DI ODIO DI AMORE
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CAP: 39/?
AUTORI: Dhely&Kalahari
SERIE: original
PAIRING: Pirecrate+Pherio; Idrio+Dionide
RATING: NC-17. angst come se piovesse.
NOTE: i pg ci appartengono!
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Mecenate passeggiava lungo i sentieri del suo parco, godendosi la mattina glorificata
d'una luce limpida e calda: sulle colline non lontane, le viti iniziavano a
punteggiare di un caldo rosso il paesaggio dorato, mentre le albicocche davano
gli ultimi frutti. Quei persiani! Astuti mercanti, ma anche abili
conoscitori delle scienze naturali. Fortunatamente la Sicilia non era come le
isolette dell'Egeo: era lontana dai barbari, e per quanto ricca
e fiorente nessun popolo sarebbe mai arrivato così lontano da sottometterla.
Più a nord, ben al di là della lingua di terra che si vedeva
oltre le ultime coste orientali dell'isola, vivevano altri uomini, su un vasto
territorio, più giù, più vicini alle estreme colonie greche, su sette colli, ma
non mostravano interesse alcuno per il loro Sud.
"Padre!"
Mecenate si voltò, sorridendo al figlio che tirava le redini del cavallo per rallentare
e affiancarglisi.
"Cosa c'è, Grisostomo?"
"Gli Spartani sono venuti a trovarti."
Guardò in direzione della villa: sapeva che sarebbero tornati presto a fargli
visita. C'erano cose che andavano spiegate. C'erano cose che dovevano sapere, e
che lui doveva dire, dopo che, per tanti anni, aveva tenuti
chiusi nello scrigno del suo cuore.
"Grazie, Grisostomo. Tu dove stai andando?"
"Crizio e Linteo stan preparando il necessario per organizzare la festa, padre!
Te n'eri scordato?"
"Mancano ancora cinque lune."
"Sì ma tutto deve essere perfetto. Col vostro permesso.."
"Và, ma torna prima del tramonto."
Grisostomo incitò il cavallo a ripartire, voltandosi, lontano, a salutare con
una mano in un gesto di gioia.
Mecenate ricambiò e si voltò per tornare a casa. Chissà cosa
stava combinando Grisostomo. Sedicenni.
Bè, tanto presto lo sarebbe venuto a sapere.
Non per niente. Era il tiranno, a Siracusa.
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Due giorni: aveva tenuto un buon passo, seguendo un sentiero ben scavato e a volte
disagevole, che fiancheggiava la costa e poi rientrava nel bosco e ancora
tornava vicino alle scogliere basse, ma irte. Nulla a che
vedere con le foreste intorno a Sparta, ai loro fitti e spessi rami, piene di
verde, alte quasi a toccare il cielo. Gli era venuta nostalgia di quei
luoghi che aveva conosciuto sino in fondo, da bambino, e quasi anche delle
notti passate insonni, solitarie, tra le muschiose
radici degli alberi ad attendere, forse da essi, la risposta
ad una domanda che non sapeva neppure porre. Aveva dormito da solo, dopo tanto
tempo. Ed era così abituato alla presenza di qualcuno
al suo fianco, chiunque esso fosse, che non immediatamente s'era accorto di
quello che gravava sul cuore, appoggiando il capo su un tronco, sfinito.
Per la prima volta in vita sua, però, non s'era addormentato subito: nella mente
s'erano affacciate tante immagini, che l'avrebbero accompagnato nell'oblio con
un velo di tristezza nel cuore. E quel cuore, la mattina, s'era svegliato
battendo, con forza, quasi a voler destare e spronare la mente, ché a soffrire così non ce la faceva più. Allora s'era messo
a correre, fino a che il sole s'era alzato alto. A mezzogiorno era giunto, finalmente,
alla sua meta.
Un sentierello scarno che si
inoltrava nella macchia di alberi dai rami sottili, spinosi. Vi si era immerso,
aveva messo un piede dopo l'altro sui ciottoli franabili,
aveva sollevato la fronte per guardare, ma il piccolo paese arroccato intorno
alla spiaggia alta era scomparso nascosto dalle foglie spesse. Si districò
dagli ultimi rami insolenti, fissando la piccola casa. Un sentiero, dal lato
opposto saliva da una depressione e conduceva verso l'entroterra e, molto
probabilmente, a un fiume generoso. Pirecrate si mise
una mano sul petto, inconsciamente, avanzando. Una donna uscì fuori dalla porta, non più nel fiore degli anni, ma con uno
sguardo preoccupato. Lo alzò verso di lui, arricciando le sopracciglia scure,
gli chiese 'cosa
mai desideri'.
Pirecrate aprì le labbra, e glielo disse con una tranquillità che non seppe comprendere
dove si trovasse in sè.
Lei non mostrò segno né di stupore né di altro, gli disse semplicemente di aspettare
lì e si ricacciò dentro le mura spoglie della dimora piccola e dignitosa. Non
si sentì parlare, ma qualche movimento, sì. Uscendo poi, lei portava un secchio
tra le mani, annunciando di andare a prendere un po' di acqua
fresca, gli si avvicinò con uno strano sguardo, morbido e penetrante insieme,
gli disse:
"Se hai qualcosa da dirgli. digliela in fretta,
Dimano. Ma ricorda d'essere al capezzale d'un uomo
morente".
...
"Pirecrate?"
La voce ferma e morbida di Pherio lo fece rinsavire, sobbalzando, e si rivide
nuovamente entro il comodo salone, e risentì di nuovo, con un piacere impronunciabile,
il calore della pelle dell'altro, seduto accanto a lui. Gli strinse la mano,
sorridendo con timidezza. Si scambiarono un bacio, un tocco di labbra che parve durare un istante ma che sarebbe bastato a dargli
forza per combattere tutti i Titani che mai fossero stati generati da Gea
Madre.
Mecenate batté le mani, incedendo verso di loro dopo aver detto qualcosa ad un
servo.
"Conoscete la Gara dei Baci, Spartani? - sorrise,
l'uomo, gentile, un tocco di malinconia in quelle iridi profonde - Credo di no. Vi partecipano i giovinetti, e voi siete troppo grandi,
ormai, ma credo che avreste sicuramente il primo premio. Chissà, forse i vostri
figli..!"
