DI ODIO DI AMORE


CAPITOLO: 36/?


PAIRING: Pir+Phe.

 

RATING:NC-17

DISCLAIMERS: I pg ci appartengono in toto!

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Quella polla d'ombra divenne il loro mondo: sguardi limpidi si incontravano, si illuminavano nel riconoscersi e sorridevano, aggrappati a una simile, e salda, gioia, che le parole erano rese inutili. Le preoccupazioni svanivano in quegli istanti di pace, ma lontano era ancora il tempo del raccolto e, sempre troppo presto, giungeva qualcosa o qualcuno era meglio non sfidare. Tale era la prudenza apollinea del dio dorato. Il dio bronzeo, ebbro di quella bellezza, frastornato, s'alzava e se ne andava, andando pei pontili con occhi che non vedevano, orecchie che non sentivano, passi che non avevano meta.

 
Solo lo spumare del mare e, dalle isole remote, gli alti sibili echeggianti delle conchiglie appese su lignee aste, riuscivano a destarlo, a catturare il cuore leggero. Non che non fosse insidiato dall'angoscia, no: soffriva, forse ora più di prima, ma il giogo era meno pesante. Da un giorno soltanto avevano lasciato l'isola degli unguenti di rosa, le parole dalle labbra lunari del Pamphilo eran state parche, pensose, come un oracolo che tiene nascosti i segreti, assieme a un dolore tempestante nel cuore, di cui il dio del fuoco intuiva l'esistenza tra le pieghe perfette del palazzo di seta nel petto del dio di luce, dispensatore di luminosità quanto di ombre recondite, a lui stesso sconosciute.
 
Due esuli erano ed entrambi senza felicità al pensiero di star tornando alla terra che li aveva generati e accolti: valli e colline che stillavano il latte dai tronchi tagliati da spade nell'allenamento, dove le foglie autunnali si perdevano nel fuoco del loro orgoglio e i sentieri dei cammini erano cosparsi del sangue di nemici e di cari fratelli.

 
Incrociò le braccia, avvolgendole l'una sull'altra lungo il parapetto di legno, fissando le sterminate isolette che s'ergevano, al di sopra del mare, con le loro bianche e pungenti pomici, mentre le ali dei gabbiani volavano più in alto dell'ombra impalpabile, tuffandosi tra i flutti schiumanti. Inclinò il capo per ascoltare meglio l'allettamento dei reami di dei argentati, fissando l'abisso blu fesso dalla luce mattutina del sole. E pensare che da qualche parte, ma proprio in *quel* mare, si tuffavano le
acque indache dell'Eurota, perse assieme a tutti gli affanni passati nello scrosciare tra le pietre del fiume impetuoso.

 
Passi sulle assi turbarono la quiete con tanta fatica cercata, e dalle labbra carnose venne un sospiro seccato. Batté le mani sui legni, sollevando la schiena e fissando il disturbatore.


 "Hey hey, Dimano! Non son qui per litigare."

 
Anassimandro sorrise, conciliante, in una maniera piacevole. Forse tra tutti era il migliore, quello che gli suscitava meno ribrezzo dentro.

 
"Buon giorno. - la marea triste del suo animo s'era affacciata nel tono delle sue parole, e gli dispiacque; sorrise a sua volta, appoggiandosi coi reni al parapetto, facendo leva sulle braccia -Come mai stamattina non c'eri a colazione?"


 "Diamete non l'ha detto?"

 
"Credo di non esser stato molto presente. ."


 L'uomo rise, in gola e di cuore, mettendogli una mano tra la massa selvaggia che erano i suoi capelli. Il Dimano si stupì d'un simile gesto, e non se ne allontanò, improvvisamente bloccato dalla mente che tentava di evocare qualcosa. Lo Spartiate più grande si sedette su una cassa, all'ombra, mentre il volto gli rimaneva pienamente rischiarato dalle luce del sole.


 "Problemi con lo stomaco: quel mercante ci vuole avvelenare! Se succede qualcosa, è colpa sua, e dal tuo sguardo vedo che hai la mia stessa idea."


 "Non puoi sapere quanto."


Scoppiarono entrambi in una risata.

 

"Son felice che tu sia tornato."

 

"Perché non avrei dovuto?"

 

"Non immagini, ragazzo mio, quante voci si sono sollevate a Sparta dopo la vostra dipartita, dopo il processo di Kakeo: portare il re di Persia in Egitto! Follia panfila. Dovevamo sin da subito passare a fil di spada lo straniero. - l'idea di quelle membra flessuose ferite, trafitte dalla gelida punta del bronzo, grondanti d'un sangue che sapeva di bacche rosse e more allucinogene, fece scintillare un brivido quasi fisico -  Nessun messo dall'Egitto per Sparta, si sa che avete fallito e siam venuti a cercarvi. Nessuno si immagina di rivederti a casa, Pirecrate."


 Casa. Suonò così strano alle sue orecchie, che ebbe bisogno di scuotere il capo; fu preso per dissenso.
 
"Giovane Dimano. Nessuno oserebbe toccarti.”

 
"Arhn."
 
"Se pensi a Polinice. . Non credere: a lui spiace come ti stai comportando non meno di quanto spiaccia a me."


