DI ODIO. DI AMORE
 
__
CAPITOLO: 38/?

SERIE: original

AUTORI: Dhely&Kalahari

PAIRING: PherioXPirecrate (una bellissima PherioXPirecrate!!!!).

RATING: Nc-17

NOTE: I pg sono nostri!
 
__
 
Pherio guardava la strada della collina, seduto sulla panchina di marmo tra l'erba smeralda che, cangiante di mille sfumature, gli sussurrava ai piedi.
 
La sera innanzi erano stati invitati a casa di Mecenate e poi Pirecrate non era riuscito a dormire per tutta la notte. S'era voltato e rigirato nel letto fino a che non s'era alzato, esasperato, o troppo stanco per sopportare ancora quell'angoscia strana causata da pensieri tortuosi, assillanti forse. Pherio l'aveva seguito in silenzio, un'ombra chiara dai passi silenziosi, sedendosi accanto a lui sotto il portico, chiedendogli cosa c'era che non andasse con voce appena sussurrata, pettinandogli
indietro dalla tempia la folta chioma. Morbidi erano i suoi capelli scuri e profumati di oli preziosi che lui stesso gli passava addosso per rendere più docili e lucidi i ricci folti e la pelle scura di bronzo, e ora gli pesavano addosso, fra le dita, come fili grezzi di seta intrecciata. Seguirli era perdersi in sentieri sinuosi che annientavano i passi all'interno del cuore antico d'un bosco di cedri aromatici. Seguirli era perdere il suo proprio cuore ad ogni respiro, ed era un bel dimenticarsi di se stesso, ma ora aveva doveri che gli battevano e gli pesavano nel costato, ed erano obblighi che avevano occhi del blu velluto della notte che si approssimava.
 
Occhi meravigliosi. Occhi che sognava, quando non poteva averceli davanti agli occhi.
 
Il nobile guerriero, alle sue domande, aveva taciuto, gli occhi fissi innanzi a sé, gli aveva teso le mani, i palmi aperti, e, presolo tra le braccia e s'erano andati ad addormentare in spiaggia. Quando s'era svegliato Pirecrate non c'era più, nemmeno in villa: scomparso senza che nessuno l'avesse visto.
 
Il cielo aveva perso ora il metallico colore del giorno, il padrone di casa s'era posto un caldo manto di lana sulle spalle infreddolite, mirando con occhi preoccupati l'orizzonte che svaniva in una cortina di tenebra. Aveva uno sguardo fine e sottile, penetrante, Pherio, ma il buio della Sicilia era denso, e lo sarebbe stato fino a che non fossero comparse le stelle, libere di esplodere nel cielo della luce eterna che apparteneva loro.
 
La Luna era solo una linea piegata che si perdeva tra i flutti chiari del mare, ma ugualmente a voce bassa la invocava affinché gli rischiarasse il cammino. Non c'era uomo addestrato da Sparta che non sapesse districarsi anche nel buio più fitto, che non sapesse non combattere anche quando gli occhi erano totalmente inutili, ma la paura faceva battere un po' più forte il suo cuore, un velo di ansia ghiacciava la sua mente: adesso che il mondo aveva iniziato a splendere di luce propria, e ovunque posasse gli occhi vedeva tranquillità e felicità, niente poteva andar storto. Niente *doveva*. Non lo avrebbe sopportato. Non era *disposto* a sopportarlo.
 
Come sapeva, amaramente, la gioia era anche debolezza, e chi non fosse stato disposto a combattere per quello che desiderava era meglio abbandonasse ogni speranza. Ma Pherio no, lui no, sapeva come combattere, e sapeva farlo per settimane, mesi, anni di continuo se fosse stato necessario. Pirecrate meritava questo ed altro. Lui stesso lo meritava.
 
S'alzò, si allacciò il manto sulla spalla, prese un coltello e una lancia dalla grande rastrelliera esterna, e si mise in marcia per andare al paese.

I lupi ululavano nell'entroterra, le montagne lontane erano colossi addormentati, dagli occhi che fiammeggiavano per le fiaccole di qualche capanna solitaria. Ai suoi passi s'accompagnava un'aura di luce, ovunque posava il suo sguardo d'argento gli oggetti si circondavano d'un alone di evanescenza ma Pherio non vi faceva caso, perso com'era in altri pensieri.
 
Le case avevano le palpebre semichiuse, solo il miagolio di qualche gatto interrompeva il silenzio della notte. Vagò, chiese alle guardie delle grandi ville se avessero visto il suo compagno; passando innanzi al tempio di Artemide fissò le colonne con la fronte corrugata, le labbra tese, un mugolio sommesso nella gola. Troppi ricordi sollevava alla luna la sola vista di ampie colonne che candide scintillavano nella piana, si limitò a strappare gli occhi dalla costruzione, lasciando scivolare lo sguardo sulle asperità di un terreno che, giorno dopo giorno stava divenendo sempre più familiare. E amato.
 
Guardava la campagna, deserta e silente, quando sentì un piccolo verso, un singulto simile a quello dell'upupa. Abbassò lo sguardo, sollevò un piede facendo ricadere a terra il gattino che vi si era arrampicato, infilando le unghiette nel cuoio e nella pelle lasciandogli sottili strisce rosse.
 
Il gattino si lamentò, mosse le piccole orecchie appuntite, rosse, graffiandogli l'alluce, zampettandogli intorno curioso, con quella tipica espressione dei gatti che decidono di aver trovato un oggetto di loro pertinenza che, però, non conoscono ancora bene.
 
"Che hai?"
 
