D’ODIO DI AMORE
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CAP: 33/?
PAIRING: PoliniceXPirecrate; PoliniceXPherio
RATING: Nc-17. V. violenza, sesso non consensuale. Sesso
NOTE: le solite
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Era una luna pallida e serena che, dalla morbida oscurità notturna gli sorrideva, fredda e remota come sempre.
Fra le conosciute anse del cielo limpido, ossidiana, in cui erano state incastonate miriadi di perle Pherio si permise di rilassarsi, permise a un lieve sospiro di sfuggire alla linea dura delle sue labbra belle, prima di sollevare le mani.
Espose piano piano il collo chiaro all'aria fresca della sera, prendendone un'ampia sorsata, lasciando che la carezza gentile sfiorasse la pelle accaldata dal troppo essere costretta. Non avrebbe potuto far altro, e non era per le sudice idee di coloro i quali con lui dividevano la vita su quel naviglio.
I polpastrelli sfiorarono gli avambracci: la pelle era tirata e secca al tocco, calda, rovente, arrossata, nonostante l'attenzione e l'ombra. Se fosse stato fortunato avrebbe avuto solo del fastidio, altrimenti essa si sarebbe spaccata durante la notte e l'indomani avrebbe dovuto fasciarsi di nuovo anche le membra, e stavolta per frenare un sangue che sembrava volesse scappare a tutti i costi dalle vene.
Il fuoco del sole ardeva sotto la superficie tesa e bianca, in maniera costante e terribile. S’allungò, tendendosi verso la scarsa razione di acqua che gli era stata assegnata e, con attenzione, se ne versò una parte sui palmi per poi spargerla lentamente sulla zona dolente: quanto era invitante e insieme infido il suono delle onde che frusciavano, spezzandosi contro il legno, sussurrando l'invito ad un contatto che al posto di frescura avrebbe portato solamente altro dolore!
Infido e traditore, era quel suono, ma era cullante e dolce, sereno e pulito: contro di esso Pherio ora riusciva a combattere, mentre molto di più infastidivano le voci che provenivano da sottocoperta. Voci di uomini, ciotole di legno sbattute sul tavolo grezzo, parole e risate che si mischiavano alla risacca, contrappuntandola, ferendo la musica. Suscitando forse una punta d'invidia che Pherio non credeva di dover provare.
Non era il silenzio teso e rispettoso, quasi sacro, che si osservava, timorosi, durante il desinare comune in Sparta, quello, sebbene solo gli Spartiati pure ora prendessero parte a quell'incontro. Ma, d'altro canto, c'era stato il sole d'una giornata fulgente nei loro occhi a brillare per troppo tempo, e poi il cielo, il mare, Sparta lontana e tante, troppe cose da raccontare, memorie di mogli che attendevano, di pargoletti da prender fra le braccia e da guardare con orgoglio, v'erano ricordi vivi e condivisi d'una vita passata fianco a fianco, sempre, comunque, c'era una comunione tale che Pherio sapeva, ma non comprendeva. Guardava, la vedeva, ma era un legame che per lui era impossibile. Indicibile.
Ma non incredibile.
Un tempo pure lui l'aveva desiderata con tutto se stesso, con l'ardore che solo un giovane cuore può mettervi, ma presto aveva compreso e il fiore della speranza s’era seccato come un tulipani cotto dall’estate.
Quella complicità non era per lui, e non perché ora fosse un Ilota, o perché fosse un mezzo barbaro, o per suo zio, o per la dedicazione. No, solamente per se stesso. Non si sentiva, con gli altri, a suo agio, come nella solitudine splendente d'una notte cangiante di luna e sussurri di venti, di cui intuiva appena il verbo sussurrato e allegro.
Poi, sospirò, sempre s'era sentito solo nella folla dei suoi concittadini che condividevano un legame impossibile da sciogliere, solo nonostante tutto: ora non era peggio di com'era stato, non poteva esserlo.
Non poteva essere più solo di quanto fosse sempre stato.
Pirecrate, al contrario, faceva parte della comunità e da essa si discostava con labbra tirate e furiose mentre alle proprie spalle sì s'intrecciavano discorsi grondanti disprezzo, ma pure si dispiegavano occhiate d'ammirazione e stupore: Pherio l'aveva subito notata, la somiglianza di quel giovinetto furioso con le statue rozze che, nella roccia, avevano tentato di esprimere lo spirito divino dell'Ares guerriero, protettore della città. Lui l'aveva vista, tutti la vedevano.
Pirecrate era temuto, osteggiato, Pirecrate terrorizzava, era scostante e ardente, ma rappresentava le radici stesse della polis; il suo corpo era emanazione diretta di questa coscienza e Pherio aveva capito, guardandolo, che avrebbe voluto esser come lui.
Ma Pherio non era come lui, non lo era mai stato. Suo zio gl'aveva insegnato che il corpo è immagine dell'anima e dunque il suo proprio corpo specchiava qualcosa di troppo distante, diverso, da Sparta tutta perché fosse compreso. Perché lui potesse comprendere.