 "Ti ha mandato forse a fare l'ambasciatore?!"


"Non t'adirare. No, nessuno mi ha mandato, sono qui perché lo voglio. Per avvertirti."

 
"Di cosa?"

 

"Non ti mettere contro di noi,"

 

"Non sono contro di voi!"


 "Se sei con lui, lo sei."

 

Si sentì fremere il petto.

 

"Voi non capite."


 Vide Anassimandro sbuffare, passarsi il pollice sulle punta del naso nel cambiare posizione del busto, tendendoglisi verso.


 "Tu non ti ricordi di me, vero?"


 Strinse gli occhi, come cercando di mettere a fuoco i ricordi.


 "Non credo. ."


 "E' normale: eri così piccolo, Pirecrate! Arrivavi alle mie ginocchia! Prima d'essere affidato alla casa di Erastene ti portarono alla mia. Eri un bambino, ora sei un uomo: volevo poterti crescere, avrei fatto di tutto; sapevo saresti divenuto qualcuno di cui essere orgogliosi. Kakeo non me l'ha mai permesso e, quando Aristide tornò in Sparta. . - il volto s'ammorbidì in un'espressione contrita - Lo sapevamo tutti, io non ho potuto parlare. A che poi. .? Ma forse questo avrebbe cancellato un'ombra dal passato, almeno per te. ."


 "Quel che è stato è stato."


 "Hai ragione; ma questo era per dirti di non commettere lo stesso errore di Aristide."

 
"Non sto facendo errori.” 


Un colpo sordo tuonò dalla parte opposta della nave, e i legni si piegarono improvvisamente tanto che dovette afferrarsi all'uomo per non cadere. Una nuvola passò in cielo, e con essa una pioggia di dardi.
 
 
Udì il suono conosciuto, Pherio, come di una terribile grandinata di bronzo e sangue che s'abbattesse direttamente contro la fiancata della nave, e si mise in piedi, uscendo allo scoperto, in posizione, istintivamente anche se era senza armi, senza corazza. Anche se non era più Spartiate.
 
Però poteva combattere per la sua vita.

 
L'avrebbe fatto.

 
Uomini abbigliati con abiti che parlavano di un popolo straniero erano saltati a bordo, rampini e corde, lunghi coltelli scintillanti al posto delle spade più pesanti, ma più adatte per i combattimenti a terra.
 
In mare la strategia era diversa, in mare si richiedeva una maggiore mobilità in uno spazio più ristretto, armi meno grevi per colpire più rapidamente, una abilità di anni a sfruttare il perenne dondolio del legno sotto i piedi. Pherio sorrise, teso, attaccando, scivolando in avanti, e di nuovo parò, di lato, un nuovo avversario.


 La lingua di cuoio di una frusta schioccante gli si avvolse intorno al polso fasciato: la utilizzò come perno per far precipitare in mare l'uomo che ne teneva l'impugnatura.


"Pherio!"
 
Un ringhio da belva ferita e furiosa provenne dall'altro capo del ponte, una figura ammantata di rosso si gettò contro di lui e lo strattonò, obbligandolo dietro le spalle, in un gesto di protezione. Pirecrate ringhiò, e con la sua sola espressione bloccò un nuovo attacco.


 Ma erano in tanti, ed erano rapidi come una colata di pece che precipitasse a inchiodare le armi, rendendolo pesanti e inutili, senza filo, corrose quasi. Gli Spartani, e specialmente *quel* gruppo di Spartiati, non era in grado di fronteggiare un attacco simile in mare aperto.


 Pirati che veleggiavano sottocosta, barche sottili e veloci che sfuggivano agli inseguimenti e riuscivano a camuffarsi anche nella distesa d'acqua più aperta che si potesse trovare.

 

Pherio intuì il scintillare d'un paio di fibbie preziose, d'una foggia strana, e li riconobbe in quelli come Fenici, prima di riconoscere il loro idioma. Strinse gli occhi, una chiazza di sangue s'allargò sul ponte, un attimo prima che la voce inconfondibile di Polinice si levasse nello stridore della battaglia.
 
"Cleomene!"
 
L'uomo, reso scuro dal troppo navigare, impugnava un lungo pugnale ricurvo, bagnato di sangue, e un sorriso bianco e scintillante gli squarciava il viso.


 
"Oh, guarda qui, Polinice, figlio d'un cane!"


 Alzò una mano, e Polinice lanciò un urlo. Il sangue era greco: un mantello carminio ne era impregnato, mentre il corpo che aveva coperto era piombato nell'acqua con un tonfo sordo.


 Pherio vide le labbra di Pirecrate schiudersi senza voce, gli occhi sgranarsi e la mano già stretta sull'elsa.
 
Anassimandro.
 
Anassimandro ucciso, e il suo capitano che scrutava il suo assassino ordinando di fermare l'attacco? Pherio conosceva Polinice e sapeva che non avrebbe mai tenuto un comportamento simile senza avere un buon motivo.