S'abbassò per vedere se stesse male, ma quegli occhi color limone erano vispi e più che sereni. Per non farsi mordere le dita del piede, tentò d'allontanarlo con una mano, e il gattino, più felice di prima, tornò alla carica vedendo in quelle dita bianche che si muovevano sopra di lui un nuovo affascinante gioco dedicato solo a lui. Col piglio di un re veterano che si desse a scoprire i territori d'un suo nuovo regno, gli si aggrappò al mantello, arrabbiandosi mentre ricadeva giù, tutto intenzionato a salire su quelle spalle alte, dalle quali poteva dominare per bene il mondo.
 
Pherio lo prese tra le mani, sentì che era un cucciolo morbido che aveva freddo; sorrise del suo aspetto caparbio, ad orecchie indietro, mentre lo fissava senza paura negli occhi chiari, pareva anch'egli un guerriero dai dentini aguzzi, allora se lo portò in petto, avvolgendolo fino a che i tremori non cessarono e, con essi, non mutò la pressione delle piccole zampe
dalle unghie sottili e taglienti come rasoi, da piccoli aghi piantati a fondo, il più a fondo possibile nella pelle, a movimenti ritmici che causavano piccole ferite ma che non volevano esser intenzionalmente dolorosi che andavano a tempo con il lieve ronfare del cucciolo contro il suo cuore.

Pherio tornò alla sua ricerca.
 
Il micetto miagolò, Pherio disse:
 
"Leonida."
 
Come chi riconosce il suo proprio nome, l'animale lo fissò con occhi lucenti poi si accucciò tranquillo contro di lui, decidendo d'essere stanco e d'essersi meritato un po' di riposo.
 
___

Giorni passati a percorrere sentieri, non solo strade, intuendo in un ramo svélto, o in un filo d'erba calpestato un'orma conosciuta. Quell'orma a cui stava dando la caccia.
 
Tre volte il sole si alzò e calò sul suo capo. La luna sorse per la quarta volta e Pherio sospirò, fissando il gatto rotolarsi sul pavimento giocando con una piccola scheggia di legno che aveva la forma di un guscio di noce e che dondolava ad ogni sua zampata, roteando e piroettando, rendendolo un cacciatore felice e soddisfatto.
 
Quella notte non sarebbe uscito a cercarlo. E neppure il giorno successivo: se Pirecrate non voleva farsi trovare aveva il diritto di rimanere solo per tutto il tempo che voleva. Se Pirecrate voleva allontanarsi da .. da lì, poteva farlo e lui non doveva assillarlo con pensieri che, se non sapevano di sfiducia, erano tali da fargli tremare il cuore.
 
Il cucciolo, ai suoi piedi, miagolò quasi irritato cercando di arrampicarsi sul suo grembo e non trovando alcun aiuto per farlo.
 
La veranda dal cui portico cascavano giù dense foglie di vite e tralci e grappoli che stavano divenendo pesanti era buia: poteva farla illuminare a giorno dai suoi servi ma non amava che la luce di Selene venisse macchiata da quella di torce o candele, se poteva evitarlo. E, di certo, Pirecrate non aveva bisogno di una luce, come un faro, per trovare la strada del ritorno.
 
Forse bastava lui, seduto sotto il portico, immobile, in un'attesa che poteva essere infinita, che non mostrava mai alcun segno d'apprensione all'esterno, a richiamarlo a sé, legandolo e incatenandolo lì.
 
Forse.
 
Leonida gli si arrotolò in grembo. Si mise di mordergli la punta delle dita, con un grosso sbadiglio e si accomodò meglio prima di prendere a ronfare sonoramente alla soglia del sonno pacifico proprio dei bambini e dei cuccioli.
 
Pherio si chiese se mai lui avesse assaporato un sonno simile, pacato e tranquillo, profondo, come essere sul fondo di un lago tiepido dalle acque scure che cullava e cancellava i rumori, facendolo vivere in un'unica sensazione morbida che lo avvolgesse.
 
Intorno e dentro.
 
Dentro il cuore.
 
Dentro i polmoni. Fino al punto di non aver più necessità di respirare aria, o di aprire gli occhi, ma solo rimanere lì, immobile, silenzioso, chiuso al di fuori di ogni cosa.
 
La sua combattività, la sua decisione, la sua forza, il suo orgoglio a cosa mai erano serviti? Cosa servivano ora? Armi di cartapesta contro le difese del destino. Un gattino senza unghie che cercasse di trattenere un guerriero che stava per solcare, deciso, la porta di casa. E che non sarebbe più tornato.
 
*Mai* più.
 
Ma che pensieri aveva?
 
Si scosse, furioso. L'arroganza rinacque. Ma la audacia del cuore si guardava intorno con occhi vuoti e ciechi, a cercare un avversario, qualcuno contro cui levare il pugno.
 
Pirecrate aveva il diritto di decidere di solcare quella soglia e di non tornare più. Egli poteva scegliere qualunque cosa, e lui non poteva opporgli nulla che non fosse un consiglio, o una preghiera. Pherio lo sapeva. E sapeva pure che Pirecrate non gli aveva detto addio, che non era accaduto nulla perché fosse maturato un distacco simile, anzi, solo che...
 
La luna scintillò per un attimo con più forza in quel cielo trapunto di mille stelle, sotto la carezza d'un alito di vento più freddo del solito.
 
Leonida mosse le orecchie, sollevando appena un occhio dorato, luminoso come un gioiello e chiaro come a domandargli qualcosa.
 
Pherio si limitò a sorridere stringendolo al petto mentre si mise in piedi, entrando in casa.
 
Fuori iniziava a fare freddo… la porta si chiuse alle sue spalle con un piccolo tonfo che scivolò sui muri interni intonacati, sui quali ondeggiavano le ombre create dal fuoco frizzante del camino.
 