Quelle risate roche, quelle voci che s'alzavano nella notte scura tutto quello gl'avevan fatto rinascere alla mente, pensieri che mille e mille volte avevan preso forma dentro di lui, pensieri che riteneva veri, che sapeva giusti, e impossibili da mutare come non si potevano sfiorare le stelle. Eppure, proprio come sempre, essi facevan male.
Sparta, incomprensibile e da lei lui incompreso, era stata la sua regola, il suo scopo, la sua vita: per essa tutto aveva sacrificato, anche ciò che più gli premeva in petto, anche colui che con la sua sola presenza riempiva quella solitudine strisciate che da sempre lo circondava. Anche lui aveva sacrificato all'altare di Sparta e ora, con Sparta tutta contro di lui, si chiese dove avrebbe trovato la forza.
Sollevò il capo: i lini chiari si allargavano dolcemente, posandosi appena sulle spalle, mentre giocavano con la brezza, incuranti di ogni altra cosa. Selene, da lassù, lo guardava, come guardava qualunque altro uomo, forse lei, l'unica, a non far distinzioni di sorta.
Pherio avrebbe voluto chiederglielo: quand'era bimbo, al tempio, la guadava spesso, e parlava, aspettando una risposta. Anche ora avrebbe voluto avere il cuore abbastanza puro per dedicare al vento il suono creato dalla sua propria anima, ma esso gli pesava greve, ingrigito anzitempo dal dolore e la fatica, lacero e sofferente, in petto. Ed esso era muto non perché un qualche dio gli avesse strappato la voce, no, ma perché Pherio aveva imparato ch'era meglio tacesse. Che sempre, in ogni cosa, il cuore non parlasse, non dicesse nulla. Avrebbe voluto strapparselo dal petto e gettalo in mare.
S'appoggiò al parapetto, chinando un poco il capo, e l'amarezza del suo sorriso apparve chiara anche nell'immagine distorta tra le onde, e lontana: l'avrebbe di certo fatto, se avesse potuto, eppure, temeva, non sarebbe cambiato nulla.
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Pirecrate, ridendo senza freni, tirò indietro il capo che s'era proteso sul basso tavolino per farsi versare ancora un pò di vino, e la tempia sinistra sfiorò il gomito sollevato: nè Greci nè Orientali erano ora che se ne stavano adagiati a brindare su mezzi giacigli, un pò sedie un pò letti, ma diamine se ne infischiavano, perché lì avevano intessuto qualcosa, e di quel qualcosa si fidavano.
Quel calore, quell'intimità che avevano intrecciato naturalmente e il mondo ch'era rimasto chiuso fuori e dentro l'animo e quello che era scaturito a partire dal primo boccone. . tutto questo era nuovo e interessante per lui, per adesso ancora bello e piacevole, anche se già sapeva di frivolezza; rimbalzare di volto in volto, di battuta in battuta, era un gioco divertente.
"Oi oi oi Diamete!"
"Oi un corno, sciagurati che non siete altro! Se avessi avuto un'altra possibilità-"
Diamete fu interrotto a metà frase, proprio mentre stava per esprimersi all'apice del proprio risentimento, dall' amante Anassimandro, dietro a lui, che lo prese per il mento e lo trascinò in un ardente bacio.
"Voi due, orsù con questi pessimi esempi di buone maniere! - Polinice scosse lievemente il capo, ghignando e guardando il vino nel bicchiere; si rivolse al giovane Pirecrate, sulla destra, e sollevò il braccio con gli occhi densi e penetranti, ma allegri - Direi di brindare, piuttosto - una finta occhiata di rimprovero a quei due che continuavano nell'attività amorosa suscitando l'ilarità dei presenti tutti - anche per questo nostro nuovo compagno. E' il tuo primo sissizzio un pò privato, vero?"
Annuì col capo, con entusiasmo, e sfiorò col proprio il calice porto da Polinice, il più anziano. Mandarono giù l'ennesimo bicchiere di forte e fragrante vino, e anche Diamete e Anassimandro che in esso, facilmente, trovarono una spranga per scardinare la porta del pudore già scricchiolante.
"Piuttosto di sissizi, Dimano! -esclamò Filodemo, alla sua destra- Non appena arrivato dovrai trovarti un bella sposa che amministri le tue proprietà e l'economia della tua casa."
Pirecrate lo fissò, non riuscendo subito ad afferrare il filo del discorso e non appena comprese borbottò qualcosa.
"Non essere timido, Pirecrate. Dicci un pò: hai in mente qualche bella fanciulla?"
"Io ho una nipote piuttosto avvenente."
"Mia figlia è più bella! - intervenne Anassimandro, ricevendo un'occhiataccia di disapprovazione da Filodemo, non contento della distrazione ma ugualmente accettandola e ricomponendosi quanto meglio poteva: casa Dimana, nonostante qualche appropiazione illecita da parte dei vicini, era completamente in mano a Pirecrate e una donna che fosse riuscita a sposare l'ultimo dei Dimani poteva gestirla interamente - Ha danzato per la Dea quest'anno, poco prima della nostra partenza!"
"Gran bello spettacolo!" confermò Polinice, sollevando l'ennesimo calice e brindando alla salute di Menistea.
