DI ODIO DI AMORE

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CAP: 31/?

AUTRICI: Dhely&Kalahari

RATING: nc-17

PAIRING: Pirecrate+Idrio (Ohhhhhhhhhh)

NOTE: le solite

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Il sole sfiorava appena l'orizzonte ed era uno spettacolo bellissimo, caldo e infuocato come le rocce del Peloponneso. E altrettanto acceso era l'animo di Pirecrate, che gli faceva pulsare con forza il cuore nel petto sudato per il gran caldo, insopportabile se non fosse stato avvezzo a tollerare l'intollerabile. Quel sole non era un Apollo chiaro e lucente, impietoso a volte; bensì un dio che aveva nelle vene il sangue di Dioniso divoratore e Ares sanguinario. Ipnotizzava nel tentativo di schiacciare gli uomini sotto il suo peso, ma Pirecrate assorbiva dentro di sé quella forza divina e sotto i suoi raggi avanzava vestito della tunica carminia come un uomo che tiene sulle spalle la pelle del leone ucciso. Il bronzo sul braccio destro era figlio delle rocce di Sparta, che di lì ricavavano il materiale per forgiarlo: perché era orgoglio di loro e loro soltanto: la loro terra e la loro abilità che si univano.

Pirecrate, d’un lampo, si chiese se davvero ora Pherio era da considerarsi come quel bracciale, un oggetto da sentire proprio, una cosa senza volontà, ma non fece in tempo a subire il contraccolpo di quel dubbio insistente che, come una secchiata gelida in pieno viso, vide la falda della loro tenda, sua e di Pherio soltanto, sollevata, e la vista lo fece rabbrividire.

Era presto. Troppo presto perché qualcuno, già desto, vi fosse entrato per portare i saluti del nuovo giorno.

Vi entrò con ansia e preoccupazione, che Pherio stesse..

Pherio era accosciato poco lontano dai cuscini che l'avevano visto dormire, in silenzio, con mani sottili e agili, sollevava la stoffa e l'annodava intorno al capo, unico modo con cui ora potesse tenere i capelli troppo corti lontano dal viso.

"Che fai?!"

La voce gli uscì roca dalla gola toccata dalle fiamme dell'alba desertica, e troppo secca, troppo impetuosa, come se fosse furioso per qualcosa e come se quel qualcosa troppo l'avesse represso negli anfratti più oscuri e nascosti dell'anima, ma lo sguardo di Pherio, che si alzò su di lui, era pacato, gentile.

"Volevo scendere al lago. - per un istante, uno solo, le mani sollevate interruppero a mezz'aria il loro muoversi elegante e attraverso lo specchio il riflesso di occhi erano schegge aguzze che affondavano nell’animo con la precisione d’un rasoio acuminato- A meno che tu preferisca diversamente."

Non un tono particolare in quella voce: piatta efficienza, nessuna sfumatura di quella dolcezza soffusa dalle labbra la sera precedente. Tutto svanito. Le parole dette ad un superiore, ché a un ‘padrone’ Pherio non aveva ancora imparato a rivolgersi.

Pirecrate mise le mani sulle anche nel tentativo di camuffare la propria delusione, reagendo nell'unico modo che conosceva: avrebbe voluto comprendere, trovare le parole per esprimere quel masso pesante che gli pesava sul cuore, squarciandogli le viscere, ma si trovò prigioniero di un timore che non sapeva potesse provare e si limitò a prendere un respiro tremante, che parve quasi il sibilo irato d'un dio.

Pirecrate, dall'arco pesante che saettava lontani e schioccanti i suoi dardi, ora si trovava a brancolare per le tortuose vie che erano dominio della mente sottile del persiano. L'idea che il continuare a frequentarlo l'avrebbe per sempre allontanato da se stesso, fece nascere un tremito lungo la spina dorsale, ma anche esso non trovò sfogo se non nella pupilla che si contrasse in uno spasmo, e il silenzio rimase il suo solo crudo camerate.

"No, non ho nulla in contrario. Va' pure."

Distolse lo sguardo da Pherio che s'alzò e andò via solido come il fusto d'una quercia, e innanzi agli occhi si trovò mille immagini di quell'Astre, dagli occhi neri come scorpioni reali, che all'improvviso era piombato tra loro due Spartani, nati gemelli dello stesso destino infame, un bambino leggero su un'altalena di fiori intrecciata dalle ninfe, un fanciullo che costringe a farsi amare.

La notte appena trascorsa sfigurava e gettava un'ombra densa e mortificante su tutte le altre tra le braccia del persiano: tra tutte la più importante, e la più gelida. Quel che prima era stato nebuloso e indistinto, ora era stato disvelato, all'improvviso, e come portato alla luce del giorno, così bello che struggeva l'animo, incatenandolo. Un marchio di ghiaccio rovente impresso sul cuore e di cui ancora sentiva troppo il primo tocco perché potesse affrontare il pensiero di Pherio, e Pherio stesso.

La notte passata e quella prima ancora, il suono cristallino della luce della luna che si spezza nei mille fuochi che sono le stelle e le infinite, eterne notti che si stendevano di fronte a lui. Di fronte a loro.

Pirecrate chiuse gli occhi.

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Firuzeh era bella, incredibile. Un richiamo a cui non riusciva a sfuggire, ora, un sentimento strano, una forza che lo chiamava a se con voci decise, salde, che non promettevano oblio e lontananza, che non brillavano d'una perfezione di ghiaccio e marmo ma della forza che scorreva nel cuore stessa della vita. E a *questo* richiamo ora Pherio non riusciva a resistere: osservare cosa stava per perdere, cosa aveva deciso che, tutto sommato, avrebbe potuto perdere senza troppi rimpianti.

Era una menzogna: lo sapeva allora come ne era consapevole ora. Ma ora la vita stessa c'era a impedirgli di chiudere gli occhi di fronte alla realtà. La vita.

La sua vita.

Era lì per riprendersela, per riviverla di nuovo, per ritornarne padrone, in un modo o in un altro. Accarezzando i capelli corti trovò il suo volto atteggiato in un ghigno amaro: era schiavo, ora, non aveva più una vita *sua*.. ma pure questo sapeva.. sentiva che era una menzogna.

Una menzogna che, forse, per un poco, era piacevole vivere, per togliersi di dosso il peso di ogni responsabilità, la difficoltà che ogni giorno ci viene messo come inciampo nel cammino, ma ora Pherio era ritornato se stesso, e se non era ancora successo del tutto, bhè, sarebbe mancato poco e Pherio sarebbe stato di nuovo Pherio, nonostante la condanna, la Gerousia e Sparta e la Legge.. anzi, proprio in nome di quella Legge che da anni lottava per difendere egli avrebbe recuperato tutto ciò che aveva perduto: il manto, la spada, il cognome..

Tutto ciò che per lui era sempre venuto prima di ogni cosa, prima di tutto, prima anche di se stesso, dei suoi sentimenti.

Sentimenti che bruciavano ancora, dentro, con la forza d'un incendio, ed era difficile e doloroso arginarli visto che muti non riusciva a renderli, visto che cancellarli era impossibile. Sentimenti che, poteva ammettere, non capiva del tutto e gli facevano paura, sì, e lo sconfiggevano sempre, ogni volta che cercava di lottare contro di loro, ogni volta che cercava di metterli a tacere.

