DI ODIO DI AMORE
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CAP: 30/?
AUTORI: Dhely&Kalahari
PARING: Ares+Adone - più o meno-; Pirecrate+Pherio - ma non stupitevi se non
c'è nulla di troppo esplicito-; Dionide+Idrio; PirecrareXAstre (very hot!!!)
RATING: Nc-17
NOTE: le solite.
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Le braccia potevano aprirsi e creare un cerchio perfetto, ricalcato sugli orli di rame d'un grande recipiente dal fondo scuro e indistinto. L'acqua se ne stava placida ed indisturbata, e le dita che ne infrangevano la sottile superficie le seguiva come le pecorelle seguono il dolce pastore, aprendosi in ondicelle e richiudendosi dietro i polpastrelli, infrangendo gli scarlatti colori riflessi del drappo che velava dal sole cocente, di fuori.
Idrio sollevò lo sguardo, fissandolo in quello di Pirecrate, sorridendo e allungando una mano verso di lui, invitandolo a prenderla. Pirecrate si mise seduto, e gliela porse, lasciando che le sottili dita musiche la conducesse a sfiorare il liquido fresco, vivo sotto la pelle.
Idrio teneva gli occhi socchiusi, respirando piano, ma non smetteva un attimo di osservar lo spartano quel minimo che bastava per rassicurarlo, e tenerlo sereno, lasciando che le palpebre se ne stessero un poco aperte, e il verde dei suoi occhi trapassasse le ciglia castane. Dionide lo aveva obbligato a bere del succo di cocco, per riprendersi, e ora che sentiva il bisogno di nuove forze, poteva ringraziare con tutto l'animo il suo amante.
Due uomini fidati, seduti con noncuranza su due casse, come se si fossero fermati all'ombra a conversare in un momento troppo caldo o in una parte interessante del discorso, sorvegliavano l'entrata della tenda dei valenti Spartani, mentre lui si preparava a quel che avrebbe fatto, Pirecrate attendeva in muta attesa, paziente per forza come Penelope tenera, fedelissima, legata ad un uomo ed uno soltanto, e Pherio.. dormiva, remoto, sempre più lucente d'un qualcosa che non apparteneva alla terra: forse troppo a lungo l'animo se n'era rimasto sparato dal corpo, e ora la divinità di quelle membra si faceva manifesta più apertamente, luccicando qui e lì, tremando nelle ciglia e nelle labbra, richiamando su questa terra una luce che dall'età degli eroi è rimasta sepolta, che nell'età dell'oro affonda le dorate radici e spinge i rami più in alto delle semplici nughe mortali, sfiorando le nuvole trono di padre Zeus.
Questo significava che qualunque spirito stesse brillando, ospite e cuore dell'animo di Pherio, stava costringendo il Panfilo a retrocedere e a chiudersi in un bocciolo che senza la luce e l'aria è destinato alla morte.
Non doveva accadere: Idrio aveva un debito di riconoscenza, enorme, e l'avrebbe saldato a qualsiasi costo. La dipartita di Pherio avrebbe spezzato Pirecrate e avrebbe avvolto di dolore il cuore di Dionide; avrebbe significato la fine d'una vita giovane e piena di bellezza.
Non doveva accadere.
Ma.. Sarebbe riuscito a sopportare una simile impresa? Sfiorar le mani d'un uomo così prepotentemente splendente e allo stesso tempo tener ben ferma quella del giovane Ares? Chi era lui, in nome di quale esperienza imboccava un sentiero così scosceso e pericoloso, terribile ed aguzzo, colmo di pericoli? Potevano morire tutti e tre, perdersi nel momento in cui alle sue dita sarebbe venuta meno la forza per reggere l'incontro. .
Dionide stava pregando, ora lo sentiva, se preghiera si poteva chiamare quel radunare intorno a se' la forza, e stringere i nodi di legami antichi, annodati duranti lunghe e pazienti notti che portavano al cuore del mondo, e richiamare al suo fianco spiriti che l'avrebbero sostenuto, prendendo la forza di agire nel mondo dei mortali tramite la forza di Dionide stesso, risucchiandola dal signore di Firuzeh come sanguisughe aggrappate al suo animo. Idrio sentiva chiare dentro di sé tutte quelle cose che invece prima potevano essere solo screziature strane d'una realtà velata.
Dionide pregava, saldo e tremante insieme, le forze della natura di assisterlo, e teneva saldo il suo scettro di sacerdote della natura e re dei maghi tra le mani, affinché alla minima incrinatura avrebbe potuto tentare anche l'impossibile, cercando di salvarli. O almeno di salvare lui.
Idrio.
Il suo Idrio.
Di questo l'ateniese ne era certo.
Idrio tremò dentro, nel cuore profondo, ma col costato tenne ferma l'incertezza, bloccandola per se stesso e per Pirecrate. Lasciò che la mano scura abbandonasse l'acqua, naturalmente ritraendosi da essa, mentre lui affondò anche l'altra nel piacevole fresco, abbassando la fronte e cercando con gli occhi, tentando di trovar quello che gli avrebbe aperto la via: non c'era incantesimo che potesse riuscire a tanto, perché erano strade aperte solo a chi le apriva, e i passi pei burrascosi sentieri non potevano venir forzati a svelarsi. Chiunque avesse osato una simile impresa, anche Dionide stesso con la sua imperscrutabile possanza, non ce l'avrebbe fatta e sarebbe perito nel tentativo, o fortemente leso nella mente.
Per volare così in alto occorrono ali piumate, per scavare così a fondo unghie forti e disperazione nera.
C'era solo lui che poteva trascinare Orfeo nell'Ade, e solo lui poteva trascinarlo fuori assieme ad Euridice bella. Quindi doveva: non c'era possibilità d'errore.
Uno spiraglio s'aprì, e lo seguì, portandosi una nocca alla mano e mordendo per ricordarsi attraverso il dolore del proprio corpo e non abbandonarlo, immobile insieme nobile di muscoli e sangue e tendini. L'acqua s'intorbidì del sangue, e da esso trasse la forza per avvampare.
Idrio non riuscì a impedire che il petto fosse tirato giù da mano senza artigli, e solo le dita di Pirecrate, e un attimo che ne cercò lo sguardo celeste, solo quello gli diede di nuovo l'indicazione delle giusta rotta: splendida stella polare brillava negli occhi dello Spartano. Lo trasse a sé, indicandogli di guardare nel perfetto specchio rosato l'immagine.
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Il serpente ch'è troppo piccolo non uccide la preda con letale veleno, né la strozza frantumando la trachea in gola: la morde e la sfianca con il verde nettare della morte precoce, affondando bene i denti aguzzi affinché penetri in fondo quanto più possibile e sia il sole a sfiancare, e la debolezza e le febbri, fino a ché la lingua s'attacca per la sete al palato, gonfia, e gli occhi cercano disperati nel cielo azzurro il blu dell'acqua montana, fresca e schietta.
La sofferenza intorno alle fronte, un cerchio di pietre aguzze, preziosi smeraldi e zaffiri e ambre, sempre più stretto e tagliente alle tempie: splendide piante e ruscelli, legni profumati e resinosi di boschi che non furono mai. .
Persino l'erba iniziava a divenir uno scomodo guanciale, persino la notte, che non veniva mai, ma che tanto era invocata per la presenza della dolce e casta Artemide, diveniva un incubo ad occhi aperti, e le dissonanze nel suo mondo sferico e perfetto iniziavano a divenir troppe, tanto che il sì rassegnato ad ogni perfetto e scevro di soffio vitale istante, persino quello era divenuto un ordine proferito alle labbra dalla mente, un obbligo e una sofferenza.
Le foglie, quelle dannate fogli immobili dei cespugli folti, se ne stavano ad osservarlo, e frusciando ridevano, sommesse matrigne, delle sue preghiere e delle sue suppliche: perché il Dio non veniva e finalmente gli scagliava tra le costole candide la lancia dall'ombra lunga ma acuminata e lucente nella punta di bronzo? Perché il cinghiale non gli conficcava le bianche zanne feroci nelle carni?
Lo attendeva e vano era il suo aspettare, di continuo deluso, mentre il tempo aveva ripreso a scorrere in modo strano, a metà tra una retta via e l'eterno ritorno, crudelmente a metà tra i due: non c'era domani, perché non c'erano sole e luna, ma c'era l'attimo dopo quello presente, carico delle sue aspettative.
Gli occhi asciutti, fissava senza battere le palpebre la foresta intorno, e invece che manto con cui avrebbe guardato in volto il proprio destino, era il suo sudario, fetidamente umido, di morte. Fissava steso in terra, i capelli scomposti, le mani tremanti, le rosse margherite tra le ciocche sciupate e sfiorite, sulla soglia della loro triste decadenza, le labbra senza più forze neppure per respirare.
Sembrava una crisalide strappata all'involto di seta e lasciata seccare al sole impietoso.
Invocava l'unico Dio per cui era nato, l'unica entità che aveva occupato da sempre il suo petto, infissa come una spada incastrata tra lucente e rovente roccia vulcanica.
Un movimento, uno smuovere dell'acqua, una variazione del flutto su una delle pietre tonde che sporgeva dal velo del fiume e lo scindeva, e solo di alzarsi sui gomiti ebbe lo spirito, a malapena vedendo il taglio netto d'una intera sezione di capelli, sull'occhio sinistro, mentre tutti gli altri scivolavano l'uno sull'altro come sempre avevano fatto. Trattene il respiro ma sciolse dal petto il nodo del mantello, lasciando che dalla veste lenta s'intravedesse il costato, ardentemente sperando con le lacrime agli occhi e le labbra socchiuse, gli occhi velati dall'oscura maledizione.
Singhiozzando s'innalzò qualcuno dall'acqua, afferrata con le mani la terra inumidita, e l'arco argenteo del fiume interrotto si levò alto, seguendo lo scatto del movimento, dardeggiando l'erba ed i fiori, ovunque cadendo aprendo una ferita da cui usciva sangue di pura vita.