"Mia nipote ha vinto le gare di corsa e lotta nel fango: sarà un pò meno bella e aggraziata di tua figlia, ma è sanissima e forte. Partorirebbe subito un maschio!"
"Sei conteso, Pirecrate - l'uomo più grande gli posò una mano sulla spalla, ed era calda - Hai solo che da scegliere: gli Ilei qui presenti ti offrono i loro fiori!"
"E io offro ancora di più - intervenne Diamete - La mia figlia maggiore, Callisto, è nell'età perfetta per divenire sposa, ed eccelle in tutte le competizioni agonistiche."
Pirecrate sorrise a tutti e tre, imbarazzato, intuendo le effettive mire di quegli uomini ma non curandosene, perché quel che a lui importava era semplicemente trovare una femmina che gestisse la proprietà e pagasse il tributo in orzo del sissizio comune. Che potesse partorire altri Dimani oltre a lui.
Ora più che mai sentiva di star ritornando a Sparta.
Gli odori, il sapore e la vista di quella vallata, delle aspre rocce tutt'intorno e degli sterminati campi fino all'Eurota. Sembrava che stesse percorrendo la sua vita su una strada circolare, e che ora, dopo un lungo e sterminato giro, stesse tornando al punto in cui era partito. Fin troppo chiaramente, nonostante il vino gli annebbiasse la mente, la ricordava svanire al di là dei profili del terreno, lungo una via già percorsa mille volte da Pherio. Per lui era stata la prima volta, invece, chè al Pireo non s'era mai recato e anzi se n'era ben guardato d'avvicinarglisi quando aveva corso verso le spiagge rossastre della costa. Volti, volti che tornano.
Sentiva, però, che qualcosa in lui era cambiato e ancora stava cambiando. Se n'era accorto quando aveva dovuto fronteggiare il capitano Polinice.
"Polinice, signori compagni, Pirecrate, io me ne vado alla cuccia. ."
Proclamò Filodemo.
Una sensazione lontana gli causò un brivido dietro la nuca, e provvedè a scacciarlo con un movimento lento e sinuoso del capo pesante, appoggiandolo dove era ancora segnata l'orma del suo gomito: molto probabilmente avrebbe potuto addormentarsi lì, e anzi non sembrava affatto una cattiva idea. Polinice e gli altri parlottavano e ad un certo punto neppure li stette più ad ascoltare, immerso nella letargia. Forse non avrebbe dovuto bere tutto quel vino: sai che mal di testa l’indomani..
Così piacevole. Gli dava fastidio non avere più nel proprio potere le palpebre, constatare che gli occhi battevano ed erano battuti e che la mano abbandonava la presa sul calice traditore, eppure adesso si sentiva appagato. Percepì un movimento dietro e le membra venire a contatto con quelle di qualcun altro. Schiuse un occhio, guardandosi alle spalle, ed era solo Polinice: l’odore lo riconosceva, quello sfrigolare di forza e astuzia. Poiché udì distintamente la sua voce, mentre le altre no, intuì che dovevano aver abbandonato la tavola.
"Che vuoi, Polinice?"
"Parlare, un pò. Vedi. . - gli carezzò intanto al spalla destra, l'unica esposta, con un tocco lungo ed estenuante; la pelle fu travolta dal pizzicorìo, ma con dolcezza; Pirecrate abbandonò completamente il capo al guanciale, per un attimo lludendosi che potesse essere qualcun altro. Magari Astre. Magari l'Ateniese. . - noi due."
.. . Pherio.
"Mh?"
"Non mi hai ascoltato, vero?"
"Ho sonno. ."
Le dita di Polinice andarono alla sua cintura, tirando sul passante per slacciarla e liberare così la veste. L'aria di mare pungeva nelle narici assieme all'odore forte del legno mugolante, e le labbra sapevano di sale. Anche quelle di Polinice, posate sulle sue, aperte e aprendo, umide, col sapore di vino e carne rossa e pane. Frattempo la mani gli era scivolata tra le gambe, e accarezzava attraverso la veste ruvida con lentezza angosciante, quanto bastava per tener vigile la sua attenzione e non farlo scivolare di nuovo nel torpore, e farlo sospirare.
"Guardami."
Cambiò posizione, e adesso dorso e nuca aderivano perfettamente per metà supini sullo schienale. Polinice gli fece sollevare appena il capo, liberandolo dei ricci neri sotto le spalle facendoli piovere oltre la voluta del klismos. L'uomo li guardò a lungo, e con voluttà e nostalgia vi passò i polpastrelli e le dita, seguendo le vie dei riccioli e delle infinite pieghe in quella chioma meravigliosa.
"Son proprio uguali, sai?"
"A cosa. .?"
"L'unica persona che ho visto con capelli più scuri di questi è stato quel dannato Persiano. . Ma a me piacciono molto di più i vostri."
"Vostri?"