Il fuoco. Ci pensò e lo vide, ancora, di nuovo. Amaro il suo viso piegò le labbra scotendo appena il capo, lasciando andare il micio ad accoccolarsi nella sua cesta imbottita. Ma il fuoco e Pirecrate, dentro di lui, erano così legati, erano così…
 
Tremò improvvisamente come se una lancia di ghiaccio gli si fosse infissa di colpo nel costato, spaccando il cuore.
 
La porta si aprì alle sue spalle, sospinta da una mano che l'aveva lasciata andare dopo un tocco, e lasciò intravedere una figura alta e giovane che s'appoggiava con una spalla allo stipite, fissandolo ad occhi spalancati, di un blu denso e scintillante sebbene un poco velato. Pherio lo fissò a sua volta in silenzio, nascosto quasi com'era dalle ombre lunghe che gli stipiti lanciavano, sbiechi, su di lui. Ma non poteva non sentire l'odore leggero di sangue, essiccato sulla pelle di bronzo, dai muscoli frementi e il sudore che gli s'era asciugato indosso insieme alla polvere e alla fatica.
 
Lo vide bene, con occhi liberi dal velo della malinconia, e il mondo riprese ad avere un senso.
 
Gli voltò le spalle, battendo le mani sonoramente. Ordinò ai servi accorsi di preparare un'ampia tinozza di acqua calda affinché Pirecrate potesse lavarsi, e di portargli gli oli più fragranti e preziosi che avessero in casa.
 
Poi lo cercò di nuovo con lo sguardo: era entrato in casa, zoppicava leggermente, cercava con le mani le mura, che era nient'affatto bisogno di sostentamento nel corpo, ché era saldo e robusto come la quercia, bensì nell'anima, in quel nocciolo sconvolto dai lampi d'una guerra sorda. Pherio sentì col cuore le grida di quella lotta, adesso semplici echi che ancora folleggiavano nel buio della notte dopo lo scontro.
 
Pirecrate si slacciò il manto, cercò con i residui di quel gesto stanco di sfilare i nodi della veste sulla spalla, ricadendo curvo su una sedia, e Pherio gli vide il corpo tempestato di ferite, graffi che solo raramente divenivano abbastanza profondi da mostrare scie rosse di carne.
 
"Fatti pulire, Pirecrate. - disse, avvicinandosi, sfiorandogli la tempia con una mano per farsi guardare; il volto bruno seguì docilmente l'ordine, e sotto le sopracciglia nere le palpebre faticavano ad aprirsi, ma gli occhi cercavano lui. Soltanto lui. - Non sembra nulla di grave ma se s'infettassero potrebbe essere molto doloroso."
 
Prese un respiro, raccolse come se fosse stato muto dopo aver gridato tanto.
 
"Non è niente Pherio."
 
E le labbra sussurrarono altro ancora: Pherio si inginocchiò per poterlo sentire meglio, ma Pirecrate gli passò una mano intorno alle spalle, baciandogli i capelli, stringendolo a sé come se avesse pensato di non rivederlo più, come se l'animo avesse patito qualcosa di indicibile per cui non credeva avrebbe rivisto mai la luce.
 
"Pirecrate... - e sebbene non ci fosse alcun sorriso morbido a piegare le labbra morbide di Pherio, esso lì brillava con una forza che solo l'anima poteva sopportare di contemplare - Ma mi fa piacere occuparmi di te."
 
Tacque quando i servi entrarono portando ciò che era stato ordinato, finché di nuovo ognuno di loro non fu tornato al suo posto, lontano da lì. Indicò a Pirecrate la tinozza con l'indice nobile della sua mano.
 
"E' compito
dei servi lavarmi. Chiama uno di loro, non preoccuparti. – vide il rossore soffuso sotto le palpebre lisce, segno di una stanchezza che Pherio non avrebbe mai nominato; gli sfiorò allora le sopracciglia, preoccupato - Va' a riposare, basta dolore: lo vedi che sto bene. Ti raggiungo, mi sistemo da me."
 
Pherio piegò le labbra, serrandole come a voler trattenere la marea di sensazioni e sentimenti; in un gesto fresco venne avanti col volto, e intorno alle tempie caddero i fili d'oro della sua chioma.
 
"Pirecrate. . - trattenne per un attimo il fiato fra i denti, poi gli scivolò dalla lingua un sorriso pallidissimo - mi piace occuparmi di te. Sempre che la cosa non ti sia troppo spiacente."
 
Aggiunse, abbassando lo sguardo ostinato e disorientato: voleva essere lui quello che, adesso, doveva risanare quella pelle, quel corpo. Ed era una follia, una sciocchezza, eppure essa era lì, nel suo cuore, piantata con forza dentro di lui. Il desiderio folle di prendersi cura di Pirecrate come ... come la cosa più preziosa che avesse, disposto a lavargli le caviglie lacerate seduto ai suoi piedi senza sentire umiliazione alcuna, ma solo una gioia indescrivibile e soverchiante.
 
Era la cosa più preziosa che avesse mai avuto accanto. Ed era *suo*. Era un appartenersi che non sminuiva ma che colorava, anzi, d'una diversa importanza il loro stare insieme.
 
Sorrise appena accompagnandolo sprofondare nell'acqua, bagnandogli il ventre dorato dalle lingue di carne lacerata anni prima e da anni cicatrizzata, le braccia, gli avambracci dal sangue secco. Gli versò sui capelli una brocca d'acqua pulita e di nuovo, di nuovo quei ricci accolsero la cascata pura prima di essere percorsi dalle dita chiare e sottili, piene di oli profumati che rendevano lucenti e morbide le onde, togliendo l'opaca polvere, rendendo il crine splendente come doveva essere e sciogliendo, con mille passaggi lievi e delicati delle mani, ogni più piccolo nodo.
 
