DI ODIO DI AMORE
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CAP: 37/?
RATING: Tanta tanta dolcezza!! Lemon.
AUTRICI: Le mitiche Dhely e Kalahari!
PAIRING: PherioXPirecrate, Pherio+Pirecrate.
NOTE: Poiché è Natale e abbiamo molti capitoli in riserva, vi
inviamo fino al 39, sperando al più presto di farli seguire dal 40!
Buona lettura a tutti e Buon Natale. ^*^
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Bosco sacro di ulivi splendenti della Trinacria bella, che s'innalzano contro il cielo sgombro di
nubi, d'un fresco azzurro croccante del frinire dei grilli, e i rami argentei
che s'intrecciano contro le dita nodose e scure delle querce antiche, cariche
di venusta maestà, che scintillano riflettendosi nella polla limpida d'acqua
chiara, pulita e rapida.
Acqua allettante.
Acqua pura e purificante: acqua da abluzioni.
Sete dall'anima, arsura come di incendio covato
nel petto: stanchezza, come di corsa di ore ed ore tra valli e boschi
appresso alle prede. E quando i guaiti dei cani
neppure son più in lontananza, quando il risuonare
dei corni svanisce perduto, il vago cacciatore piega le ginocchia accanto alla
pozza e nell'acqua il capo v'affonda, vi beve avidamente a labbra spalancate,
la lingua assaltata dall'impeto della corrente e quel liquido divino,
inghiottito, ingoiato, cercato, forse, a trovar modo di respirare sotto la
superficie liscia chiusa sopra il capo di luce.
I muscoli della schiena a tendersi, un boccheggio
dal petto, un sorriso compiaciuto sulle labbra, il fianco, di lato, gravato dal
peso del corpo, il capo chino appena verso fonte. Il sole che lancia saette
spigolose fra capelli zuppi e lucenti, ricchi di ombre
sinuose destinate a perdersi in tutto quell'oro
vischioso.
Improvviso un richiamo, d'un falco pellegrino, dal mare che spumeggia
lentamente fin da laggiù, rompe la serenità incantata di quel meriggio immoto,
non come un cristallo che si frantuma su pavimento marmoreo, bensì come un
sasso lucente che la quiete superficiale del lago spezza crollando dalla
scoscesa parete di pietra, e l'ampia superficie solcano
lente onde morbide a svanire di nuovo inghiottite dal frinire dei grilli, dal
verdeggiare del prato, dallo stormire gentile delle fronde.
A sfiorargli la guancia osserva il dondolare di corolle minute e rosse: anemoni scarlatti, margherite a migliaia che gli si allargano intorno alle membra come il presagire d'un atroce sudario, residuo d'un sogno forse mai stato. Anemoni rossi, anemoni sanguigni: gli pare di ricordare fiori simili intrecciati ai suoi capelli, il palpitare tremante di quei petali. Ricorda la fatica e la lunghissima e vana caccia quel giorno. e anemoni attorno, come ora, tutt'intorno, a circondarlo, a ricoprirlo, fluttuando nell'aria come grani di terra sollevati a chiudere per sempre ai suoi occhi la luce del giorno.
Un fruscio dalla boscaglia gli fa sollevare un poco la fronte inarcata sotto
sopracciglia tese: il sottobosco freme d'impaziente attesa e di muto
avvertimento ma egli non muove neppure le dita.
Fosse un attacco, la lancia neanche ha con sé, lei abbandonata
chissà dove. . ma, no, chiude le palpebre al sole di
fronte al rumore di passi che falciano sicuri e ardenti l'erba fresca.
No: un nemico, un attacco? Ebbene, che sia se deve
essere! Non può difendersi, ché non intende farlo. Il
suo sangue sa con precisione che una lancia non basterebbe a fermare quell'assalitore, come una semplice tenda di lino non era sufficiente a tener fuori il furioso grido del vento.
Una bestia pericolosa, fumante rabbia e sangue, fremente di furia battente gli
zoccoli contro la terra in sussulto, e il clangore del bronzo sbattuto contro
il bronzo. Una spada contro un'armatura contro cui in vano
lottano le fronde dei tronchi chiari che avrebbero voluto proteggerlo, e che di
quel contatto sanguinano densa ninfa zuccherina. Il passo rallenta.
Ed.
... è lì che deve stare.
... è lì che vuole stare.
Lì. Da sempre: attende quel momento, per quello era vissuto,
perché.
In quello.
Il suo fato si compisse.