S'obbligò a riprendere coscienza di sè, tentando di sollevarsi per liberarsi del suo calore, ma la mano tra le cosce strinse un poco e trovò la via attraverso la veste. Fu come se il sangue fluisse via dalle vene, per concentrarsi tutto nel suo sesso e fargli perdere l'ultimo barlume di ragione. Una ragione che in un certo senso voleva Polinice: nessun adulto s'era mai interessato a lui se non per farlo stare alla larga mentre tanti erano i ragazzini che erano oggetto di attenzione particolare. Loro imparavano la vita e sedevano accanto ai loro adulti, e venivano rispettati anche dagli anziani quanto era rispettato il loro amante.
Lui era rimasto sempre dove stava, solo, e quando qualcuno aveva superato la soggezione, proponendo di giacere assieme a lui, per ripicca a quel mondo e per orgoglio incallito nel cuore aveva rifiutato. Nessuno di loro l'avrebbe avuto e lui se la sarebbe cavata con le proprie forze, a costo di dover camminare nel fango per il resto della sua vita.
"Pirecrate" le dita camminarono giù, oltre il suo sesso, lungo la pelle delicatissima e fino all'ano, premendo forte e coi polpastrelli sul cerchio di muscoli in fremito.
Ora forse aveva paura di Sparta, di trovarsela all'improvviso davanti e di dover essere come loro quando lui non era come loro. Spartiate. Significava non poter più guardare un adulto e sfidarlo con lo sguardo senza incorrere in un labirinto di mura inespugnabili. Nessuno Spartano aveva un valore in sè e quel sè era l'unica cosa che Pirecrate possedeva. Pherio. . Pherio purtroppo era tagliato fuori per quanto avrebbe potuto tener testa a tutti, conoscendo le arti della politica e dell'intrigo peggiore.
Pirecrate sentiva il disperato bisogno di qualcuno che potesse essere una bussola in quei meandri sinuosi che gli si stavano spiegando di fronte. Qualcuno... Polinice? Polinice non era peggiore di tanti altri. E poi Polinice era ciò che la sorte gli aveva gettato indosso e lui.. Pirecrate non sapeva se sarebbe riuscito a rifiutare, neppure se avesse voluto, ora che il legame con la città brillava e pesava indosso come da sempre avrebbe dovuto, e ora che era solo. . solo com'era mai stato. Vuoto il cuore, e la malinconia tanto amara da non riuscire a sollevare lo sguardo per cercare quello dell'unico di cui importasse ora qualcosa.
Un rifiuto non lo voleva, non poteva sopportarlo. Un rifiuto l'avrebbe spezzato: si sentiva fragile e non voleva. Quel qualcosa che lo rendeva debole non era una buona cosa, era pericolosa, era veleno e lui avrebbe dovuto starne lontano con tutte le forze.
Forse aveva ragione Polinice: nulla lo obbligava a portare vivo Pherio, con se' a Sparta. Poteva ucciderlo, era un Ilota, chi avrebbe detto qualcosa? Nessuno. Sparta l'avrebbe accolto come un liberatore e lui da lui stesso sarebbe stato liberato. Invece no, invece non poteva: Polinice non capiva, lui stesso non capiva ma sapeva, sentiva che Pherio era lì, con lui, e gli pesava sul cuore, ma era un peso dolce dal quale non avrebbe mai potuto liberarsi. E se Pherio era la sua punizione non poteva far altro che accettarlo, perché altro non era in grado di farlo. Vedersi lontano, immaginarsi separato da lui.. ora non riusciva a reggere a una simile immagine e mai, sapeva, mai avrebbe potuto. E Polinice.. Polinice andava bene, Polinice non contava niente, non era niente. Era semplice farsi amare da lui, così, e quel che ora stava dando gli sarebbe stato restituito. Era, egli, infido, ma l’istinto disse a Pirecrate che questo era ciò che doveva essere.
Era un qualcosa a cui riusciva a pensare, poteva capirne l'importanza e l'utilità. Ma soprattutto, poi, magari, avrebbe potuto aiutarlo a non pensare..
Polinice affondò la lingua in quella bocca tanto quanto riuscì e graffiò il costato scuro, denudato dalla veste sfuggita via, completamente aperta. Il Dimano singhiozzò in un suono gutturale, dalle profondità del petto e della gola.
"Ti piace?"
Pirecrate annuì, focalizzando la propria attenzione su dei passi sopracoperta, leggeri e decisi, che facevano piegare lievemente sotto di sè le assi e scricchiolare. Aerei come la luna che solca il cielo vellutato.
Polinice gli fece sollevare le gambe, passando le braccia sotto le ginocchia, esponendolo mentre su di lui si piegava a mordere un capezzolo, forte, per tenerlo tra le labbra e distrarlo. Prese una ciocca tra quei capelli portandola tra loro due, bene in vista, così lunga da arrivare sull’addome contratto, terminando in un'involuzione su se stessa, fitta e bruciante come un carbone ancora ardente, morbida come una piuma di corvo.
Poggiò i polpastrelli sulle bocca, con essi la penetrò facendosi amare dalla lingua che languidamente li accarezzava mentre gli occhi erano fissi di lato, verso il basso. Cercò di nuovo tra le natiche e con la saliva di cui erano colme le sue dita lubrificò l'entrata, che al gesto istintivamente si rifiutò, con veemenza.