 
Il buon motivo doveva forse nascondersi in quel conoscersi: uno Spartiato e il capo di una ciurma di pirati senza legge e senza dei, barbari corrotti, peggiori dei mercanti della loro razza, o dei servi. Pherio sapeva bene cosa la voce pubblica diceva di loro, ma conosceva poco altro. Mai suo zio s'era
trovato a doverne aver bisogno, anzi, nutriva verso di loro un sacro disgusto. Mai l'anziano Kakeo si sarebbe sporcato le mani utilizzando quella feccia, anche per il più infame dei suoi progetti.


 Suo zio, sapeva bene, sapeva essere infame, ma Polinice lo era di certo di più, e quella non era che una dimostrazione di ciò che già aveva intuito.


 Poco male.

 
Riuscì a sussurrare parole di calma a Pirecrate senza muovere labbro, e il suo compagno, che gemeva nella gola con il petto tremante, rimase immobile, freddo.


 "Ozer! L'ultima volta che c'incontrammo ti feci un uomo ricco con le informazioni che ti diedi, e lo schiavo che ti feci catturare! Ora prenditi questo mercante - indicò l'uomo, raggomitolato in un angolo, in lacrime, disfatto dal terrore, abbracciato ai suoi preziosi teli di lino - e il carico che gli appartiene, e lascia me e i miei uomini, ché dobbiamo affrettarci a Sparta!"


 Parlava a quell'Ozer, notò Pherio, con grande confidenza. E come se si sentisse un suo superiore. Ma lui aveva sentito molte storie sui pirati, durante i viaggi a Delphi, e i marinai dicevano che i pirati fenici non avevano padrone, ed erano terribili ed indomiti, non conoscevano la paura tanto quanto non rispettavano l'amicizia con un Greco, se la cosa fosse stata a loro vantaggio.


 "Ricco, parola grossa davvero! - rise, ma i suoi occhi erano pericolosi, e profondi come pozzi neri - Ora, giù le armi, spartiati, o passeremo a fil di spada ognuno di voi e getteremo i vostri cadaveri in mare!"
 
"Cosa ti fa credere che non ci porteremo con te la tua ciurma?"


 "Fatelo, e alla fine io rimarrò vivo, e voi sarete morti. Sarò sempre io a guadagnarci!"


 Pirecrate non si trattenne stavolta, muovendo un passo in avanti.


"Allora si muoia! Non getteremo le spade!"


 Polinice si gettò su Pirecrate spingendolo indietro.


"Taci, sciocco d'un Dimano! Dobbiamo tornare a Sparta, e dobbiamo tornarci vivi!- si voltò verso gli assalitori - Che vuoi più delle ricchezze di questo mercante? Non c'è altro su questa nave, lasciaci proseguire!"


 Pherio dovette affondare le mani nel manto di Pirecrate e tirarlo, trattenendolo a costo di farlo soffocare. Pirecrate era un ottimo guerriero, ma non sapeva *assolutamente* combattere su di una nave: quegli uomini l'avrebbero ucciso in meno d'un respiro e lui non avrebbe potuto impedirlo, se non fermandolo. Anche se, in quel modo, magari, si sarebbe guadagnato solo la sua riprovazione.


 "Non sono un idiota, Polinice! - sorrise, terribile - Giù le armi o vi ammazzo! Anche se valete ben più da vivi che da morti posso permettermi di buttare ai pesci la ricchezza delle vostre carni se sarete così poco intelligenti da sfidarmi!"


 Gli Spartiati si guardarono l'un l'altro, increduli e un po' interdetti, ma Polinice non si scompose.


 "Non saremo mai schiavi!”

 
"E chi sarebbe tanto folle da comprare disobbedienti schiavi spartani?! - sibilò - No: ma valete, ognuno di voi, per quello che i vostri anziani sborseranno per avervi indietro. Forse non uno per uno, però tu, per esempio Polinice. Tu sei potente e i tuoi Anziani t'hanno usato spesso per tante missioni non troppo decorose. Quanto sarebbero disposti a darmi per riaverti?"


 Polinice grugnì una volgarità scuotendo il capo.

 
"In uno scambio valgo poco, molto poco! In troppi mi preferirebbero morto!"

 
"Ma forse qualcuno che tiene all'amicizia con Atene vorrebbe dare alla città bianca un colpevole per la morte e la scomparsa dei loro ambasciatori."


 Pherio si sentì così teso che gli pareva di non stare neppure respirando. Ambasciatori? Ambasciatori ateniesi scomparsi? Era quello che diceva la delegazione ateniese incontrata a Delphi: allora era vero! Degli spartani avevano venduto gli ambasciatori ateniesi per ... meglio: *Polinice* aveva venduto gli ambasc- gli mancò improvvisamente il fiato.


 E se l'aveva capito lui, l'aveva compreso pure Pirecrate.


 Vide la schiena irrigidirsi, ogni singolo muscolo che aveva rinunciato ad arcuarsi come un leone sul punto di scattare in avanti e tentare un folle tentativo, per mutarsi in un muro quasi invalicabile dietro il quale voleva proteggerlo; ma poteva intuire il lieve tremito che si scatenava dentro quelle ossa.
 