Firuzeh era bella, incantevole, l'acqua immobile e limpida, gorgogliante di fresca vita, le donne intorno ai lavatoi che cantavano, i bambini che si arrampicavano sulle palme alte per raccogliere manciate di dolci datteri e uomini che accudivano i cavalli o i cammelli. Le stoffe colorate che scintillavano al sole. La vita che brillava e sorrideva, dolce e materna, insieme a un lieve sentore d'intossicante, una malia oscura e profonda che si coagulava intorno alla non-perfezione di quel luogo, rendendolo unico e tanto prezioso.

La superficie dell'oasi rimandava l'immagine pallida e tremolante d'un giovane uomo dagli abiti chiari, il cui profilo si perdeva nelle piccole onde sollevate chissà dove dalla carezza ardente del deserto.

Era semplice credere che ora tutto fosse perduto: il suo manto, la sua spada, Sparta.. suo zio e.. Astre.

Dei, no! Astre non era un pensiero da avere, non ora quando tutto era così difficile, se non confuso, quando tutto era così pesante e difficile.

Astre il persiano. Astre il guaritore.

Quanti anni avevano passato fianco a fianco? Per quanti anni aveva custodito quel fiore prezioso che solo per lui, inaspettatamente, gli era nato nel petto? Impossibile: tutto era impossibile per loro due e Pherio lo sapeva, ne era consapevole. Eppure il rispondere alla dolcezza di Pirecrate gl'era parsa, per un attimo, blasfema e odiosa agli dei. Pherio lo sapeva, lo *sentiva* aveva tradito il suo amore per Astre e questo, nella sua mente, lo rendeva degno della peggiore delle punizioni. Eppure di punizioni non ve n'erano state se non il volgere seccato del capo di Astre altrove, quando incrociava il suo sguardo: un qualcosa che avrebbe dovuto benedire, l'allontanarsi d'una tentazione che non avrebbe mai potuto trovar compimento eppure.. eppure Astre, sentiva, sarebbe rimasto una parte di lui.

Nonostante tutto quello che era successo, e quello che ancora sarebbe capitato Pherio sentiva che il destino li voleva separati e se anche era una sofferenza, l'idea era di un dolore senza limiti, Pherio stesso l'accettava, e sorrideva al pensiero, perché di fronte all'idea di un amore così grande non sapeva se sarebbe riuscito a uscirne vivo, o se, forse, non ne sarebbe stato semplicemente annientato. Risucchiato in esso. Vivendo in esso e per esso. Quest'idea gli faceva paura.

Astre sarebbe rimasto per lui un dolcissimo, irraggiungibile sogno, per cui struggersi nel ricordo, ma mai avrebbe osato rompere il flebile incanto allungando le dita e facendo crollare i fragili muri di cristallo che li dividevano.

Sarebbero morti tutti e due, lui lo sapeva, in un abbraccio che entrambi li avrebbe infiammati, e lui non poteva permetterselo, neppure Astre, il giovane Re.

Chiuse gli occhi: la vita che lo circondava riempiva l'aria di risate e canti, rumori e suoni, profumi, Astre sarebbe stato come il silenzioso svolgersi della notte rorida sulle sue membra fredde, Astre sarebbe stato il gelo che gli tagliava dai polmoni il fiato e gli estirpava dalle membra la sensibilità. In Astre si sarebbe abbandonato, avrebbe perso se stesso e lui, obbligando entrambi a vivere fuori dalla storia. E lui non poteva. E Astre non poteva.

Astre non era nato per lui, e lui non era nato per Astre: anche se pareva incredibile, qualcosa, dentro, gli aveva sempre detto questo, e lui aveva imparato ad accogliere e ad accettare certe cose come verità. Astre aveva un destino che non era il suo. Lui doveva compiere azioni che non sarebbero collimate con quelle del persiano. Semplicemente il loro era un amore che non si poteva vivere. Pherio, allora, preferiva non farlo neppur nascere, ma trattenerlo intatto dentro di sé, piuttosto che consumarlo e doverlo farlo a brandelli per ritornare entrambi liberi.

Forse in un altro tempo, in un altro luogo le cose avrebbero potute esser differenti, ma per ora.. E Astre, per quanto intelligente e scaltro e acuto fosse non riusciva a capirlo, non riusciva assolutamente a intendere questo, e viveva il rifiuto come una mancanza d'amore quando, invece, forse, era *troppo* amore.

Troppo per Pherio solo.

Pherio non poteva vivere quell'amore soffocante e accentrante, Pherio aveva bisogno d'un compagno, con forza, qualcuno che gli stesse vicino, qualcuno che lo completasse, non che lo annientasse, per vivere con questa persona nel mondo e non perso nel proprio amore.

Era tutto troppo diverso, troppo lontano da Astre: quando il troppo amore diventa odio acre come si può, poi, trovare un nuovo equilibrio? Ora, lucidamente Pherio guardava indietro agli ultimi giorni passati, il suo allontanarsi, la sua anima ritrarsi, e improvvisamente s'accorse, consapevole, che Astre avrebbe potuto salvarlo forse con un solo pensiero: Idrio non avrebbe rischiato la sua anima, Pirecrate la sua vita e Dionide la sua mente. Ma Astre non l'aveva fatto, e non l'avrebbe *mai* fatto.

Era troppo semplice tramutare un amore assoluto e prezioso in odio quando si possedeva un crogiolo ampio e resistente come l’animo di Astre: ma di questo non lo biasimava, probabilmente avrebbe fatto la stessa cosa pure lui, se si fosse trovato nella posizione di Astre. Anche coloro che paiono non perder mai il controllo dei propri sentimenti a volte crollano, e quando lo fanno cercano a tutti i costi di portar con sé chiunque abbia avuto anche una minima importanza.

E Pherio temeva di percorrere la stessa strada di Astre: crollare ora che non se lo poteva permettere, ora che nessuno si sarebbe più affannato per tirarlo fuori dal baratro in cui lui stesso avrebbe voluto cadere.

Nessuno. . strano pensiero che gli fece per un attimo contrarre il costato: Pirecrate l'aveva fatto.

Certo, probabilmente per sentirsi la coscienza a posto, per la vergogna, perché si sentiva in qualche modo colpevole, perché era un .. che strano: erano sentimenti immensamente contrastanti quelli che nascevano nel pensare a Pirecrate, sentimenti molto diversi di quelli provati per Astre.

Differenti ma simili in qualche strano modo e lui, ora, faticava a districarsi tra una rabbia nascente senza qualche motivo e un moto che pareva di gelosia..

Qualcuno gli tirò una falda della tunica lunga che aveva indosso, un paio di strattoni secchi, urgenti.

Pherio si voltò lentamente verso di lui, e si trovò a fissare gli occhi lucenti e limpidi di un bambino, così piccolo che non doveva avere più di una decina di primavere.

"Ciao Spartano!- disse ridendo, poi lo fissò con attenzione in viso, gli occhi negli occhi per un lungo istante, poi scoppiò a ridere. - Sapevo che mia sorella aveva torto!"

Avrebbe voluto allontanarlo, piccola creatura fastidiosa. Pherio sospirò, sorridendo appena.

"Su cosa?"