Pherio fissò quel corpo aitante, quello sguardo acuto e penetrante, ferino, urgente, e si lasciò scappare un piccolo grido dalla gola, pregando il proprio riconoscimento mentre i capelli neri venivano arricciati intorno alle orecchie e il peso di quelle membra si spostava in avanti, sfiorando con un addome.. sfregiato?.. la riva. Gli occhi sembravano faticare a guardarsi intorno, e il respiro era nervoso e spezzato come se venisse impedito da qualcosa, o come se l'aria non fosse stata più aria. Una mano scura e bagnata fu tesa nella sua direzione, invitandolo ad avanzare.
Il giovane dai lunghi fili d'oro sul capo abbassò lo sguardo, afferrò la lancia, la gettò verso il dio armato solo del proprio nudo corpo e s'alzò in piedi, incoronato di fiori dai petali che si disgiungevano dalle corolle e volavano via sotto il vento, dalle dita indebolite dalle rosse cicatrici che si attaccavano alla sua pelle. Qualcosa disse quel dio, gridandola, ma troppo intensa era la sua voce perché potesse esser trascinata per l'aria di quel luogo, e allora la infiammò.
Lontana, oltre i primi alberi, s'alzò una lingua di fuoco incandescente, e l'Adone voltò il capo, afflitto, a quegli amati luoghi, a quelle dorate prigioni, a quelle foglie che erano state il suo letto. Lo chinò invece quando giunse innanzi al dio apparso dal fiume, porgendo, chiusi gli occhi, il collo e il costato al colpo esiziale.
Pherio batté, leggermente, le palpebre schiuse: eccolo che veniva, finalmente, Ares, a mietere il suo compenso. La sua morte, ben misera cosa, eppure da così tanto tempo lo attendeva ed era così felice. . felice era Adone, sì, perché quello era *Ares* e Ares finalmente avrebbe dato fine a tutto quell'infinito, eterno attendere senza senso che era la sua maledizione.
Ares.. lo attendeva da sempre.. forse era lui l'unico dio a cui avrebbe potuto e dovuto dedicarsi, si sentiva ora come se fosse nato per essere sua vittima, e sua soltanto; e se il suo destino era quello di essere vittima sacrificale, che almeno ne fosse consapevole.
Felice lo era, invece, e folle: così a lungo aveva atteso, così tanto aveva sopportato.. il collo bianco si piegò esponendo bene la pelle morbida, dove le vene battevano, venando di azzurro palpitante il candore immacolato, dove esso si impiantava nel petto. Il cuore era lì, poco sotto la fragile gabbia delle costole e premeva da dentro per schizzargli fuori.
Sarebbe stato semplice, ora, attendere il colpo, le mani su di lui a soffocare, o il metallo a tagliare: non importava, bastava il calore della pelle del dio di rame, o il gelo del filo della spada. Bastava Ares, ora lì, ad odiarlo. E il suo odio era un sentimento così forte che lo avvolgeva, stordendolo in ondate concentriche in cui affondare, in cui affogare e perder la ragione.
Andava bene così, era quello che voleva.. se solo, magari, avesse potuto osare socchiudere gli occhi: ma no, che sciocchezza.
La gola, il petto, vulnerabile come un agnello all'altare: forse così Ifigenia s'era atteggiata di fronte al sacerdote, ma lui, Pherio, non versava il proprio sangue per benedire una qualche impresa degna, ma semplicemente per liberare se stesso. Ben misero uomo egli era, lo sapeva, solo l'egoismo era a muoverlo.. ma ad Ares quello non importava e sorrise nel sentire il divo di fronte a lui muoversi, allungando le mani, tendendo le membra per raggiungerlo quando le sue parole, di cui sentiva il fiato, non poteva capirle.
Dita crude gli afferrarono le spalle, finalmente sentì le unghie affondargli nella carne, ma fu per tirarlo a sè, e Ares, incrociate le braccia dietro la sua nuca, premette labbra salate dalle lacrime camuffate fin d'ora dai rivoli dell'acqua alle sue, e premettero, e infransero.
E Pherio agitò le mani, terrorizzato, confuso, tentò disperatamente di combattere quel che non poteva, non *doveva* .. e far *capire* quel che andava capito e da sempre sapeva, tutto quel che.. *sempre*.. tutto quel che.. *tutto*..
"Pirecrate. ." sospirò in un singhiozzo su quella bocca e si sentì precipitare nel fiume argentato.
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Pherio giaceva, gli occhi chiusi, in un tepore avvolgente e incantevole che lo accarezzava, cullandolo piano. Gli pareva d'essere tornato a Sparta, immerso nelle fonti tiepide, nelle notti in cui riusciva a fuggire dal tempio e si poteva godere in solitudine l'oscurità densa e vuota delle terme.
Ma no.. il calore era diverso, non liquido, e l'aria non era satura d'umidità, ma asciutta, pareva di stare accanto a un fuoco ardente che si levava senza fumo, avvolto in coperte lisce e tiepide tese su una superficie dura: forse pietre dai contorni smussati, forse metallo.
Non lo sapeva, non capiva.
Luce non ce n'era. O forse era lui che non riusciva ad aprire gli occhi, le palpebre pesanti di troppo sonno e troppa fatica insieme. Ma il cuore batteva leggero in petto e forse le orecchie, se non fossero state chiuse ai suoni, come se dovessero di nuovo abituarsi a percepire parole e rumori, avrebbero potuto dargli una risposta.
Si sentiva come in un sogno, a galleggiare in un universo con non era proprio il mondo reale, ma non era neppure alieno del tutto: aveva visto Ares e Adone, e se nella sua mente sapeva che avrebbe dovuto esserci sangue e strazio e morte, Pherio ricordava l'abbraccio, e il bacio, le membra chiare piegarsi sotto l'assalto delle labbra del dio di bronzo e poi tutto che scivolava via, via, lontano, sfocando, frantumandosi come la sua coscienza che s'era fatta trasparente, e poi s'era infranta in mille pezzi, come un cristallo tintinnante.
Ora c'era una carezza leggera, gentile, estenuante. Ripetuta sempre uguale, a lungo, lentamente, polpastrelli leggeri che appena sfioravano la pelle delle braccia, del collo del petto, un tocco che non saggiava ma voleva solo donare.. conforto, tepore, affetto.. chissà che altro..
Pherio sentiva un braccio a circondargli le spalle, tenerlo seduto, un petto ampio e forte su cui era appoggiato, e la mano, *quelle* mani addosso, erano grandi, e forti, erano mani di chi era abituato a regger una spada, le mani callose di un guerriero, ed erano così calde che parevano essere nutrite da un cuore simile alla fornace d'Efesto, ardente e profonda.
Bronzo. E sangue.
Contro la sua guancia la pelle ardeva e il profumo ad essa mischiata non bastava a cancellare l'odore del guerriero.
Sangue, Pherio vedeva sangue, e furia, dolore e fuoco, odio, solitudine e.. amore, luce. Calore.
Per un attimo il respiro gli mancò in gola, e sulle tempie sentì di nuovo la pressione d'una corona d'anemoni intrecciata: Ares!
Ucciderlo.. Ares era lì per ucciderlo.. eppure.. eppure il dio non era lì per colpire, no, ma lo sosteneva dolce, e sussurrava qualcosa, ne sentiva la cadenza scivolargli sulla pelle, il fiato che lo accarezzava, e labbra tremanti e leggere che gli sfioravano il viso, le palpebre, la fronte..
Improvvisamente sentì le mani addosso come .. rimpicciolirsi. Il fuoco in esso farsi non meno ardente ma più umano, fu un lieve mutamento, una sfumatura appena, ma Pherio lo percepì, e percepì il suo nome sussurrato da una gola contratta, da una voce che conosceva, che era piantata da anni dentro di sé, che risvegliava ricordi di duelli infiniti e ..rispetto e fiducia.
Un guerriero non crudele, ardente di rame e sole, nuovo Ares ma non dio.
Uomo.
Piccoli fili rossi, come serpi appena nate, sollevarono il capo avvinghiandosi strettamente intorno al suo cuore. Erano nate espressamente per far quello.
"Pherio.."
Uomo.
Non dio, uomo. Guerriero. Pirecrate.
Lui lo conosceva.
Aprì le palpebre e faticò a mettere a fuoco il mondo, ma le braccia strette intorno alle sue spalle lo fecero premere contro il petto ampio di Pirecrate che sorrise, o forse singhiozzò, o forse fu solo un respiro più profondo degli altri. Sollevò il viso, lentamente, spossato, poggiando la nuca sulla spalla di Pirecrate e lo guardò.
"Pherio! Hai aperto gli occhi! Finalmente, Pherio!"
Lo guardò come se non l'avesse mai visto, eppure si scoprì a riconoscere ogni singolo tratto scolpito nella sua anima. Gli occhi luminosi, dietro alle iridi azzurre ardenti di infinite braci di passione, spalancate voragini di fuoco e lava. Il viso, quel viso abbronzato e bello, regolare e maschile, duro, deciso e.. bello.. e le labbra appena dischiuse ora, in un sorriso pallido che mostrava in pieno l'esplodere doloroso d'un cuore ricolmo di troppe cose, troppe sensazioni, ma che canta felice, entusiasta, d'amore e fiducia.
Le labbra.
Morbide sulle sue in un bacio leggero, fugace. Morbide come si ricordava, e dolci e..
I capelli, lunghi e scuri, ricci morbidi a sfiorar le spalle a lui che, invece, della sua cascata dorata era stato.. privato.. i ricordi s'abbatterono su di lui e forse avrebbero dovuto far male, più male di quel che fecero, ma Pherio sollevò appena una mano, intrecciandole dita nei capelli folti di Pirecrate. Vi affondò il volto, aspirandone il profumo, lasciando che l'altro l'abbracciasse con forza, come a volergli strizzare via dal corpo ogni goccia di sangue.
E sorrise, accettando il nuovo bacio, e sorrise nel sentire le braccia a circondarlo, e sorrise nel riconoscere in Pirecrate ogni frammento che di lui gli riportava la memoria.
"Pirecrate."
Sussurrò.
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I raggi del sole chiazzavano di oro la terra, ma il sangue dei tendaggi trafitti dai dardi si riversava sulla sabbia, parendo polvere di rubino. Idrio difese gli occhi dalla violenza di quei bagliori socchiudendo le palpebre, portandosi le dita alle ciglia, rinfrescandole con le gocce d'acqua d'una coppa che s'era frantumata. Forse aveva le mani ferite, perché gli dolevano.
