vento
pellegrino muove i rami degli abeti dagli aghi d'argento,
penetrasse in ogni angolo del suo spirito, colasse come mirra ed olio fino in
fondo, liddove era troppo buio per guardare. Respirò
meglio, la mente svuotata da pensieri, il cuore sgombro da affanni.
____
Pirecrate parlava di un passato che era trascorso, e lontano, intangibile e remoto.
Abbandonato dietro le spalle come si getta via un abito
vecchio.
Ma una vita non era questo, e Sparta potente rimaneva
sotto la pelle per sempre … e lui, i suoi ricordi, li avrebbe sempre avuti con
sé. Ricordi che non voleva, che detestava, ma dai quali non si poteva staccare.
Non vi poteva rinunciare più di quanto avrebbe potuto rinunciare al colore dei
suoi occhi, o del suo incarnato, al suo aspetto, o ai fili d'oro che gli si scioglievano
sulle spalle.
Pirecrate ora passava molto tempo lontano, nei pomeriggi afosi e lunghi che annunciavano
la fine di un'estate e promettevano un autunno di delizie: guardandosi intorno
Pherio si stupì nel vedere che una terra potesse essere tanto prodiga e
generosa nei confronti degli uomini. Oh, sì, erano suoli aguzzi e arsi, ma la
dolcezza delle foglie e i profumi del mare vicino che si mesceva ai fiori, ai
mille e mille fiori. come la chiazza amaranto degli anemoni,
che rigogliosa scintillava nel prato, poco oltre l'ingresso del giardino.
Anemoni: sì, in quel pomeriggio solitario tagliò gli anemoni con lo stelo il più
lungo possibile, e li intrecciò con cura e pazienza
con fili d'erba e menta selvatica e timo. Fiori rossi che
così recisi morivano nel giro di un giorno o due: troppo fragili seppur color
del sangue.
Intraprese il cammino col cuore gonfio di pensieri e amarezze.
Aveva un compagno ora, e non aveva voluto che fosse lì, ora. Perché, Pherio sapeva, se l'avesse domandato Pirecrate
l'avrebbe accompagnato ovunque. Ma no, quella era una strada che poteva
percorrere lui solo.
Non calcolò il tempo, non ce ne fu bisogno che quando si cerca di raggiungere
certe mete è come camminare a ritroso: è il luogo a
cercare la persona e non viceversa.
Fu accolto, dunque, Pherio, tra quel colonnato rozzo, decorato da antiche mani,
nascosto da alberi e fronde come s'esso fosse non luogo di culto per tutti ma
solo per coloro che sapevano seguire i segni sottili lasciati ai crocicchi dei
sentieri.
Ma Pherio sorrise a quel pensiero: non era merito suo, quello, non dimostrava
d'avere una qualche particolar predisposizione. Quand'era fanciullo,
infatti, al tempio di Sparta, le sacerdotesse gli avevano fatto studiare, per
giorni e giorni, mappe segrete e antiche, con la disposizione dei santuari più
velati della Dea. Ed egli, ora, stava compiendo ciò
che da troppo aveva rimandato. Ciò che era il suo dovere.
S'inchinò su un pavimento candido e spoglio, in mezzo al nulla, pareva. Sentiva
l'eco lontano di preci passate che riecheggiavano ancora nel timpano alto sopra
di lui. Ma nessuno lo circondava: eppure il fuoco
Sacro era acceso, e ardeva d'un ardore pallido, come se fosse esangue. Però esso c'era ed era Sacro.
E come di fronte a tutto ciò che era Sacro, Pherio sapeva come comportarsi.
Strinse fra le mani la treccia d'anemoni rossi e profumi, chinò il capo in segno
di sottomissione e piegò i ginocchi.
Ora non aveva *davvero* altro.
La casa era di suo zio, era sua ma non l'aveva meritata in alcun modo. E i suoi capelli, oh dea, i suoi capelli ora appartenevano
al suo compagno che li amava tanto. La sua vita era legata ad un'altra vita, il
suo destino ad un altro destino. Aveva giurato che il suo sangue l'avrebbe
versato solo per
Pirecrate.
Non c'era altro che un mazzo d'anemoni che, bruciando, liberarono i fumi carichi
di densi aromi verso il cielo. Che animale avrebbe
potuto sacrificare, lui, che era solito immolare se stesso? Che, forse, era *nato* per immolar se stesso.