Pherio chiuse gli occhi. Odiava Polinice ma . ma d'altra parte doveva solo ringraziare gli dei di non esser stato lui a riceve quell'ordine, perché all'epoca avrebbe obbedito, avrebbe contrattato con dei briganti, avrebbe avvertito i pirati, avrebbe barattato il sangue di ambasciatori con patti che duravano il tempo d'un respiro, e avrebbe fatto in modo che il giovane cantore, Idrio che gli aveva fatta salva la vita, venisse strappato alla sua casa, per obbligarlo a un viaggio che sarebbe potuto terminare con la morte. O con qualcosa di peggio della morte.


 E Pirecrate l'avrebbe ucciso con le sue stesse mani.


 
Polinice urlò la sua rabbia, il suo rifiuto, un diniego che sapeva di menzogna, ma non mosse un passo. Gettò la spada che tintinnò sulle assi di legno in un gesto che insieme era un ordine di seguire il suo esempio e di tacere.


 Il primo a seguirlo fu, inaspettatamente, Pirecrate.


 Pherio, al contrario degli altri, se l'era aspettato: si stinse nelle spalle ora che il freddo mordeva il costato con artigli aguzzi. La Gerousia avrebbe pagato per avere indietro Polinice, di certo: non si sprecava un esponente così abile e di spicco, che si poteva benissimo sacrificare all'altare di una pace con Atene che durasse almeno un paio d'anni, bastanti almeno, per sistemare Tebe e placare i Meteci fino alla successiva rivolta.


 La Gerousia avrebbe pagato per riavere indietro Pirecrate dei Dimani, ora che, con il nuovo assetto politico, l'immagine della famiglia Dimana che ritornava a fiorire sotto lo stretto controllo degli Anziani non poteva che essere una benedizione.


 La Gerousia si sarebbe svenata per avere indietro lui, e per avercelo *vivo*… Con i segreti di Kakeo ancora sigillati fra le labbra, e le infinite confessioni che avrebbero potuto strappargli.

 
In quel modo non sarebbe più tornato a Sparta come. come imputato in attesa di giudizio, ilota sì ma con un qualcosa da mettere sulla bilancia, nel momento del processo. Così no, ora sarebbe stato solo merce di scambio. Un oggetto che la Gerousia avrebbe riscattato, e avrebbe posseduto. Nessuno avrebbe potuto più fare nulla, né lui, né Pirecrate. Neppure Polinice avrebbe più potuto pensare di toccarlo se non gli avessero dato il permesso.

 
Ma Pherio era un politico, e sapeva come pensavano e come si comportavano i politici: Pirecrate no, e ringraziò gli dei per quello. Sentì dentro l'urgenza improvvisa di doverlo proteggere da quello, dai sotterfugi, dalle parole sussurrate nella notte, nei patti stretti con favore delle tenebre e dei sigilli che sapevano di lame di coltelli a tradimento e sangue versato nel disonore. Avrebbe voluto parlargli, ora e . e farsi rassicurare da lui. Avrebbe voluto che lo abbracciasse, e sentirsi dire che non era cambiato nulla, che non odiava ciò che Pherio conosceva, il mondo in cui era vissuto. Avrebbe voluto stringerlo e parlarsi nel silenzio d'un abbraccio.


 Avrebbe voluto: ma quella debolezza ora non era da mostrare, ora che doveva scoprire un modo per uscire da quel guaio meglio di quanto stava immaginando.


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Delirio.
 
Il cuore gemeva i suoi battiti, il sangue troppo caldo faceva rabbrividire da dentro le membra, l'anima, in un cantone oscuro, mordeva invano i rovi che le si erano contorti intorno, conficcando miriadi di spine lì dove era nuda e indifesa. Ma ruggiva, spiritata dall'agonia, e più si dimenava più
s'infittiva la trama carceriera e più il grido diveniva un raspare acuto.


 Parole vorticavano come echi d'una trottola impazzita senza che nulla potesse esser fatto per bloccarli, piegarli e spezzarli: sarebbe bastato un tocco, uno sguardo, ma serrate erano le palpebre sui suoi occhi nel tentativo cieco di celare l'oceano di fiamme che raspava l'aria nei polmoni. Mani tiepide calavano sulla fronte, l'asciugavano di continuo con vesti che presto sentì scorrere già madide sulla pelle, e da tempo le sue spalle erano state liberate dal manto pesante e gretto, dita s'erano infilate sotto il bronzo sul braccio, allentando le cinghie del cuoio ruvido che tenevano insieme le due parti forgiate, polpastrelli avevano liberato il collo da una massa funesta di ricci ansanti, affannosi, esiliandoli lontano.


 Sussurri scivolavano sulle membra assieme a quei palmi, a quelle carezze, a quei tocchi che premevano dove il sangue si bloccava, non riusciva a fluire, e lo scioglievano a furia di insistervi. Quando gli sfioravano la bocca sentiva un dolore sordo lanciare segnali indistinti, e il calore d'improvviso cresceva e le fiamme si sollevano più alte, fesse solo dalla violenza della ribellione del suo spirito. Sussurri silenziosi gettavano petali di fiori elisi vestiti di ghiaccio in quella gola irta e mortale, e l'unico modo per non impazzire era non aprire gli occhi, giacere prostrato da un'ira e da un dolore indicibili, gonfiare il petto contratto di aria fresca che sapeva di buono.