"Su di te! - il piccolo puntò un ditino dritto verso l'uomo ben più alto di lui con la sicura tranquillità che solo i cuccioli hanno, poi sorrise con l'aria saggia - Lei continuava a dirmi di non darti fastidio, di starti lontano, perché, lei dice che tu hai degli occhi terribili, che a guardarli fanno male e che magari mi trasformi in qualcosa di orribile! - rise di nuovo - Ma non è vero! Non mi hai trasformato in niente!" saltellò sui due piedi, orgoglioso di sé.

Pherio sospirò appena, ma non si sentiva seccato o ..infastidito.

"Già."

Suonò laconico, ma il piccolo non si smontò, anzi, rise di nuovo.

"Anzi, io credo che siano molto belli. Una volta è passato un mercante con una tigre da vendere al mercato, ed era tutta bianca, e aveva gli occhi chiari come te. Sei parente di una tigre?"

"No. - le sue belle labbra si distesero un poco - Non so neppure ruggire."

"Ma come! - strillò il bimbo - Io sì! Senti: Groooarrr! Sono una tigre terrificante, non è vero?"

Pherio annuì piano, salutando appena con la mano il piccolo che aveva deciso di aver qualcos'altro di urgente da fare e stava correndo via, quando lo vide ritornare sui suoi passi, serissimo in viso.

"Pensavo che stessi andando a caccia, come tutte le vere tigri fanno."

Il piccolo sorrise di nuovo, poi gli porse una cosa. Nel suo pugnetto scuro teneva il nocciolo di un dattero, perfettamente pulito, quasi lucido.

"No, volevo darti questo.."

Pherio corrugò appena la fronte, accettando il dono e guardandolo con più attenzione, inginocchiandosi accanto al bambino, sforzandosi di ricordare se quel gesto dovesse avere un qualche significato.

"Il nocciolo di un dattero.."

"Il *seme*! - lo corresse lui - L'ho preparato proprio come si deve, vedi come è lucido? L'ho pulito e ho anche trovato il posto per piantarlo, ma tu.. - si torse appena le manine - tu non sembri tanto felice, anche se hai gli occhi come una tigre. Anche la tigre bianca che era in gabbia aveva gli occhi tristi come i tuoi e a me non piace. Allora ho pensato che servisse di più a te che a me. Io posso farlo un'altra volta."

Pherio sbatté le palpebre, confuso.

"Sei molto gentile. . ma non so cosa dovrei farci."

Il bimbo lo guardò sospettoso, come se fosse certo che quell'uomo lo stesse prendendo in giro. Poi sospirò: dopo tutto quello veniva da lontano, e magari era vero che non conosceva la magia dei datteri!

"Si dice che se tu prendi un seme, lo tieni in mano e forte forte pensi a ciò che desideri e poi lo pianti a Firuzeh, quando il seme sarà pianta e darà frutti allora anche il tuo desiderio si esaudirà. E' una cosa importante, perché passa tanto tempo da quando metti il seme sotto terra a quando darà frutto, ma se c'è una cosa tanto tanto importante per te puoi farlo. Se vuoi ti aiuto!"

Pherio sbatté gli occhi di nuovo, chinando il capo sul seme lucido che aveva posato sul palmo. Sentiva indistintamente, ora, il chiacchiericcio fitto e gentile del bambino. Era solamente una stupida superstizione, pensò, però.. si concesse un sorriso. Aveva il tempo di aspettare che un seme di dattero fiorisse, dopo tutto, e anche se poi non fosse servito a nulla, almeno a Firuzeh ci sarebbe stata una pianta in più: era il segno più grande che poteva lasciare nell'oasi e dopo tutto, sarebbe stato un buon segno.

"Sì, aiutami."

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La splendida bestia colpì la terra soffice con lo zoccolo nero e lucido e scosse il capo tanto forte che sulle tempie scavate batterono le ciocche della folta criniera. Pirecrate l'osservò con, negli occhi, una luce silenziosa, intensa, accecante, e allungò una mano per sfiorare quel muso nero segnato da una lunga scia di bianco pelo, lattea ferita in un cielo senza Luna. Le narici si spalancarono sotto il vigore del caldo respiro, le pupille umide dello stallone lampeggiarono sotto un battito veloce di ciglia, e mentre le orecchie si drizzarono le zampe posteriori si tesero a sostenere l'intero peso del corpo. Lo Spartano ritrasse le dita per non innervosirlo ulteriormente, ma seguì dall'esterno dell'ampio recinto i movimenti rapidi e imprevedibili, evidenziati dalla coda simile a una frusta.

Sul garrese scivolarono, come delfini sulle onde, spicchi di luce lasciati penetrare attraverso i drappi sospesi. I muscoli si contraevano sotto la pelle spessa e ricoperta del pelo nero, che sarebbe stato impeccabilmente pulito se il cavallo non si fosse sdraiato in terra.

Pirecrate aveva ottenuto l'autorizzazione di Dionide a entrar nell'ampio spazio riservato alle stalle, senza nessuno intorno. Almeno i cavalli poteva vederli in piena libertà, visto che non gli era concesso neppure di guardare Idrio da lontano!

Lo Spartano si imbronciò, lasciandosi cadere all'indietro su un piccolo covone di paglia adagiato a un muro di assi inchiodate, accavallando le gambe, fissando lo stallone che a sua volta non lo perdeva di vista un attimo, sebbene sembrasse totalmente concentrato nello sfamarsi alla propria vaschetta.

Forse era tutto sbagliato quel che faceva, forse l'idea di non seguire più Astre era una follia pura.

Per chi lo faceva, per cosa?

Sapeva che era l'unica cosa giusta, tutto qui. Era una canzone incessante ad azzittire i suoi desideri profondi, se non mostrando la loro fragilità almeno togliendogli le forze, ed era un canto dolcissimo cui non sapeva dire di no. Oh quanto avrebbe voluto poterlo fare, ignorandola! Quanto sarebbe stato più semplice lasciarsi trascinare da quel fiume che Astre sapeva organizzare solo per lui, e il richiamo delle innumerevoli battaglie, e i nemici, gli scontri, gl’eserciti! Ma ogni volta che posava gli occhi su Pherio, su quei capelli recisi con troppa crudeltà e su quelle iridi che s'erano fatte ancora più penetranti, se ne scopriva affascinato, vittima d'un vero e proprio incantesimo che non sapeva chi aveva potuto intessere, però era lì, e gli stringeva il cuore.

Innamorato: trascinato da qualcosa che era più grande e forte di lui. Ancora aveva addosso la sensazione delle loro anime abbracciate, il bruciore di un'acqua senza sapore in un mondo inesistente, e la tenerezza di quel collo indifeso sotto le sue dita mentre sprofondavano nuovamente alla vita.

Abbandonò, il nobile Spartano, indietro il capo e il corpo, desiderando d'addormentarsi e di potersi svegliare più felice di quanto lo fosse ora.

Il bronzo del suo bracciale era gelido.

I suoni si rincorsero per qualche tempo, poi svanirono e si unirono nell'esile fischiare del vento. La mente addormentata sembrava poter cavalcare quell'aria calda e avvolgente e perdersi per le vie infinite del deserto. Giungevano anche voci lontane: voci di persone e di rocce, anch'esse fuse insieme e indistinguibili. Persino il lento palpitare dell'acqua scorreva sereno assieme al vento in un abbraccio senza fine. Chissà.. se ne fosse stato capace, se fosse stato come Astre, come Idrio, gli sarebbe riuscito di sentire persino il mare.