Chinò il capo e poggiò la fronte sulla pietra candida e gelida. Quanto avrebbe
voluto, ora, poter spezzare quella solitudine innominabile? Quanto avrebbe
preferito parole a cui non poteva rispondere piuttosto che quel silenzio
immobile, e quel cammino che aveva di fonte a sé, immutabile e fisso?
S'alzò, elegante come il fanciullo che era stato e si
diresse verso la statua della dea, voltò in un'apertura sottile. Le brocche per
la purificazioni erano lì, che al Naos
non si poteva accedere senza prima le abluzioni rituali. Non dimenticò un
gesto, un'intonazione, una parola, un cenno. Tutto ciò che gli
era stato insegnato rinacque a nuova vita sulla superficie della sua
mente come se fosse stato appena ieri che la Madre gli mostrava come piegare le
mani a coppa, e come versare gocce dell'acqua pura ai quattro punti cardinali e
poi come spogliarsi delle vesti quotidiane e lasciarsi avvolgere da quelle
sacerdotali.
Egli era uomo, l'unico sacerdote maschio di un culto di fanciulle vergini. Merito
della sua nascita, della predilezione della Pizia.
Era l'unico maschio che mai aveva potuto vedere la Divina senza esserne ucciso,
sbranato dalle sue mute di cani.
Il naos, dunque, eccolo. Il cuore sacro di quel
santuario perduto. Lui era al centro di quel mistero sacrale che si spargeva
ovunque e che forse, così pochi riuscivano a comprendere.
Si prostrò di nuovo.
Non aveva nulla da chiedere ché lui non aveva mai
avuto la possibilità di domandare. Era lì perché doveva render grazie della
gioia che aveva provata, e avrebbe voluto comprendere
se, e dove aveva fallito, quando aveva preso il sentiero sbagliato. Era quello
il suo destino?
Oh Dea dei pleniluni, ti prego, pregò Pherio, non strapparmi ora ciò che mi è
stato donato … la voce si sarebbe inceppata, mentre i pensieri singhiozzarono
in quel nulla che pareva sfumare i contorni nella nebbia.
Lasciami libero.
Libero.
Vide quella cavalla: orgogliosa e unica, le pastoie a
impedirle il muoversi nervoso delle zampe, il morso che, strattonato,
l'obbligavano a portare. La vide con gli occhi della mente e sentì il cuore
greve perché sapeva, perché gli avevano insegnato che il destino è padrone, e
al padrone non importa della felicità dei suoi schiavi: per quanto egli
pregasse e piangesse, nulla poteva deviare la strada ch'era
stata destinata a lui.
Pherio si coprì il viso con le mani e pianse.
L'acqua gorgogliava sui mulini, intorno ai quali frotte di bambini correvano cercando
di pigliarsi. Si scostarono appena lasciandolo passare e poi, alle sue spalle,
ripresero le loro corse. Era gradevole udire il rumore della vita che gli si
agitava intorno e se anche, forse, lui non avrebbe mai potuto
starci davvero dentro che sarebbe mai cambiato?
Un sottile filo dorato gli sfuggì dal laccio di cuoio che teneva ferma la piccola
coda sulla nuca: lo posò dietro l'orecchio schermandosi gli occhi dal troppo
sole.
Il ritorno a casa seguì una strada lunga e polverosa, che non ricordava così faticosa
all'andata. Fu sulla soglia della loro dimora al tempo del tramonto.
Pirecrate lo attendeva in piedi, quasi allarmato, sotto il portico ma, non appena
lo vide, si sforzò di pacare i suoi propri tumultuosi pensieri in un sorriso.
La sua espressione felice s'infranse di fronte al volto teso
e traslucido di Pherio.
"Sembri tornato dall'Ade, Pherio!"
Sussurrò il suo compagno.
Pherio non disse nulla, si limitò a socchiudere gli occhi inoltrandosi nelle stanze,
cercando il letto e gettandovisi sopra: gli dei avevano sempre modi strani di
rispondere ai mortali e temeva, Pherio, temeva che, come molte altre volte, non
avrebbe gradito la risposta. Quel suo ritornare alla vita, sapeva, poteva
essere finzione, tanto quanto era finzione destarsi da un incubo per essere
catapultati in una vita peggiore dell'incubo stesso.
Quella sera non ebbe cuore di fissare Pirecrate negli occhi e dirgli quella menzogna
che voleva sentirsi dire. Non ebbe il cuore di rassicurarlo, che andava tutto
bene, che non c'era nulla di cui preoccuparsi, che lì erano liberi, e lì potevano vivere … vivere… un mezzo barbaro poteva vivere? Perché si sentiva come se continuasse ad accatastare un
errore dietro l'altro, e ora pure la speranza era sortita a fargli credere di
possedere ciò che non poteva essere suo?