Spalanca le braccia. Come a voler affondare le unghie nel cielo, scintillante.
Socchiude gli occhi, troppa luce. Rupe che getta piacevole oscurità, figura
guerriera sopra lui: il rame.
Che rove.
Sul bracciale alto, sugli schinieri, sul coprispalla:
il resto.
In ombra.
Di cui solo gli occhi brillano e impallidiscono l'insopportabile.
Fremito.
Del sole.
Fiamme ardenti di fuochi eterni. Gialle, rosse: lingue danzanti nel petto magmatico d'un vulcano. Gli anemoni alzano il capo, brivido alle piccole radici nel terreno violato da igneo tuono, riconoscendolo, fremendo sugli steli nel salutarlo, accoglienti tra le sottili foglie il peso del bronzo, su di loro gettato: la spada, la cinta, gli schinieri, il coprispalla.
Il bracciale, un ciottolo trascinato via dal fiume nel pieno
della violenza.
Il cacciatore, Pherio, il quale non era cacciatore, sorride. I suoi occhi
azzurri e chiari, limpidi da far male come il ghiaccio tagliente, adesso
scintillano, sollevando le spalle, i palmi, verso colui che
attende, che aveva atteso, che avrebbe continuato ad attendere anche quando il suo
nome non sarebbe stato più 'Pherio'.
"Phèrion"
Ed essi cadono in quegli occhi di brace, vivi e scuri, accesi
del blu denso del tramonto sul Parnaso di luci e riflessi: in essi si tuffano e
sopravvivono, tremando, nel riconoscerlo, dal piacere e si fondono in essi, con
essi.
Fondersi.
Il corpo.
Duro.
Di bronzo, imbrunita la pelle dal sole inclemente di Sparta.
Chino.
Amplesso: mani, morbide, a congiungersi sul suo viso chiaro;
labbra, appuntite ed affamate, a prender possesso d'altre labbra.
Una coltre pesante di ricci sulle pelli sudate, onde
concentriche ed intricate col sapore di selvaggina e caccia magnifica e furente.
Furia- non odio, ora, svanita la sete di sangue, la
brama di possesso, nel dio sublimato a umana virtù: la tensione.
Prende fra le braccia il suo imprendibile cacciatore e lo bacia, colle mani e coi denti spogliandolo, spogliandosi degli abiti di lino
indosso.
Perfetto corpo scintilla pari a semidio, ed entrambi i
giovani ardono ora d'una luce che è null'affatto simile a quella accordata ai
semplici mortali.
Le mani a seguire sentieri celati sulla pelle dell'altro, ricerca di corde
precise e preziose, tese sotto nodi di muscoli di
legno ardente, in grado di far cantare gemiti e piacere, in grado di far
torcere le membra e creare una danza divina, lì, senza una parola.
Senza una parola: nulla c'è da dirsi.
Sono lì, l'un per l'altro, come essere dovevano, dove
dall'inizio dei tempi s'erano sempre ritrovati. Da sempre. Fino a che la luce
della morte degli dei per sempre li avrebbe avvolti in
un unico telo fino a trasmutarsi in semi. Piante gemelle,
dalle fronde incastonate, i tronchi intrecciati; bracci d'uno stesso golfo;
tetti d'uno stesso paese.
Erano stati ciechi e stupidi per anni. Ora, invece tutto è chiaro, luminoso.
Tutto è lì, di fronte a loro, lì proprio dove non avevano mai
pensato che potesse essere. Lì, l'uno nell'altro.
Solo baci e carezze e respiri. Le palpebre socchiuse
per vedere con gli altri sensi, per ascoltare odorare toccare assaporare l'altro,
facendolo divenire parte di sé, stingendosi in un abbraccio dal quale non ci si
sarebbe mai potuti sciogliere. Un
nodo che può forse solo esser reciso con il filo di una spada, in nessun altro
modo.
Ma quando le funi di cui è costruito questo nodo sono
di ferro e rame?
Quando il nodo non è più tale ma un grumo fuso, un
unico blocco da cui non distinguere più un capo dall'altro?
Pherio sussurra appena un gemito leggero, di stupore colorato d'un timido
timore, nell'aprire gli occhi e vedere in quelli di Pirecrate lo sguardo da
predatore di Ares, Ares che fissa il suo corpo bianco,
riconoscendo in esso le membra del suo cacciatore Adone, amato e odiato. Per il
quale è disposto a impazzire mille e mille volte
ancora. Che é suo, che *deve* essere suo.