Pherio era già arrossito vistosamente, come Pirecrate mai credeva sarebbe successo
innanzi a qualcun altro, e per sciogliere l'attenzione dall'imbarazzo del
compagno si alzò in piedi, annuendo col capo. Mecenate fece altrettanto,
portandosi una delle braccia aperte in segno d'accoglienza sul fianco,
mostrando la via per un'altra stanza.
"Egli come sta?"
"E' morto."
Un respiro addolorato, gli occhi che si chiusero.
"Lo temevo. Sei riuscito almeno ad incontrarlo?"
Pirecrate abbassò lentamente il capo.
"Sì. Mi ha detto di ringraziarti. - prese un
respiro che a fatica, pareva, gli entrava nei polmoni. Parlare di quello . non voleva, non aveva mai voluto.
E amava Pherio anche perché nulla gli aveva domandato,
né chiesto, né preteso, anche se sarebbe stato suo diritto. Ma
ora era tempo di dire quelle parole, era giunto il tempo di far sapere che ...
che Pirecrate adesso *sapeva*, forse non aveva
capito, ma sapeva, aveva visto. Ed era come arrivare
in fondo ad una gara estenuante. Era suo dovere. - E
anche io mi sento in dovere di farlo."
"Figliolo, non hai da ringraziarmi, perché sono io a doverti dire grazie: non
tutti sarebbero andati."
Scosse il capo come un cucciolo seccato.
"Sparta ha insegnato l'onore e la pietà filiale a tutti i suoi abitanti, Mecenate.
Anche se alcuni non han mai compreso la
lezione."
"Dove lo hai seppellito?"
"Perché?"
Una pausa lunga, dolorosa. Il volto di quell'uomo si crepò sotto il peso d'un ricordo lontano.
"Era un mio amico. Ci conoscevamo da tanto. - passò gli occhi su
Pirecrate, di fronte a lui, e Pherio, un po' discosto. Tanto
simili ai loro parenti da esser stata quasi una pugnalata in pieno petto il
vederli. Ma loro due non erano colpevoli di tale somiglianza e, anzi, Mecenate aveva iniziato a pensare fosse una buona
cosa: come se, con Pherio e Pirecrate, Kakeo e Aristide avessero avuto una
nuova possibilità. - Vedete, voi siete giovanissimi.
Per quanto i vostri occhi abbiano visto, tanti anni vi
separano dalla mia generazione. Kakeo e Aristide, alla vostra età, furono in guerra. Non una delle piccole
guerre con gli Iloti, no. Fu un fratricidio terribile,
una storia molto lunga di cui gli Spartani non parlano spesso perché brucia
ancora, e forte. Persero entrambi i loro genitori, quei ragazzi, e gran
parte degli zii; loro, invece, non riuscirono a morire. Dopo tanti anni, ci si
rende conto che gli dei han
voluto salvarli, sebbene a quel tempo parve un'onta inestinguibile. Pherio,
credo tu sappia l'importanza che Kakeo s'è preso non solo in Sparta, ma in
Grecia. Non c'è politico che non lo conosca. Mentre tu, Pirecrate,
probabilmente non sai nulla di tuo padre,
semplicemente perché quel che fece la sua mano destra non lo seppe mai la sua
sinistra, e furono cose degne del cuore più nobile. Non intendo infastidirti,
so quel che ti costa, ma, ti prego, ascoltami. La verità può far male, sul
momento, ma è il miglior scoglio su cui farsi le ossa.
Aristide si sposò giovane, come tutti gli altri, ma la
stessa notte delle nozze, tutti gli Spartiati furono tirati giù dai loro letti
e mandati, senza una spiegazione, verso Nord. Queste son cose abituali: combatterono, a lungo Kakeo
rischiò di morire. Fu Aristide a salvarlo. Ora che sono entrambi morti, posso parlare. Kakeo giurò che avrebbe ucciso chiunque avesse osato solo guardare Aristide in maniera cattiva, in
cambio della salvezza donata. Non era felice di esser sopravvissuto a un grande scontro come quello, tuttavia già iniziava a
intuire che la sua strada era un'altra, e non si uccise per l'onta. Aristide,
inutile dirlo, non accettò mai il contraccambio. Fu in quel tempo che io
li conobbi. Ero ateniese, ero un attore."
Per un attimo si interruppe, guardando lontano.
"Il mio migliore amico si chiamava Positte. Era
un po' più giovane di me, ma era una persona molto fiera ed orgogliosa. Aveva
una moglie insopportabile e quando sarà il momento, voi due vedete di fare bene la vostra scelta. Lui era stato
costretto a sposarla: suo padre era molto ricco, un mercante di scudi, un uomo
venale. Lei anche: avida e arcigna. Almeno non era brutta. Positte
andò ad abitare in una grande casa e non ebbi modo di
vederlo molto per un po' di tempo. Intanto l'uomo che m'era stato amante fino
ai miei diciotto anni morì, senza figli. Venni a sapere
solo molto tempo dopo di aver ereditato tutta la sua fortuna, e già qualcuno se
n'era appropriato. Cosa c'entrano Kakeo e Aristide con
questa storia? Ebbene: scoppiò una gran lite con Tebe,
Sparta e Atene si affiancarono. Combattemmo, per mesi,
ma quando sapemmo che l'esercito persiano aveva impugnato lance e scudi, ci sentimmo
atterriti. Non era paura, assolutamente no. Era
l'orgoglio che ribolliva. Ci fu una corsa alle armi, e, come potete
bene immaginare, la fabbrica di scudi ereditata da Positte
divenne molto importante. Io, invece, avevo iniziato la carriera di logografo.
Venni a sapere di alcuni maneggi, di alcuni affari che
riguardavano Kakeo e la fabbrica di Positte, ma non solo.
Erano entrambi ambiziosi, in una certa maniera simili. Fui costretto, per
motivi personali, a viaggiare, e conobbi il grande Panfilo. Guardandolo, capii
subito che qualcosa sarebbe accaduto, e presto.
Per farla breve: morì il vecchio re persiano. Il figlio era
un inetto, sciolse le armate. Noi ci ritrovammo pieni di
armi, e senza il pane. Scoppiò un'altra guerra, e questa la conoscete bene: tra Sparta e Atene, più di quindici anni fa.
Tebe s'era ritirata, astutamente, munita d'un commercio ferreo con cui presto riuscì a tornare florida
e serena, unica isola felice in un mare di sciagure. Intanto noi guardavamo al
raccolto del Peloponneso, ricco e fiorente, che presto sarebbe stato da
mietere; e voi guardavate quello dell'Attica, e alle
nostre colline dorate e al nostro olio.