 
Uno dopo l'altro i pensieri erano affiorati, e tutti erano stati gettati nel fuoco, avevano gridato; uno dopo l'altro i sentimenti erano sbocciati, e molti s'erano mutati in statue e cumuli di polvere umidi d'un pianto irrefrenabile. Tutto vano, tutto perduto: il velo sulla verità era stato infine squarciato e antichi ricordi si misturarono a nuove sensazioni, e non c'era lama che avrebbe potuto troncare la vita ghermita da quello.


 Cercò di chiamare il suo compagno, di invocarlo, e più solerti quelle mani gli cinsero il capo reclino, e ne sentì il sospiro sulla tempia. Volse il volto, schiuse le ciglia e con estenuante lentezza si ricompose l'immagine sfumata del volto, delle labbra sorridenti e degli occhi azzurri, di una chioma che pioveva giù abbracciando la sua visione come un fiume di scintille di sole biondo sulle messi fiorenti.


 La parte chiara di Sparta! La parte dimenticata, reietta, perduta! Eccola, lo fissava, lo riconosceva e lui riconosceva lei. Desiderò tanto forte sollevare un braccio e sfiorarla che la sua mano tremò, lacrime dal fondo degli occhi si fecero strada attraverso i canali gonfi di febbre, strappando alla sua tirannide gli zigomi e le guance.


 Il suo compagno gliela prese, portandosela alla bocca, lasciandovi un bacio di falena.


 Qualcuno osò dir qualcosa, Pherio batté le palpebre e in un istante il suo sguardo si fece mercurio liquido, una punta d'una lancia sibilante. Il silenzio scivolò, interrotto solo da brevi scricchiolii, e il rollare delle onde si fece più chiaro, i fantasmi placarono la danza sfrenata di baccanti, ritirandosi dietro muri inviolabili ed invisibili.

 
Il roboare svanì e l'interiorità si svuotò di quel che prima la riempiva, lasciando soltanto una lunga galleria di echi: la pace aprì le sue ali, e le piume vibravano sotto il passaggio del vento. La luce, illuminante e accecante, trovò la via, e coincise in quel punto esatto dove le ciglia dorate si incrociavano nella linea che le proseguiva.


Oscillò il capo del suo compagno, parole volarono dalle sue labbra dure e aggressive; una risposta venne, violenta, e come il dio che si desta d'improvviso dal sonno dello Stige Pirecrate si mise seduto, riparando Pherio dietro la sua schiena, azzannando l'aria come la fiera che mostra i denti ricurvi.
 
"Lontano da lui!"


 "Zitto Dimano! Questo non ti fa intoccabile!"


 "Lontano da me!"


 "Sciocco!"
 
"Lo sei tu!"


 "Folle!"
 
"Se significa essere retto, lo sono! Mi fate schifo… tutti quanti! –serrò così forte la mascella che dalle labbra arricciate venne denso il suo ribrezzo- Tutti gli Spartiati che calpestano la terra peloponnesiaca!"
 
"Parla il figlio del traditore! Tuo padre tradì la città!"


 "Di traditori!"


 "Ci stai accusando?"


 Sentì le forze venire meno, la vista sdoppiarsi e le membra rilassarsi tutte insieme. Pherio non si mosse, lasciandolo cadere senza toccare il suo onore, e nessuno osò schernirlo mentre le guance erano divenute rosse di melograno tanto le fiamme si ravvivarono. La furia strappò la spada all'elsa del pudore, e sputò nella loro direzione. Le mani di Pherio, gelide, si avvolsero intorno a un suo ginocchio, e ancora di più la sua indignazione salì, roteando nell'aria l'ispide chiome. Come l'irta rupe spinta dalle braccia di Poseidone infrange la superficie del mare in tempesta, innalzandosi ricurva tra i lampi del cielo, e intorno gorgheggiano i flutti impazziti, così gli occhi celesti del Dimano s'illuminarono d'un bagliore tetro, oscuro, e s'ammutolirono definitivamente le bocche degli Spartiati che, in cuore, presero a meditar vendetta.


Sopra a tutti Polinice, affilando lo sguardo lascivo, giurò che avrebbe avuto quella testa e che di quei capelli avrebbe intrecciato un fune per legare i polsi a quel cane plagiatore di Pherio, e lo avrebbe fatto ammazzare a furia di sassate, ferita dopo ferita, concussione dopo concussione: la pelle che si faceva livida, pesta di sangue, e poi che s'apriva per lasciarlo fluire lungo tutto il corpo, fino a che le ossa non si sarebbero fatte fragili, ovunque scheggiate, e si sarebbero piegate, quel capo abbandonato in avanti, bersaglio dei colpi meno violenti, che non facessero perdere i sensi; e le mani si sarebbero dimenate, i polpastrelli anneriti dal legaccio troppo stretto, arrossati dai rivoli di rossa linfa fuggita dalle vene ove la pelle è più sottile. Così l'avrebbero spezzato, e gli avrebbero bendato gli occhi, turato le orecchie, per non fargli sentire le invocazioni, per non fargli scorgere lo sguardo e il gemere incontrollato del Dimano, impotente spettatore.