Anche le labbra gli facevano male, e la ferita alla gola palpitava debole ma veloce. Il sudore gli ricopriva le membra. Si sentiva un bambino sbattuto su un argine, incapace di difendersi dai dardi infuocati del dio Apollo, e alla consapevolezza di questa sua terribile fragilità, del suo mutismo, che gli impediva di invocare e gridare aiuto, reagì con forza. Sebbene l'oscurità stesse stendendo le proprie dita sui suoi occhi, invitandolo soave ad abbandonarsi a se stesso, Idrio ebbe uno sprazzo di lucidità: aprì le palpebre, ciondolando col capo e s'alzò, tenendosi disperatamente ad una trave, compiendo quei dodici passi che lo separavano dall'uscita delle stanze degli spartani. Ebbe forza di guardarli, e vedere che Pherio respirava di nuovo come un dormiente, e Pirecrate.. aveva occhi solo che per lui.
Innanzi allo sguardo s'alternavano le immagini della porpora delle stoffe e del verde smaglianti di rami di salice, e nelle orecchie i sussurri di Pirecrate e lo scrosciare d'un fiume che non c'era e che sembrava gettarglisi tutto nel petto, e lì rimaneva senza trovare nuovamente una via d'uscita, turbinando in un vortice e trascinando con sè tutto quel che trovava nel costato. Un passo, e fu lì, e aprì con le mani l'entrata, sbilanciandosi, afferrandosi ai drappi per tenersi dritto. Mani dolci lo cinsero, e ad esse s'abbandonò, stringendosi forte alle spalle del suo amante, abbandonando sul collo profumato la fronte, lasciandosi prendere in braccio e condurre via.
Il manto sfiorava le terra e i piedi di Dionide, e allora con le dita lo catturò, tirandolo su, cercando, sforzandosi, d'alzare gli occhi per cercare quelli di Dionide.
"Sì, sei stato bravo. ." gli sussurrò il signore di quelle terre, dandogli un bacio tra i capelli.
Idrio sollevò la mano, poggiandola tra la spalla del suo amante e la stoffa che la copriva, per assorbire un po' di calore, per tenersi stretto e saldo a questo mondo, per non perdersi nell'altro.
'Dionide..', mimò con le labbra.
"Non dormire."
Combatté il sonno e la stanchezza, stringendo i denti, cercando di contrastarli come e quanto poteva, ma ad ogni passo le sue forze andavano diminuendo, e la voce del suo amante si faceva sempre più lontana, come se le porte sul mondo stessero pian piano richiudendosi mentre dentro risuonava un buio che andava schiarendosi in forme strane e scie di luce sempre più. .
"Idrio!"
Aveva sonno, voleva dormire e abbandonare la tempia, fosse stato anche sulla sabbia, ma era grande la forza che lo abbracciava e stringeva. Calda, e dolce come il ricordo d'una giornata passata sotto al sole quando oramai s'è bagnati solo dagli argentei raggi lunari.
Sulle labbra sentì qualcosa versarsi, e con la lingua percepì il gusto.. orrendo..
Sbarrò gli occhi, cercando di tossire e cacciare via dalla gola lo schifo, ma una mano gli tenne chiusa la bocca e l'altra gli impedì il respiro, cosicché fu costretto ad ingoiare e a gemere il proprio lamento ponendosi su un fianco, proteggendosi lo stomaco in fiamme col braccio piegato, mentre stavolta quelle stesse mani gli accarezzavano i capelli, tirandoglieli indietro.
"Non è buono, ma t'aiuta a restare da queste parti."
Prese dei profondi respiri, mentre il dolore andava dissolvendosi, svanendo dal suo stomaco, ma prendendo ad allargarsi come un getto di vapore in tutto il suo corpo, riscaldandolo e facendolo sudare.
Dionide lo aiutò a mettersi in posizione seduta, tenendolo appresso al proprio petto per farlo stare al sicuro e rassicurato, per fargli sentire una presenza tangibile anche con le membra; Idrio storse la bocca, cercando di mischiare il più possibile con la saliva il gusto disgustoso di quel che era stato costretto a bere.
"Lo so che è orrendo, Abi Bi."
Sollevò il proprio sguardo annebbiato in quello dell'amante e nonostante l'incertezza dei contorni vi riconobbe la luminosità d'un sorriso, leggero e saldo come un gabbiano lungo una costa sconfinata. Egli gli pose un bacio sulla fronte, lavando la patina cristallina di sudore con le proprie labbra, lasciando che indugiassero sulla pelle e da essa si separassero con tenerezza. Dei polpastrelli s'accertarono sulla gola che il battito fosse regolare e così trovandolo gli accarezzarono la linea del mento e della bocca. Idrio s'abbandonò al gesto d'affetto, sorridendo a quelle dita che tanto amava.
"Dionide..?"
Una vocina si fece strada fino a loro e riconobbe della piccola Me'hereim.
"Piccola, che ci fai qui?"
Un silenzio d'incertezza seguì la domanda che era un mezzo rimprovero, ma fu rotto quasi subito.
"Dionide ch'è successo ad Idrio?"
Schiuse le palpebre Idrio, lottando la nausea e la debolezza, cercando di sorridere alla piccola, allungando una mano verso quella di lei. Suoni di altri piccoli passi giunsero alle orecchie: altre bambine erano entrate nella tenda ed ora erano tutte intorno, e il loro signore le ammoniva a stare attente, ché lui era debole, e Idrio altrettanto sentiva le lacrime scorrergli sulle guance quando le braccia e le mani lo stringevano, con una delicatezza tutta femminile e fanciulla.
"Idrio è tanto che non giochiamo insieme!"
Annuì col capo, allungando una mano verso la fronte di Hekset, che aveva parlato, scostandole le piccole ciocche nere via dal sudore della pelle, e fidando dell'abbraccio di Dionide, si sporse per cingerle le spalle e portarla al petto, e lei, dai capelli lunghi, neri e intrecciati, scoprì i denti smaglianti nel sorriso di piccola creatura, dandogli un bacio, rasserenata.
"Quando starai di nuovo bene bene devi farmi vedere di nuovo come si fa il terzo nodo!"
"No, prima a me, fratello Idrio!"
"Scusate ma prima di voi ci starei io!"
Alla loro dolcezza il Greco sentì delle scintille di gioia sfavillare nella sua anima e la sofferenza s'estingueva, sostituita dalla pacata felicità di quella vita meravigliosa passata tra le tende del deserto. Sia lui, dalle labbra mute, che Dionide, dalla labbra belle, risero.
"Adesso dobbiamo proprio andare, io e lui. ."
"Dionide possiamo venire a trovare Idrio nei tuoi appartamenti?"
Dionide stava per rispondere 'No' quando le nocche di Idrio gli sfiorarono il petto, ammonendolo a lasciarle fare. Il signore di Firuzeh sospirò, e sorridendo rispose qualcosa che il ragazzo tra le braccia non colse, abbandonandosi al riposo e al sonno.
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Astre guardava il deserto e le palme dalle lunghissime ombre incrociate, stringendo tra le mani un frutto, assaporandolo, nervoso. Dentro il petto sentiva come un masso terribile, che più affondava più lacerava e più sarebbe stato impossibile toglierlo: Pherio aveva riaperto gli occhi.
Non che Pirecrate fosse venuto da lui e glielo avesse detto, no, perché era stato troppo sdolcinatamente impegnato col Panfilo per solo pensarlo. .
Strinse gli occhi, e il succo del frutto spappolato tra le dita gli scivolò sulla mano. Non c'era canale che potesse permettergli di gridare quel che gli stava spaccando il cuore, da tutte le parti, e altrettanto non esisteva scudo che avrebbe potuto salvare qualcuno dalla sua ira. La partita era più che mai aperta, e non era certo quella la giocata che avrebbe perso. Era stato disattento una volta, e di certo chi aveva osato approfittarne l'avrebbe pagata molto amara, ma adesso. .
"Principe?"
Un uomo della servitù gli andò accanto, accennando col capo un inchino. Poteva permettersi di non dover strisciare ai suoi piedi solo perché apparteneva a Firuzeh a Dionide.
"Sì, cosa c'è?"
"Dionide mi ha chiesto d'informarvi che stasera non cenerà assieme a voi."
"E perché mai?!" voltò di scatto il capo, e i capelli seguirono il movimento secco, piovendo come grandine obliqua ed oscura sulle gote.
"Il Grec-"
Come le orecchie del lupo le sue si drizzarono, stizzito, e come sulle zampe d'un ghepardo escono le unghie retrattili, fulminee, così alle labbra scattò l'ordine e la risposta:
"Basta. Ho capito. Puoi ritirarti. E dì al tuo signore che dovrebbe saper meglio di così come si trattano i vecchi amici."
Il servo, lieto di essere dimesso, sparì immediatamente dalla vista, e un attimo dopo dall'udito, mentre il principe s'alzò in piedi e si pulì le mani, e asciugandole quasi strappava il tessuto spesso e morbido di cui si stava servendo. A quanto pareva erano tutti così presi dalle loro dolci colombelle da dimenticarsi persino della sua esistenza o da non aver tempo per cenare assieme a lui, e gli facevano annunciare la cosa da un servo.
Bene, anzi benissimo.
"Luna!"
Una donna entrò nei suoi regi appartamenti, e si inchinò al suo cospetto: una anziana donna, ma in possesso di occhi di giada, senza età, e di mani ancora vellutate. Sembrava prigioniera e diletta di un incantesimo che le aveva risparmiato le bruttezze della vecchiaia, lasciando che le rughe fossero testimoni di saggezza, e non di orrore, e lasciando soprattutto che il volto rimanesse aperto, e le spalle dritte.
"Sì, principe Astre?"
"Preparami gli abiti più belli che hai, quelli più costosi, e gli zaffiri più lucenti di Firuzeh. Orecchini, collane e anelli. E soprattutto - l'anziana signora si guardò bene dall'interrompere le parole del Persiano, perché aveva gli occhi iniettati di voragini- ..un manto di seta, ed uno rosso, il più carminio che c'è. Non troppo sottile e fragile, ma neppure troppo pesante. Hai presente quello degli Spartani?"
"Sì."