Io, per i miei meriti oratori, fui incaricato d'ambasciare.
Ebbi modo di parlare con Aristide: era anche lui un buon
diplomate. Fu l'unico che, in tutta Sparta, volle almeno ascoltare le
nostre condizioni. Quando le udì, fu il primo a
sdegnarsi. Non erano irragionevoli, ma così van
queste cose.
Venni a sapere più tardi che qualcosa non andava nella vostra vita politica. Aristide
e Kakeo si fiancheggiavano in battaglia e condividevano gran parte della vita,
ma qualcosa li divideva senza scampo alcuno: Kakeo stava mirando in alto, stava
organizzando complotti impensabili da nessuno, se non da una mente
eccezionalmente astuta. Gli andò male: Aristide uccise, in battaglia, Positte, la pietra di volta dei suoi piani. Kakeo si adirò,
ma non fu soltanto questo il motivo della sua furia. Infatti,
oltre a questo, Aristide in battaglia, trovò il figlio di Positte. Seppe che tutto era stato organizzato: che ci
faceva un bimbo in un campo di battaglia, fuori dalle mura?
Comprese la verità: Kakeo aveva corrotto degli uomini, voleva l'erede ricchissimo
di Positte, per poterlo ricattare in seguito. Ma qualcosa era andato storto: il bambino era sfuggito dalle
mani di chi avrebbe dovuto consegnarlo. Se Positte
avesse accettato le condizioni di Kakeo, l'economia di Atene
avrebbe subito un brutto colpo. Adesso però Positte
era morto, e se il bimbo fosse arrivato nelle mani di Kakeo (e sarebbe accaduto
se Aristide non avesse scelto quel che scelse) sarebbe stato patteggiato da
Atene ma, più probabilmente, gli Spartani l'avrebbero crocifisso
sulle bianche rocce dell'Eurota affinchè tutti
sapessero. Invece gli dei vollero che Aristide lo trovasse.
Si sdegnò tuo padre, Dimano, con Kakeo, né voleva che un bimbo morisse così.
Lasciò Sparta, con la morte nel cuore.
Come lo so? Venne da me, mi chiese
di aiutarlo a renderlo uno di loro. L'unica cosa che riusciva a farlo uscire
dalla cupezza, e ne sarebbe morto, era il bambino che aveva salvato."
"Quale era il nome del bambino, Mecenate?"
"Idrio."
Pherio distolse gli occhi, come se quello fosse troppo. Per *lui*.
Sì, sì. Per lui, non per Pirecrate, quello era *troppo*.
Per un attimo gli mancò il fiato, tanto forte gli batteva il cuore in
petto. Per un attimo ebbe la sensazione di aver perduto tutto, ogni cosa, come
un capogiro, un'impossibile debolezza alle gambe.
Fu la voce di Pirecrate a dargli un appiglio.
Fu la mano di Pirecrate che si strinse con forza alla sua, inconsapevole, a tenerlo
in piedi. Si sentì come Euridice accompagnata da Orfeo lungo i sentieri bui che
riconducevano alla luce, orante con ogni forza nel cuore che l'amato non si
voltasse. Ché i suoi occhi l'avrebbero distrutto. Ché quello sguardo, quella consapevolezza, ora, l'avrebbe
relegato per sempre in un limbo terribile, non di tormenti senza fine ma di
algida indifferenza. Di nulla.
"Dunque Idrio è . - una pausa, un sospiro - mio
fratello. Ecco cosa ci legava. E non
l'avevo capito".
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Luce: incredibilmente, impossibilmente la luce era
ovunque. Come se il sole fosse esploso e migliaia di lampade incandescenti
volteggiassero leggiadre nel cielo a ricordare quel grande
falò che era stato re della volta.
Pirecrate parlava con calma, di tutto e di nulla, con una voce piana, serena spingendo
avanti ed indietro il dondolo, carezzando il collo di Pherio, rannicchiato
contro di lui con una coperta di lana sulle spalle. La pelle chiara scivolava
sotto i suoi polpastrelli come se fosse stata di velluto caldo, anche se, sotto
la sua sottile consistenza, sentiva il sangue correre rapido, troppo rapido,
seguendo le contrazioni di un cuore che pareva stare singhiozzando,
impossibilitato a calmarsi, anche calato com'era nella pace totale com'era ora.
"Pirecrate, voglio chiederti una cosa."
"Tutto quel che desideri."
"Cosa accadde a Firuzeh?"
Un sospiro, una mano si sollevò tra i capelli, saggiando la loro morbidezza tra
le dita, ma in una movenza che sembrava volerli schermare da qualche male. E la
dolcezza, il rimorso gli riempirono quelle iridi luminose e dense una
sorta di pudore guerriero ringraziò che Pherio non stesse guardando, anche se
sapeva che i suoi sentimenti, il suo compagno poteva
leggerglieli dentro senza la minima fatica.
"Mi era stato detto che Idrio era stato venduto dai Panfili, e che tu eri coinvolto."
Un sorriso amaro e consapevole piegò le labbra di Pherio, all'improvviso dure,
severe. Come qualcosa che si spaccasse giù, dentro.
Pirecrate udì il suono sgradevole come di qualcosa che venga
lacerato. Una vela strappata dal vento troppo forte. Quell'espressione
lo resero simile a Kakeo, più di quanto lui stesso avrebbe preferito ammettere.
"Astre.."
"Sai qual è la cosa strana? Dentro soffrivo perché credevo fossi tu ad aver compiuto quelle cose, te che avevo sempre
reputato retto e onesto. E che stimavo. Da sempre. -lo
strinse di più a sé, il volto cercò il petto per sfregarsi, e per sfregarsi la
guancia cercò i capelli. Le spalle di Pherio si ammorbidirono - Ma da adesso,
sai Pherio?, tutto potrà cambiare, persino noi. Ma io
sarò per te, tu sarai per me."
Un paio di occhi aperti, sbigottiti e luminosi più di
tutte le stelle che brillavano su di loro si sollevarono su di lui.
"E' un giuramento."
Un'affermazione non una domanda, perché non c'era bisogno di risposte.
"Sulla luce del giorno, sulle rive dello Stige
violaceo e oscuro."
"Sulle stelle."
"Su Atlante."
"Sulle colonne di Ercole."
"Sui nostri antenati."
"Sui nostri giorni."
"Sul tuo cuore, Pherio."