 La morte degli infami.


 Bastava solo che Sparta riscattasse, e la giustizia avrebbe fatto il suo felice corso, e l'impudenza che ora scintillava pericolosa, irrefrenabile, spinta da una febbre senza nome, sarebbe stata mortalmente trafitta, punita, e se si fosse redenta, sarebbe stata fatta schiava, serva, stretta con catene che non avrebbero potuto combattere. C'erano prigioni tra le rocce ai piedi delle scogliere che facevano gelare le membra fino a che il cuore non rallentava, il calore svaniva dalle mani e dai piedi e le labbra divenivano violette, ma non si moriva. C'erano segrete sotto le case dei tribunali scavate nella pietra su cui poggiava Sparta, e grida che non riuscivano a raggiungere gli ingressi, non avrebbero potuto per quanto si fossero alzate alte.


 Il Dimano ricadde disteso, l'ilota l'accolse tra le sue gambe incrociate.


 I Fenici spalancarono la porta, una colonna obliqua di luce tagliò la penombra della stanza.

 ___
 
Silenzio.
 
Pherio gradì il vuoto pieno di parole estranee più che se fosse una benedizione diretta proveniente dagli dei. Pirecrate ansimava ancora lievemente ma la sua fronte, di nuovo imperlata di sudore, sembrava lentamente rinfrescarsi come se si stesse liberando di quell'ira che l'aveva reso prigioniero, portato a quell'infermità che non si poteva reggere.


 Aveva bisogno di silenzio, e tranquillità. Ma non per cercare una soluzione, per comprendere cosa fosse meglio fare, no, che quello lo sapeva. Lo sapeva fin troppo bene.


 Ora era chiaro: non avrebbe potuto tornare a Sparta credendo in un giudizio equo, o almeno nella possibilità di manovrare gli eventi, di poter trovare un rifugio sicuro, fosse anche un guscio di noce nella procella più terribile, fra le mura d'una famiglia retta, o d'un nome probo. Sparta aveva inviato Polinice con ordini troppo chiari, lo spartiato stesso aveva mille e un motivo per distruggerlo, spezzandolo, come se fosse un oggetto. E Pirecrate non sarebbe bastato come riparo, ora. Non più.


 Pirecrate.
 

Abbassò lo sguardo, poggiando delicatamente le mani tra i capelli mori d'ebano lucido, mille onde morbide e madide di sudore, saettatrici di bagliori rossastri del legno giovane di castagno. Ruvido al suo tocco quel contatto, eppure gli pareva di avere sotto i polpastrelli la seta più fine di tutte le indie.
 
Imbattersi in quella ciurma, forse, se da un lato aveva fatto precipitare la situazione senza via di scampo dall'altro l'aveva posto di nuovo di fronte a possibilità che erano soltanto sue e che nascondevano sempre una responsabilità. E sapeva, sentiva che la sua responsabilità ora andava a Pirecrate e a se stesso.

 
Lui poteva, quindi doveva. Il dovere implicava molte, troppe cose, ma che sapeva, o avrebbe potuto gestire. E l'avrebbe fatto nonostante ogni cosa.

 
La sua vita poteva salvarla: i pirati volevano venderli al miglior offerente e Pherio sapeva di poter contare su appoggi che sarebbero stati pronti a sborsare, per lui, più di quanto avrebbero fatto gli anziani della Gerousia. Avrebbe potuto andarsene se fosse stato solo un po' più scaltro, o un po' più indifferente, piuttosto che finire, com'era ora, in mezzo a una estenuante discussione da mercanti sul modo in cui andava stimato.


 Aveva parlato con il capo dei Fenici ed era stato chiaro: inutile nascondere il valore di una pietra preziosa a un estimatore.


 Non poteva tornare a Sparta, lui, e poteva pagare per essere libero. Poteva scegliere, volando via dai ceppi che lì lo inchiodavano senza un solo respiro in più.


 Poteva, sì, ma non solo.


 Libero, se lo fosse stato, lo sarebbe stato con Pirecrate. E se il Dimano avesse voluto tornare a Sparta, dove lui avrebbe perduto tutto, non solo la vita ma *pure* quella in maniera terribile?


 Sorrise appena notando solo con la coda degli occhi gli altri Spartiati che, alzatisi, raggiungevano l'uscita di quella cella disonorevole con passo sicuro e grondante odio. Lontani, loro, si voltarono e li guardarono. Ma il Dimano e colui che era stato un Panfilo non li avrebbero seguiti, non ora. Che la Gerousia s'accontenti di voi, se vuoi anche loro dovranno aumentare il prezzo, non stiamo facendo la carità a nessuno, qui, Polinice!


 Pherio sapeva che non aveva scelta razionale da compiere, che poteva *solamente* rifiutarsi di tornare a Sparta, ove non ci sarebbe stata pietà, né futuro.


 Ma se Pirecrate avesse voluto tornare alla loro città, lui vi sarebbe tornato al suo fianco, e avrebbe affrontato ciò che doveva. Non poteva fare altro.


 Non *voleva* fare altro.