"Non meno scarlatto di quello. Se non l'avete, peggio sarà per voi. Mi ricorderò di questa mancanza."
"Non dubitate di questa nostra oasi, giovane re. Avrete quel che avete chiesto."
"Immediatamente."
"Certo. - vedendo che Astre si girava qui e lì, cercando un qualcosa in cui dirigere la propria attenzione, un qualcosa presente, qualsiasi cosa, in grado di distrarlo dai carboni ardenti su cui camminava, Luna parlò nuovamente - Posso andare?"
"Sì, sei congedata."
Luna sparì oltre i drappi a compiere quello che le aveva ordinato, mentre la luna fuori, nel cielo, era così vicina all'orizzonte e così piena e luminosa da sembrare spandere intorno a sé il proprio profumo ancor prima che il sole fosse calato totalmente. Astre voltò lo sguardo verso lo specchio d'oro, avvicinandovisi, allungando una mano, facendo sì che i polpastrelli suoi e del proprio riflesso s'incontrassero. Il freddo del metallo colpì la pelle riscaldata dal sangue nobile, ma bastarono alcuni secondi affinché il battere delle carne e il calore sprigionato cacciassero via la sensazione spiacevole. Adesso avrebbe voluto poter passeggiare nei giardini privati che aveva a Persepoli: paradisi di fiori, di gemme e foglie turgide, di edere incantevoli dalle foglie ricurve e laghetti sparpagliati che riflettevano il cielo e la luce dei suoi abitanti. Ma non poteva, non adesso, non in quel luogo, abbandonarsi, perché un e rrore da parte sua si sarebbe potuto trasformare in un terribile rimpianto. La sua immagine riflessa lo scrutava, accigliata, e per quanto si sforzasse non riuscì a combattere quell'espressione, che invece rimase ben fissa tra gli occhi e la piega della bocca.
Lui era un dio, cosa c'era di male se aveva scelto un compagno da avere accanto, sempre e comunque? Niente, non c'era nulla di male e anche se ci fosse stato, avrebbe seguito lo stesso quella via, rapito totalmente da quello che sentiva dentro, da un sentimento che gli mozzava il respiro, da un bisogno che non poteva assolutamente ignorare, cui non poteva rinunciare.
Come erano forti le braccia di Pirecrate intorno alle spalle, il suo respiro tra i capelli, il suo petto sotto la guancia! Avrebbe potuto vivere altri mille anni e non l'avrebbe mai dimenticato.. Come mai dal cuore si sarebbe potuto cavare il sapore d'un bacio rubato, strappato a labbra rosee, vergini, in una notte piena di stelle cadute sulla terra, mutate in focolai sparsi per la valle oscura di Sparta, oppure il medicare una pelle d'avorio, spargerla d'unguenti che costavano ore ed ore di preparazione, e non ricevere mai nulla in cambio, così.. Che folle ch'era stato! Aveva adorato Pherio senza chiedere nulla in cambio, annullando persino la maggior parte del proprio orgoglio, piegandosi per un suo sguardo, senza mai umiliarsi però: questo no.
Pherio era stato sempre un uomo, divino ma uomo, giammai un dio ai suoi occhi. Pirecrate era stato un qualcosa di unico, un'amicizia nata dopo l'eros, un affetto germogliato tra la cenere del sesso senza scopo se non il piacere. Che genere di fiore aveva tra le mani? Forse era simile a quei fiori che avvelenano e ridanno la vita allo stesso tempo, che attendono solo mani abili che possano manovrarli a proprio piacimento.
C'erano mani in grado di manovrare tutto quello? Lui non ci riusciva. E Pirecrate.. Non poteva fargli questo! No! Non poteva ignorare lui per osannare Pherio! E dannazione a se stesso, all'anima stravolta di quel giovane uomo riflesso nell'oro, perché il dolore si mischiava troppo alla rabbia, e ammorbidiva il vino puro e aspro con un miele terribilmente languido e mortale. Con un colpo batté lo specchio, abbozzandolo, rovinando per sempre la perfezione di quella superficie liscia.
Prese un respiro profondo e duro, drizzandosi. Non avrebbe potuto uccidere né Pherio o Idrio, né annullare i sentimenti che per loro provavano Dionide e Pirecrate.
Ma avrebbe reso le loro vite colme di lacrime amare, se non si fossero piegati ai suoi desideri. Ed era col desiderio che avrebbe stretto a sé, cucito sulla carne, lo sguardo dell'aitante moro Spartano, costasse quel che costasse.
___
"Ma dai. ."
Sussurrò Pherio, osservando sbalordito quel che faceva Pirecrate.
"Visto come sono bravo?"
"No, ci sarà di sicuro un trucco sotto."
"Miscredente!"
Pherio sorrise, una mezzaluna d'avorio affiorò tra le belle labbra, e lasciò ricadere il capo di lato, adagiato tra mille cuscini, socchiudendo le palpebre e tenendo lo sguardo fisso sul volto sprizzante incontenibile gioia e allegria di Pirecrate. I pensieri nella mente scivolavano dietro a quelle presa gentile, senza guardare null'altro perché nient'altro ora aveva una qualche minima importanza. Il Dimano si stava divertendo a fare cose strane e bizzarre con delle sfere, facendole sparire e ricomparire un po' come voleva..
"Sei fortunato che il mio cervello non funzioni ancora bene, Dimano.."
"Questo è perché non mangi!"
Sollevò una ciotola di ceramica mettendogliela sotto il naso. Pherio la scansò con una mano, assumendo la faccia scocciata d'un bambinello che non desideri affatto certe attenzioni, ma che non possa fare a meno di sentirsi felice perché gli son rivolte, proprio a lui, sì. E anzi sorrideva sempre e ancora, ad ogni frase, ad ogni sguardo, come se in tutto si fosse nascosta una scintilla luminosa che brillava, che sempre era brillata, ma che solo ora i suoi occhi riuscivano a vedere e volevano vedere. Uno strano senso di nostalgia gli pervadeva il petto, ma era una nostalgia buona, un rimorso che sapeva di felicità: rimpianto per un tempo perso e gioia di aver trovato finalmente la propria pace, e serenità.
"Non mi v-!"
"Sì che ti va, ti deve andare! Non riusciresti a reggere una spada!"
"Ah sì?!" ribatté, indignato, facendo leva sulle mani e tirandosi su, piantando gli occhi in quelli del Dimano, il broncio sulle labbra.
"Proprio sì! Comunque - gettò di lato le palline, e con un cucchiaio portò alla bocca la zuppa- è mooolto buona. Non sai che ti perdi."
"Oh no!"
"Oh sì!"
Scoppiarono entrambi in una risata, i loro cuori che battevano insieme, le mani che cercavano le mani, le dita che si stringevano, le labbra che cercavano e non trovavano le parole, e allora si incontravano, piano, dolci, sospirando e invocando abissi senza nome, pieni di luce e di profumi. La fronte di Pherio s'inclinò sulla spalla di Pirecrate, e il mento di Pirecrate affondò tra i capelli dorati di Pherio, ed entrambi s'abbandonarono l'uno all'altro tra i guanciali, cullati dalla cadenza l'uno dell'altro respiro.
Così erano allacciati e vicini quando Astre, divino e splendido, irruppe nei loro appartamenti senza essersi fatto annunciare, come il sole che straccia le nubi e prepotente invade con la luce fredda e cruda l'aria tutt'intorno.
Pherio s'era assopito e teneramente s'era appoggiato contro il petto di Pirecrate, respirando piano e sereno.
Pirecrate restò immobile, senza una parola da dire o un pensiero da pensare, la gola secca, mentre attraverso l'aria della notte, buia, ingentilita solo dal fuoco delle fiaccole, avanzava quella visione scesa dal cielo e plasmata dalla terra. Gioielli, seta, blu cobalto, lunghe lingue di stoffa bianca che danzavano intorno come l'alone della luna, occhi predatori di lupo sottolineati dal trucco lucente, le labbra dipinte gocce rosse sulla pelle di perla, iridi abissali, gorghi neri che bastava incrociare per venirne risucchiati.
"Pirecrate."
Respiro al passo e passo alla danza d'una stella. Una gamba che fiorisce dall'oscurità della seta sin'al ginocchio, la pelle da caviglia a dita tutto un incontrarsi e mescersi di linee nere infrante e ondulate, sottili come fili del baco, e una mano immobile che compie un cerchio nella movenza della spalla, seguita dagli occhi, da essi relitta quando giacquero, strali irremovibili, nell'anima del fiore ambito. Cadenza e perfezione nella notte della mente, quando affascina l'aura di maledizione e bellezza che si libra su tutte le forme e sui loro simulacri vuoti sparge la polvere della propria passione, di cui le son pregne le ali dipinte dell'oro e della china rovente.
Non un rumore, né più d'un respiro, tre passi appena e le braccia che sollevate s'abbassano, i gomiti che s'aprono e le dita delle mani, chiare e altrettanto screziate, che si tendono sotto la cadenza delle palpebre ch'accolgono l'iride divina come il mare la Luna nera in un cielo latteo. Il mignolo a mimare come in uno specchio rovesciato il lungo sopracciglio sinistro, e quello destro che si vede sovrapporsi agli occhi di chi non può fare a meno di guardarlo dall'indice dell'altra mano, gemellato dal medio che corre al di sotto del mare profondo, esattamente ponendosi entrambi attorno alla congiunzione delle palpebre ch'affonda verso la tempia.
Era la costellazione del drago che con tutta la luce celeste di cui dispone s'era inabissata giù, via dal cielo, fino a calcare con piedi mortali la terra. Pirecrate si sentì ardere fin nell'ultimo nervo e irrigidire fin all'ultimo tendine quando quelle mani si congiunsero e fatto fu un inchino fino a baciare il lenzuolo con cui lui e Pherio erano coperti. Quegli occhi sempre addosso, sempre conficcati dentro, e folli d'una passione che tanto più scorreva profonda tanto più fluiva senza incresparsi nella superficie.
Unghie intorno alle ginocchia d'una mano che furtiva s'era intrufolata tra l'intreccio di gambe e il loro calore, che la graffiavano in una carezza fino a che le splendide dita non furono di nuovo visibili.