"Sul tuo cuore, Pirecrate."
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Era impudico guardarlo attraverso i vuoti lasciati dagli intarsi del pannello
di legno, scolpito, vederlo mentre si versava l'acqua sulla pelle e voltava
intorno il capo dai riccioli umidi e pesanti, alla ricerca dei saponi e degli
asciugamani, mentre le mani passavano le spugne intorno al collo, sulle spalle
e sulle braccia alate. Ma Dionide,
in malìa d'un tale piacere, sapeva che avrebbe dato
tutto per poterlo stringere adesso tra le proprie braccia, ardente d'un
desiderio che annullava il tempo e lo spazio, stringendosi in un anello
soffocante e denso intorno al presente. Camminando al fianco della grande finestra che svelava e copriva si sciolse la lunga stoffa
avvolta intorno al capo, liberando le onde dell'ebano scuro, slacciandosi i
nodi del mantello.
Idrio si voltò verso di lui, sospendendo quel gesto soave d'accompagnare con piccole
oscillazioni del braccio i movimenti della spugna dall'omero in giù, ritirando
la mano sul petto e lasciando andare la spugna, per versarsi addosso un catino
d'acqua calda.
"Il viaggio è stato lungo e difficile, lo so. E' la terza casa che
cambiamo, ma questo è necessario. Perché non mi passi
la spugna -suggerì, tenendo fissi gli occhi su di lui, con, sul volto,
ombreggiato a tinte serene un sorriso; già si sfilava gli stivali di pelle
finissima, facendo leva coi talloni- Potrei lavarti bene la schiena".
Il Greco tolse il viso al suo sguardo, a malapena reprimendo un'amara espressione.
S'alzò, si coprì le membra con un lungo telo scuro, un colore che rendeva la
sua pelle più luminosa; diede un bacio alle labbra rimaste senza parole,
stupefatte, un bacio dolce e caldo. Riuscì a privarsi di quella bocca e a far
per continuare il proprio cammino. Dionide
prontamente lo fermò, facendolo voltare con la delicatezza che avrebbe usato
per schiudere le mani per far volar via, illesa, una farfalla.
"Idrio, ti prego, so che qualcosa ti turba. Non
me lo vuoi far capire? Sei libero, non ti costringo. -
il suo volto gentile si fece espressivo, un'ombra profonda
fra quegli occhi incredibili - Ma mi fai vivere con l'idea che non posso
aiutarti in nessun modo in questa maniera. E' la voce? Ti giuro che sto
cercando in tutti i modi di sbrigare le faccende che devo
ad Astre, e non manca molto: non tutto compete a me. Tra tre, massimo quattro giorni,
avremo la luce del sole tutta per noi. Ascoltami: è accaduto qualcosa quando
hai aiutato Pherio. Lo so, e meno di quanto lo sappia
tu. Se continui così, però, se non mi dici, io ho i
piedi legati. Non scappare! Ricordi la prima volta che ti ho sentito cantare?
Sì, ma forse, le altre, appartengono tutte a un
indistinto passato. Io invece tutte le ricordo, tutte
le conservo nel cuore, e non avere accanto a me la tua voce mi è causa di
grande sofferenza. Nonostante questo, mi basta guardarti
per sentire in me i medesimi desideri, mi basta baciarti per vivere i medesimi
sentimenti di quelle volte; io ti amo. Ti amo, anima
mia."
Idrio lo respinse, con forza, con lacrime non versate negli occhi. S'allontanò,
in fretta, non curandosi che i marmi fossero bagnati e che rischiava di cadere.
Dionide non capiva, non poteva capire.
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Pherio s'era alfine addormentato, calmando in parte i
battiti impazziti del suo cuore, consolato, rassicurato da mille e mille parole
sussurrate, da infinite lievi carezze che faticava sempre ad accettare, ma di
cui, il Dimano sentiva, aveva bisogno come un fiore della luce per riuscire a sopravvivere.
Pirecrate aveva tenuto poggiata la guancia tra i suoi capelli, osservando il
mare mescolarsi sotto i raggi argentei della luna.
Il gattino che, raccolto pochi giorni, già ardiva conquistarsi valorosamente un
posto sul grembo rannicchiato dell'uomo chiaro, tra le mani di Pherio che inconsciamente
l'aveva accolto, proprio non c'era stato modo di tenerlo lontano. Il dormiente
non sapeva che tra il micetto, che sarebbe divenuto
un gattone fulvo, e il guerriero era in corso una
lotta per decidere chi avesse il primato su di lui, e
i litiganti si lanciavano ogni tanto occhiatacce di fuoco ma, in fondo, era il
gatto il più tranquillo: posava appena il piccolo capo dalle orecchie aguzze
sulla pronunciatura del pollice, mordicchiando ogni
tanto in maniera tenera, quasi a volerlo marchiare ma senza lasciare i segni
dei suoi dentini aguzzi sulla pelle troppo chiara. Lo Spartano invece non
riusciva a riposare e, nonostante questo, si sentiva bene ad avere Pherio così
vicino, tra le braccia.
Durante quella lunga notte, molti furono i suoi pensieri.
In essi c'era suo padre e il suo sguardo sereno,
felice da far male al cuore mentre chiudeva le palpebre e benediva il suo
capo con una mano tremante. Anche ora, il Dimano non
sapeva perché l'anima, colma di tanto rancore, si fosse piegata a provare un
sentimento tanto struggente. L'odio, la rabbia cieca,
erano evaporati innanzi ad Aristide: non gli aveva rinfacciato nulla, l'aveva
ascoltato o, di più, l'aveva osservato mentre moriva con dignità, null'altro.
Ora riusciva anche a immaginare che avrebbe pure
benedetto quella unione tra il suo unico figlio e il più giovane erede di Kakeo:
forse… però gli piaceva pensarlo. Gli piaceva immaginare di creare il suo stupore,
e forse pure il suo sdegno che poi si sarebbe stemperato in uno sguardo
paziente che sapeva di comprensione. No, non era difficile, ora, rivolgere
l'animo alla figura di suo padre, e ciò causava meno dolore di quanto avrebbe
mai potuto pensare.