L'Ileo sapeva di Pleto: ne era stato l'amante fisso e il giorno in cui era scomparso era bastata un'occhiata a quel giovane, che ora si umettava le labbra sotto di lui, per comprendere quel ch'era accaduto durante la notte. Pleto come al solito s'era dimostrato uno sciocco, e aveva pagato.
Pirecrate scosse con vigore il capo quando lo penetrò, tentando di liberare le gambe.
"Passa subito, abbi pazienza."
Mentre il giovane Spartiate apriva del tutto gli occhi celestissimi un'onda più gonfia investì la nave e il lume ad olio ondeggiò. La luce mosse le ombre e in quel gioco di chiaroscuro nei lineamenti di Pirecrate Polinice intravide il profilo di Aristide. Ora sì lo riconosceva, riusciva a vederlo e quei capelli erano del padre, e infinitamente più ribelli. Gli piacque da impazzire, lo fecero cuocere di calore. Si spinse del tutto dentro quel fuoco indicibile, quel tunnel di bronzo, tendendo la schiena.
Sì. Pirecrate era uguale e bello come suo padre. .
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Pirecrate raccolse le proprie madide vesti dal pavimento,
ove le aveva gettate senza curanza, e le espose al sole perché s’asciugassero.
La luce si faceva largo nella penombra del sottocoperta attraverso un’angusta
finestrella e il vento pareva di essa lo scudiere impavido, ma era pastoso,
salino. E nonostante questo era proprio dell’acqua di mare che le sue membra
avevano un bisogno terribile, perché disinfettasse, trascinasse via le ferite
delle unghie e i segni delle dita, gli odori lasciati sulla sua pelle. Se solo
in questa maniera avesse potuto liberarsi del peso che gli gravava sull’animo,
avrebbe raccolto in tinozze l’intero Oceano e se lo sarebbe rovesciato sul capo
spettinato, e invece non c’era pace per il suo spirito. Qualunque cosa facesse,
comunque agisse, i suoi sforzi svanivano come la spuma lasciata in riva dalle
onde, piccole e grandi che fossero.
Immerse la spugna nell’acqua trasparente, pulita e
profumata di purezza, e si bagnò il collo, tremando, strizzando le gocce una
dopo l’altra, assaporando senza piacere la dolcezza del loro scorrere via sulla
pelle, scintillanti stille destinate a perdersi nell’ombra.
La colazione era stata un vero e proprio disastro: tutto
quello che gli altri avevano detto per scherzoso affetto s’era abbattuto su di
lui come scudisciate impietose; ogni sguardo era stata una lama che penetrava
nel petto senza più difese. E aveva dovuto sopportare, agendo come uno schifoso
ipocrita senza coraggio, mentre dentro s’era sentito morire per così tante
volte che non era riuscito a tenere il conto. Fortunatamente c’era stato poco
pane da spartire, e pochissima marmellata, e un solo bicchiere di latte,
cosicché era stato semplice finirla presto. Per correre a lavarsi nuovamente,
stavolta col rossore della rabbia e dell’imbarazzo più nero sulle guance,
ferendosi mentre passava le mani lungo il corpo, incapace di arginare il
dolore.
Umiliazione senza riserve.
In fondo chi meglio di lui, il Dimano senza onore, poteva
conoscere cosa significasse?
Sì ma mai era stato lui stesso la causa del proprio
disonore, mai aveva gettato una simile macchia, un’ombra così cupa, su se
stesso. Il bracciale di bronzo continuava a splendere nella propria fierezza, e
gli scottava sulla pelle: se avesse potuto se lo sarebbe sfilato, ma non era né
nelle sue forze né nella sua pazienza che avrebbe trovato compagne fidate, e
allora sopportò anche quello.
Se almeno ci fosse stato un altro luogo su quella
maledetta nave dove ci fosse un po’ di spazio appartato cosa non avrebbe fatto
per appropriarsene e consacrarlo a se stesso! Era segregato in quella cuccia
dove l’aria iniziava ad essere asfissiante al punto che neppure la brezza
marina riusciva a lenirne la calura, o forse erano semplicemente le sue membra
a non riuscire più a respirare. Che importava però? Si sentiva male, la testa
pesante, e il cuore batteva senza dargli tregua, trascinando con sé i pensieri
più dolci.
Il suo cuore sapeva che quello, tutto quello, era un
immane errore e più tentava di negarlo a se stesso più la voce di quel dannato
si sollevava.
La combatteva e contro di essa non aveva possibilità,
quindi: perdeva. Ma non poteva fare altro, perché non voleva tornare sui propri
passi, perché la strada era ben segnata e per quanto si fosse affaticato oramai
non poteva comunque tornare indietro.
E, assurdamente, furono i pensieri di Idrio dolce e Astre
tanto amato a condurlo in un riposo senza sogni: Pherio era fin troppo tremendo
anche quando non era accanto a lui.
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“Pherio!”
Un sogghigno sghembo a tagliare l’aria
fresca della notte, le stelle parvero improvvisamente ardere d’un fuoco più
alto, quasi minaccioso ma l’Ilota che fu spartiato non si mosse: aveva udito il
suo avanzare da quando, con passo saldo e sicuro era uscito quella notte, sopra
coperta, facendo il giro del ponte con lenta meticolosità come se di ogni legno
o nodo o corda foss’egli responsabile, quando,
invece, mai Polinice aveva combattuto in mare.