Sciocco.
E' *sempre* stato suo. Non può essere diversamente.
Solleva le gambe snelle, Pherio, intrecciandole intorno alla
vita di Pirecrate sorridendo ad ogni suo movimento, provando piacere nel divenire
uno, nel fondersi, nell'appartenere allo spartano tanto quanto Pirecrate, ora,
appartiene a lui.
Il desiderio ora ha cambiato nome.
Non è solo desiderio, non più.
E' altro. I raggi del sole cadono su di loro formando una cortina che li elide
dal mondo, e insieme bagna le loro carni d'una approvazione
che non può mai essere sciolta.
Pirecrate bacia, tremante, quel candido collo di cigno, godendo e piangendo
insieme ma le lacrime di gioia hanno un sapore diverso da quelle di dolore,
sanno di ambrosia e miele, sanno del sapore celato
dalle labbra stesse di Pherio.
Adone si tende, arcuando il corpo sottile sotto quello
più massiccio del dio suo compagno, e nei suoi lunghi capelli scuri infigge le
dita. Il piacere gli dipinge il volto in un sorriso estatico che Ares beve
avido. Nessuno, nulla li avrebbe mai più tenuti lontani, neppure il destino
avrebbe potuto opporsi ai suoi voleri, ora che tra le braccia possedeva ciò che
sempre bramava, ciò che, nessuna spada avrebbe potuto fargli conquistare, o guerra.
Nulla, ora, ha più il potere di colpirlo o ferirlo, nulla può deviarlo o
confonderlo, non ora che tiene fra le dita quella gemma lucente che gli sorride
più prezioso di ogni tesoro che la terra nasconde in
grembo.
Pirecrate singhiozza il suo proprio piacere, trattenendolo fino a che non è certo che Pherio sia pronto a sua volta ad accoglierlo. In esso, nel suo corpo svuota il suo seme, il suo marchio, il segno di un piacere che è anche amore, e quelle membra candide, che paiono un tempio d'avorio, sacro e inviolabile, si sono aperte per lui, a lui ha dato accesso, e solo a lui.
Questo è un suggello.
L'esplicitazione di una decisione.
Una decisione che non si può più rimangiare.
Un legame che non si può spezzare.
Una consacrazione.
Ares possiede Adone, in esso si sente completo,
finalmente in pace e soddisfatto. In esso giace,
socchiudendo gli occhi, stringendone le membra.
Pirecrate possiede Pherio. E Pherio possiede
Pirecrate. Cuore contro cuore, due corpi che divengono uno
solo, un giuramento senza parole e come testimoni gli Dei Superni.
Se le parole fra loro li avevano detti compagni, ora
compagni lo sono di fronte a tutta la volta celeste, e agli Inferi e alla madre
Gea. Uniti.
Consacrati: uniti insieme tramite un vincolo sacro che
le parole non possono dire, e che forse neppure la mente umana più sottile può
comprendere.
Pherio chiude gli occhi, poggiando il capo contro il petto abbronzato di
Pirecrate, carpendone il battito sinuoso del cuore forte sotto la pelle ardente
e sorride nel sentire la sua mano a sfiorargli il capo, dolce.
I pensieri che veloci, mai stanchi di circonvoluzioni e danze e lacci e
tortuose vie da percorrere vengono tranciati di netto
da un semplice sospiro
"Tornerai a farti crescere i capelli, Pherio?"
La voce di Pirecrate frantuma il silenzio, Pherio solleva
appena il capo, guardandolo attento. Lo guarda e vede il potere che il Dimano
ora ha su di lui. Lo sente. Lo *sa*.
E dentro sé sa che è giusto. Definitivamente giusto.
Che a quello la sua nascita, la sua dedicazione, il suo soffrire, Astre, suo
zio, tutto l'amore e l'odio provati e patiti nella sua vita .
ecco, tutto quello è stato a portarlo lì, ora. E che ogni lacrima, dunque, che ogni colpo, che ogni
frustata, ogni umiliazione sia dichiarata benedetta!
Sorride piano, Pherio, ancora incredulo, incapace di accettare così,
semplicemente, che tutto quello sia lì per lui.
Paura che vena il presente. Timore che tutto sia un sogno. Ma nulla svanisce i confini del mondo diventano sempre più saldi al posto di scomparire e allora si fa serio.
"Tu credi sia il caso?"
E' ... era un ilota. Un indegno. Fuggito dalla sua
polis. è passato, ma non può Pherio impedire che
questi pensieri gli solchino la mente alla velocità d'uno stormo alto di oche
selvatiche che migrano a sud.