Pirecrate passò una mano tra la ciocche dorate
di Pherio, lungo la nuca chiara ancora poco coperta da quei capelli che, un
tempo, erano stati lunghi come una cascata impossibile da fissare direttamente
sotto la luce aperta del meriggio. Sentì dentro sgorgare una nuova tristezza,
ancora più profonda più lancinante: quante volte aveva offeso Pherio per
le sue origini? Pherio che era così bello. Il suo
corpo che era immagine della sua anima, e così pure erano
che sembrava impossibile foss'egli un uomo. Come
aveva potuto pensare che fosse meno di un uomo, meno di un libero, di uno
spartano, lui, che accompagnava il suo essere con l'innata nobiltà effusa
intorno a lui come un manto divino? E anche se gli insulti erano stati
ampliamente ricambiati da una lingua astuta e tagliente, amara e velenosa, e
potevano dirsi pari, il pensiero di aver potuto rivolgere parole ingiuriose
verso quell'anima splendida,
di aver criticato aspramente quei colori solari, gli toglieva il fiato dalle
labbra. E allora esse si torcevano, si increspavano come
il mare scosso da una forte ventata, e la presa intorno alle spalle del compagno
si faceva più salda, più consapevole. Fino a che Pherio non fosse tornato
davvero sereno, non si sarebbe più allontanato da lui: durante il colloquio con
Mecenate era impallidito più di una volta, più di una volta aveva perso il
ritmo di un passo, rimanendo più discosto o più indietro, come temendo che da
un momento all'altro uno spettro avesse potuto gettarglisi
addosso, e tagliargli il collo con le zanne. Un timore che non doveva albergare
nel petto o nell'anima di Pherio, che mai aveva agito come un vigliacco, che
mai aveva mostrato di tremare, imbelle, di fronte a qualunque pericolo il
destino gli avesse parato di fronte.
Pirecrate rabbrividì quando, come echi che tanto avessero vagato nell'oscurità,
risvegliati da un movimento troppo brusco dell'animo, gli rimbombarono nelle
orecchie le parole velenose e terribili di Polinice. Il suo compagno si scosse,
ciondolò col capo, cercò l'equilibrio poggiandogli le mani sulle cosce, come se
fosse troppo stanco, troppo stremato per mostrare una reale attenzione.
"Cosa c'è Pirecrate.?"
Gli occhi azzurri si illuminarono sotto le sopracciglia
castane e i capelli, in ciocche scomposte e leggere, circondarono in morbidi
movenze i fianchi del volto. Leonida lanciò un piccolo miagolio.
"Niente. Mi son svegliato di soprassalto".
Ancora troppo assonnato, Pherio sorrise, dandogli un bacio sulla guancia, riaccostando
la propria, morbida come quella d'un fanciullo ancora
imberbe quand'egli era già definitivamente un uomo, al suo collo.
"Stai scomodo..?, forse. è meglio alzarci.."
Nel tempo di uno sbadiglio si riaddormentò. Pirecrate lo
prese tra le braccia, accogliendo sui muscoli saldi anche le coperte che,
morbide, proteggevano le membra chiare dal freddo, ed entrò in casa,
adagiandolo su un letto. Chiuse le imposte, andò a prendersi un'altra coperta
e, con essa, avvolse se stesso, Pherio, il gatto.
Lo ricordava quand'era bambino: chiaro e sottile, silenzioso come se fosse solo
il simulacro d'un essere vivente, ma attento, sempre attento con quegli occhi
mobili che sembravano animati da un fuoco a cui mai nessuno di loro si era scottato.
Ricordava bene il suo modo di muoversi, durante gli allenamenti, e sempre, con
una leggerezza invidiabile, un'eleganza che nessuno di loro, più forti e più
pesanti, poteva sfoggiare, e quel corpo, poi, che sembrava sottile come una
canna e altrettanto semplice da spezzare e che, invece, flessuoso come un
giunco, riusciva a sopportare così tanto ritornando alla fine sempre eretto,
con quegli occhi chiari, due pozzi di luce.
Gli occhi, quegli occhi, incastonati su membra chiare e lunghe, eleganti e sottili.
Era sempre stato bellissimo. Lui, e gli altri suoi compagni se n'erano accorti
tardi, ma ora Pirecrate poteva comprendere cosa nascondevano gli sguardi di
alcuni dei commilitoni più anziani, e dei maestri e degli adulti, quando si
posavano su di lui: una meraviglia inusuale e
attraente. Troppo attraente, forse, se tutti quei doni erano posati nel corpo
di un fanciullo giovinetto, immaturo ed acerbo, troppo
giovane perché avesse un amante ma così . invitante,
in un certo modo, come se non fosse altro che un frutto che chiedesse d'esser
colto.
Al pensiero che Kakeo avesse potuto fargli quel che
Polinice aveva asserito, senza che nessuno potesse non solo opporsi, ma pure
esprimere una qualche forma di dissenso ... quell'idea
gli gelò il sangue nelle vene, bloccandogli lo stomaco in un nodo di metallo
incandescente. Non lo fece dormire tutta la notte. Come se un
fantasma avesse potuto ghermirli, sorpresili nel sonno. Non sapeva come
avrebbe potuto difendere se stesso e il suo compagno, ma lo avrebbe fatto.
__
Due fiaccole soltanto cerchiavano d'una rossa luce il corridoio, poste agli estremi
e in lontananza, cosicché il centro del passaggio restava completamente al
buio: durante la notte i rari uomini che di lì passavano pregavano che nessuno
spirito maligno li insidiasse prima di venire accolti nella
sala della vasche termali. I vapori e un'improvvisa aria gelida di fuori si incontrarono e abbracciarono, ghermendosi l'un l'altra.
Idrio rabbrividì, i capelli gocciolanti e freddi, cercando appigli su una
parete per rialzarsi, mentre la caviglia in fiamme e dolente batteva, insopportabile.
Non trovò prese per dita congelate, insensibili al tatto, e si rannicchiò
contro il muro, combattendo contro il battito incontrollato dei denti ma
poggiando la guancia rovente, ché l'aveva battuta
cadendo, sulla pietra: non sarebbe giunto da nessuna parte se i sentimenti
avessero continuato a dominarlo in quella maniera e l'ultimo suo desiderio era,
ora, farsi trovare da Dionide in quelle condizioni e
non riuscire a resistere a una profferta d'aiuto. Come la bramava in cuore,
come l'avrebbe volentieri abbracciata con tutto l'essere, eppure non era quella
la via che avrebbe facilitato le cose.