Avevano mandato lui, da Sparta lontana,
perché s’attendevano un inseguimento via terra, una caccia, e Polinice di
questo, e di trabocchetti e trappole infide era esperto. Di certo nessuno aveva
mai neppure sognato che Pherio potesse presentarsi alla loro nave, ‘chiedendo’ di esser riportato in patria.
Fosse stato da solo, a Sparta sarebbe
tornato, di certo non così. Però la presenza di Pirecrate mutava ogni cosa.
Pirecrate.
Sollevò appena il volto, di lato, con
un’espressione cupa e seria a tirarne le labbra. Dopo tanto tempo si
incontravano di nuovo: i sentimenti tra i due erano sempre gli stessi, ma tutto
il resto era polvere. A Pherio non importava, preferiva morire piuttosto che
mostrarsi sottomesso e ubbidiente a Polinice.
Lui rise.
“Sei sempre il solito cane rabbioso!”
E gli si sedette al fianco, senza
chiedergli permesso: per istinto Pherio s’allontanò, ma quando il braccio forte
dell’uomo lo costrinse accanto non tentò nessun’altra
reazione, perché null’altro poteva permettersi.
Tese la schiena, rigida, voltò il capo
ritornando a fissare il cielo, la volta stellata sopra di loro e senza sforzo
annullò la presenza dell’altro uomo al suo fianco. Non gli era mai stato
difficile farlo, anche se quasi mai aveva potuto: Polinice era pericoloso e
terribile, non poteva spesso permettersi il lusso di rilassarsi in sua
presenza. Ora, che non aveva alcun valore, che poteva essere ucciso senza che
nessuno convocasse i giudici per comminare una pena, ora, se Polinice avesse
osato strappargli la vita, la gerousia tutta sarebbe insorta, e Polinice,
probabilmente, non avrebbe trovato un solo posto in tutto l’ampio mondo in cui
sentirsi al sicuro.
Gli venne stranamente da sorridere: i
casi della vita! Su Polinice aveva più potere ora che non prima... ma Pherio
non era uno sciocco, sapeva che questo ‘potere’ era
una finzione, era un’arma a doppio taglio. Aveva un valore, lui, solo per
quello che sapeva, e a Sparta si conoscevano mille modi per strappare segreti a
labbra reticenti.
Lui era uno schiavo, una cosa, un
oggetto. Il suo valore, il suo orgoglio, la sua arroganza a pari con
l’intelligenza avrebbero dovuto camminare perché ora stava giocando a un gioco
pericoloso, del quale conosceva poco le regole, e nel quale era lui, contro
tutti. E avrebbe potuto continuare a giocare solo fino a quando qualcuno non
avesse deciso che ne aveva abbastanza e, sollevando una lama, troncasse la sua
vita senza pietà. Il trambusto che ci sarebbe stato, poi, a Sparta, una volta
che fosse morto, poco gl’importava.
Si chiese se Polinice fosse lì per
motivi istituzionali, o per ‘questioni private’ ..
sapeva che prima o poi sarebbe arrivato a quello, ma il disgusto ora, era così
forte, che per un attimo pregò davvero di morire, di essere ucciso lì sul posto
piuttosto che subire quello che, sapeva, l’attendeva.
Chiuse gli occhi, strettamente, le dita
di Polinice gli sfiorarono delicatamente i capelli, scostandoglieli dalle
guance, esponendo il lobo al suo fiato morbido.
“Cos’è accaduto? – sussurrò conciliante
– il giovane Pherio, il maledetto insolente, non ha nulla da dire di sferzante?
Per far brillare la sua intelligenza sopra noi poveri bifolchi?”
Pherio tacque. Dita crude gli
s’intrecciarono ai capelli corti, obbligandolo ad arcuare la gola coperta da
strati e strati di lini leggeri e impalpabili che lasciavano fuggire il battito
rapido delle vene ma che non mostravano un solo lembo della pelle candida. Gli
occhi di ghiaccio s’esposero al cielo con un movimento lento delle palpebre, e
la sua luce invase ogni cosa. Polinice sorrise, ammaliato.
“Perché non parli?!”
“Non ho nulla da dire.”
Una reazione veloce, rabbiosa, qualcosa
che Pherio s’era atteso. Rotolò su un fianco, accompagnandosi con le braccia,
allo spintone terribile di Polinice, e si rimise seduto, con il massimo della
dignità che seppe trovare: ed era tanta, ed era fulgente, e agli occhi dello
spartiato brillava chiara e insolente, inarrivabile e inattaccabile.
Polinice avrebbe voluto, ora,
ucciderlo. Ma non con la spada, no: lentamente, a calci e pugni, per vedere
come poteva torcersi dal dolore quel viso che sempre e solo disprezzo aveva
dipinto sulle labbra, e superiorità, anche ora che non era nulla, era un ilota
in catene, destinato a morte, disonorato.. la cui vista doveva suscitare solo
disgusto, e invece..
Invece.