I suoi capelli: così belli da averli sempre invidiati. Sempre, da quando aveva visto con occhi fanciulli che il castano pesante dei capelli degli Spartani poteva colorarsi di quella sfumatura luminosa e aggressiva, come piccole lingue di fuoco che ardessero perpetuamente su rovi fitti del sottobosco. Pherio li carezzò a lungo, poi li tamponò e infine passò tra di esso un pettine chiaro, dai denti larghi, asciugandoli, donando ad essi una vaporosa consistenza, come una nube oscura e ribollente. Avrebbe voluto sprofondarci il viso, avrebbe voluto.
 
Un piccolo sospiro. Pirecrate poggiò le mani sui bordi della vasca, facendo per alzarsi, e sollevava lentamente il volto stanco a cercare i suoi occhi, con scolpita tra la fronte e la bocca la bellezza della vulnerabilità. L'acqua colò piano sul pavimento.
 
Lo fece
alzare, tamponandogli la pelle con un ampio rettangolo di soffice stoffa. Come un sole ancora incandescente brillava Pirecrate a un passo da lui, anche se le sottili strisce che aveva addosso lo rendevano più umano, piegando una perfezione che rischiava di essere assoluta, impossibile per un uomo.
 
Era bello.
 
Dei se era bello.
 
"Stenditi. - gli disse indicandogli il letto - devo verificare che le ferite siano pulite."
 
Pirecrate, avvolto dal bianco candido della lanella lavorata, pregna di acqua, gli prese i polsi, portandoseli sul petto. Pherio sentì le mani scuotersi dal profondo, le dita tremare; era un poco più alto del suo compagno, ma egli in quel momento gli parve il titano Encelado affondato nella terra e chiuso alla vista del cielo dall'Etna di magma.
 
"Senti freddo?"
 
Colse il mantello che Pherio, chinandosi su di lui a lavarlo, aveva lasciato cadere, e glielo riavvolse sulle spalle. Il cielo palpitava fuori dalle ampie finestre fessurate da grate di legno, rombate, e i profumi della campagna e del mare invischiavano l'aria frizzante della sera.
 
Pirecrate lasciò che gli occhi di azzurrissimi scrutassero, uno per uno i graffi, e andò a distendersi sul letto come gli era stato chiesto, lasciandogli togliere le schegge dei rovi infilate sotto la pelle. E lasciò in silenzio che, su quelle ferite sottili Pherio versasse altro olio, dal profumo acre di limone, per poi bendarle, senza sforzarsi di celare la sensazione di piacere a sentirle rinfrescate fin nel profondo, anche se un poco doleva. Sparta era stata la loro nutrice, e sapevano tutti quanto le ferite non curate dolessero e distruggessero anche i nervi più saldi. Adesso le piccole smorfie che gli arricciavano il naso erano dolci, meritavano d'essere baciate, e suscitarle era meraviglioso.
 
Altro olio gli colò fra le dita, scaldandolo sui palmi, dopo averlo fatto voltare sul ventre. E un altro tocco lungo, delicato, sulla schiena, a seguire i muscoli frementi in un grumo di tensione. La pelle era calda al suo tocco, e non era difficile cogliere la sua durezza, e il suo scopo era quello di scioglierlo, di seguire la sua spina dorsale, conficcando le dita sottili nei muscoli, ammansendo sotto il suo tocco quelle membra dure ed allenate.
 
Dischiuse appena le labbra e sorrise nel sentire Pirecrate abbandonarsi a ogni passaggio delle sue mani, e il brivido sottile che sorgeva dentro di lui a ogni sospiro e si trovò felice nell'avercelo accanto, semplicemente lì anche in silenzio, senza alcuna spiegazione.
 
Pherio non aveva bisogno di spiegazioni che Pirecrate non era pronto a dare.
 
Un sospiro pesante, e a chinare gli occhi azzurri sulla sagoma prona che si accorse stava dormendo.
 
Come un cucciolo.
 
Pirecrate dormiva sul loro letto. Sotto il suo tocco.
 
Pherio si mise a sedere, sorridendo.
__
 
 
"Asato ma sàd gamaya
Tàmaso ma jyotir gamaya
Mrtyor mamrtam gamaya"
 
La voce inseguì la voce, intessendo, nella notte del deserto, il canto silente che si perdeva fra gli echi infiniti delle stelle che danzavano.
 
Parole magiche di fioritura e guarigione, e l'infinito miracolo della valle frugifera che si stendeva, verde contro il rosso screpolato della terra secca del deserto, di fronte a loro.
 
Il canto di gioia che finì in un singhiozzo, in esso fu catturato e crollò nell'oblio.
 
___
 
Le dita rosate di Aurora gli sfiorarono le palpebre, la fronte in una tenera carezza di madre. Pirecrate uscì lentamente dal morbido torpore in cui era scivolato durante la notte e per un attimo non riconobbe nulla di ciò che lo circondava. La sua mente era ancora puntata su tanti anni all'indietro del passato e si ritrovò a guardare quel mondo nuovo con occhi spalancati e limpidi di stupore infinito d'un fanciullo che fosse appena uscito alla vita. 

 

Tutto, intorno a lui, aveva un'impronta inaspettata e lucente.
 
Tutto era … spaventevole, in un certo modo.
 
Tutto era ... come soffuso d'uno strano chiarore che non feriva lo sguardo, che non sgomentava, che non prometteva nulla che non fosse già esistente e a portata di mano. Tutto era lì, ed era una bella sensazione, era qualcosa che rendeva fragrante l'aria e profumata, frizzante.
 
Era come se un terribile macigno di pece e lava gorgogliante posato da anni sul suo spirito si dissolvesse, lasciandogli finalmente la possibilità di crescere. Lasciandolo libero.
 