"Voglio che siano il manto alla tua schiena."
Sorrise alla risposta senza titubanze o dubbi che il Dimano gli aveva offerto. Quella è una risposta che va bene, sospira,
quello è un ottimo motivo. Niente polis, niente iloti, o leggi abbandonate da
seguire. Sono solo loro due.
Niente strade tortuose, niente macchinazioni. Niente sentirsi
indegno per essere null'altro che un disgustoso mezzo barbaro. Nulla di
tutto quello ha valore.
Lui e Pirecrate.
Solamente lui e Pirecrate.
Solo dei desideri di Pirecrate deve preoccuparsi.
Compiacerlo. Essergli gradito.
"Li farò crescere, dunque."
Sorride.
Si fanno liberi l'un per l'altro.
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Siracusa non era una grande città ma più di Sparta
certo lo era. La terra sapeva essere altrettanto brulla e possedeva in parte il
rosso carminio della creta spaccata che aveva la terra nativa. Eppure il mare, il suo profumo ondeggiante e il suo
lento carezzare la terra, rendeva sempre ogni cosa più verde. E non solo gli
olivi usi ai climi più aridi, ma pure alberi ed
arbusti soliti a temperature più miti lì verdeggiavano e fiorivano, i
mandorli aromatici e gli aranci profumati e succosi donavano il loro aroma alla
brezza della sera che si mischiava alla resina densa dei pini marittimi e agli
arbusti di mirto e salvia e rosmarino. Tutto era fresco e pulito, l'aria
fragrante non sapeva… non sapeva di sangue e sudore, notò Pirecrate.
Non era un brutto cambiamento.
Le strade si perdevano in lontananza, mentre ovunque roteava lo sguardo
un tempio giganteggiava nonostante la lontananza; gli uomini che li
accompagnavano procedevano dritto e sicuri, figli di
quei luoghi. Pirecrate li stava, muto, ad ascoltare, però quando un dettaglio
colpiva la sua attenzione, essa si distoglieva totalmente lasciando vagare gli
occhi e la mente a rincorrere un'immagine o una sensazione che l'assorbivano, e lasciava a Pherio l'onere di trattare con
quei gentilissimi ospiti. Ché essi lo erano davvero,
disponibili a scherzare, a condividere le esperienze del viaggio con
discrezione e delicatezza.
Pirecrate si conosceva oramai, e sapeva di non essere uomo di parole, ma
nessuno pareva offeso dei suoi modi taciturni, neppure Pherio gli lanciava le
sue solite occhiate allarmate, di muto rimprovero, che sembravano
rinfacciargli la mancanza di un'educazione che non era mai stata sua.
Ogni tanto, sì, il Panfilo voltava appena il capo verso di lui, ma i suoi occhi
così lucenti erano tanto belli che splendevano come
stelle e di certo erano ricolmi di molte sensazioni, ma non di rimproveri. Era
bellissimo, il suo Pherio quando gli sorrideva pacato,
e appena le sue labbra si torcevano e non sembrava quasi un sorriso… ma lui sì,
lui lo sapeva, lui lo vedeva e lo sentiva dentro, come una carezza di luce che
gli sfiorasse il cuore e quel calore che gli nasceva dentro era come se lo
facessero vivere.
Gli alberi accanto al sentiero lo incoronavano da entrambi i lati, e uno di essi sprofondava verso la spiaggia dorata che s'intravedeva
in lontananza, nascosta dalla fitta macchia mediterranea, densa d'aromi.
Dall'altro la terra si perdeva sconfinata sino all'orizzonte. Soffiava un vento
caldo, imbronciato che sapeva di deserto, e di sabbia fine che poteva togliere
il respiro, ma neppure quello, lì, poteva destar paura. Il tramonto arrossava
le prime case, ai fianchi stanche armi pendevano inerti, senza vita, ma ogni
tanto lanciavano ancora qualche bagliore distratto.
Il crepuscolo divenne notte, e il cammino divenne cena.
Non aveva detto quasi una parola, ma gli veniva di ascoltare, curioso: il cibo era buono, cordiale l'uomo che conosceva
Pherio, e comodi erano i triclini. Ma soprattutto
calde erano le membra del suo compagno, sdraiato innanzi a lui, concentrato
interamente nell'ascolto e nel dibattito. Era davvero bravo Pherio con le parole.