“Sciogliti quei nodi che ti stringono
indosso! Voglio vedere il tuo collo! Voglio sentire la tua pelle!”
Era un ordine. Pherio sollevò il mento
piegando appena le labbra. Ma le sue dita rimasero immobili in grembo.
Se avesse saputo che, ora, il suo corpo
non era più dedicato, che qualcuno già aveva strappato un sigillo ch’era durato
anni, forse non l’avrebbe più voluto. Forse avrebbe avuto orrore e schifo a
sollevar la mano su di lui: ma dirglielo, lui, non ne aveva intenzione. E la
lussuria, poi che gli brillava negli occhi e lo incendiava tutto, come un tizzone
ardente avvicinato a un covone di erba secca: per così poco si sarebbe fermato?
Pherio era certo di no: quello era desiderio nato dalle viscere, dai lombi, non
c’entrava l’impossibilità di toccarlo, non c’entrava.. era solo follia,
desiderio puro, brama, fame e sete, violenza.
Pherio guardava Polinice e vi vedeva in
esso tutto questo ma non ne aveva paura, non poteva. Non l’avrebbero piegato,
non l’avrebbero spezzato, neppure così, neppure se tutto l’equipaggio l’avesse
violentato per tutta la durata del viaggio, neppure se l’avessero costretto a
cose innominabili.. nessuno di loro era abbastanza per lui, nessuno di loro
avrebbe potuto piegarlo, o vincerlo, in qualunque modo ci provassero.
Nessuno.
Vide lo schiaffo partire, a palmo teso,
ma non si scansò, lo lasciò abbattersi sulla sua guancia, perdendo
l’equilibrio, accasciandosi sulle assi, appena frastornato. Le mani di Polinice
gli si infissero nelle spalle mentre la sua voce sibilava a un palmo dal suo
viso.
“T’ho dato un ordine, maledetto infame!”
Pherio chiuse le labbra, distogliendo
lo sguardo. Non avrebbe ceduto. Polinice probabilmente l’avrebbe preso comunque
ma non con la sua condiscendenza e..
“O forse vuoi far chiasso apposta
perché il tuo affezionato Dimano accorra, vero? – la sua mente si ghiacciò per
un attimo: Pirecrate. Perché mai la sua sola esistenza riusciva a complicare
ogni cosa? E perché Polinice aveva nominato .. il fiato gli si chiuse in gola.
Pirecrate era l’unica persona che mai l’avrebbe trattato con equità, una volta
a Sparta. Pirecrate era talmente stupido che magari l’avrebbe pure difeso. A
Sparta. E lì. – Vuoi fargli godere lo spettacolo? Eppure io credo che sia un
tipo molto geloso. Non credo chiederebbe di partecipare, sai?”
L’espressione divenne terribile di
rabbia gelida e di un disprezzo che non riusciva a trovare uno sfogo.
“Lascia fuori Pirecrate da questa
storia!”
Se Pirecrate avesse .. assistito..
Pherio tremò impercettibilmente: lo sapeva, lo conosceva, avrebbe reagito in
qualche maniera assolutamente stupida. L’avrebbe fatto, e Polinice avrebbe
avuto la scusa per ucciderlo. Per difendersi da un’aggressione. Avrebbero
portato il corpo di Pirecrate a Sparta senza vita e lui.. lui sarebbe stato
solo .. e ..
“Pirecrate non può starne fuori, mio
bel Pherio. Pirecrate è ossessionato da te, te ne sei accorto? – sorrise di
nuovo, posandogli una mano sul petto, spingendolo giù – Io sì. Questo è un
disonore grave, provare un trasporto eccessivo per un Ilota: pensa se qualcuno
volesse prendersi la briga di portare questo sospetto davanti agli anziani,
pensa a che lunghissimo processo salterebbe fuori. Pensa ai fastidi, alla sua
vita passata completamente esposta, pensa Pirecrate sottoposto a un trattamento
simile, ricordare sempre suo padre, il suo tradimento.. per me Pirecrate farà
qualcosa di stupido, tipo mancare di rispetto agli Anziani. Potrebbe arrivare
addirittura ad essere esiliato.. “
“Taci!”
“E’ solo una prospettiva: dovresti
pensare di più a te stesso. Quando tornerai a Sparta sarai tutto solo, ed
essere assegnato a Pirecrate potrebbe essere una fortuna, non trovi?”
“T’ho detto di tacere!”
Pherio ringhiò, e il suo sguardo poteva
uccidere e i suoi muscoli tremavano dal desiderio di scattare, colpire,
uccidere. Non lo fece. Osservò Polinice ridere in gola, chinandosi su di lui.
“Allora facciamo così: io ora mi prendo
ciò che voglio e tu non farai troppe storie. E io terrò i miei dubbi su
Pirecrate per me: neppure a me piacerebbe che quel caparbio cucciolo di leone
venisse allontanato da Sparta, dividere un talamo con lui è qualcosa di
estremamente divertente. Ma presumo tu lo sappia già.”
Pherio ringhiò qualcosa, sottovoce,
troppo piano perché Polinice intuisse, troppo fondo perché lui stesso ne
capisse il significato. Non importava: si conficcò le unghie nei palmi.