Libero di vivere.
 
Libero di amare.
 
Libero di… di essere se stesso.
 
Pherio dormiva su uno sgabello di cuoio accanto al letto, la schiena appoggiata al muro, il volto segnato da troppe notti insonni ora pareva rilassato, le palpebre chiare e lunghe tremavano appena  appoggiate agli zigomi, assecondando lentamente il fiato che entrava ed usciva dalle labbra appena dischiuse come petali carnosi d'un rorido bocciolo di rosa.
 
Com'era bello: la luce pareva provenire da lui tanto forte era la sensazione  in Pirecrate, che Pherio non potesse che essere il centro del suo mondo.
 
Bello lo era sempre stato.
 
Ma non era quello, era altro: qualcosa dentro che bruciava e ardeva e strattonava per tornare al suo posto, chè ora il suo sguardo era aperto sul presente, su un presente che conosceva, e che accettava con piacere, di cui si diceva fortunato.
 
Oh dei. Doveva essere quasi un sogno di qualche genere, che non poteva crederci, che faceva male il cuore in petto solo a guardarlo, solo a saperlo lì, solo per lui!
 
Pirecrate tese una mano e non si stupì nel vederla tremare appena perché era il suo stesso cuore a fremergli in petto. Era la sua anima simile a un pulcino bagnato. Fu il fruscio delle bende che si scioglievano, morbide, dai suoi avambracci, a farlo ritornare in sé.
 
Ma quanto aveva dormito?
 
Gli avambracci, le braccia, il costato, le cosce, i polpacci: ricordava il suo corpo arabescato da una miriade di graffi leggeri, spine di rovi abbarbicati e infissi nella sua pelle, ricordava pure le cure dolci, carezzevoli, le carezze, l'olio profumato … e ora la pelle era semplicemente perfetta, senza alcun segno. Come se mai si fosse lacerata.
 
Tutto quello in una notte?
 
Eppure scostò le bende dal ventre, passò i polpastrelli sulle cosce: su di lui resisteva solo il profumo dell'olio che imbeveva le garze e la sensazione, ancora presente, di quel tocco indosso, di quelle dita. Quelle mani.
 
Pherio.
 
Un movimento veloce, appena al limitare del suo campo visivo lo fece tendere come il guerriero che era
. Ma il guerriero rimase senza parole di fronte a … a un cucciolo dal pelo rosso che saltava sulle bende che si muovevano piano fra le lenzuola, e affondava le unghie e i denti, e vi si rotolava, giocando.

Un gatto?
 
Lo prese per la collottola, sollevandolo all'altezza del viso scrutandolo bene. Era un gatto, senza dubbio, con due occhi grossi e gialli come due scudi d'oro che lo fissavano intensamente con fare seccato. Non era felice d'esser stato distratto dal suo nuovo gioco!
 
Modulò un miagolio strozzato e si torse sulla schiena per liberarsi da quella presa, ma delle mani pallide lo presero ben più delicatamente, sciogliendolo dalla presa di Pirecrate.
 
"Leonida, ti sei già presentato, vedo."
 
Pherio sorrise appena adagiando il cucciolo sul pavimento dove, sentendo freddo con le zampine, corse a cercare un posto più consono, stendendosi sul mantello rosso che Pirecrate aveva abbandonato la notte prima. Odore sconosciuto, quasi. Il gatto fece uno strano verso e prese a farsi beatamente le unghie sulla stoffa spessa, fintantoché nessuno dei due umani gli stava prestando attenzione.
 
Pirecrate si limitò per un attimo a contemplare quegli occhi chiari, poi si strinse nelle spalle liberandosi dalle fasce di stoffa.
 
"Leonida? - rise di un unico sorriso, un po' offuscato – Mi stupisci, Pherio! Non ti credevo interessato a tenerti un animale domestico."
 
Tentò di sollevare il capo, sbirciando la reazione dell'altro, ma quando vide solo una pacata serenità ne fu comunque felice.
 
"Non volevo tenermi un animale domestico, e, se avessi voluto farlo, di certo non avrei scelto lui. - inclinò appena il capo - Ma è stato Leonida a scegliere me e questa casa. Con che cuore mi rifiutavo?"
 
Un sorriso
. Pirecrate sentì male al cuore, di nuovo. Pherio sembrava pallido e portava sul volto le tracce di una stanchezza lunga: per quanti giorni Pirecrate non era tornato alla loro casa? Pherio doveva aver vegliato… forse l'aveva cercato ... forse s'era disperato.
 
Dimenticò Pirecrate il gatto, le bende, i graffi, i rovi, ciò che aveva vissuto in quei giorni. Allungò le mani e le strinse, avvolgendole, intorno ai polsi di Pherio, fissandolo negli occhi. E anche se il movimento era stato brusco, la sua espressione era dolce, ora, e morbida d'un affetto appena velato dal timore. Gli baciò le nocche, lentamente, poi prese un
respiro, distogliendo gli occhi dagli occhi, abbassandoli.
 
"Pherio, questa mattina ho abbastanza forze da dirti il perché. Il cosa. Duranti queste notti io ... io ho perdonato la causa di ogni mia sciagura - inciampò con la voce, dandosi coraggio nel dar vita a quel che era accaduto, nell'affrontarlo lui stesso col senno del poi - Ho perdonato mio padre. – un nuovo respiro, silenzio in risposta, non un movimento o un tremito di quelle mani chiare che riposavano tranquille nella sua stretta - Tu potrai mai perdonare me?"
 
Per quello che gli aveva fatto in anni.
 
Per quello che gli aveva fatto *ora*. Per averlo messo in ansia. Per averlo obbligato alla veglia. Per la sofferenza, la preoccupazione, forse il dolore…
 
Un sorriso.
 