Perché Pirecrate non comprendeva?
Quella notte Pherio non dormì. Rimase immobile, ad osservare la luce della luna
che modificava l'ombra del mondo a seconda del tempo
che passava, seguendo il ritmo profondo del respiro di Pirecrate.
___
Gli aveva bagnato i riccioli di un balsamo profumato d'amaranto con la dedizione
che un fedele e anziano servo avrebbe usato per il figlioletto del padrone che
aveva visto bimbo. Gli aveva spalmato una crema morbida e fresca al di sotto della linea del volto, e sulle spalle, aveva
atteso con pazienza che fosse assorbita dalla pelle sana e liscia, per poi
avvolgere con lini preziosi, d'una lavorazione più unica che rara, il collo.
Con la pazienza d'un saggio artigiano, come se
avessero avuto tutto il tempo del mondo e il mondo non aspettasse altro che
loro, Dionide aveva annodato con un'arte più del tessitore che del marinaio,
creando fantasiosi intrecci, cedevoli a qualsiasi movimenti ma ben aderenti.
Aveva sigillato tutto con una spilla dietro, sotto la nuca di perle nere, lasciando
che gli estremi della sciarpa chiara e leggera ricadessero tra le scapole
nobili e ben scolpite sulla schiena agile e morbida. Aveva baciato la sua
spalla, suscitando un brivido nel corpo, tirando indietro quelle ciocche mosse
e dorate dal balsamo che cadevano intorno alle guance. Ricaddero da dove erano
giunte, ma ebbe il suo scopo: Idrio scosse il capo, infastidito dal solletico,
lasciandosi scappare un sorriso.
"Sai che ti vorrei sempre con me, vero?"
Si diedero la mano, Idrio sentì una lancia affondare nel costato, ma l'afferrò
prima che potesse trafiggerlo, affinché non si impadronisse
del suo senno con una simile facilità. Sì, Astre aveva messo in dubbio la sincerità
di Dionide e sì, lui stesso sapeva che il signore di Firuzeh non era limpido da
leggere come l'acqua costiera di Grecia, che aveva sulle spalle responsabilità
che gli dettavano doveri ben precisi. Ma nessuno di loro due aveva mai infranto
un divieto non scritto, mai nessuno sguardo s'era levato d'indignazione innanzi
a un loro comportamento: mai neppure si toccavano le
mani, cosa che tanto amavano fare; neppure se le sfioravano, neppure sognavano
di farlo quando non dovevano farlo. Quando Dionide s'era dovuto alzare dal loro
letto in piena notte, aveva fatto prima a vestirsi e rassettarsi che ad
esprimere un leggero velo di indisposizione dalle
labbra dispensatrici di baci caldi, forti, avidi; quando era dovuto partire,
lui aveva atteso sotto la pace delle ondeggianti palme quel ritorno che non faceva
altro che sognare in tali giorni, invocando nel proprio cuore gli dei del
deserto, gli spiriti dei tuareg, affinché, per il bene di Dionide e suo soltanto,
egli riapparisse soddisfatto e ricco alle tende della sua oasi.
Oh, ma Idrio non era uno sciocco, o un cieco. Aveva guardato dentro l'animo del
suo signore, aveva giaciuto accanto a lui infinite
notti e sapeva come guardava l'orizzonte, quanto considerasse il proprio
spirito nato non per quello. Non ne aveva fatto mai
parola, anche se un simile desiderio di libertà era troppo vivo e bruciante nei
suoi occhi, anche se quando avevano, loro, il capo sullo stesso guanciale avevano
passato ore a parlare, e ad addormentarsi nel mormorare, anche se una volta
Dionide aveva espresso il rimpianto di non potergli ridare la sua casa e di non
potergli far vivere la propria come se fosse quella sua natìa,
perché fosse solo un pudore, una volontà di tenerlo lontano da certe amarezze,
a non farlo parlare. Sempre aveva avuto la netta sensazione che quello fosse un angolo buio, e chissà cosa c'era nascosto.