La sua pace si fece come lo specchio d'un lago e così restò fino a che delicate gocce lo turbarono. Inizialmente fu soltanto una sensazione, ma poi si fecero più distinte perché sembravano venir sempre più vicine. Passi, verso di lui.

Pirecrate avrebbe potuto attendere che l'indesiderato se ne andasse come era venuto, sonnecchiando come una pantera sul proprio ramo che oscilla la coda. Invece aprì gli occhi e si ritrovò senza voce né pensiero nel vedere Idrio innanzi a lui.

Indossava una veste lunga, magnolia, trattenuta ai fianchi da una cinta di cuoio scura e coperta da una sopravveste ancora più chiara, finemente ricamata agli orli da strisce sottili d'un cuoio altrettanto pregiato. Giungeva fino ai polsi per affondare verso i piedi lungo la linea del mento, del petto, dell'ombelico, del sesso. Il collo era avvolto da strati sottilissimi di lino pregiato, annodati dietro la nuca. Su quel nodo ricadevano i capelli che nelle punte erano mossi.

Era. . bellissimo. Il sangue valoroso d'Atene gli infondeva la maestà del Partenone, sebbene gli occhi fossero ampi come l'orizzonte del mare, tremendamente giovani nella loro prematura maturità, rafforzati da un qualcosa che non bastava ad ucciderlo ma che lo scavava dentro.

Pirecrate lo fissò come se fosse stato il residuo d'un sogno da cui non volersi destare, come un'illusione troppo fragile, di breve esistenza, mentre il vento inarrestabile smoveva quei vestiti e i drappi sopra il loro capo. Sprazzi e mezzelune di luce dorata entravano e colpivano il verde delle iridi; dardi infuocati si gettavano nell'acqua lapislazzuli e smeralda senza poterne raggiungere il fondo, svelando le schegge di colore e nuovi inaspettati tesori. L'Ateniese sorrise, e quel sorriso era per lui.

Un po’ insicuro, timido, un po’ triste.

Fu in quell'istante che gli porse la propria mano, ed essa fu riempita da un'altra. Polpastrelli ricoperti da una leggera patina di calda rugiada condensata fluttuarono sopra il palmo indurito dall'elsa, su esso s'adagiarono ed esso presero ad inseguire in una danza, in un gioco elegante ch'era un istante senza prezzo.

Fino a che si trovarono palmo contro palmo, le dita sulle dita e le dita, poi, tra le dita. Idrio non lo resse, e chiuse le palpebre, lasciandosi scivolare su quel petto, senza forze né volontà, lasciandosi abbracciare dalle braccia che amava. Pirecrate notò per la prima volta la pallida cicatrice sul polso sinistro, quello che nessuna medicina era stato in grado di liberare da un ricordo così terribile. Avvolse con le dita della mano destra quella pelle offesa, come volendola sanare, proteggere, consolare, e udì un sospiro dalle labbra belle.

Credette d'avergli fatto male. Glielo chiese. Idrio fece cenno di no col capo, adagiandosi meglio tra le sue gambe, e la guancia volle poggiarsi sulla sua spalla nuda, scostando con le labbra e i denti la ruvida veste. Pirecrate prese ad accarezzargli i capelli, sorridendo di cuore anche se nessuno poteva vederlo, rimanendo così abbracciati e uniti anche se qualcuno sarebbe potuto entrare. Bastava svoltare un angolo, e sarebbero stati visti.

Per il cielo. Quanto era dolce avercelo tra le braccia!

Nessuno avrebbe potuto dividerli!

Forse, invece, sì, era lì la risposta che cercava, era venuta lei a cercare lui. Avrebbe tradito in questa maniera i patti con Dionide, ma poco male: un mercatore fin troppi accordi non rispetta nella propria vita!

Dionide.

Quell'individuo avrà avuto le sue buone qualità, ma era comunque un barbaro, e d'una delle specie peggiori: era infido, e oramai di barbari infidi aveva esperienza. A differenza di Astre, però, nell'uomo del deserto non v'era nulla d'amabile. Il pensiero che Idrio giacesse nel suo letto gli metteva i brividi.

Pirecrate aprì la bocca per parlare mentre le sopracciglia si tesero: quanto poteva essere felice una persona ch’era *obbligata* ad esserlo? L'Ateniese, percependo l’ombra nel suo cuore, sollevò la fronte a cercare il suo volto. Tra i capelli colpiti da sottilissimi e netti fasci di sole splendevano il miele e il rame, e i denti erano dolci ciliegie di latte, così invitanti che evocavano le unghie di Eros.

Pirecrate calò d'improvviso sulla bocca, avvolgendola e stringendola con la propria prima che potesse reagire in qualche maniera. Il cuore batteva senza dargli tregua e pose una mano dietro alla nuca morbida, traendolo ancora di più a sé, impedendogli qualsiasi via d’uscita. Non appena sentì la resa totale a quel bacio senza respiro, volse gli occhi intorno, adocchiando i cavalli che erano stati prescelti come quelli degli Spartani, messi in un recinto di media grandezza e nutriti con molto fieno e tante carote, in un secchio, già terminate. Uno dei due sembrava più forte, pur avendo le zampe più corte; l'altro era sicuramente più veloce.

Il primo avrebbe sopportato due persone? Sì, ad occhio e croce avrebbe potuto.

Dalla gola di Idrio venne uno sbuffo e Pirecrate dovette lasciar andare quelle labbra melegrane, assaltate dai suoi denti e inumidite dalla sua saliva, incapace di staccare da esse i propri occhi. Scintillavano come hibiscus fioriti sulle rive d'un fiume, e quel fiume non poteva che essere l'Eurota, figlio delle montagne alte e pericolose del Peloponneso, sede prediletta degli dei per le cacce più selvagge, sfida irresistibile per un cacciatore mortale. Ma non era, quella bocca, una preda da conquistare. Obbligarla sarebbe equivalso a perderla per sempre.

Il nettare che da essa aveva baciato via era afrodisiaco, e amaro adesso aveva il suo sapore, nella sua dolcezza irresistibile, perché lo Spartano leggeva in quegli occhi; vide le tracce lasciate dalle lacrime nel loro volo abbandonato a se stesso, fuggitive da palpebre così belle. Il sorriso spezzato di chi dice addio e lo fa con coraggio, affrontando il dolore, senza doversi di esso vergognare.

Assurdamente faceva meno male con Idrio che con Astre e altrettanto assurdamente Pirecrate si scoprì, quasi, spaventato innanzi alla purezza dei sentimenti che splendevano, nel cuore, del giovane fanciullo che non era poi di così tanto più piccolo di lui. Le loro bocche si riavvicinarono, Idrio chiuse le palpebre, attendendolo, Pirecrate carezzò le labbra con le labbra in un lungo tocco sensuale, respirando il profumo di quel volto bello, un aroma di cui si sarebbe volentieri nutrito senza respiro per notti e notti senza mai fermarsi. E non un’altra parte dei loro corpi si toccava: anche le mani s’erano disgiunte e giacevano avvinti dalle fiamme d’un ardore che parlava solo attraverso il loro bacio.