Lo sentì sorgere, quel sorriso, sulle labbra che gli erano di fronte, con il lento suono che accompagna il fiorire d'un fiore e Pirecrate sentì il suo cuore sul punto di spezzarsi.
 
"Non hai mai avuto nulla da farti perdonare, Pirecrate. - null'altro, un tono semplice, asciutto, tranquillo. Poi si alzò tirando le membra chiare verso il soffitto. - Se te la senti potremmo uscire a fare due passi: oltre ai mandorli son fioriti anche gli aranci e i peschi. E' una cosa da ammirare davvero: raramente ho visto qualcosa di più bello. Vieni?"
 
Pirecrate soffocò
una risata in gola, saltando giù dal letto. Non fece neppure caso ai vari brandelli di stoffa carminia che Leonida stava, con perizia, spargendo per la stanza.
 
 
 
 
Se al mondo mortale fosse esistito un luogo più divino di quello, di certo gli dei stessi dovevano averlo eletto come loro dimora terrestre. Null'altro oltre a quello riusciva, il Dimano, a pensare nel vedere ciò che lo circondava: incantevolmente aria e acqua e terra e luce si mescevano insieme tra rami frondosi e grappoli densi di fiori i cui petali erano d'una bellezza senza pari e, aperti al mondo, alcuni volteggiavano già per rendere il pavimento verdeggiante colmo di profumi e colori, come se non bastassero le margherite pallide, e quei timidi fiori che rosavano d'imbarazzo per essere così mirati.
 
Cercare aveva cercato.
 
Aveva seguito i consigli e aveva trovato la via che conduceva dritta ove la sua mente era fissa da troppi anni, aveva svelato alcune verità, altre forse non sarebbero mai state udite sotto il sole, chiuse com'erano in una tomba che lui stesso aveva preparato e coperto di terra nera e grassa, fertile.
 
A Sparta non c'era una terra così.
 
Guardò Pherio e: no, a Sparta non poteva esserci un uomo così. Il suo compagno.
 
Sapeva abbastanza per essere sommerso di dubbi e domande, eppure a nessuna di quelle aveva dato voce. Neppure un ombra aveva oscurato il suo sguardo chiaro e lucente, un Febo incarnato e dolce, paziente, e Pirecrate sapeva che non avrebbe osato porre questioni, non avrebbe mosso un solo passo verso quella direzione se non vi fosse stato accompagnato.
 
Pherio non aveva chiesto né l'avrebbe fatto. Aveva atteso giorni, avrebbe continuato a farlo. L'aveva accolto, l'aveva curato in silenzio e in quell'atteggiarsi Pirecrate aveva visto il sacerdote che era stato: sacerdote come servitore degli dei, silente esecutore dei desideri di chi è più in alto di lui. E invece ciò che muoveva Pherio era solo rispetto. Era solo amore.
 
Fredda indifferenza. Mente astuta che intesse piani nell'ombra di una cattiveria acre: questo era ciò che per anni aveva visto in lui, e Pirecrate ora si accorse che era stata la sua luce a trarlo in inganno. Un riflesso l'aveva accecato e lui aveva immaginato che in esso si celasse il bagliore d'una lama tenuta nascosta sotto il mantello, non aveva mai pensato che fosse lo stesso chiarore che strappa gli occhi d'una pozza d'acqua limpida battuta dal pieno sole del meriggio.
 
Sorrise, Pirecrate, nel vedere il suo compagno a lui così vicino, accanto: bastava allungare una mano e ne avrebbe sfiorato una spalla, avrebbe sentito il calore che lo rendeva vivo, non un miraggio, o un sogno, ma uomo di carne e sangue come lui. Quanta passione sapeva albergare dietro quell'aspetto! Quanta foga, quanto calore!
 
Pherio pareva assorto, rapito nel contemplare ciò che gli stava intorno: le sue labbra piegate, morbide, in una posa rilassata, un'espressione pacata di soddisfazione e completezza. Il timore che aveva provato aveva lasciato tracce, certo, su di lui, ma erano segni che s'intuivano appena come se nulla, ora, fosse importante.
 
 
 
Nulla, ora, era importante.
 
Nessuna spiegazione, nessun chiarimento: non c'era nulla da dire e da dirsi.

 

Pirecrate era tornato.
 
Era tornato ed era lì, da lui. Con lui.
 
Il resto era remoto: aveva abbandonato, gettandosi dietro le spalle, la sua città, come credeva non avrebbe mai fatto, non avrebbe mai potuto fare; aveva dimenticato, da tempo, cosa fosse avere una parola sacra che, nel rispettarla, si facesse sfoggio di tutta la propria purezza d'intenti perché aveva mentito e tradito, non solo gli uomini ma pure gli dei. Aveva tradito se stesso, era venuto meno ai giuramenti, agli impegni. Ma nulla di tutto ciò aveva una pur minima importanza: Pirecrate era lì, era tornato, da lui. E sorrideva, ora, e forse sarebbe stato un po' in pace… forse avrebbe trovato il modo per costruirgli intorno un po' di quella pace che il Dimano meritava. Pace e gioia. Ciò che lui stesso non era degno di meritare, Pirecrate avrebbe dovuto possedere a piene mani. Avrebbe accettato tutto, avrebbe potuto farlo, sì, per lui.
 
Avrebbe imparato a farlo anche se, quando l'aveva visto tornare, avrebbe voluto esplodere in lacrime e ucciderlo per averlo fatto così soffrire, perché avrebbe voluto avere parole acri di rabbia, grondanti odio e derisione, avrebbe voluto obbligarlo a spiegare, raccontare tutto… avrebbe voluto poterlo incatenare, prima che se ne andasse, impedirgli di iniziare
quel percorso che non si sapeva che termine avrebbe potuto avere. Avrebbe voluto aver la forza di ucciderlo prima di costringerlo a quella preoccupazione, come se Pherio fosse stato solo una fragile donna indifesa in grado solamente di rimanere a casa ed attendere il ritorno del marito!
 