Tutte queste cose, erano di loro due e basta. Erano la dimensione in cui avevano
costruito giornalmente un punto di incontro, un luogo
dove potersi nudare l'anima senza provare vergogna e
lasciarla scoperta al soffio del vento. Era schiavo, vero; sarebbe bastato un
cenno e avrebbero potuto mettergli catene ai polsi e guidarlo al macello, vero;
Dionide era patriarca e doveva avere figli, vero;
anche nel caso in cui fosse stato rimesso in libertà avrebbe trovato a casa sua
non più una cittadinanza che l'avrebbe riaccolto come uno smarrito, bensì una
corte riunita per giudicare chi, di proprio libero petto, aveva ceduto alla corte
d'uno straniero, vero. Un fanciullo non poteva godere,
non poteva sorridere dei favori del proprio amante, bensì voltare il capo
dall'altro lato, sdegnato, in pubblico, affinché non fosse accusato di
lussuria. Invece lui che aveva fatto? Aveva rintracciato nel giovane e
affascinante figlio del deserto molte virtù, ma era stato il cuore, e non la
mente vogliosa di sapienza, a sussultare, a provare una fitta intensa. Aveva
resistito, e a lungo, ai suoi sorrisi, ai suoi doni, anche quando aveva
ottenuto che fosse il suo musico personale e non aveva fatto altro che tenergli
la mano sulla caviglia mentre suonava, ma alla fine aveva deciso di cedere.
Perché? Non era stata una questione solo di sentimenti, o di quel desiderio profondo
che l'aveva preso nella rete. Anzi, nel momento in cui s'era sentito più
sconvolto, era divenuto ancora più duro e severo, ancora più scostante, e il
povero Dionide aveva tollerato ogni silenzio, ogni sguardo negato senza
muoversi di un solo passo dalla propria posizione. Era stato Idrio, nel suo
corpo e nella sua anima, nella sua mente e nel suo petto, nella sua verginità e
nel suo ventre, che già era andato perduto, che già non apparteneva più a se
stesso. Che già non era più se stesso, che già Idrio non era
più un Idrio, ma l'Idrio di Dionide. Solo suo. Interamente suo.
E se ora le loro strade si sarebbero dovute dividere,
ebbene, quell'Idrio che apparteneva a se stesso
sarebbe dovuto risorgere, e l'avrebbe affrontato a viso scoperto. Ben già
sapeva la reazione del suo signore quando gli avrebbe detto che non sarebbe
tornato alla loro tenda, e per questo rinsaldava i nodi della sua armatura, ma sapeva
che Dionide amava Astre. Sebbene ora, tra loro parevano poter nascere solo rovi
d'incomprensione e d'un odio nato da freddezze, che avevano in
altro radici più profonde. Legati, quei due, da un nodo viscerale che,
volendo, si poteva ignorare e negare, eppure sempre sarebbe rimasto così
com'era: inviolabile.
Astre, testardo, che aveva perduto forse l'unico amore della sua vita, l'unico
suo vero desiderio che non era riuscito ad accontentare, ora rifiutava sdegnoso
qualunque altro sentimento potesse sembrargli vivo e coinvolgente: il Re senza
corona s'era avvolto nel suo manto, aveva cinto le tempie fredde della sua
corona e s'era avvolto in spoglie traslucide di marmo atteggiandosi a chi non
avesse bisogno di alcun affetto per dirsi vivo
Dionide s'era avvolto d'edera l'animo, e nell'ombra diveniva difficile non solo
prevederlo, ma affrontarlo. Idrio non volle pensare al momento in cui avrebbe
dovuto fronteggiarlo: il Tuareg aveva mani per accarezzare all'infinito e con
infinito piacere, ma sotto c'erano artigli affilati.
"Anima, anima, anima mia. ."
Piangeva mentre lo sussurrava, di gioia. Idrio si voltò, l'abbracciò mentre cadde
tra le sue braccia, gli baciò le tempie e gli occhi zampillanti di pura rugiada
salina. Lasciò che gli conducesse le dita su quel cuore che batteva deciso e
forte, di carne viva, per fargli sentire quanto l'amasse, quanto fosse parte di
lui. Anche dagli occhi chiari, verdi e trasparenti come
l'acqua della costa rocciosa, caddero lacrime, che rigarono le guance, che
ricaddero sulle labbra schiuse e paralizzate.
Al pensiero che avrebbe infranto quel cuore e che, per amore di chi in quel momento
giaceva tra i guanciali spinosi e gelidi della solitudine, per quanto avrebbe
preferito affondare nel petto proprio una spada pur di non far del male a chi
tanto l'amava, pur di punirsi perché sapeva che, comunque
avrebbe seguito la strada che era tracciata innanzi ai suoi passi, Idrio preferì
quasi esser morto nell'eterna, impossibile traversata a cui l'avevano
obbligato, trascinandolo i mercanti di schiavi, fin lì, ai confini del mondo
civile.