Prese un respiro profondo, rabbioso, mettendosi in piedi e cercando di trovar
la maniera di camminare e arrivare nelle stanze. Almeno per
trovare una fascia, o degli unguenti che non gli avrebbero fatto gonfiare la caviglia:
sapeva come usarli poiché aveva visto Dionide
medicare, e con lui gli anziani tuareg.
Come la Luna nera s'alza ben oltre l'orizzonte e solca il cielo non vista, così
una figura si mosse nel cono d'ombra senza che i passi
suoi risuonassero per il corridoio. Idrio si schiacciò contro la parete,
cercando di afferrare la sua posizione ricorrendo all'udito finissimo; intuì,
non lontano, uno sguardo rivolto a lui e, quando tentò un passo, avventato, in avanti,
col piede sbagliato, si sentì sostenere prontamente con un braccio che frenò la
discesa delle mani già tese in avanti per non battere nuovamente il volto.
Un'aura tiepida lenì la sofferenza delle membra infebbrilite
dal freddo, e un persiano perfettamente pronunciato uscì da labbra invisibili. Ma, intuì, non era la lingua di quelle labbra. Non sentendo
risposta, egli lasciò che tornasse sul proprio equilibrio, affondò le mani tra
stoffe e le pose sulle fronte e sul capo per avvolgere
di lino e lana le tempie. Sentendo l'umidità delle lacrime sulle guance gliele sciugò, con delicatezza.
I polpastrelli toccarono le sopracciglia, gli occhi, la fronte e il naso; seguirono
la linea delle labbra come si testa la pelle d'un frutto per dirne la specie, e
poi un sorriso sembrò brillare nel buio quasi totale.
"Un Greco - pronunziò nella sua lingua nella maniera spigliata e morbida
in cui soleva pronunciarsi Dionide, ma con un'intonazione
molto più marcata e musicale - Ti accompagno alla fine
del corridoio."
Tentò, istintivamente, come se l'animo si fosse sentito toccare troppo nel profondo,
di declinare la gentilezza, ma non poté. Si aggrappò al braccio e passo dopo passo, con gentile e calda pazienza, egli lo
scortò. Poco prima di giungere sotto la fievole luce, si chinò ad avvolgergli
la caviglia col un drappo di lino sfilato dal corpo, e
lo assicurò con un buon nodo.
"Fa' attenzione, hai caviglie sottili e potrebbero rimanerti rovinate se
non gli presti cura. Fatti medicare da un buon medico, o Greco."
Idrio arrossì, chinando il capo di lato, lasciandosi teneramente tamponare la
distorsione. Prima che gli sfuggisse, lo trattenne per
una spalla, gli fece comprendere la richiesta di farsi vedere sotto la luce. Lo
straniero gli mise un mantello sulle spalle, dicendogli che non poteva, ma che
se si fossero reincontrati, di sicuro l'avrebbe riconosciuto.
Una voce risuonò, tonante e cupa, dalla stanza delle fonti.
"Sei impossibile!"
Una risata sardonica echeggiò, schernitrice. Idrio rabbrividì, stringendosi nel
manto, ricordando che poco prima era stato proprio Astre l'ombra filata dritta,
altera, verso le stanze termali. Lui e Dionide litigavano. L'uomo gentile sussurrò:
"Va' via adesso. Quella è gente con cui è meglio non avere a che
fare".
Sussultò, sentendo che avrebbe dovuto sentirsi in pericolo, ma confidando in quello
stesso istinto che lo aveva spinto ad accettare
l'aiuto di quell'uomo …
E fece come era stato esortato. Si
voltò, sotto la fiaccola ardente, e sulle guance rosee si riflesse la porpora
del fuoco, e gli occhi scintillarono come smeraldi trafitti dalla luce. Ringraziò con un cenno profondo del capo, distolse gli
occhi. Quelle mani gentili premettero sulle sue spalle, e gli fu chiesto di non
voltarsi, di non vedere. Chiuse le palpebre, tirò indietro le braccia, osò sfiorare
il suo volto con dita tese e affusolate, forti. Altre dita vi si intrecciarono e riportandole avanti, prendendolo per la vita,
lo sollevò.
"Perdonami, ma non posso stare qua un respiro di più."
Usciti, con due balzi silenziosi salì i cinque gradini che conducevano a un altro
corridoio, più breve, più illuminato. Idrio rimase stregato nei capelli lunghi
e neri, ondulati, che seguivano i movimenti felini delle membra. Gli parve
familiare, terribilmente familiare, e le sopracciglia si aggrottarono nello
sforzo di comprendere perché tanto gli ricordava, in quello, Dionide.
Un altro scroscio di risa: acri e violente. Acuminate di scherno.
Astre rideva, beffeggiando Dionide
mentre s'immergeva nella vasca tiepida d'acqua profumata, che riempiva la sala
di densi vapori.
"E poi, dunque, che altra idea ridicola ha partorito la tua mente geniale,
mio fedele? - l'espressione di Astre era terribile, chè quella fede tanto sincera e profonda era stata infranta
da l'unico colpo che tanto a fondo potesse penetrare nel cuore del Re, e spazzato
ne era stato, via, ogni frammento. - Anche se
m'agghindassi di peli, come una scimmia, ben pochi mi riconoscerebbero, non
credi? O forse farmi assumere le vesti d'un animale non
ti pare troppo umiliante? Preferisci qualcosa che sottolinei
meglio il mio... esserti sottomesso?!"
Dionide si tirò indietro. I muscoli si gonfiarono
sulle spalle, sulle braccia.
"Non merito questo, lo sai - prese un respiro
acre - E sai anche che se compio qualcosa è perché ho delle ragioni nette! Sai
che è un buon modo per..."
Tacque. Le terme erano sempre posti pubblici, e anche
se l'ora concedeva un po' più di spazio ai discorsi privati, non era saggio
indulgere in troppa fiducia. Astre pareva incurante, anche se le parole del suo
Re erano sempre soppesate con cura, e aguzze,
terribili, come frecce velenose intinte in quell'ira,
fredda lava d'un magma fuso stillato dal cuore insanabile, che
poteva uccidere. Che lo stava lentamente uccidendo.
"Già un buon modo, Dionide. Chissà, però,
mi chiedo, se davvero tutto questo lo fai perché io,
in futuro, mi occupi davvero del tuo piccolo Idrio. E chissà
se Idrio non avesse più bisogno di me tu che faresti."
"Non son domande da porre, queste. - l'offesa arse più nitida sulle guance - Son
tuo amico, e in anni non sospetti giurai a te e alla tua schiatta. Sai che non
mancherò mai a un giuramento."