Più bravo di Kakeo a suo parere: sottile forse a volte freddo, ma
diplomatico e pacato nei toni. E c'era qualcosa in
quel conversare leggero e gentile, pacato e garbato,
educato, che fece sentire Pirecrate strano. Pherio forse era così che avrebbe dovuto
vivere sempre e a guardarlo, a sentirlo. Sì, il tono della sua voce, le mani
che si muovevano appena nell'aria, bianche e così sottili… erano sempre state
così sottili le mani di Pherio? Erano mani da guerriero, lui lo sapeva,
eppure non sembravano. Avevano qualcosa di delicato, diafano, una bellezza
composta che non aveva mai notato, che non sapeva l'avrebbe
mai colpito.
Ed erano poi in terra straniera ma non ostile; anzi quell'uomo, Mecenate, pareva davvero bene intenzionato nei
loro confronti. Probabilmente c'erano interessi e legami sottilissimi, debiti
inespressi, ma sembrava una brava persona comunque:
aveva un volto aperto, una fronte ampia e distesa nonostante l'età matura, il
sorriso spontaneo, una maniera accentuata di muovere le mani. L'aveva già visto
negli altri uomini di quei luoghi, ma in egli prendeva una certa forma
d'espressiva eleganza. Di certo quelle non erano, né erano mai state, mani di
guerriero.
"So che sei l'ultimo della vostra stirpe, Pirecrate. Mi rincresce che non possiate crescere i vostri figli nella terra patria. Ma - battè un palmo sul basso
tavolino, spostando poi le dita a prendere un chicco d'uva fresca - anche
questa terra è Grecia. Una Grande Grecia. Ti piace il mare, Pirecrate?"
"Direi di sì."
Un'occhiata di azzurro fuso gli sorrise, un capo
chiaro voltato, i capelli già intrecciati in piccole trecce sparse d'unguento. Quell'ancella aveva così insistito: Pherio non aveva saputo
dir di no. Era stato divertente guardarlo. Era bello
guardarlo.
"Il mare è qualcosa di affascinante."
Sfuggì al Panfilo dalle labbra appena socchiuse, come un sussurro timoroso di
rivelar troppo e insieme, desideroso di trovar una espressione
degna, in parte, per quella placida gioia che sentiva ardere in cuore. Nessuno ora l'avrebbe beffeggiato, e non per il suo ruolo,
il suo potere: solamente perché accanto c'erano persone che potevano
comprendere. E Pirecrate… a Pirecrate sentiva di poter
aprire il cuore e in cambio avrebbe ricevuto solo un sorriso d'assenso e un
abbraccio.
E non c'era nulla, in tutto il cosmo, che potesse
valere più di quello, ai suoi occhi.
Mecenate sorrise, distogliendolo dai suoi pensieri per
obbligarlo nuovamente al presente; un presente però che profumava di aranci in
fiore e mandorli candidi. Un tepore languido, una pace che forse avrebbe
portato a un'eccessiva rilassatezza, il che era
contrario a qualunque insegnamento gli avessero mai dato. Ma
… Pherio sospirò un nuovo sorriso nei confronti del loro tanto magnanimo
ospite.
"Perfetto allora! Per due ospiti così importanti son felice d'avere una notizia tanto bella. Tuo zio
aveva una casa, Pherio, sulla scogliera: credo che tu te la meriti a buon
diritto."
La schiena della creatura solare si tese, impercettibilmente,
i muscoli divennero un fascio teso di rame ardente al solo risuonare di
quel nome, al semplice evocare troppe sensazioni, rinchiuse nello scrigno del
tempo. Pirecrate venne avanti col capo, poggiandogli il mento su una spalla,
cercando il suo sguardo. Il sorriso divenne una risata,
soffocata tra le fragranze della pelle chiara, e fuggevole vi depose un
bacio.
"Una casa nostra.."
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Una casa.
Una casa *vera*.
Stucco candido che scintillava sotto il sole, in splendido contrasto col verde
smeraldino dell'erba tutt'intorno, e delle rare rocce
carminie che spuntavano su un terreno che poteva essere
brullo, punteggiato di olivi antichi e aranci che
stavano raggiungendo proprio ora il punto di massima fioritura, spandendo
nell'aria la dolce, fresca fragranza dei fiori candidi. Un rivolo gorgogliante
d'acqua pura formava una pozza limpida nascosta quasi da un boschetto di
sottili, bianche betulle svettanti, che frusciavano nell'aria sempre mobile che
proveniva dal mare, densa di salsedine e di alghe.