L'aveva odiato, sì, in quei giorni in cui non ritornava, in cui la sua figura non si vedeva risalire, da lontano, il pendio che portava all'ingresso della loro casa, l'aveva detestato, era stato tentato di armarsi e partire, per cercarlo, per conficcargli una lancia nel costato per vedere se davvero, quel dannato, avesse un cuore in petto!
 
Ma no: no. Sapeva che era dovuto partire, perché ci sono, al mondo, dei sentieri che gli dei tracciano per essere percorsi una volta sola, e da una persona sola. Lui, in quello, non aveva spazio e forse… l'amarezza tornò, pesante, sul cuore, come un macigno sulle membra che lo facesse affogare nel mare melmoso d'una cupa disperazione. Aveva perduto tutto, Pherio lo sapeva, tutto ciò che aveva un qualche valore, tutto ciò che lo rendeva distinguibile da uno schiavo. Non era più nulla e forse… forse … il fiato gli si mozzò in gola, rifiutò con forza di voltare il capo al suo fianco, ove Pirecrate camminava, per nascondere, fin quando fosse stato possibile, quelle lacrime amare che invisibili, solcavano il cuore e lo facevano sanguinare, mostrandolo debole com'era.
 
Disperato, avrebbe voluto urlare il suo dolore, il suo timore: avrebbe mille volte, ora, preferito la solitudine in cui a Sparta lo ficcavano piuttosto che quell'infinito silenzio denso di fertile attesa. Avrebbe preferito non essere, piuttosto che essere debole.
 
Ma.
 
Pirecrate gli sfiorò piano una spalla, attirando la sua attenzione. Erano giunti sul pendio più elevato di tutto il giardino, alle pendici di quello che era un dolce declivio. Su, in alto, si intravedevano il rincorrersi di monti remoti e giù, sulla destra, la terra dolcemente scendeva, in onde delicate e verdi, fino a sbiadire nella sabbia fine che era la spiaggia. Di fronte: il brusco spaccarsi della terra in uno strapiombo da cui risalivano le urla e i singhiozzi delle onde morenti contro gli scogli aguzzi.
 
Olivi antichi, intorno a loro, intrecciavano i rami e le radici robuste con i tronchi flessuosi e sottili degli aranci e frusciavano, insieme, tremando, come se fossero corpi sfiorati dalla carezza d'un amante prezioso.
 
Gli occhi di Pirecrate danzarono, assaporando ciò che li circondava come se fosse una creatura in grado di nutrirsi di bellezza, assetato di essa. Poi indicò appena ove il fusto di un albero si piantava nel terreno, e allargava le radici mollemente, come designando una parte di terreno chiusa al mondo, abbracciando quella zolla di terra come fosse un amante.
 
Comodamente si sedettero entrambi, la schiena contro l'albero, il braccio di Pirecrate attorno alle spalle, attirandolo a sé, facendolo pesare contro il suo corpo, vicini, allacciati come chi è stato separato per troppo tempo, come chi non vuol più rimanere solo. Le dita percorrevano pensose i suoi capelli ancora corti, ma che sfioravano già le spalle, ormai, ed incantato gli occhi si perdevano nelle sfumature dell'oro che scintillava lì per lui.
 
"Presto dovrai mandare un messo alla dimora di Mecenate, Pherio. Abbisogno di parlargli di nuovo."
 
Silenzio.
 
Poi:
 
"Potremo andarci non appena vorrai, Pirecrate. - un lieve sussulto, le palpebre che si chiusero lentamente - Se invece preferisci andar da solo."
 
"No! - Pirecrate pareva quasi … spaventato? Pherio sollevò il capo, congiungendo le mani sul suo petto, all'altezza del cuore - No, verrai anche tu. Vorrei che venissi."

Riconobbe in quegli occhi lucenti mille e mille sensazioni e poi timori e rabbia forse, e domande, e la necessità imperiosa di risposte. Pherio sentì il cuore bloccarglisi in petto quando s'accorse che in quegli occhi viveva il *bisogno* di lui. Il bisogno di averlo accanto. Il bisogno di saperlo al suo fianco. Il bisogno di amarlo, e di essere amato.
 
Le braccia scure di Pirecrate gli si strinsero intorno alle spalle, il suo fiato gli sfiorava le tempie, e a quello erano mischiati baci leggeri e sussurri di cui non riusciva a intuirne le parole modulate. La fronte, le guance, le palpebre socchiuse e poi giù fin sulle labbra a riempirgliele di infiniti baci e sospiri: Pherio s'aggrappò a lui ricambiando con la stessa furia e identico dolore, i baci che da molti divennero uno, e profondo, e infinito. Passione che si mesceva al desiderio, al bisogno vitale di essere lì, e di essere insieme, e uniti, ché soli, ora, nessuno dei due sarebbe più riuscito a stare.
 
E pareva tanto una maledizione, quella: ma se lo fosse davvero stata, Pherio pensò, che fossero benedetti gli dei crudeli che infliggevano pene simili! Che obbligavano ad essere insieme per riuscire a sopravvivere, che allacciavano due destini perché si morisse di struggimento se non si fosse più stati l'uno nelle braccia dell'altro. E quella era una debolezza, una terribile, madornale debolezza, e Pherio lo sapeva, ne era consapevole, ma non gli importava. Gli importava solo di essere lì, fra le braccia di Pirecrate, e sentire le sue mani sfiorargli il corpo, e stringerlo e piegarlo e chiedergli, in silenzio, passione, e soddisfazione.
 