Il Greco prese un respiro profondo, dalla disperazione distogliendo gli occhi, sperando che in tale maniera l'incantesimo perdesse forza su di lui, ma. . Sempre ebbe innanzi quello sguardo e tale l'avrebbe avuto fino a che la Morte non avesse falciato la spiga della sua età, e la luce di quella notte non poteva essere ignorata. Sentiva Pherio muoversi appena, rimanendo al sicuro nel sonno, e toccarlo e averlo tra le braccia lo faceva impazzire.
Né quelle fiamme oscure nel cuore le avrebbe potute appagare lo spirito plenilunio del *suo* Pherio.
Spalancò le palpebre e Astre era sparito e non sapeva se gioirne o meno e, oh dei.., la mente invasa dai gemiti ancora sentiva quella vesti frusciare su quella pelle, il profumo seguirlo come l'alone intorno all'estremo mistero dell'universo mentre le natiche erano sfiorate dal vento insinuatosi tra le pieghe chiare.. Provò in un estremo tentativo ad appagarsi così, da solo, portandosi una mano tra le vesti notturne, pensando a Pherio, distanziando le cosce come Astre aveva aperto le dita della destra, stringendo l'altro spartano al proprio petto e respirandone quasi spasmando l'odore, tentando di cancellare l'altro.
Fece male toccarsi, ché le sue mani erano troppo ruvide e non sapevano muoversi come invece il suo sesso gridava e chiamava e non c'era modo d'appagarlo e ogni carezza diveniva una pallida ombra che accresceva senza scampo la frustrazione.
"Accidenti a te persiano." ringhiò, tra i denti, e cangiò posizione mettendosi sull'altro fianco, cercando di divincolarsi dalla prigione ch'era divenuto il suo desiderio, gemendo nella gola, dimenandosi e infilando le unghie corte tra i cuscini mentre la fronte di Pherio cercò e trovò riparo nel calore della sua schiena, morbida e liscia, fresca.
Come un peso di troppo vien aggiunto al braccio della bilancia fragile che per esso si spacca in due parti ed entrambi i piatti cadono, l'un toccando terra prima dell'altro, così quel gesto inconscio frantumò la debole opposizione posta in virtude dei propri sentimenti dal cuore, e il desiderio conficcò prima dell'affetto la spada nelle carni.
Corse, come Hermes alato, corse, dal proprio amante, seguendo con occhi di cacciatore esperto le orme lasciate dai piedi circondati da campanelli dal pendaglio di cristallo fine, nella speranza cieca di poter strappare al tempo i minuti sprecati a cogitare su qualcosa che aveva scritto e scolpito dentro come fosse stato sul marmo, in una futile opposizione a quel che sentiva anche per Astre.
Sì, traditore e infame, infimo. Ma in un certo qual modo l'amava.
Lui, l'incanto di mille notti senza vesti. Lui,la meravigliosa venustà d'un sogno di porpora e avorio. Lui, l'immenso spazio di giardini profumati. Lui, la merlata rifinitura di finestre che si lasciavano appena sfuggire il proprio segreto per scoprire poi che dopo una ce n'è un'altra e così a non finire, in un gioco senza fine. Che fosse intrigante, che fosse maledettamente mentitore, la verità era unica e sola: gli piaceva terribilmente anche per questa sua notte della virtù. Sin da Sparta, sin da quando l'aveva visto osservare con l'occhio di chi si discosta dai loro costumi, aveva intuito che era speciale.
Perché era Spartano e perché era Pherio Pirecrate non aveva tollerato in egli l'infamità, e l'aveva punita anche se non aveva avuto il coraggio di strapparle le radici. Radici che non vedeva.
Astre, barbaro: occhi a mandorla, neri come l'orizzonte dell'ora più buia tra quelle della notte silenziosa, sopracciglia sottili, principe, l'accento tra le labbra che correva in una sua melodia, appena appena distinguibile da quello d'un vero greco solo grazie alla sua grande abilità.
In lui era naturale che albergasse il vizio e la menzogna, la cattiveria e la furbizia.
Negare questo non l'avrebbe mai fatto, ché il Dimano era retto e schietto, e allora lo accettava. E lo voleva.
L'intravide, camminare, il canto dei campanellini che veniva smorzato dalla sabbia fine in cui affondavano. Come la lince Pirecrate gli volò addosso, piombando sul cervo, mirando alla gola con le zanne discoste e come lo stambecco dai grandi occhi neri Astre sollevò i piedi, lasciando dietro di sè lunghe falcate nette, librandosi tra le rocce impervie delle montagne.
L'oscurità dei presagi piomba senza lasciar intravedere il proprio monito, diffondendosi tra le valli similmente alla nebbia, e mentre s'inseguivano la luce infausta d'una stella cadente scheggiò il manto zaffiro del cielo e accanto alla forte Vega, della Lyra, passò e da essa fu scossa, e palpitò, ma lo stesso affondò il capo sottile e penetrante nella coda del Serpente-Che-Mangia-L'uomo.
Il Drago.
Pirecrate riuscì ad afferrare una tra le falde della veste di seta preziosa, cobalta, credendo d'averlo oramai in pugno, ma come petali di margherita si ritrovò tra le mani un velo, e ancora Astre fuggiva innanzi al suo sguardo, senza accennare a voltarsi nè mostrando affanno alcuno. I campanelli e le pietre che battevano sulle pietre, battevano il tempo alla loro corsa; le vesti del persiano erano le piume di quelle ali che, dannazione!, doveva tener nascoste sotto il mantello: non poteva un principe cresciuto in mezzo alla porpora essere più veloce d'uno Spartano avvezzo ai campi sterminati del Peloponneso!
In un estremo tentativo si buttò avanti, e lo prese per quelle ali, tirando giù entrambi nella sabbia e su di essa scivolarono. Le braccia di Astre gli circondavano il collo e le labbra lo sfioravano, il respiro veloce e caldo arrivava tra i capelli neri. E cadere fu proprio come cadere, inghiottiti in un antro oscuro, la terra stessa che si spaccava sotto i loro piedi per aprire, nelle voragini sterminate e infinite, volte di fuoco e stanze di lava. Fu la luce, questa volta, a ferir gli occhi di Pirecrate, anche s'essa era densa, morbida e distante, promessa di voluttà e piacere.
Le candele lucevano calde, decine di soli al tramonto, rossi ed arancioni, sospese nell'aria, riflesse sul soffitto dalle piastrine dorate sparse ovunque, come piovute dal cielo. Non aveva ancora sfiorato con gli occhi l'intera stanza, che una mano di Astre gli si insinuò sotto la veste, accarezzando le cosce, e l'altra cercò il suo capezzolo, mentre la bocca morbida si pose sulla sua, schiudendosi, la lingua che s'affacciava sulla punta delle labbra, in modo che la potesse sentire bene nel bacio che lo stava infiammando.
Colse le membra inghirlandate di preziosi fiori, e le sollevò da terra.
Astre imprigionò i suoi occhi con lo sguardo, avvolgendogli le spalle con le braccia e i fianchi con le gambe, allacciandole dietro la schiena, stendendo il dorso come un gatto, premendo col bacino sull'inguine, tirando sul collo con le dita strettamente annodate le une sulle altre, in un invito a mettersi in terra, in una sfida a restare così, in piedi.
Lo spartano uggiolò, perché così non c'era modo si scoprire le natiche morbide del persiano, devotamente protette dagli strati di stoffa, ma la pressione e il calore che esercitavano, anche così, gli annebbiavano la vista. Con una mano afferrò l'abito, tintinnarono i pendenti, ma in una mossa felina Astre gli si ributtò col petto sul petto, affondando le mani nei capelli neri e ricci, avvicinando le loro bocche così. .
"Costa, sai?"
Non afferrò subito il senso delle parole, e le dita di Astre cercarono le sue, sciogliendole dalla stretta semplicemente sfiorandovisi contro.
"E allora come ti spoglio?"
"Non erano questi esattamente i miei piani."
Pirecrate avanzò di qualche passo, accostandosi ai cuscini, con l'intento pieno di ignorare qualsiasi cosa avesse avuto in mente quel tenero demonio e di prendersi quello che alfine entrambi volevano, quel che entrambi bramavano e che suscitava il magma nelle vene e il risveglio del loro corpo.
"Mmmmh - modulò, voce acuta, trattenuta entro le labbra saldamente chiuse, la creatura che teneva tra le braccia, e mordicchiò piano l'orecchio, negandogli la dolcezza di quella lingua umida. .- Spartano. - riprese, serio ma con la malizia negli occhi sfavillanti- Io ti faccio dei regali, e tu..- slacciò le caviglie, ponendo i piedi in terra, quei piedi da ballerino che appena riuscivano a toccare il pavimento satinato- ..tu neanche li noti?"
Sfilò via un braccio dai suoi omeri, lasciando che il suo sguardo potesse posarsi a terra, appoggiando un lato del viso sul petto palpitante e arrossato appena, in attesa. E Pirecrate sussultò quando vide il lungo manto carminio risplendere come scaglie di fuoco imprigionato nel cristallo più fine e puro, ancora caldo, rovente, perché i lumi delle candele gli infondevano il purpureo riverbero dell'Etna in eruzione. Curve graduali e marcate, profondi solchi, ne evidenziavano il giubilare festoso e la sofficezza del cuscini su cui era poggiata.
"E' per me?"
Astre gli carezzò il petto, dandogli un bacio, stringendogli la mano.
"Unicamente per te."
Sorrise il persiano, mentre Pirecrate si inchinava a prendere il preziosissimo manto tra le dita, e per questo indugiò, piegando le ginocchia, fissandolo di sottecchi.
La stoffa azzurrina s'incuneava all'interno dei capelli corvini, avvolgendosi tra essi e se stessa, e il collo era così pieno di schegge di oro che morderlo sarebbe stato rovinarle. Sembrava che il persiano si fosse vestito tenendo conto di ogni respiro, di ogni aspettativa, che avrebbe suscitato e della frustrazione altrettanto potente che avrebbe causato.
Contorto, e complesso, una ragnatela intessuta per lunghi minuti in totale dedizione e concentrazione, destinata ad essere sciupata in pochi secondi. Era così bello da fargli quasi desiderare di non rovinarlo, ma troppo ardente gli aveva acceso la brama nelle viscere.