Pherio si guardò intorno, le piccole vasche decorative di roccia bianca, le ninfee
a gettar ampia ombra sui fondali. L'ingresso severo ma ampio,
aperto, promessa di fresca ombra sotto un pergolato di densa vite. Da
una parte colline che si alzavano, appena punteggiate da casupole per le
greggi, ripari per i pastori, fra gli alberi sparsi, dall'altra il mare con la terra
che digradava lentamente, gli arbusti di mirra, di timo e di aghi
resinosi di rosmarino.
E s'intuiva, appena al limitare del prato più prossimo alla casa, un
grande spiazzo in cui l'erba era mesciuta a fiori rossi, una pozza carminia di anemoni rossi che
dondolavano placidi il capo alle radici delle sottili betulle, cangiando la
luce, rendendola un iridescente, muto saluto.
Pherio osservò lentamente tutto quanto e di fronte a quello spettacolo si placò,
in suo animo trovò la risposta che cercava e socchiuse gli occhi.
Mecenate mosse, elegante, una mano tutt'intorno.
"Tuo zio Kakeo me ne affidò la cura, e spero d'aver
fatto un buon lavoro. E' come se fosse nuova, Pherio, schiavi hanno sempre
lavorato perché ogni cosa fosse tenuta in funzione, che le greggi fossero
pascolate secondo dovere e il terreno venisse curato.
- indicò casupole un po' laterali - Quella è la cuccia per i cani da caccia, ma
Kakeo preferiva addestrarli di persona, così essa è vuota. Ma le nuove
cucciolate sono prossime e presto potrai insegnar loro tutto ciò che vorrai."
Pirecrate guardava tutto, e tutto assorbiva, curioso.
"E quella? - chiese indicando ciò che pareva una
stalla, ma troppo ampia, o forse solo troppo dappresso alla dimora- Quella
cos'è?"
"La stalla per i cavalli, Pirecrate. - Mecenate sorrise
- Siracusa è famosa per i suoi destrieri, potresti cimentarti come cavaliere:
potrebbe esserti gradito."
Cavalli!
Gli occhi di Pirecrate s'illuminarono, ardenti. Cavalli! Aveva sempre trovato eccitante montarli e per quanto a Sparta non ci fosse una
gran predilezione per questi animali, lui aveva incessantemente covato il desiderio
di divenirne un ottimo cavaliere. Rare erano le esperienze che potevano
mostrarsi più eccitanti, il vento in faccia, tra i
capelli, la velocità, la terra che sfrecciava sotto gli zoccoli risuonanti
contro il terreno.
"Pherio."
Fece per dire, ma il compagno lo precedette: gli bastò fissarlo e sorrise.
"Avremo cavalli, e cani, sì, per la caccia. Olivi dall'olio fragrante e
uva dolce come il nettare degli dei, o così è come me la
raccontava mio zio."
Mecenate rise, battendo le mani.
"Sempre troppo buona la famiglia Panfila! - poi indicò intorno- Ma ci sono le migliori arance della Trinacria
tutta, qui, e i cedri profumati, importati dalle terre fenicie. Inoltre un nuovo
albero dal frutto dolce è polposo è giunto da qualche anno tramite le nostre
rotte: dovreste provarlo, lo trovo delizioso. Un bell'albero che da frutti come gocce di sole solido di zucchero
e spezie. Lo chiamano albicocco."
"Albicocco?"
"Sì. Viene da molto lontano. L'hanno portato qui
i mercanti persiani. "
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Una casa.
Cos'era avere una casa? Non un riparo sotto cui
rifugiarsi durante i rari, terribili temporali che si scatenavano nel cuore
dell'estate. Non le infinite camerate linde e colme di brande dure ordinate e
disciplinate come se loro stesse fosse soldati. Non le ombre dense, allontanante appena dal lento danzare dei lumi
votivi del tempio. Non tende stese contro il cielo, mobili dimore
ondeggianti nel nulla del deserto.
Una casa come l'aveva vista presso i Meteci. Presso
gli Iloti.
Una casa gli Spartiati non la conoscevano, non così
almeno. La casa era un nome, un'idea più che un luogo fisico visto
che passavano maggior parte della loro vita a prestar servizio come
soldati per la polis. La casa era un luogo ove si custodivano i pochi tesori
permessi dall'aspra legge di Licurgo ove si tenevano al riparo le fanciulle. Una casa era … un nome. Una famiglia.