 Socchiuse gli occhi nel silenzio vero ch'era divenuto padrone di quella cabina. Silenzio per pensare, semi oscurità per riflettere: ma tutto quello ora era inutile.


 Il mondo aveva improvvisamente mutato i suoi punti di riferimento, la stella polare nel cielo non indicava più, salda, la rotta da tenere e i venti infidi cambiavano posizione al sole e alla luna. Le leggi di quel mondo non erano ancora state scoperte ma Pherio le sentiva, ora, cantare e fargli fremere ciò che aveva dentro, suscitandogli la certezza di quello che avrebbe dovuto fare. Una Pizia ispirata dal suo Dio non poteva essere più sicura delle mosse da fare.


 Egli, Pherio sapeva, non era una Pizia, e non un dio parlava alle sue orecchie: era una parte di se stesso, una parte negletta e abbandonata, fatta tacere sotto anni di ordini e obbedienze, di valori che ora s'erano sbriciolate come statue colossali, d'avorio e d'oro, dai calcagni d'argilla screpolata: quella parte di lui che era profondamente 'lui' che sapeva e aveva deciso.


 Avesse deciso 'il giusto' Pherio non lo sapeva dire, ma lo sentiva. Sentiva che non sapeva far altro. Sapeva che quella era l'ultima opportunità che il destino gli offriva.


Sapeva che Kakeo era morto, che la Gerousia lo odiava, che non aveva più bisogno di lui. Lui che aveva le mani ingombre solo di vane parole: onore, rispetto, dovere. Vane, perché lui era un mezzo barbaro, inutili perché esistevano al mondo persone che non vivevano sotto le leggi della politica che lui aveva imparato a dominare, perché non tutto l'universo era quello che avevano voluto fargli credere. Lui, quell'altro mondo, l'aveva visto, l'aveva conosciuto. Lo poteva vivere, dentro, se si fosse lasciato quel permesso.


Sapeva ch'era libero.


 Ma la libertà assoluta era, forse, solo degli dei pitagorici, non certo degli uomini. Di quella libertà vuota non sapeva che farsene.


 Si è liberi sono dentro una struttura, una società, un rapporto di affetti e legami, dove ci sono scelte da fare. Si è liberi solo quando la propria vita ha punti saldi di riferimento.


 Pirecrate.
 
E questi non si cercano, non si eleggono, ma si trovano, si scoprono lì, al centro del proprio essere, piantati, senza alcun motivo che superi il loro semplice esser presente.


 Pirecrate.
 
Chinò delicatamente il capo contro quello del Dimano e appoggiò la fronte alla fronte, ad occhi chiusi. Dove lui avesse voluto andare, Pherio l'avrebbe seguito.


 La decisione era presa. E nulla avrebbe potuto fargli modificare a sua sensazione che, forte, gli affondava le unghie nel costato, ma senza dolore. Quel legame non si poteva recidere, quel comprendersi senza parole, quella sensibilità che Pirecrate stesso aveva riportato alla vita: era tutto segno e indicazione.


 Era tutto lì, perfetto e chiaro, per una volta di fronte agli occhi, senza bisogno di spiegazioni e motivi.
 
Nel silenzio la scelta fu compiuta.

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Il sole tramontò per tre volte, il rollio delle travi bisbigliò dimesso per tutto il tempo. Quando la risposta venne, Pherio s'alzò in piedi, la veste datagli dal signore dei Tuareg toccò in piccole pieghe il pavimento. Con un piccolo gesto la raccolse, se la volse di nuovo impeccabilmente intorno alle membra, annodando e sovrapponendo, mentre i passi avanzavano sul pontile che portava alla loro cella; si tirò indietro i capelli biondi, un grugnìo sommesso venne da dietro di lui, e si voltò.

 

Pirecrate sollevava il capo, gli occhi socchiusi feriti dalla luce del tramonto, soffocando uno sbadiglio leonino nel rosso del proprio mantello.


 "Riposa, io devo andare."


 "No, voglio venire anche io."


 Lo sguardo azzurro s'ammorbidì, un sorriso si delineò sulle labbra chiare.


 "Sì, ma lascia qui la tua spada."


 Lo spartano si tese. La sua spada? Il dono di un'intera vita? Guardò il suo compagno, e fece come gli aveva detto.


 La lama di luce che li investì allora  fu fastidio e ferita insieme per gli occhi di entrambi abituati all'ombra morbida e al tepore acre di quella sala troppo piccola perché la brezza di mare potesse spazzare via le orme degli uomini che, prima di loro, lì erano stati rinchiusi.


Pirecrate, seguendo un istinto rapace, si pose fra Pherio e il fenicio appena entrato, una sagoma scura ritagliata nella luce esterna, in posizione di difesa. Di possesso.


 L'uomo indicò la strada.


 "Andiamo. Ozer aspetta!"


 Pherio riuscì appena a sorridere al suo compagno prima d'infilarsi nello stretto corridoio che portava alle stanze private del pirata. Mai aveva percorso simili vie, mai aveva immaginato, se non al colmo del disonore, di poter o dover varcare certa soglia.


 Ma ora la soglia era lì, alle sue spalle, e il disonore, sentiva, sarebbe stato essere (?) da un'altra parte, ora.