"Sarà. Ma ti reputo troppo intelligente per comprendere che non aiuterò Idrio
finché tu non avrai finito il tuo incarico presso di me!"
"Sei una serpe! - sussurrò fra i denti - Lui che c'entra! Non è colpa sua!
Non è colpa sua di quello che t'è successo! Non è colpa sua di… di tuo padre e
degli Spartani! Non è colpa sua se io t'ho tradito,
secondo il tuo modo di vedere!"
"Già. - un nuovo sorriso, freddissimo, senza speranza. - Ma tu hai un
unico punto debole, Dionide, e non sono così stupido
da lasciarmi sfuggire l'unico modo che ho per
obbligarti a collaborare ... feci quest'errore una
volta, lasciando sfuggire un perfetto futuro generale. Tu sarai molto meno, ma
ora mi servi tu. E non avrai neppure la più minima possibilità di fuggire da me!"
"Sì, fu un errore stupido! E fu un errore tuo, *Astre*! Per colpa tua Pherio ti si rifiutò! Per colpa tua
Pirecrate fuggì da te, portandosi via il suo ilota! E
io li lasciai andare, sì, e sai perché?! Perché se
allora io fossi stato al posto di Pirecrate, avrei voluto a tutti i costi
strappare il mio servo da te! Non avrei voluto che tu toccassi di nuovo l'uomo
che io amavo!"
Si morse la lingua: improvvisamente s'accorse d'aver
detto troppo, e troppo ad alta voce. Ma ora i problemi
erano altri, ora il dolore che sentiva crescere dentro era ben più forte delle
riflessioni della mente. Astre lo guardava. In silenzio, s'era voltato, e lo fissava,
l'espressione ghiacciata in un nulla estremo, solo gli occhi erano spalancati.
Era un urlo senza voce quello: occhi come due scudi lucidi d'antracite che
potevano infrangere qualunque difesa anche col loro semplice brillare, le
braccia lungo il corpo, le mani a pugno.
Dionide non riuscì a non muovere un passo indietro,
spaventato da ciò che traluceva da quello sguardo: una freddezza senza fine, e
un odio, e…
"Dunque è stato Pirecrate a …" il sussurro si perse nelle volte umide
dell'enorme sala voltata. Astre si mosse di scatto dando di nuovo le spalle, affondando
nell'acqua. Il silenzio avvolse entrambi.
___
Se dunque tradimento c'era stato, era di un tipo che non aveva sospettato: o almeno,
mai avrebbe potuto credere che Pirecrate potesse mostrarsi tanto indipendente.
Dunque non erano fuggiti il Dimano *e* Pherio … dunque era stato Dionide ad aiutare Pirecrate a strappargli Pherio .
Ringhiò, il Re, dalla frustrazione e dalla rabbia, una furia che avrebbe dovuto bastare, sola, a spalancare le porte del
palazzo, lasciandolo entrare nel cuore del suo regno come il Signore che era e
non costretto ad aggirarsi nell'ombra come ora! Dionide:
una serpe in seno per anni, decenni se l'era coltivato, con amore, affetto e
preoccupazione! E invece ecco come l'uomo del deserto l'aveva ricambiato:
strappandogli ciò che più prezioso viveva nel suo cuore!
Si sedette sulla scomoda seggiola che, sola, ornava quello squallido
tugurio che osavano chiamar 'stanza', svolgendosi le membra dai lini ruvidi e
grezzi.
Arricciò il naso, allungando la mano verso la mensola su cui
erano posate le boccette dei suoi preziosi oli: disgustoso, un re obbligato a *quello*! Lui non era uno dei quei
zappatori dei poemi omerici che si chiamavano re, e facevano i guardiani di
porci! Lui non era Greco, lui era Persiano! E i Re persiani
erano Dei!
Dei che andavano onorati, a cui andava sacrificato, a cui si dovevano offrire
ori e spezie e eterni profumi in pire ardenti verso il
cielo e pietre preziose e schiavi e teli finissimi come il soffio di Zefiro,
non …
Si alzò di scatto, gettando l'ampolla preziosa contro il muro. Il fragore del
materiale cristallino che s'infranse contro la superficie scrostata di mattoni
lasciati essiccare al sole fu atroce, per le orecchie
regali. Sul marmo come risuonava il vetro infranto? Sembrava un canto, un
richiamo infinito, lì invece, ogni cosa era greve e sozza, indegna.
Un lieve bussare, poi la porta che si apriva lentamente: uno dei soliti guardiani
che Dionide astuto gli aveva
messo alle costole. Che temeva mai l'uomo del deserto?
Che potesse …
Per un attimo ad Astre mancò il fiato in gola: Idrio.
Era Idrio lì, in piedi sulla soglia, le mani strette fra le mani, a fissare intorno,
preoccupazione in quello sguardo, e ansia. E come una domanda
stupefatta a fissare la pozza d'olio che aveva schizzato il muro, raccolto sul
pavimento polveroso.
Idrio: la perla di Dionide. Il suo unico
pensiero.
Il suo unico, vero *desiderio*.
Uno schiavo, era vero. Non c'era futuro per loro due, ed entrambi lo sapevano, e lo sapeva pure Astre: ma Astre vedeva anche che,
per quanto il loro fosse un legame impossibile, a loro era stato concesso
almeno di renderlo concreto, perché avessero un ricordo non fatto di sogni
quando le lunghe ombre degli anni avessero oscurato il cielo futuro, rendendo
infinite le giornate, e sempre uguali, sempre più vicine all'ultimo giorno.
Dionide, Astre sapeva, non avrebbe mai potuto amare
qualcuno come amava Idrio.
Così come lui non avrebbe mai potuto amare qualcuno come aveva amato Pherio.
Un muto, terribile ghigno doloroso si colorò sul volto nobile, nel vedere l'Ateniese
che s'era inginocchiato a raccogliere, attento, fra le dita chiare, i cocci
taglienti.
Stupido, stupido Greco!
Uno schiavo!
Un ... un niente!
Eppure quello schiavo, ora, avrebbe potuto chiedere qualunque cosa, che Dionide avrebbe ucciso, tradito, abbandonato tutto e tutti,
pur di vederlo sorridere, felice, pur di non perdere quella vicinanza che era
la sua vita, quel suo posto ai piedi dell'amato e nel trono del suo cuore.