A Pirecrate venne spontaneo avvincere coi denti la lingua rosea e agile, muovendosi nella stessa maniera con cui Astre s’era mosso la notte precedente. Idrio sospirò, abbandonando il capo sulla paglia, rispondendo invece in un modo che Pirecrate non conosceva. I movimenti delle loro fronti furono simili ai moti dei pianeti, altrettanto lenti e pazienti, ma inesorabili, mentre rimanevano intrecciati attraverso quell’intimo contatto, incapaci di staccarsi l’uno dall’altro, annaspando il respiro non appena il ritmo lo permetteva come se fossero stati nuotatori e ora nuotassero sotto la superficie cristallina del mare risorgendo dall’acqua solo per raccogliere coi polmoni quello che era indispensabile per vivere.

Idrio lo tenne fermo solo con la forza della propria bocca, fino a che Pirecrate non cedette e cadde anche lui col capo riverso sulla paglia, esausto e sorridente, bello come un Ares ferito nel profondo dalle auree frecce di Eros, ubriaco d’ambrosia e dimentico di se stesso.

Le palpebre erano evidenziate da una sottile linea nera, naturale, e gli occhi celesti splendevano in tutta la loro intensità. Idrio li carezzò, a lungo, passando i polpastrelli sull’arco della sopracciglia e poi sull’ampia pianura della fronte scura, disegnando segni che erano suggello d’amore e d’affetto, invisibili e per questo ancora più potenti.

Pirecrate chiuse quegli occhi. Prendendo tra la propria la sua mano.

"Torneresti in Grecia con me?"

Idrio fu forte. Scosse il capo.

"Ti… manca la Grecia?"

Pirecrate quasi arrossì, rendendosi conto di quanto fosse stupida quella domanda, ma sapeva di non esser capace di lasciarlo fino a che Idrio stesso non gli avesse detto .. tutto quel che c’era da dire. Voleva essere *sicuro* !

Idrio gli carezzò una guancia, affermando.

"Dionide ti dice mai che sei meraviglioso?"

Idrio ci pensò su, e rispose, muto, che no, Dionide non glielo diceva mai.

"Tu lo sei,"

Idrio arrossì, sinceramente vergognandosi.

"Lo ami?"

Era bellissimo mentre con i soli occhi rispondeva alla sua domanda. Lo Spartano li fissò, poi gli baciò la fronte, scansando con le dita i capelli.

"Fatti amare e rispettare. - sussurrò, mentre s’alzava - E un giorno io tornerò. Fino ad allora, noi due siamo fratelli."

Con decisione afferrò una lama appesa ad una trave, recidendo senza neppure pensare una ciocca di capelli ribelli e neri. Gliela porse, le loro dita si sfiorarono, e non si rividero più: per molti, lunghissimi, anni ..

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Il cuore.

Era come se fosse il cuore, sì. E batteva, batteva dentro e sembrava fiele e tossico, soffocava i polmoni, oscurava la vista: rabbia, si chiamava, e gelosia. Ecco, sì.. Gelosia. Senza senso, senza motivo.

Pirecrate che faceva più male di Astre.

Ora era lì, con forza, dentro di lui, lui che mai a qualcuno s'era visto legato in *quel* modo, in un modo che potesse far tanto male. La gelosia che per Astre era riuscito ad arginare ora gli traboccava dal cuore, lasciandolo senza fiato, con l'unico desiderio di ucciderlo, quel maledetto infame mentitore schifoso!

Traditore!

L'amore era differente: per quanto forte, non avvinghiava a quel modo l'animo. Era, questo, un sentimento più oscuro, rassomigliante ad una bellissima gorgone che aveva lo sguardo pietrificante.

Quando era accaduto? Quando gli si era annidata dentro una simile lama a doppio taglio? Pherio non lo sapeva e non gli importava. No, in quel momento non gli importava. Voleva solo poterlo uccidere, poter affondare la lama nel petto infame di Pirecrate per .. per un motivo che lui stesso, ora non riusciva a comprendere e che forse non gl'importava.

No, non aveva alcuna importanza.

La freddezza lo invase come sempre, perché qualcosa doveva comunque essere compiuto: il dovere dagli spigoli aguzzi era come un masso grezzo al centro del suo essere, ed esso doveva essere portato a termine. E lui a quel dovere aveva giurato, a quel dovere non poteva che continuare a sacrificare se stesso. Ma quello era giusto, quello era ciò in cui era nato, era ciò per cui gli era stato permesso di sopravvivere, era ciò a cui aveva plasmato la sua vita. Il dovere era corretto, così come l'adesione senza discutere al dovere, legge superiore anche agli dei.

Quello che, invece non lo era. .

Strinse i pugni, Pherio, avvampando da un sentimento che riusciva a nominare ma a dominare appena per un soffio. Sapeva che quella gelosia era senza senso, e pure nominarla 'gelosia' lo metteva a disagio, perché mai avrebbe dovuto nutrir gelosia per Pirecrate: nulla doveva esserci ad unirli, ora, che pure i legami che tengono insieme due Spartiati anche nelle più gravi divergenze son infranti.

Però quel manto carminio, regale e prezioso, che scintillava a pochi passi dal suo proprio giaciglio era un insulto urlato a lui, e altrettanto forte era il ricordo di ciò che aveva visto, di ciò che non poteva essere spiegato con altre parole, qualcosa che sapeva ma che non voleva, ma che non poteva credere.

Pherio lo sapeva: guardava Pirecrate ed era consapevole, conscio di tutto, solamente non sapeva che fare, se seguire il proprio istinto e ucciderlo, quell'infame mentitore oppure.. strinse i denti, e i pugni.

Il dovere era forte, il dovere premeva nel petto e nel costato con spigoli smussati dal tempo ma infrangibili. Il resto era un dolore che poteva, doveva sopportare. Il resto non valeva nulla.

Pirecrate non valeva nulla.

I suoi sentimenti non valevano nulla.

Quello che sentiva dentro era nulla..

E allora perché non riusciva a frenare l'ira che gli ribolliva, folle, dentro? Purtroppo non poteva riuscire neppure a dimenticare d'essere un Ilota. . seppur ingiustamente condannato, egli era *condannato*, e avrebbe mostrato il suo essere all'altezza della tunica conquistata, pure in un frangente simile.

Non avrebbe infranto la Legge.

Si morse un labbro a sangue, contenendo la propria ira, riprendendo possesso di un contegno che doveva esser proprio, a cui erano aggrappate le sue ultime speranze.

Abbandonarsi, come fin'ora aveva fatto, era stata una sciocchezza assurda. Era servita al suo animo, sebbene facesse male il ricordare il dio nato dal fiume che veniva a riprenderlo, però non al suo onore, e non era quello che doveva fare, non poteva permettersi di crogiolarsi in un dolore che probabilmente meritava.

Era una prova, quella, e lui l'avrebbe affrontata e vinta. Anche se molti errori aveva accumulato sulle spalle.

S'era illuso. .

Per Pirecrate avrebbe dovuto esserci tempo in un altro momento, non ora, eppure. . eppure il cuore rombava nelle orecchie, e la rabbia gelosa gli soffocava il respiro, ed essa era odiosa, e Pherio l'odiava. . ma non riusciva a non provarla.