Senza pensarci posò la mano sul tessuto. Ed esso era morbido e vellutato, non seta che troppo delicata sarebbe scivolata indosso alle membra d'uno spartano, ma neppure stoffa grezza, simile al lino, pure il più fine che si potesse mai intessere: pareva un oggetto creato appositamente per rivestire una fiamma guizzante, pagliuzze d'oro intrecciate ai fili cremisi per rivelarne l'eterno fulgore, l'incredibile valore.
Se ne cinse le spalle, Pirecrate, aiutato da Astre ridente, e pareva egli davvero il suo Gran Generale, pronto ad entrare a Persepoli, la spada al fianco, gli occhi lucenti e imbevuti del sangue di mille battaglie e fulgenti d'un fuoco che era solo ed esclusivamente il suo. Ed era *suo*.. Pirecrate era suo.. e al pensiero Astre danzava movenze d'incantesimo intessute, tintinnando al passo del battito furioso del cuore e ancora scivolò via dalle mani tese dello spartano e ancora rise, di gioia e desiderio.
"Tutto quel che desideri, Pirecrate, - sussurrò fra i denti, facendogli scivolare il fiato lungo il lobo per farlo tremare e torcere dal troppo piacere. Perchè troppo desiderio non si poteva arginare, e Astre lo sapeva, e Pirecrate sempre ardeva della fiamma di una passione mai consunta. Pirecrate era fiamma, e lui amava scaldarsi al suo fianco, ed essendone posseduto, possederlo, cingerlo con lievi catene d'oro e fili di prezioso tessuto carminio. E legarlo, e intrecciare il suo destino al suo, come una fanciulla paziente che, nelle notte di luna, intesse preghiere fatate per ottenere il cuore dell'uomo desiderato. - tutto ciò che potrai mai volere è qui, fra le mie braccia, fra le mie dita.."
Non terminò la frase, si lasciò avvolgere dall'abbraccio irruento e sorrise di nuovo nel contorcersi appena al tocco ardente che cercava, la bocca attaccata alla bocca, annaspando, un varco, un'apertura qualsiasi per far capitolare le difese.
Ma Astre su di sè non aveva posto spalti o mura che lo spartano non potesse scavalcare, solo piccoli impedimenti per far ardere sempre più alta la fiamma di chi vede ciò che gli viene promesso ma non può sollevarci una mano sopra.
"Che me ne faccio delle due dita, ora, mi spieghi?"
Sorrise, audace Pirecrate e Astre s'allontanò d'un passo, di nuovo, ondeggiando sulle anche in una danza maliziosa e urgente quasi.
"Delle mie non so, le tue servirebbero."
La luce morbida improvvisa avvolse di scintille l'alta cintura che cingeva stretto il persiano, e una sua falda galleggiava delicata nell'aria intorno a lui, suscitando più di quanto avrebbe dovuto.
Uno scatto, entrambi si mossero fulminei di lato, Pirecrate per catturare, Astre per fuggire di nuovo, lasciandogli però, fra le mani, un lembo di stoffa. Con una mossa dolcissima mosse il bacino, lasciando che il nodo si sciogliesse da solo, al primo strattone, scivolandogli via di dosso come nebbia che si faccia via via più sottile al mattino.
Ma la veste non s'aprì come Pirecrate aveva aspettato, e sospettato, e di fronte al suo corrucciarsi Astre si fece vicino, allora, ridendo e baciando.
"Che gusto c'è ad ottenere ciò che si desidera senza un po' di fatica, mio bel Pirecrate?"
Lo spartano ringhiò e morse le labbra belle e turgide, al posto di baciare, avvolgendolo stretto, questa volta, al punto di farlo soffocare.
Senza alcuna importanza erano le sue proteste, ora, e non lo sarebbero più state, il desiderio era passione fatta di lava che gli ardeva nelle vene e gli annebbiava la mente, e la vista. Solo voleva stracciargli quelle vesti di dosso, a costo di staccare a una a una quelle scaglie dorate che, come una corazza, lo tenevano lontano dal compimento di ciò che desiderava.
Lo poggiò, stringendolo con forza, su una cassapanca di legno scuro e pesante, cosparso di stoffe delicate, alcune di esse caddero a terra, altre si tesero. Astre di nuovo socchiuse le labbra per dir qualcosa ma il suo fiato fu ancora inghiottito e lo spartano di esso aveva una fame e una sete, un desiderio e un bisogno che nasceva da una parte antica e profonda di sè, una parte a cui non avrebbe, ora potuto negar nulla.
Le braccia lo cinsero stretto, con le dita che frugavano, cercando, e sforzandosi di comprendere il trucco.. chè Astre era come un bimbo che amava giocare. E quello era un gioco, un dolce gioco creato solo per lui.. ma il trucco c'era, con Astre, il trucco c'era sempre.
Morse con forza vera trovando la soluzione dell'arcano: una terribile cintura alta e morbida, di stoffa sulla stoffa cucita, con punti stretti in cui le dita non riuscivano ad infilarsi..
Quasi violento, sorridendo ferino, Pirecrate scrollò le spalle allontanando Astre da sè. Su di lui non sollevò gli occhi chè non aveva voglia, nè bisogno di guardarlo in viso per sapere cosa v'era dipinto in quegli occhi.
Come il predatore che era sguainò le zanne e con la bocca chinò fra le sue gambe obbligate, e affondò sul ventre celato da troppi strati, e coi denti recise, uno per uno, i legami che tenevano nascosto quel corpo nudo che desiderava con così tanta passione.
Astre era ciò che voleva, Astre possedeva cio' che più di tutto ora bramava, e non v'erano risposte, e non v'era spazio nè tempo per altro. Nulla da comprendere, nulla da sapere..
Le mani s'aggiunsero ai denti, e strapparono dove era stato reciso, e facevano a brandelli dove ancora il filo resisteva. Astre sussultò sotto quella forza che brillava alta, ma sorrideva, e il desiderio, anche in lui, era ormai un veleno difficile da contrastare.
Astre gemette, di nuovo e di nuovo tremò, tendendosi come corda d'arco rilasciata dopo il tiro, le sue gambe cinsero la vita dello spartano, tirandolo dolcemente sulle sue labbra di nuovo, e di nuovo patì, godendo, quel bacio doloroso di denti e forza, che se nulla aveva della dolcezza arcaica che il Re adorava, sapeva infiammare più e meglio del miglior vino di Babilonia.
E lui era quello che voleva: perdersi facendolo perdere. Affogare affogandolo. E stringendo sempre i nodi, e nutrendo la fiamma del desiderio fino a renderla impossibile, fino al punto di desiderare di strapparsi la pelle di dosso per cavarsi quel bruciore che invadeva le membra.
Pirecrate dovette riprender fiato, e il suo capo scattò verso l'alto come il muso incoronato della criniera d'un leone possente, e Astre ancor sempre padrone del gioco mosse le gambe ancora avvolte al bacino duro dell'altro, facendolo sbilanciare appena, facendolo crollare a terra e riuscì a non seguirlo.
In piedi il re si mostrò, sorridendo, leccandosi le labbra, dolce e voluttuoso, desideroso e desiderato oltre ogni limite che mai prima avesse sperimentato. Ma Pirecrate, il suo Pirecrate.. sorrise, sospirando gli si fece vicino, sventolandogli sul volto una falda della veste : ora, tra i tanti drappi alcuni scivolarono via, e quelli furono tra le fasce setose che tenevano coperta la pelle dei fianchi. Così, a seconda del vento e delle movenze, facilmente da sotto lo sguardo di Pirecrate poteva corrergli lungo le membra.
E così lo circuì, camminando lentamente, osservandolo con occhi che erano fiori dal forte profumo, e mani che venivano mosse per l'aria in gesti che ne mimavano altri, così comuni tra i loro divertimenti, solo loro, così belli. Pirecrate mugugnò qualcosa, cercando di mettersi sui gomiti, in parte avendo recuperato il senno, e ora lo fissava come il leone in agguato dietro all'alta erba della savana. Stupì, egli, se stesso e Astre di scatto slacciandosi i lacci che gli sorreggevano ancora la veste sgualcita sul corpo, scivolandone fuori d'un balzo, fiero e furente, nudo e lucido il suo corpo di sudore, e gonfio d'eccitazione.
"Ohh Pirecrate!"
Spalancò le braccia, le cosce furono denudate mentre come ali piegate la preziosissima veste gli pendeva dai lunghi arti. Lo Spartano lo afferrò, tirandolo giù di peso, mettendosi sopra a quel corpo meraviglioso, annegato totalmente nel desiderio che di nuovo gli si alzava nelle membra, fiamme che andavano a lambire ogni cosa.
Le fiamme, esse andavano bene quando gli correvano nelle vene, e gli spaccavano il cuore dal desiderio. Le lingue di fuoco erano un gioco per lui, averle sulla pelle, lo sfiorare intenso e abile del persiano, e tutto ciò che quello risvegliava, i ricordi anche, ma non solo.. una parte di lui che prima di incontrare Astre neppure Pirecrate sapeva di avere.
Astre era stato il fuoco che aveva acceso la sua anima, che aveva fatto avvampare i suoi sensi, di quell'ardore gli era grato, gliene sarebbe sempre stato grato, e insieme lo bramava.
Astre era bello, d'una bellezza ricercata, attraente, impossibile, un qualcosa di costruito ed inaspettato, era una sorpresa continua, un continuo stupore, una continua architettura di forme sempre nuove di piacere. Astre era qualcosa che non si poteva dimenticare, che non si sarebbe mai riuscito a strapparsi dal cuore, e la pressione delle sue membra addosso lasciavano marchi a fuoco. Amava quel fuoco, gli offuscava la vista, gli faceva perdere l'orizzonte al quale si era sempre riferito, ed andava bene, andava bene così perché affondare in lui era come riprendere a respirare qualcosa di denso, un liquido potente che lo rapiva, lo avvolgeva, lo riempiva, ed era qualcosa di impossibile da descrivere, che non sapeva se si sarebbe mai potuto ripetere.
Eppure, nonostante la cieca passione, c'era un qualcosa di strano che lo pungeva ora nel petto, nato dal nulla, come dal nulla nasceva il desiderio di Astre che ogni volta, al posto d'esaurirsi, pareva rinfocolarsi, attingendo a una fonte innominata.