Quello schiavo non sapeva che avrebbe potuto dominare un mondo, e questa sua sciocca bontà era ciò che rendeva vulnerabile lui stesso e Dionide. Quello schiavo sarebbe stato la chiave della sua
vendetta. E la vendetta valeva bene un po' di dolore.
"Idrio, che fai qui? Non sei a scodinzolare
appresso al tuo padrone? – lo vide arrossire, le mani si fecero ancora più
lente nell'aria, come se il dolore pungesse davvero le membra. Si limitò a
negare lievemente col capo, impedendosi di esprimere altro. Astre gli si avvicinò leggero – Comprendo bene il tuo dolore, Idrio. Che
padrone potrebbe mai dirsi buono se si dimentica così spesso di te?"
La menzogna spudorata raggiunse il suo scopo: Idrio sollevò il capo di scatto,
gli occhi negli occhi, pronto a negare decisamente,
pronto a ...ma cadde, senza forze, dentro le iridi abissali del drago bianco.
"Che vuoi che ne sappia di un uomo come Dionide
di cosa sia essere uno schiavo, giovane Idrio? - un sorriso, il re si
rimise a sedere – Uno schiavo: sai cos'è uno schiavo? Una cosa. Un cane val più di uno schiavo, lo sai?"
Rimirò con cura crudele e fredda, e quasi con stupore velato, il
cipiglio di battaglia, e il suo aggrottarsi e il suo … tentennare. Centro
pieno.
"Dionide è abituato, come lo sono io, ad avere
schiavi, sai? Ma egli è un padrone intelligente: ha
sempre avuto a cuore le sue cose. Tu ne sei la dimostrazione. - un sorriso. E
Idrio si ritrasse un poco, come se non volesse udire, ma coraggioso a lasciarsi
dire quelle che altro non erano se non le sue paure profonde, quelle che in altri
tempi era bastato un sorriso e un bacio a scacciare,
ma che ultimamente. . - Anche io avrei allontanato in fretta colui che avrebbe potuto, unico, allungare una mano e
strapparti a lui. Ha fatto bene, suppongo, perché se avessi
potuto, forse, saresti partito con Pirecrate, no? Se
ti avesse lasciato più tempo. Se ti avesse lasciato *decidere*."
Decidere.
Astre attese che quella parola affondasse nell'anima di Idrio,
un pozzo profondo, e l'eco della caduta irrefrenabile assieme al duro e
definitivo tocco della pietra sul fondo. Riprese a parlare. Tono suadente, lo
sguardo ammaliatore, dolce, avvolgente.
"O forse di Pirecrate, infine non t'interessava nulla. Forse avresti
davvero scelto Dionide: ben per te, allora! Peccato che i suoi uomini non vedano di buon occhio la tua
vicinanza, Greco, al Signore dell'Oasi. - allargò le mani un ampio
ventaglio come a togliere i veli che coprivano il mondo – Chissà se ti
riporterà poi a Firuzeh, piccolo Idrio. Te lo sei
chiesto? A Firuzeh mentre lui riprende gli interminabili e frequenti viaggi di
suo padre e, a casa, istruisce per lunghe ore felici ed intense i fanciulli alla sacra arte antica e, di quelle poche ore
concedibili alle numerose mogli, ne fa tempo prezioso per mettere al mondo
figli. Oppure qui: qui ogni tanto potrebbe tornare,
tra un viaggio e l'altro, a vedere come vanno i suoi affari. E
magari i suoi uomini lo convinceranno che è meglio lasciarti qui, lontano, piuttosto
che gettarti in qualche angolo polveroso e lasciarti invecchiare inutile, come
sarai divenuto quando la giovinezza sarà svanita dal tuo viso, e quando Dionide avrà essiccato questo suo desiderio."
Astre vide Idrio, per la prima volta, quasi ondeggiare, combattere con valore
il peso delle sue parole, lacerato nell'intimo. Un dubbio che, come un tarlo,
era già penetrato e già aveva iniziato a ledere la purezza di quel sorriso
dolce che tanto gli era spontaneo sulle labbra.
"Che è quel viso spaurito, Idrio? Gli uomini di Dionide
son stati discreti con te, sempre, perché non sei
certo il primo schiavo di cui Dionide s'invaghisce…
ma questo dovresti saperlo. O
almeno avresti dovuto sospettarlo. Si sta già stancando di te, sai? - abbassò
delicatamente la voce, come a sussurrargli un enorme segreto - Già ti utilizza
come uno scudo dietro il quale cela i suoi interessi a me. Già copre con il tuo
nome, e con la preoccupazione che dovrebbe mostrare verso di te, sotterfugi
segreti. Guardati Idrio: ti sei visto in uno specchio ultimamente? E' vero, il
tempo è stato clemente con te, ma ... - allungò le mani, con la punta delle
dita gli sfiorò, leggero, l'ovale del volto con un'espressione indecifrabile
sul viso - ma anche per te, ateniese, i mesi, gli anni passano. Sembravi così
giovane la prima volta che c'incrociammo a Sparta, ricordi? E
quanto tempo è passato da allora? Anni. Sono anni, giovane Idrio… e tu ora non
sei più fanciullo ma uomo, ho paura. E Dionide, e temo di supporre bene, preferisce i fanciulli agli uomini, fanciulli che può avere anche solamente
sussurrando, e che può sedurre con facilità estrema: bello, ricco, nobile.
Facile innamorarsi del padrone! Cosa farai, dunque,
quando Dionide ti toglierà i suoi favori e rimarrai
uno fra i tanti? Uno schiavo fra mille, Idrio."
Un brivido scosse quelle membra sottili, Astre continuò a sussurrare, non impietosito.
"Strano: speravo che Dionide con te si mostrasse
clemente, e ti donasse la libertà, si preoccupasse di
quando non saresti più stato in grado di soddisfarlo. A quanto pare, invece,
non ti reputa il valore d'un impegno in tal senso. -
socchiuse gli occhi di fronte al pallore irato, confuso – Dice sempre che eri
un ottimo musico: magari vuole regalarti a me, come segno
della sua buona volontà verso il Re di Persia, quando sarai guarito."
Il silenzio scese tra di loro, immobili. Per lunghi istanti non fecero altro che
guardarsi, con i volti vuoti e gli occhi ardenti per troppe emozioni e sensazioni.
"Pensi mai al futuro, Idrio? - un sorriso dolcissimo
- A volte l'idea d'una lama d'un pugnale è quella che,
sola, ci riesce a consolare."