Nell'istante in cui aveva permesso allo strano sentimento che lo legava al Dimano di entrargli nel costato, implicitamente aveva allentato le catene intorno alle membra aeree di quella bestia sopita dentro di sé, e il fato avverso s'era riversato sopra il suo capo, come punendolo di quella debolezza che non doveva, non avrebbe mai potuto o dovuto esserci.

Aveva, quella mattina, cercato Idrio per tutta l'oasi per ringraziarlo, aveva poi cercato Pirecrate per chiedere ultime spiegazioni su quella partenza segreta: e quei due sciagurati neppure un luogo troppo appartato avevano cercato! E lui aveva visto anche se non avrebbe voluto! Anche se avrebbe dato tutto per non vedere ciò che già sospettava!

Poteva forse finire in maniera diversa, lo spartiato e l'ateniese che si rincorrevano, aiutati pure dal fato, fin dai tempi lontani di Sparta guerriera? Pherio non era stato uno sciocco, in passato, aveva visto, aveva intuito, anche se all'inizio gli era parsa una follia assurda, e aveva taciuto una volta compreso che era la realtà, e ora nulla era cambiato: aveva osservato. E avrebbe taciuto di nuovo.

C'erano parole poi da dire o da dirsi? Chiedere o pretendere spiegazioni?

No, non ce n'erano.

Era lui ad essersi illuso, ad aver creduto. . ma creduto in cosa poi? Era questo che non comprendeva, che non riusciva a capire. Eppure l'odio cresceva, e il dolore per esser stato.. 'tradito'.. da Pirecrate?! Ma perché! Pirecrate non aveva nulla da tradire, perché nulla v’era più da poter spezzare! Eppure non aveva risposte, anche se tutto era lì dentro di lui, pure l'aver avuto fiducia in Pirecrate, come se la cosa fosse stata un'infamia. Eppure..

Credere. . il peccato peggiore secondo suo zio: non bisognava mai credere in nulla e in nessuno, se non in se stessi, la vita forse non gliel'aveva insegnato con abbastanza forza? Che debolezza gli aveva preso l'anima per farlo inciampare di nuovo nel solito, tragico errore?

E anche se non capiva, sentiva il dolore, e il fastidio, era consapevole dell'odio e sentiva d'aver errato nel giudicare Pirecrate.

Ma quella non sarebbe stata la sua fine.

Quella debolezza non l'avrebbe trascinato alla rovina.

Sarebbe tornato a Sparta e avrebbe ripristinato il suo onore: il tradimento poteva sopportarlo. Da Pirecrate, poi, avrebbe dovuto attenderselo. Se qualcuno doveva essere redarguito per ciò che era accaduto, era lui, e lui stesso.

Lui aveva ceduto: lui aveva creduto.

Strinse le labbra, tacendo, obbligandosi, per piegare il suo spirito, a riporre con cura il manto prezioso che sembrava intessuto di morbide schegge di rubino, il suo valore raffinato così palese che palesava pure da chi era stato donato.

Astre.

Ora Idrio.

Cosa l'aveva fatto convincere di poter essere l'*unico* per Pirecrate? Non certo Pirecrate stesso, anche se. . No, nessun 'se'.

Non erano argomenti di una qualche importanza: Firuzeh, la splendida oasi, conteneva in sé un nocciolo terribile, pareva avere il potere di disvelare tutto ciò che ognuno avesse mantenuto chiuso negli anfratti remoti della propria anima con cura, per anni.

Astre.

Già l'idea di *quello* avrebbe dovuto esser troppo, insostenibile, impossibile.. e invece non era abbastanza. Un uomo infido che non solo era persiano, barbaro fin nell'ultima goccia di sangue!, ma Re di Persepoli! Solamente Pirecrate poteva avere tanto ardire da tendere la mano verso di lui! Per il nobile Dimano, però, questo non era ancora abbastanza.

Astre fra di loro da tanto, troppo tempo, 'condiviso' in maniera assurda ma mai conteso, come se mai Pherio avesse contato davvero in quelle decisioni. La decisione di tenerlo in Sparta, la scelta di mandarlo in Egitto. Pirecrate. Cosa centrava Pherio con tutto questo? Cosa centrava Pherio con Astre? Non doveva esserci alcun valore insito nel persiano, per lui non doveva contar nulla, e non avrebbe dovuto importare di Pirecrate e Astre, e infatti non gl'importava.

Non gli era importato per tutti i mesi della loro frequentazione, a Sparta e in viaggio, quando lo costringevano ad assistere ai loro muti assalti nel cuore della notte, credendo forse che dormisse, o che davvero non vedesse: non era cambiato nulla da allora.

E Pirecrate? Aspettarsi qualcosa da Pirecrate era da folli: Pirecrate prendeva sempre e solo ciò che voleva, senza preoccuparsi del risultato delle sue azioni. Adesso anche infangare l'onore del potente Dionide attirando al buio d'una stalla il suo schiavo e il suo amato. Dionide che era l'unico uomo lì amico, lì benevolo con loro, a tal punto da lasciarli andare via. Oh no, non che Pherio fosse stupido, no: sapeva che non era misericordia a spingere il signore di Firuzeh, bensì intelligenza, di cui non faceva affatto difetto, ma questo non faceva che aumentare la preziosità insista in quel gesto, e non certo lo sminuiva.

Quel.. Dimano. Era esattamente come l'anima maledetta di suo padre: non capiva nulla di ciò che era realmente importante, così ottusamente stupido nelle questioni che non riguardavano i suoi appetiti immediati da parere .. che importava? Della sua stupidità non gli doveva interessare. Dei suoi sentimenti o dei suoi pensieri neppure, ché non avevano alcun peso.

E allora, si domandò, per lui cos'è che contava davvero? Cosa importava?

Il suo onore egoista: se era l'egoismo che di sé si vedeva, sopra ogni altra virtù, allora sì sarebbe stato egoista, e terribile. E avrebbe ottenuto ciò per cui viveva. Socchiuse gli occhi, nascondendo il lampo crudele di dolore nascosto nelle iridi nel toccare quella stoffa e non voler immaginare null'altro.

Il suo onore.

___

Passi lenti e distesi soffocarono lentamente prima nella sabbia poi tra i tappeti morbidi della tenda.

Pherio, oscuro in viso, il capo saldamente chinato non fece altro che proseguire nel suo misero lavoro di riporre da parte ciò che nel viaggio avrebbe potuto venir utile. Occupazione meschina e infima, ma era l’unica a cui avrebbe potuto accostarsi, ora, Ilota, e almeno poteva occupare in parte la mente ché su Pirecrate non voleva sollevare una sola occhiata.

Se per vigliaccheria o per troppa rabbia Pherio non lo seppe, ma pregò che la sosta di Pirecrate nella loro tenda fosse di breve durata, anzi, che se ne uscisse ora, senza una sola sillaba sussurrata, senza un solo gesto, senza..

Le lunghe ciocche scomposte di Pirecrate serpeggiarono nell’aria, ricadendo in avanti mentre l’uomo s’accasciò accanto a lui, avvicinatosi improvvisamente, quasi franato sulle sue spalle, le mani tese a sfiorargli leggere la schiena.