Non importava: il suo corpo era solo..
un corpo, una cosa, un oggetto. Una cosa forgiata prima per vendicare sua
madre, poi qualcosa servito a una dedicazione, un oggetto che suscitava
desiderio ma null’altro, un qualcosa di posseduto, in cui soddisfarsi, in cui
affogare nel piacere e poi lasciare, dimenticato, abbandonato. Non era Pherio,
non era se stesso, il suo corpo era.. era una cosa.
Non aveva importanza, non doveva
avercene.
Merce, merce di scambio: l’unica moneta
che avesse.
Nulla di importante, nulla che per
*lui* avesse valore: se agli altri piaceva così tanto, si poteva però
utilizzarlo.. non c’era nulla di male, né di disonorevole. Il dolore poteva
sopportarlo, la vergogna… di così tante cose doveva vergognarsi che solo quel
piccolo particolare in più non avrebbe cambiato nulla.
Si morse un labbro per non urlare,
chiuse gli occhi per non vedere, si obbligò a non udire i suoni che non fossero
quello ritmato delle onde sui legni e il sibilare del vento sulle vele. Serrò
la mente, e l’anima, si lasciò andare, cadendo senza forza: era una cosa che
poteva sopportare, era solo dolore ed era stato addestrato a sopportarne tanto.
Polinice non poteva piegarlo dentro,
non poteva spezzarlo.
Nessuno poteva farlo. Neppure Polinice,
neppure ora: grugnisse al cielo il suo godimento animale chè
più di quello da lui non avrebbe potuto avere.. che in lui non si poteva
ottenere altro..
Ma non aveva importanza.
___
Pirecrate tirò le membra nell’aria
fresca della notte, soffocando uno sbadiglio: brutto risveglio da un sonno
lieve e inquieto. Preferiva muovere due passi, pure sulla limitata superficie
ch’era il ponte, piuttosto che lasciarsi affogare nelle umide sensazioni di
malessere e pericolo e fastidio che lo stavano opprimendo.
Come s’era aspettato all’aperto la
brezza gli asciugò il sudore gelido che, come una patina gli copriva le membra,
eppure un brivido ghiacciato gli solcò la spina dorsale: ad esso non diede importanza.
Non ne aveva le forze.
Era strano: come uno scrollone secco
l’aveva destato da incubi lunghi e vischiosi, colori di grandi falò gettati sul
fondo di una caverna, e il calore impossibile che avvinghiava e impediva di
respirare e di svegliarsi insieme. Ma nessuna mano l’aveva sfiorato, nessuno in
giro, tutti assopiti.
Lì sotto l’aria era fastidiosa, non gli
era mai piaciuta, invece sul ponte: prese un lungo respiro, che l’aria di mare
gli era sempre piaciuta.
Il vento, improvvisamente mutato, gli
portò alle orecchie un .. un gemito basso, qualcosa di inequivocabilmente
umano: Pirecrate arrossì, ricordando i compagni che aveva conosciuto al
sissizio la notte precedente. Dopo tutto forse anche lui avrebbe preferito star
lì sul ponte a godere di Pherio piuttosto che obbligarlo sottocoperta..
Costrinse la sua mente a un brusco cambiamento di rotta. Forse era la
stanchezza, o qualcosa che da troppo tempo pesava dentro, ma non riusciva a
sostenerlo e ora non voleva.. non poteva.. si sentiva confuso, una confusione
strana, uno spasmo doloroso alla bocca dello stomaco, il suo istinto che urlava
rabbia e furia: Pherio.
Doveva andare da Pherio, vederlo,
magari parlargli.. non importava cosa, ma doveva andare da lui: non avrebbe
resistito un attimo di più! Un’urgenza assurda gli fece volare i piedi
silenziosi sulle assi lisce: se Pherio dormiva non l’avrebbe svegliato, voleva
solo..
Una pozza di luce.
Acqua limpida che riflette per intero
la luce pastosa e morbida, freddissima di Selene: una macchia scintillante
sulle assi del ponte, scuro. E qualcosa di altrettanto scuro ma viscido, addosso,
qualcosa di .. osceno. Pirecrate riuscì solamente a spalancare gli occhi dallo
stupore, dall’orrore, dal disgusto, dal.. dal dolore.
Pherio: le gambe nude, il petto esposto, il collo riverso all’indietro, i capelli sciolti e mossi dalla brezza, un braccio reclinato sul viso, piegato il gomito, come a difendere quegli occhi così chiari da quella figura di tenebra. Le labbra erano tese, immobili, trattenute in un morso di sangue dei suoi stessi denti che ferivano la carne, lasciando che scie rosse macchiassero il mento: neppure un gemito, neanche quando la figura scura si staccò da lui, lasciandolo andare, togliendo le mani da quella superficie chiara e liscia che pareva argento lucidato. Solo, Pirecrate vide, il capo chinarsi un poco da una parte, a impedirne la vista all’uomo di fronte a lui, in piedi, intento a sistemarsi la tunica indosso: il gomito si scostò un poco lasciando intravedere il tremito delle ciglia e il brillio lieve, sotto di esse, di poche lacrime essiccate, già morte prima d’esser versate.