Quella volta, nonostante le mani corressero veloci sulla pelle morbida e liscia di Astre sottile, e sollevassero, e s'insinuassero sotto la stoffa preziosa, quel peso sul cuore c'era e si agitava, e gemeva dentro e feriva, contrappuntando il desiderio e il piacere che gli si spandevano nelle membra come una dolce inondazione: ebbene esso, più tentava d'ignorarlo più si faceva forte.
Mentre lo carezzava, lo spogliava, gli sfilava i mille braccialetti tintinnanti, ad ogni bacio tremava, e le mani altrettanto, mentre scorrevano lungo la pelle setosa e lungo i fianchi sottili. Per bramosia fu scambiata da Astre, che si voltò, mettendosi sull'addome, tirando indietro il capo, simile al gatto, stendendosi, ma Pirecrate gli prese con gentilezza una spalla, facendo sì che tornasse alla posizione di prima, facendogli sollevare le gambe.
"Subito così?"
"Sì"
Roco, rispose.
"Hai fretta stasera.."
Sorrise, stringendo gli occhi, facendo sì che la forza del suo sguardo si concentrasse in quel che era visibile, e sfavillasse in tutto il suo splendore.
"Sì.."
Sussurrò, entrando dentro di lui, piano perché di quel corpo aveva bisogno di goderne il più possibile, affamato, disperato. Affondò il volto nei guanciali, con le labbra rivolte verso il collo del persiano, cercando le sue mani, stringendole, sollevandole accanto alle loro teste.
Disperato era, si sentiva disperato, sulla linea d'un crepaccio di cui non s'intuiva la fine, eppure non era solo il desiderio, quella volta, era altro che gli si ribellava dentro, altro che non voleva sentire, non voleva sapere!
I pensieri si intrecciavano tra loro come la bruma tra i rami, e mai avrebbe avuto voglia di riflettere, in quel momento, scosse il capo, cercando d'allontanare gli incubi con le mani, ma per quanto facesse non poteva reprimere una sensazione orribile, un pensiero che prendeva vieppiù corpo e forma dentro di lui.
Lo sapeva, lo sapeva bene, l'aveva sempre saputo: era un addio, quello.
La pelle di Astre toccava, sfiorando la sua, e tremava, gemendo una canzone il cui ritmo era lui ad imporre al persiano. Era bello sentirlo cantare, era dolce il suono che usciva da quella gola, era delizioso sentire le sue cosce tremare, stringendogli la vita, accogliendolo in sé, ogni volta, come se fosse una benedizione, come se fosse un dono e, insieme, come se a lui volesse legarlo, come se volesse assorbirlo, e imprigionarlo lì, all'interno di quella lussuria, soffocando entrambi in un abbraccio, in un nodo di membra e corpi che non avrebbe mai più dovuto sciogliersi.
Nessuno dei due, ora, voleva che quel nodo si sciogliesse. Pirecrate strinse gli occhi, con rabbia, obbligandosi di non pensare a quelle cose che dentro gli graffiavano l'anima, concentrato solo sul piacere presente, dentro Astre, e, se avesse potuto, avrebbe voluto stare sempre così, sempre chiuso in quell'istante, in cui i pensieri e il domani erano banditi, in cui ogni cosa, che non fosse il piacere, non esisteva. E Astre era solo quel corpo meraviglioso che gli ansimava fra le braccia, e solo di quel corpo aveva bisogno per respirare, per vivere, per..
Con più furia prese a spingere, e Astre represse un gemito lungo. Pirecrate sfogò la rabbia che gli premeva dentro, pungendogli il cuore, e anche se era un sentimento che non avrebbe dovuto, che non avrebbe voluto provare, esso era lì, e faceva male, e feriva e straziava.
La rabbia, la disperazione, la paura che aveva provato, e la consapevolezza.
La consapevolezza.
Pirecrate strinse i denti, respirando con l'affanno, cercando con tutte le forze di dimenticare, di levarsi dal cuore il presentimento di quel che l'indomani sarebbe stato. Di quel che ci sarebbe stato nel suo petto quando, svegliandosi, l'avrebbe avuto accanto a sé.
Perché sì, Astre non avrebbe lasciato quel giaciglio, come ora lo avrebbe guardato dolce, estasiato, bello come mai lo era stato, ancora adornato di gioielli ma splendente sopra a tutti gli zaffiri e i metalli preziosi.
L'indomani mattina quegli occhi scuri e lucidi di sarebbero aperti sui suoi e avrebbe sorriso, a lui, in quel modo speciale che solo Astre sapeva, e lui avrebbe dovuto dire, o fare..
Improvviso un lampo si destò nell'aria chiara e opaca della tenda, accecandolo: l'oro che si muoveva gli ricordò dolorosamente la chioma perduta di Pherio, e una pietra un po' più chiara delle altre, pendente da una delle orecchie del persiano, gli riportò alla mente gli occhi azzurri del suo Panfilo.
Pherio.
Non poteva, non doveva pensare a lui, vederselo di fronte agli occhi che dormiva tranquillo, e dolce, come mai Pherio era stato! Non doveva .. eppure il fiato s'era fatto più corto nei polmoni e la gola gli doleva, graffiata e contratta.
Pherio non era Astre..
E Astre era..
E lui..
Pherio che riposava poche tende più in là.
Pherio che non chiedeva, non avrebbe mai più chiesto. Pherio senza insegne, senza manto, Pherio non più Spartiato, ammantato dal disonore. Pherio che, dentro di sé si sarebbe ormai sempre sentito un Ilota al suo cospetto e lui..
Pirecrate chiuse gli occhi, con forza. Nulla c'era da dire, ben poco da fare se non seguire quello che tutto se stesso gli stava urlando. Nonostante le certezze dei suoi pensieri, nonostante la speranza svanita, nonostante il piacere, la passione, e Astre che tendeva una mano, porgendogli tesori e potere e un futuro più scintillante dell'oro stesso..
Sparta.
Non c'era altro luogo dove andare. Pherio, se disonorato, non si sarebbe mai fatto ricrescere i capelli, e lui non voleva che rimanesse così. Non c'era altro luogo per Pherio e lui..
"Pirecrate!"
Singhiozzò, Astre, chiudendo gli occhi, tirando a destra e a sinistra il capo, non riuscendo a contenersi. Pirecrate diede l'affondo finale, ma fu con un dolore immenso che se lo portò via, nel sonno.
Strinse Astre a sé come se non ci fosse stato domani, ma non ebbe animo di baciarlo.
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La notte non era ancora passata: da fuori non veniva neppure un minimo bagliore che potesse presagire l'alba. Le stelle palpitavano, e il cielo era tutto un immenso e sconfinato manto di seta blu, velata da lino nero. Sentì in quei momenti la mancanza dei grilli che tanto vivacemente cantavano tra la verde erba di Grecia, accompagnando i pensieri dell'insonne. Lì solo il vento sussurrava parole arcane, così sottili che tra le rocce passavano, fischiando, e i loro sibili giungevano distorti dal calore della brezza. Ma si stava bene: la pelle e il respiro non soffrivano, anzi scivolavano tranquilli. Erano la mente ed il cuore a non poter riposare, a non trovare pace.
E il peso d'un capo leggero sopra il petto diveniva insostenibile, e l'aria dolce, che da labbra altrettanto dolci e belle usciva, diveniva un nero vento di tempesta che penetrava le carni sino al cuore, raggelandolo. Amaro. Fiele.
Pirecrate passò le dita tra quei capelli corvini, piano, per non destare chi tanto a lungo era stato desto a contemplar lui, e ora riposava, placido e tranquillo, sazio e felice.
Sì: un sorriso fioriva come il giglio su rocce chiare, attorno a un fiume, cinte da una corona di luci stellate, sulla bocca morbida, mura di denti appena lasciati rifulgere, bianchi.
Carezzò le palpebre e le sopracciglia arcane, a lungo fissandolo, e Astre ancora di più s'arroccò sul suo torace, cercando nel sonno la sua mano. Pirecrate prese quelle dita pellegrine tra le sue, e sul suo cuore le pose, cercando di ritrovare quel poco di tranquillità che gli occorreva, cercando di pensare.
Lo stava stringendo a sé, adesso, ma quando si sarebbe svegliato avrebbe trovato accanto a sè solo un giaciglio vuoto, incupito dalle luci dell'aurora rosata.
Bello era stare col Persiano, tanto da scuotere il suo petto di guerriero, e nella sua città di porpora sarebbe stato il Paradiso consumare tutti i giorni della sua vita. Avrebbe potuto dimenticare Sparta e vivere in felicità e splendore la propria esistenza. Ma c'era qualcos'altro che non poteva dimenticare, ché era una parte di lui, che era un cielo sfiorato dall'alba e dal sole.
Ora dal sangue stillante che colava dalle ferite immani spalancate dal suo cuore fioriva una nuova consapevolezza, una sicurezza nuova e forte, e riusciva, ora, a guardarsi dentro con una calma che non aveva mai avuto prima.
E sapeva, Pirecrate, sapeva e sentiva bene la differenza che c'era nel giacere avvolto in teli e veli e nubi dense di lussuria, dopo un piacere inebriante e carnale oltre misura, con la sensazione di aver le membra gravate di ceppi e catene che non lasciavano andare ma che anzi spingevano sempre più giù, a sprofondare perennemente in un deliquio di sensi, e la pulita, tranquilla dolcezza che ridestava il cuore nel percepirsi fra le braccia di Pherio.
Non v'era nulla di male, o di sbagliato, nel lasciarsi morire, intossicato, tra le braccia passionali e gelose del persiano, se non esisteva al mondo un posto in cui stava meglio, in cui ..sentirsi ..'a casa': era quella, una sensazione a cui non riusciva a dar nome, ancora, ma c'era, e la riconosceva. E l'accettava.