Pherio non sollevò neppure ora lo sguardo su di lui, come se guardarlo avesse potuto mutare le cose, farlo desistere o spingerlo a una compassione che dentro gli s’era essiccata alla radice.

S’aspettava che dalle labbra infingarde uscisse fuori qualche parola, ma fu solamente il silenzio a far da sfondo ai loro respiri, e lui con esso avrebbe potuto vivere per tutta la vita. Era infinitamente meglio non avere domande a cui rispondere, né risposte da chiedere: rimaneva un buco all’altezza del cuore, e non sentire la sua voce assopiva il desiderio di sentir chiamare il proprio nome. E pensare che. . la dolcezza di quei momenti. .

No, non ci doveva pensare.

Pirecrate ordinò con voce roca, maschia: "Intrecciami i capelli", infilandovi una mano e movendoli nell’aria ardente, rendendoli come fili pendenti dall’alto del becco d’un’aquila, chiome che nascono all’ombra delle orecchie d’una tigre dagli occhi divini. Su di essi Pherio posò lo sguardo, ed erano ampi, netti nel taglio della palpebra superiore, sottolineati dalla curva della inferiore che si sollevava a incontrare l’altra, e sottolineati dalle ciglia nere e dal buio alle estremità dell’iride, una tonalità così atra che avvelenava tanto era intensa e insostenibile, levando al cuore il calore e battendolo contro la parete della gola immobilizzata.

Ma in quell’istante l’anima di Pherio era un ghiacciaio di neve perenne, scintillante nella sue stalattiti pungenti e innalzate contro il celestino albo del cielo sconvolto da raffiche fredde: molto a fondo bisognava affondare i denti di pietra per raggiungere il calore ribollente della lava gorgogliante, e sebbene quella richiesta fosse stata una folgore di fuoco scaraventata giù dalle nubi rossastre, poteva penetrare ma non ammazzare la quiete della montagna.

Il Dimano pose indietro le mani, su di esse poggiando il peso del proprio corpo, e indietro tirò il capo, fissandolo con uno sguardo che non avrebbe ammesso né domande né repliche. Il carminio della stoffa, l’inchiostro dei capelli e il bruno della pelle, sembravano un tutt’uno. Pherio camminò a carponi fino a che non si trovò alle spalle dello Spartiate, storse le belle labbra chiare prima di sfiorare coi polpastrelli i neri e ricci rampicanti, e quando li toccò esitò come se fossero state colate di magma che avrebbero potuto inghiottirgli lo spirito. Il vento sull’orlo del baratro avrebbe sostenuto i suoi piedi?

E Pirecrate, stranamente, attese, demolendo ogni possibile congettura o ipotesi si innalzasse innanzi al suo atteggiamento. Non disse niente, standosene fermo come se stesse sul ponte d’una nave a bere avidamente i raggi del sole che avrebbero trasformato la sua pelle in una fornace, focolare vivace nelle notti fredde della navigazione. Lui stesso stupito della richiesta fatta, incredulo d’aver avuto l’ardire a formularla a un così algido Pherio, domandandosi per infinite volte se questo non avrebbe portato solo del male.. eppure Pirecrate sentiva forte il desiderio di avere accanto qual corpo chiaro, e visto che a se non poteva legarlo in altro modo, forse..

Facendo vagare lo sguardo tra quei ricci ancora caldi del sole del deserto, Pherio vide piccole pagliuzze dorate, di fieno profumato, rimastevi imprigionate, e con accortezza le estrasse l’una dopo l’altra fino a che non sparirono totalmente. Nuovamente accostò i palmi ai capelli di Spartiate, selvaggi rigogliosi e forti, e, con più decisione di quanta ne permettesse il cuore, prese a dividerli in ciocche, a passarle l’una sotto e dietro l’altra, senza soffermarsi prima a pettinarli, ché oramai sarebbe stata impresa impossibile.

Non si permise di pensare, non si permise neppure di respirare. Era un Ilota, un servo, quello era un mestiere da schiavo: quella era un’umiliazione. Pirecrate voleva spezzarlo? Voleva fargli in quel modo capire chi comandava ora e chi invece avrebbe sempre dovuto chinare il capo? Era quello?

Se lo fosse stato non sarebbe importato nulla. Pirecrate non avrebbe più potuto toccarlo. Pirecrate era nulla. I suoi occhi sfocarono la vista, puntata sulla cortina lucida e scura di capelli ribelli e perfetti: quand’era un fanciullo avrebbe dato tutto per avere una simile chioma, ora sapeva che certi desideri erano impossibili, ed averli erano solo una sofferenza che non portava a nulla. Inutile patire per un qualcosa che non si può cambiare. Inutile bramare ciò che non si potrà mai avere.

Non importava: sarebbe ritornato a Sparta, ad affrontare qualcosa di ben peggiore dell’umiliazione sciocca a cui lo sottoponeva il Dimano, il suo orgoglio non sarebbe stato scheggiato da così poco.

Non importava: Pirecrate non era nulla per lui, e probabilmente lui non era mai stato nulla per Pirecrate. Accettarlo faceva stranamente male, era vero, eppure non poteva esserci altra spiegazione, non riusciva a sostenerne un’altra.

Pirecrate non era nulla. Non doveva contare nulla.

Socchiuse gli occhi, gli ultimi due strattoni forse furono più bruschi di quel che avrebbe voluto, ma Pirecrate non si lamentò.

Solo quando sollevò le mani per toccare il lavoro svolto, si voltò di tre quarti verso Pherio, ancora inginocchiato alle sue spalle, gli occhi due schegge di ghiaccio, terribili e impenetrabili.

"Non me li hai pettinati."

"Non me l’hai ordinato."

Pirecrate schioccò le labbra, scivolando in un silenzio denso, titubante quasi, s’era atteso chissà che risposta, che affermazione, chissà che luce accendersi in quello sguardo, invece nulla.

Niente in quelle iridi chiare. Lucide come specchi, impenetrabili, impossibili.. di nuovo irraggiungibile, di nuovo così chiuso al mondo esterno, così atrocemente solo che .. il Dimano sorrise, improvvisamente, d'un sorriso che si sarebbe addetto maggiormente al volto del Persiano, incrociando le gambe come i meditanti orientali.

"Bene: allora ricomincia."

La rabbia singhiozzò assieme alla bile nello stomaco di Pherio e l’umiliazione di sentirsi sgridare perché tirava i capelli nel districarli arse le guance, lasciandole chiazzate d’un rosso che strideva col colore chiarissimo dei suoi occhi. Avrebbe.. avrebbe voluto artigliare i morbidi ricci intorno alle dita e strapparli, tendere la gola e strozzarlo coi suoi stessi capelli, sentire il collo spezzarsi sotto le sue dita e poi..

Non lo fece, continuò a passare i polpastrelli tra ciocca e ciocca intrecciata fino a che non ce ne furono più. Di esse solo una leggera piega più ondulata della chioma nera, boccoli più spumosi e ancheggianti fino ai reni.

"Da sopra."

"Cosa?" chiese, stringendo le palpebre, odiandolo disperatamente.

L’intensità dello sguardo fu appena intravista nell’incavarsi del volto dal sopracciglio allo zigomo, e le mani tremarono senza forze.