Ma fu solo un attimo.
Era un addio, quello, Idrio si scoprì a pensare: un addio che da tempo lui stesso
stava costruendo. Un addio che forse non si poteva giustificare con l'arguzia
della mente, o la logica stringente, ma quello era ciò che doveva fare, e che
già da Firuzeh sapeva dovesse.
Agapòn agapònta (l'amor per
chi ama): ciò che li univa era qualcosa che né il tempo, né la lontananza, sapevano infrangere. Idrio tutto voleva essere fuorché intralcio al suo Dionide, nel momento del ritorno all'oasi:
preferiva allora rimanere lì, a fianco di quell'Astre,
all'uomo del deserto tanto caro, e occuparsi di lui, lasciando che perennemente
Dionide potesse stare tranquillo di questo. Che Astre
non avrebbe patito per mancanza d'un cuore fedele che sapeva e poteva ascoltare
e proteggere.
Era triste, ma non vedeva altre possibilità… e forse esse c'erano ma non le poteva
contemplare. Idrio era libero, Idrio era Greco: con Dionide tutto quello non
avrebbe mai avuto senso, ma per sé stesso era fondamentale. Anche se mai avesse
rimesso piede sulla costa patria lui era uomo, e
avrebbe vissuto secondo gli insegnamenti del suo popolo.
Proteggendo Astre avrebbe protetto Dionide. Respirando l'aria di Persepoli sarebbe rimasto Greco fin nell'anima. E il suo
amore sarebbe rimasto un fuoco puro che mai si sarebbe estinto nel focolare
consacrato ch'era il suo petto.
Lì sarebbe vissuto, incolume e protetto, il fragile e appassionato Idrio di Dionide
e, l'Idrio guerriero, già gli bagnava di lacrime le ginocchia. Affinché dormisse, e con le sue urla non gli straziasse la mente
sino alla vera follia.
____
Vide occhi verdi come solo il mare che lambiva la Grecia sapeva essere, sotto
determinate correnti: verde e profondo, tiepido, solcato dalle scie leggere di
delfini, messaggeri del dio Nettuno che abitava da re in quegli abissi
irraggiungibili.
Aveva visto gli occhi, e poi quelle dita che si ferivano: macchie di sangue che
gli colavano dai polpastrelli mentre la corda tesa della cetra si rompeva, come
se fosse andata in pezzi una delle sfere di cristallo che sostenevano il mondo.
Poi aveva visto, Pherio, il corpo avvolto da una stoffa rossa, un uomo che solcava
l'acqua pura del mare, il suo volto sfigurato, il ventre squarciato. Gli
parve di poter urlare il suo nome ma il gelo che lo avvolgeva, e poi, nuova,
una sensazione terribile d'essere avvolto in bende troppo strette e viscide che
tenevano giù, e obbligavano e strappavano il cuore, la pelle e da esse lasciavano fuoriuscire dolore, e qualcosa si più che
sangue, qualcosa di diverso.
Qualcosa che non ricordava più.
Paura di essere esposto, vulnerabile: il desiderio fisso d'essere il migliore
perché, in un altro caso, tutto sarebbe stato inutile. Tutto sarebbe divenuto
nulla.
Nulla… come la neve. La neve: l'aveva vista una volta, da lontano, una coltre
morbida e ghiacciata, che pugnalava al cuore con il candore avvolgente e il
richiamo ad un riposo che poteva essere senza fine.
'La tua pelle ricorda la neve.': quelle parole gli erano ritornate alla mente
ora, e rimbombavano dentro le orecchie, e facevano male, e ferivano e toglievano
il fiato dalla gola e il dolore, dei, il dolore era
avere una lama acuminata infissa nel costato sanguinante.
Aprì gli occhi di scatto, Pherio, e tutto quel che vide, scolpito nell'immobile
silenzio d'una notte buia senza luna, furono solo due occhi gialli come ambra,
gialli come oro lucidato, scudi da donare alla statua di una dea. E il tepore di quel pelo morbido, la vicinanza di quell'esserino piccolo e orgoglioso.
Pherio si sentì come se non potesse neppure pensare di avere altro per sé.
Il mondo prese a girare, senza appoggi, senza punti fissi. Ma
non riuscì a chiudere gli occhi: per tutta notte Pherio cadde lungo una spirale
eterna che portava giù, sempre più in basso, ove non c'era speranza. Ove non c'era Pirecrate, e neppure i suoi ricordi.
Nulla.
Come la neve bianca.
E una lama di ghiaccio piantato nel costato.
___