E chi era mezzo barbaro e poteva appellarsi con un nome solo per la intercessione interessata di qualcun altro non possedeva alcuna casa. E
chi era nato da una famiglia disonorata, dispersa tra le pieghe del tempo, esso
non aveva mai avuto una casa.
Un focolare, affetto da nascondere dietro pietre consunte dall'uso, e sorrisi e carezze gentili suscitate di nascosto, quando ci si ritraeva un poco dalla vita quotidiana che roboava fuori la soglia: Pirecrate non aveva mai avuto una casa. Pherio non credeva avrebbe mai potuto averne una.
E ora era lì. Ed era *loro*.
Di Pherio, per precisione, ma bastava guardare quegli occhi chiari ora così vulnerabili,
così infinitamente perduti, così luminosi e insieme timorosi,
che mostravano al mondo, senza vergogna, una debolezza, una delicatezza che mai
nessun dio aveva sospettato albergare in lui per sapere che la casa era *loro*.
Che se una casa non erano pietre e fango e calce messa
insieme, non erano lusso e stanze, ricchezze, greggi e terreni, non erano
piante da frutto, e cani e cavalli e schiavi, e promesse di lunghe cacce o di
solitarie meditazioni, ecco, ora Pherio vedeva in Pirecrate la sua casa.
Casa era una vita al fianco di una persona. una
persona come Pirecrate. Una persona che si .. che si
amava?
Un bimbo un po' spaurito ora si sentiva Pherio, quando Mecenate li aveva salutati
nella loro nuova dimora e lui, il Panfilo aveva dato gli ordini corretti agli
schiavi: ravvivare il fuoco, nuovi lini per il letto e aveva richiesto di
incontrare l'amministratore della tenuta la mattina successiva, aveva impartito
ordini ragionevoli, e aveva domandato di avere un rendiconto preciso dei
terreni, dei confini di essi, della rendita di questi,
delle greggi e se e quando si potessero iniziare ad allevare cani, e chi si sarebbe
potuto scegliere come guardiacaccia e…
Eppure gli impegni, uno dopo l'altro, come un fiore che lentamente perda i suoi petali al vento freddo dell'incipiente autunno,
erano svaniti, la luna aveva iniziato da un pezzo la sua scalata verso la vetta
del cielo e Pherio era lì, in piedi, nel centro di una stanza arredata per
essere sobria e insieme accogliente. E si sentiva il
cuore pesante, come se fosse stato un suolo spaccato da un clima troppo arido.
Pirecrate.
Si sentiva ... giovane. E perduto. Lo assalì quella
sensazione che al tempio gli era divenuta solita: una solitudine strana, quel
tipo di sensazione che si provava solo quando si era al centro di molti
sguardi, quando si era un bimbo troppo bello, cresciuto in un tempio che doveva
essere dedicato a una dea vergine. Quando
si era soli, con qualcosa di troppo pesante, troppo grande da poter reggere con
le proprie forze. Quando si era vuoti. E spaventati.
Nessuno che indicasse la rotta.
Nessuno che spiegasse come vivere.
Nessuno che ...
Una voce vispa, tonante, che diceva cose che, non avendo senso, ne assumevano uno così profondo da scatenare il cuore, venne sempre più vicina correndo per le altre stanze: Pirecrate fece irruzione con il volto che tutt'intorno guardava, che con quello sguardo beveva e assorbiva dentro di sè, rallentando nel, finalmente, vederlo, lasciando che liberamente si manifestasse il fiato corto dalla gioia e dall'esuberanza, in quel petto che si apriva e chiudeva sotto la veste, in quel ricciolo che rimaneva attaccato alla fronte, in quel riso imbarazzato per tanta fanciullagine ma troppo contento, aperto e splendente, per poter essere offuscato, represso. Gli si fece vicino, una mano calda si chiuse intorno alla sua. Un gesto piccolo, infantile, di fronte a quegli occhi che erano specchi d'uno sguardo liquido e terrorizzato d'una piccola creatura. E quel sorriso che scaldava il cuore, che avrebbe portato in vita una statua di pietra.
Pirecrate gli baciò le nocche chiare, in maniera un po' brusca ma tanto cara spontanea.
Pherio si sentì stupido ma non disse nulla, sorridendo.