 "Allora, alme Pamphilo! - rise l'uomo avido e sgradevole - La tua nobiltà è davvero preziosa per la tua Polis, l'ultima ambasciata mi parla di una somma considerevole per averti indietro."


 Pherio dischiuse le labbra, un sorriso acre gli si dipinse sul viso mentre le iridi divennero acuminate e terribili, come quelle d'un dio. Pirecrate non aveva mai assistito a tanto spirito battagliero, a tanto sfoggio di freddezza  e disgusto in una conversazione. Gli rimase al fianco, tacendo e osservando. Trovandolo … bello come il sole che infranga le nubi scure d'un pomeriggio troppo pesante e troppo gelido, e potente come il vento ghiacciato che scende dalle cime innevate e s'infila in ogni angolo, padrone di qualsiasi anima.


 Era bello, ed aveva scelto lui.


 "Sparta può pagare, ma io posso pagare di più. E subito. Non abbisogno di delegazioni che perdono settimane di marcia, posso far portare qui l'oro, ciò che chiedi, in tre giorni. E avrai il tesoro prima di lasciarmi andare, non una carta su cui si promette ti verrà pagato il riscatto."


Ozer lo fissò a lungo, lo sguardo rapace dell'uomo di mare che vive o muore in base a ciò che riesce a carpire dal suo avversario in una singola occhiata. Conosceva quel Pherio, ne aveva sentito parlare: non era che una piccola meraviglia che gli Spartani vestissero di porpora e bronzo un ragazzo biondo e chiaro come il plenilunio. Ma non solo.


Quel Pherio era potente. L'anziano della famiglia Pamphila era stato messo a morte e chi ora tirava le redini della stirpe era una fanciulla, abile tanto quanto era stato lo zio, che aveva diramato ordini secchi e precisi su di lui. Pherio doveva essere trattato come se fosse Kakeo stesso. Un Kakeo che, questa volta, non aveva alcuna intenzione di ritornare nella sua città polverosa sulle pietre.


Ozer sapeva che Pherio diceva il vero: la sua famiglia aveva appoggi economici e militari in ogni colonia. Kakeo era forse stato un buon Spartiate, di certo un ottimo politico, e nei suoi viaggi aveva conosciuto, combattuto, aveva legato destini al suo in modo che al primo richiamo in molti sarebbero accorsi. E Pherio utilizzava gli stessi metodi.


 "Bene, per te si potrebbe fare. Ma per lui?"


 "Per lui è lo stesso. Pagherò io per lui. Lui è con me."


 Ozer socchiuse gli occhi: una guardia del corpo? Un Pamphilo che abbisognasse d'una guardia del corpo? Quel ragazzo pareva provato ma non era uno di quegli avversari che, imbelli, avrebbero atteso la fine senza opporre resistenza. E quell'altro poi: furioso, aggressivo, testardo, pericoloso.  Uno così era meglio farlo fuori alla prima occasione, troppo fuoco in quegli occhi, una vampa che poteva ardere e incenerire tutto. Insieme alla freddezza inumana di Pherio erano… spaventosi.


 "Lui varrà tanto quanto vali tu."


 "Non c'è dubbio. - sorrise, acre - Fai tu il prezzo Cleomede. Ma fallo in fretta: temo che presto verranno a cercarci e né tu né io sarebbe saggio fossimo ancora qui."


 Pherio sentì Pirecrate sfiorargli la pelle con la pelle, una strana espressione negli occhi, poi tutto svanì, rapido com'era venuto. E ridivenne il dio guerriero di bronzo dorato e sangue che faceva paura nelle battaglie, che poteva sospirare nelle orecchie ad una statua marmorea ed animarne il cuore immoto come un immortale che fa dono della vita.

 
Ozer colse la sfumatura  d'aggressività nascosta in quella mossa e sorrise, seccato, senza darlo a vedere.
 
"Questo è un buon punto a tuo favore. A *vostro* favore. - si concesse una pausa, come a recuperare notizie nella sua mente - Abbandonerete Sparta, ne sarete esiliati come…"


 Non fu Pherio a rispondere. Non gli arrivò sulla schiena la pioggia fitta di dardi acuminati ma una scudisciata di lava ardente che strappava la pelle, che bruciava i polmoni.


 "L'esilio è una condanna. La nostra è una scelta: quella città non ha più nulla della nostra Sparta. Ma siamo forse qui a parlare di questo?"


 La mano chiara di Pherio sul suo braccio lo trattenne dal dire altro, la giovane orca marina sbuffò acqua ma tacque, di nuovo, e affascinante distolse lo sguardo.


 "No, non lo siete . - sospirò porgendo a Pherio un papiro - Questo è giunto ieri da Aspasia dei Pamphili, posso accettare questa somma, ma per *ognuno* di voi."


 Gli occhi chiarissimi di Pherio si puntarono nei suoi.


 "E allora, Ozer, sai a chi andare a domandare per recuperare questo denaro. Mia cugina t'ha inviato anche i nomi dei mercanti e degli uomini che ci devono credito. Entro domani sera avrai ciò che desideri. Entro domani sera io e Pirecrate saremo liberi."

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