Prendimi.
 
Non importava altro, ora. Tutto scoloriva, nulla aveva importanza. Le domande avrebbero trovato risposta nello scorrere del tempo e gli dei poco si sarebbero curati di due uomini che non riuscivano a far altro che vivere l'uno per l'altro, l'uno fra le braccia dell'altro.
 
Prendimi.
 
Il dolore e la passione dovevano essere fratelli, in qualche modo, perché trafiggevano il cuore, entrambi, con spine aguzze e affilate e da esso strizzavano lacrime e sangue. E desiderio. Il desiderio che era sbagliato, il desiderio che doveva essere sempre combattuto, estirpato: questo ciò che gli avevano insegnato. Ma ora nulla più di ciò che era stato aveva un valore… Lui non era più quello che era stato.
 
Prendimi.
 
Un uomo nuovo nasceva sotto quelle carezze, fra quelle braccia. Pherio diventava un uomo nuovo mischiandosi, fondendosi con Pirecrate, fino al punto da non riuscire più a comprendere dove finisse l'uno e iniziasse l'altro. Dove fosse se stesso e dove terminasse Pirecrate.
 
Prendimi.
 
Un singhiozzo scappò a Pherio dalle labbra quando Pirecrate lo ebbe spogliato degli abiti chiari di lino e lo ebbe stretto a sé con tutta la forza che seppe trovare. Ma non era un singhiozzo di dolore. Non era un singhiozzo di rifiuto.
 
"Prendimi, Pherio."
 
Pherio spalancò gli occhi, di scatto, come se gli avessero gettato indosso una secchiata d'acqua gelida. In risposta ebbe solo uno sguardo aperto, deciso, sicuro.
 
Da quanto tempo lo desiderava? O forse non l'aveva mai desiderato e s'era accorto che poteva esistere una cosa simile in quel preciso istante?
 
"Pirecrate."
 
Il fiato che gli sfuggì dalle labbra modulò il suo nome ma null'altro, oltre a un'immobile guardarsi, che se fosse stato eterno non sarebbe stato pesante  solamente dolce, infinitamente dolce, e giusto.
 
*Giusto*.
 
"Pherio, voglio essere tuo come tu sei stato mio."
 
Giusto.
 
Chiuse gli occhi, Pherio, perché si accorse di non riuscire a vedere Pirecrate attraverso le lacrime che sentiva bagnargli le guance.
 
Era solo giusto. Era fare di due, uno. Era *essere* uno.
 
Il suo corpo: bronzo e sangue, muscoli duri, nervi frementi, e una bellezza infinita, scolpita in ogni palmo di pelle, in ogni singolo movimento e guizzo di quelle membra, nel suo sguardo, nei suoi baci, nelle sue carezze. Troppo bello: Pirecrate era troppo bello, così lo sentiva, con forza, dentro di sé Pherio, così lo vedeva. E quella troppa bellezza era impossibile da reggere, era dolorosa, tanto era desiderata, eppure … eppure era una bellezza umana, viva, palpitante: le ferite che non erano più si aprirono negli occhi della mente, spargendo di rosso sangue le membra di rame, sporcando la purezza, infrangendo l'immagine di una inumana perfezione che rischiava di farlo perdere di nuovo nella contemplazione. Egli era un uomo, ed era bellissimo, eppure era lì, ed era per lui. E lo voleva.

 

Lo morse, forte, su una spalla, singhiozzando mentre i canini e gli incisivi affondavano nella pelle odorosa, facendo uscire uno zampillo di sangue.
 
Era giusto desiderarlo, ed essere desiderati. Era giusto essere invischiati in un abbraccio che non si sapeva chi aveva iniziato, che non si sarebbe mai riusciti a sciogliere. Era giusto possederlo mentre si era posseduti. Era solo … giusto.
 
Così come doveva essere.
 
Possederlo con attenzione e delicatezza, sentirlo tremare ad ogni carezza già data, già conosciuta, eppur nuova ogni volta: era questo che doveva essere. Piano, non voleva fargli male, non voleva portare dolore.
 
Non *poteva* portare dolore a Pirecrate.
 
Non così, nel completarsi. Non così nell'essere l'uno per l'altro, esclusivamente, assolutamente.
 
Pirecrate era suo. Lui era di Pirecrate. Ed era solo giusto.
 
Corretto.
 
Ed era passione e fiamme che bruciavano e divoravano e facevano a brandelli le viscere e l'anima anche, e sentire acutamente quanto si era stati soli, stupidamente arroccati nel proprio egocentrismo e quanto, ora, valesse quel perdersi l'uno nell'altro. L'uno *per* l'altro.
 
Entrambi erano sia strumento che fine del completamento reciproco. Entrambi erano uno specchio che si specchiava in un suo gemello. E l'immagine rimandata era l'infinito.
 
L'infinito amarsi, l'infinito possedersi, l'infinito conoscersi e restituirsi, l'uno all'altro, tramite ogni singolo gesto. Quello era un momento che divenne luogo in cui il presente e il passato si fondono. Quell'istante divenne il tempo, tutto, concentrato in un unico respiro, e tutto il mondo, tutto ciò che di bello e meraviglioso e potente e incredibile non valeva una singola scintilla di quel fuoco.
 
E non c'era nulla che valesse quello sguardo.
 
E non esisteva nulla che potesse essere neppure immaginato che poteva rivaleggiare anche solo col fantasma d'una di quelle carezze.
 
Pherio esplose.
 
Il piacere. I singhiozzi.
 
Lacrime che gli scivolavano sulle guance, che cadevano sulle guance di Pirecrate.

 
Quando quelle lacrime caddero a terra, neppure gli dei avrebbero saputo dire a chi dei due appartenevano.
___