"Inizia a intrecciare da sopra."

Pherio era più alto di Pirecrate, ma ugualmente per poter fare come comandato dovette tendere le cosce e sollevarsi, la linea delle gambe a partire dal ginocchio un tutt’uno con quella armoniosa e maschile della schiena.

Il Dimano abbandonò al tocco delle sue mani la forza del proprio capo, seguendo i movimenti da esse eseguiti come una foglia sollevata da un caldo vento. A Pherio venne a piangere lacrime che avrebbero corroso le averne di Dite, che sarebbero state accolte nel fiume dello Stige, ove chiunque bevesse s’addormentava per sempre. Avrebbe potuto uccidere Pirecrate e ingoiando le proprie lacrime avrebbe messo fine alla propria inutile esistenza.

Chi gli aveva portato via Pirecrate? Chi aveva osato, e quando? Avrebbe dovuto ammazzare loro, tagliare loro le vene con la propria spada e guardarli spirare immersi nel lago rosso del proprio sangue. Anche Astre che tanto aveva amato, che tanto sentiva simile a sé e anzi sarebbe stato il primo. Anche Idrio ch’era stato così nobile, così coraggioso da gettarsi e mutarsi nel fiume d’un mondo che non esisteva. Nell’omicidio avrebbe affogato i fiori della disperazione, come adesso il suo cuore stava annegando nella massa indomita di capelli scuri.

Barcollò, ma non s’arrese, e stringendo le palpebre riacquistò il dominio di se stesso: era difficile districare i nodi tra i ricci e lui non aveva intenzione di sentire più quella voce. Avrebbe fatto tutto, si sarebbe abbassato a qualunque cosa pur di non doverla più ascoltare, di liberarsene fino al giorno in cui avrebbe potuto strappargli la lingua menzognera.

"Sai che sei bravo?"

Non rispose, prendendo sopra i mignoli della mani i capelli delle tempie, sollevandoli e intrecciandoli assieme ad una ciocca che partiva dall’alto della fronte.

Pirecrate piegò il capo, facilitandogli il lavoro nel permettergli di tendere di più i capelli, ma aprì le palpebre liberando le iridi celesti e imprigionando gli occhi di Pherio.

Ad Atlante forse la volta stellata era scivolata via dalle mani, ché un peso enorme piombò sul capo, spingendo le proprie unghie fino al cuore dell’anima, frantumando qualunque cosa fosse sulla sua via, respingendo e aggrovigliando tra mille radici qualunque cosa avesse tentato, seppur debolmente e all’ultimo istante, di respingerlo e tenerlo immoto.

Le dita chiusero con un piccolo legaccio di cuoio la treccia, senza esitazione sollevandosi per prendere altri fasci di capelli e con essi avvolgerla. Pherio non mosse un singolo muscolo del viso quanto tenne bloccata qualsiasi altra reazione del cuore, istintivamente, per non far sì che la punta di quella *cosa* trapanasse il nocciolo del proprio essere, così fragile e senza difesa alcuna: un cristallo di ghiaccio.

Come fossero fiori trascinati lungo le rive d’un fiume in piena, passarono le giravolte di clessidra, ma nel deserto c’era troppa sabbia perché finisse in fretta quanto s’allungavano le speranze umane.

Pirecrate tenne socchiuse le palpebre mentre le mani di Pherio vagavano con una bussola infallibile tra i capelli scuri. Gli piaceva molto quella sensazione, ed era l’unica che avrebbe potuto avere da Pherio a quel momento. La solitudine gli s’avvinghiava attorno al suo cuore come un’edera, ed era rapida e irrefrenabile: cresceva tanto più il sole splendeva forte, e la fonte di tanta luce chiara, senza chiazze, ma anche fredda, era colui che avrebbe dovuto mettere sulle ginocchia, nel fango, tra la polvere, perché era stato decretato traditore di Sparta.

Traditore Pherio? Pherio no, Pherio poteva ingannare ma tradire.. Gli venne da ridere amaramente al pensiero.

Pherio poteva uccidere con uno sguardo che non veniva, rendere impossibile solo sollevare gli occhi verso di lui per la paura di vederli sfuggire e non riuscire a .. fare, dire.. sentire.. nulla che potesse riconquistarli; frustrando ogni sorriso che gli fioriva sulle labbra ogni volta che riusciva ad afferrare la sua immagine, e il suo calore distante, i suoi polpastrelli che sfioravano la pelle del capo, muovevano i capelli, ammansendoli.

Poteva esserci una sensazione più bella? Era acqua e luce sull’erba rampicante, vampira tremenda, ma se adesso era.. l’unico modo per ..sentirlo, ebbene: avrebbe accettato anche quello.

Sospirò appena: capelli intrecciati. Li vedeva, Pirecrate, come in un sogno, sottilissimi fili d’oro e argento fusi insieme, il morbido rincorrersi dei nodi con i nodi e punteggiata, quella chioma preziosa più della corona del re più potente, mille, infiniti, piccoli fiori rossi, quasi margherite, anemoni sottili color del sangue appena versato, che annunciavano la primavera, il fiorire dei campi quando ancora tutto era silenzioso e calato nel sonno dell’inverno. Quei fiori che annunciavano il sole che ci sarebbe stato, figli del sangue stesso del semidio ucciso da Ares: ed era da quel sangue che rifioriva il mondo, era da quel cuore che nasceva ogni cosa.. E Pherio, il suo Pherio ora non più schiavo, non più in ginocchio alle sue spalle, oppresso da un lavoro ignobile da compiere, ma un bellissimo fulgente semidio incoronato d’anemoni rossi, in essi e con essi rinato a questa vita, insieme alla vita stessa.

Pherio.. il suo Pherio, bellissimo e sdegnoso. Arrogante. Imbattibile. Forte. Ammantato di maestà e rigore, gli occhi fonti di luce chiara, purissima, la mano intorno ad un’elsa e solo la luce del pieno meriggio a vestirlo degnamente: un dio guerriero e stupendo che forse un giorno avrebbe battuto ma che mai nessuno avrebbe potuto gettare nella polvere, lui che brillava così in alto, così..

Bello.

La bellezza: armonia di corpo e spirito. Nessuno poteva esser bello come Pherio e portarsi appresso un’anima macchiata e corrotta. Nessuno, e di certo non Pherio.

Pirecrate lo sapeva, Pirecrate aveva visto cosa viveva sotto la scorza lucida e spessa di quel petto meraviglioso: il semidio di luce e anemoni rossi affiancato al suo Pherio, destini intrecciati come fiori ai capelli, simili e belli e puri.

Ma: Pherio non era Adone.

Adone era di Ares, Pherio no. Pherio era.. era suo?

Il suo Ilota, certo, ma altro il guardarlo suscitava dentro, e legami più forti e fondi, e un desiderio, un bisogno che non poteva dire. Che non sapeva.

Troppo velocemente le ciocche da intrecciare finirono. Pherio s’alzò, continuando a raccogliere quel che occorreva. Pirecrate restò in quella posizione, fissando la linea della caviglia che affondava nel piede, che s’allungava nelle dita, che s’immergevano nella porpora dei cuscini.

Così lontano lo portavano i pensieri e il cuore, insieme, e pure così vicino.

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