"E' bellissima! C'è il salone che mi piace poco, ottiprego
dimmi che faremo sparire quei triclini orrendi: non si possono guardare! Quelli
della casa di Mecenate mi piacevano molto, sì, gli chiediamo se ci indica chi glieli ha realizzati? E
poi voglio cuscini: abbiamo passato abbastanza della nostra vita su tavole e
legni e fango! Hai visto poi il pergolato? Anche lì
voglio triclini, per mangiare l'estate, e un tavolo naturalmente. L'ho già
detto ch'è bella? - si fermò, come pensando un attimo a un qualcosa molto lontano, accigliandosi in maniera buffa
e dolce - Una proprietà così grande. Ma non era proibito?"
"La Legge di Licurgo è molto severa con gli agi smodati e le ricchezze mostrate
entro Sparta, ma a quanto pare mio zio non credeva si
riferisse anche agli affari che uno spartiate potesse coltivare fuori dalla
propria patria."
"Kakeo che si dà al mercanteggio."
"Li chiamerei più 'risarcimenti'. Mio zio fu un ottimo diplomatico e so
che salvò più d'uno da piccoli tranelli in cui i loro rivali
volevano intrappolarli. Questa è l'origine della sua fortuna fuori
dalla Grecia: semplici doni."
Pirecrate sbuffò, stanco già di parlare d'un qualcosa ch'era
morto e che non meritava di esser ricordato, stringendosi appena nelle spalle.
"Doni. - sorrise di nuovo - Importante è che tutto questo ora sia tuo, e
che nessuno potrà toglierli a te. Che potrai usarli. E che ti proteggeranno. Qui potremmo .
- una piccola esitazione, uno strano rossore sentì ardere sulle guance come se
improvvisamente risentisse della vertigine dell'ebbrezza - ricominciare da
capo."
Pherio piegò un poco il collo di lato socchiudendo gli occhi. Come se la fatica, l'impegno, ogni cosa che aveva dovuto affrontare
gli si schiantasse addosso proprio in quel preciso istante.
Dolore.
Dolore ne sentiva tanto, dentro.
Dolore che, sapeva, non se ne sarebbe mai andato.
Dolore di un passato dal quale non poteva liberarsi: sua
madre, suo zio, Sparta. Astre.
Astre, no, non se ne sarebbe mai andato, lo sapeva. Eppure. eppure era stato
felice di essere stato quasi obbligato a seguire Pirecrate, lontano dal
Persiano perché ora Pherio vedeva chiaro che, al suo fianco, entrambi non
avrebbero fatto altro che rivolgersi al fuoco che covava in seno l'uno all'altro,
il mondo sarebbe stato chiuso fuori dalla loro vita, e sarebbero morti
languendo, in un'enorme vampa gelida.
Pirecrate era diverso. Pirecrate era stimolo e ricerca, Pirecrate era sfida e
sorrisi. Pirecrate era lotta e riconciliazione. Tanto quanto Astre sarebbe stata
la morte per lui, così Pirecrate era la sua vita.
La *sua* vita.
La *sua* casa.
La malinconia che gli albergava in cuore non aveva ragione di esistere. Pirecrate
la vide tremare sul fondo di quegli occhi così fragili, ora, e spaventati come
quelli di una fiera presa in trappola, e passò una mano tremante sulla fronte
liscia e chiara.
Come risposta ebbe un sorriso appena accennato, così luminoso che poteva squarciargli
il petto e la fronte di Pherio chinarsi, appoggiandosi alla sua spalla nuda.
Due tepori che si mischiarono, quasi timidamente sulla soglia di quella notte
strana che segnava la fine di tutto.
L'inizio di tutto.
"C'è tanto da ricostruire, Pirecrate. - sussurrarono quelle labbra chiare
- Tutto. Vorrei poterlo fare con te."
Un sorriso trattenuto sulle labbra, ad occhi chiusi, come se quell'istante non potesse essere vissuto in
altro modo che in quella semi oscurità quasi sacra.
"Non voglio stare in nessun'altra parte del
mondo se non al tuo fianco. Lo sai."
Sì lo sapeva.
"A volte è bello sentirselo ripetere."
Stupido sentimentale: avrebbe dovuto pensarlo seriamente ma non ci riuscì.
"Te lo ripeterò sempre, con ogni respiro, con ogni occhiata, con ogni istante
che gli dei mi concederanno di vivere."
Era bello sentirsi … protetti.
Un bimbo in un tempio troppo grande e vuoto che eleva per ore e ore suppliche a
dei di pietra, che non potranno mai chinare le braccia
e consolarlo e scaldarlo e farlo sentire … a casa.
Pirecrate era la sua casa.
E lui era la casa di Pirecrate.
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