Amava Astre di quell'amore denso e opaco, che non era solamente ottundimento dei sensi: anche tenerezza, era, e dolcezza d'un gioco mai finito, ma sempre e solo gioco. Il persiano, seppur re, sembrava una farfalla dalle ali variopinte, quand'era con lui, dal volo spezzato, sempre diverso, sempre incantevole il rifrangersi del sole sulle ali sottili, pronte a spezzasi al primo tocco troppo violento. Chi non si beava, sdraiato comodo in un prato di smeraldi, a fissare una danza simile, svolta solo per se stessi? Chi avrebbe potuto rifiutare un simile dono? Chi non si sentiva il cuore leggero e trattenuto lì da quel piacere?
E c'era Pherio. Figlio di Sparta. Incorrotto, incorruttibile, rigido e serio. Lo conosceva meglio di quanto non conoscesse se stesso. Lo considerava un abile guerriero, lo sapeva un perfetto generale, un capitano attento, e ciò che teneva nascosto nello scrigno serrato del suo cuore, poi, mai avrebbe potuto dimenticarlo. Anche ora, privato dell'onore che gli spettava di diritto, non per diritto di nascita ma perché se l'era conquistato, ecco, anche ora Pirecrate non riusciva a non sentirlo suo pari. Di più: al suo fianco. Tra le sue braccia Pherio faceva nascere in lui l'idea che l'altro fosse semplicemente una parte di se stesso, un prolungamento del suo corpo, un completamento della sua anima.
Avrebbe accettato anche la decisione di Pherio, ora, di tenerlo lontano, di non farsi più toccare da lui, ché con Pherio s'era comportato come il peggiore degli indegni, ma questo non cambiava nulla, non mutava quel che provava.
Le membra che teneva tra le braccia ora erano morbide, calde, ma sapeva quanto sarebbero divenute dure ed inflessibili, costellate di regalità, lontane ed intoccabili. Pirecrate ricordò quando Astre gli aveva accennato al fatto che i sovrani in oriente erano dei, e come tali risultavano intoccabili ed inavvicinabili. Se l'era immaginato seduto su quel trono fatto di pietre preziose ed oro, tutti metalli e gioielli che aveva imparato a conoscere standogli accanto, e vedendone Firuzeh velatamente tempestata. Ora riusciva a figurarsi il seggio dell'imperatore di Persia, dell'indiscusso sovrano del regno più ricco del mondo, e sopra il sottile cuscino di raso non avrebbe
potuto vedere nessun altro se non Astre. Conosceva tutte le arti che occorrevano, ed era abbastanza freddo e gelido da poter sopportare la solitudine del sovrano.
O almeno.. questo sembrava. Mentitore bugiardo, ma così bambino tra le sue braccia, così tenero dormiente, accoccolato alla ricerca d'un po' di calore.
"Come posso lasciarti senza provare rimorso?"
Sussurrò, appena pronunciando le parole, lasciando che corressero deboli sulle labbra, senza che potessero sollevarsi per l'aria. Se a qualcosa fosse servito, Pirecrate sapeva ch'avrebbe desiderato di poter sospendere il tempo e di rimanere abbracciati. Ma aveva compiti da portare a termine. Il richiamo delle valle d'allenamento era forte all'udito della sua anima, e sempre più l'ardore che l'aveva spinto a guardare al deserto come ad un qualcosa di meraviglioso, andava raffreddandosi.
Con Astre avrebbe potuto vivere una vita splendida. Ma non era la sua vita.
Pirecrate s'alzò, lasciando che il capo del persiano s'adagiasse perfettamente alla seta, cogliendo con una mano una coperta di lana, e mettendogliela fra le braccia, per riscaldarle e riempirle. Aveva gli occhi lucidi, perché vedeva i capelli scuri di Astre tremolare come il cielo che ceda il passo al giorno fino a che scompare dalla vista. Una notte che non sarebbe tornata.
E lui non sarebbe riuscito a fingere. No.
Doveva lasciare Astre. E doveva lasciarlo subito.
Era stato un addio, quello, e Astre, nella sua furbizia, e intelligenza, troppo tardi se ne sarebbe accorto.
Pirecrate prese un profondo respiro sibilante, guardandosi intorno per un
ultima volta, poi chiuse gli occhi.
Dovevano lasciare ora Firuzeh.
Ma prima che potesse evitarlo, nell'uscire, il bagliore rosso del dono di Astre lo colpì come un dardo lasciato partire inavvertitamente ma che giunge a bersaglio. Lo Spartano lo raccolse, piegandolo quanto meglio poteva, e decise che prima era meglio passare per il proprio alloggiamento.
Doveva posare questo, e porsi indosso la veste e la spada.
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"Spartano farai bene ad avere i tuoi ottimo motivi per avermi destato a quest'ora!"
Pirecrate adocchiò la forma supina nel talamo di Dionide, Idrio dolce che aveva socchiuso gli occhi e si stava alzando sui gomiti, sorridendo ancora nel suo sogno bello. Dionide si frappose tra lui e l'Ateniese, sistemandosi le maniche della veste e incitandolo con lo sguardo ad uscire fuori dai suoi appartamenti. Il Dimano aveva letteralmente fatto irruzione all'interno delle stanze del signore, scavalcando i fedeli guardiani, che or ora si stavano riprendendo dal forte colpo in testa che li aveva all'improvviso lasciati senza coscienza.
"Idrio.."
Sussurrò, tendendo appena una mano verso di lui. Il cuore parve spezzarglisi in petto, e Pirecrate fissò con occhi ancora più duri Dionide, lasciando tuttavia correre. Per Idrio c'era tempo.
Di silente accordo si recarono in una stanza al cui ingresso Dionide ordinò a degli uomini di porsi, e quando dietro di sé lasciò cadere il drappo, il mondo fuori finalmente scomparve, lasciando loro due. Non c'era Pherio, non c'era Astre.
Dionide e Pirecrate.
Dionide dagli occhi ancora luminosi per via di tutta la luce che Idrio aveva riversato in lui durante la notte, e tuttavia pronto e sveglio, e Pirecrate coi capelli che ancora avevano il profumo del principe di Persia, i lacci che tenevano la veste unita in petto male infilati nei buchi posti a croce.
"Cosa t'occorre?"
Incitò il discorso, brusco. D'altronde non c'era altro linguaggio che il Dimano potesse comprendere. Pherio, lo splendido, folgorante Panfilo, era così profondamente diverso da quell'uomo che ora gli stava innanzi, e che incarnava in tutto e per tutto l'arroganza e la bestialità Spartana.
'No, così no'.
Si rimproverò, mentalmente, sgombrando la mente da quei pensieri ottenebranti. Possibile che fosse bastato quel gesto, quelle tensione di Pirecrate verso il suo amato pochi istanti prima, per fargli saltare i nervi a quel modo?
"Non possiamo venire in Persia con voi."
Dionide lo scrutò a lungo negli occhi, e non poté far a meno di ridere, tagliente.
"Io sono amico di Astre. Attento a come parli"
La minaccia non ebbe l'effetto previsto, perché Pirecrate si morse le labbra, accostandosi al tavolo di legno, poggiandovi sopra le mani.
"Cosa vuoi in cambio della nostra. . libertà?"
Indugiò sulla parola, abbassando gli occhi per non mostrare la rabbia che gli stava percuotendo il petto. Loro *erano* liberi. Erano spartani e portavano al polso il bracciale di bronzo. Quello di Pherio c'era, nascosto, assieme alla spada.
Dopo tutto, non era riuscito a distruggere quelli, no. Era stato il suo tormento, e non l'aveva ugualmente fatto.
E ora invece doveva sacrificare il proprio orgoglio su un altare invisibile, innanzi ai piedi del dio di quei luoghi, prostrandosi, servilmente, cercando di ottenere se non clemenza, quella mai!, almeno un aiuto.
Dionide sollevò lo sguardo, e negli occhi chiari e forti scorse l'assoluta determinazione e la coscienza di star tentando una via in un terreno non congeniale. L'unica via possibile.
"E cos'è che potresti mai darmi tu, Spartano?"
Prese tra le mani un'anforetta d'argento, e versò il tè in una piccola tazza di porcellana fine, lasciandolo scorrere, dorato, ai primi riflessi d'un sole che arrossava il cielo, fuori, lontano.
Lo Spartano trattenne il respiro e stette in silenzio, il petto sollevato era appena intravedibile attraverso la veste carminia, e sguainò con uno strattone la propria spada. Lo stridere della lama contro il cuoio fu doloroso, come se il ferro avesse tentato d'aggrapparsi disperatamente e lo stesse supplicando di non farlo. Ma erano soprattutto i suoi avi che sentiva nelle orecchie, sgridarlo, accusandolo d'infamia.
Non c'era altro da fare, però, se voleva salvarsi e salvare.
"Non so quanto vale per voi mercanti che a tutto date un prezzo. - la lasciò vibrare di luce e d'una bellezza mai vista, argentea e pura, quasi cristallina se non fosse stata intimatrice di ferite e dolori, regina austera della vittoria; si sfilò l'elsa dalla cintura, ponendola col cuore greve sul tavolo, accanto alla sua protetta, pur non lasciandole alla mercé totale di mani estranee: tra le proprie dita le tenne.- Ma è tutto quel che ho."
Dionide lo gettò lo sguardo da intenditore lungo il metallo sopraffino. L'aveva vista già, una volta, mentre fendeva l'aria, arma domata da intrepido animo.
"Può bastare per un uomo. Per due, no di certo! - gli occhi si fecero due fessure, e scosse il capo. Non bastava per due uomini quella lama: sarebbe bastata per mille, e tutti valenti, forse. Una spada simile avrebbe potuto suscitare la guerra più sanguinosa dalla presa di Troia. Là era stata una donna, qui una lama che, senza un valido braccio a brandirla, rimaneva sterile ma bellissima e preziosa oltre ogni dire. Uno strano sorriso gli tirò le labbra, sarebbe stato saggio per Astre che quel segreto non uscisse da Firuzeh, ma ciò che c'era in palio era ben più che una spada di *ferro*. - Potresti lasciar qui Pherio."
"Mai!"
Dionide rise ancora una volta.
"Mi spiace allora. Non posso aiutarti in alcun modo."
Si allontanò con un gesto secco dal capo dalla tenzone. Dionide era mercante, e sapeva dare un prezzo ad ogni cosa. Ma era pure Sacerdote, e mago: questo lo rendeva capace di conoscere le persone. E ora sentiva che, in qualunque modo avesse agito per spingere, in una direzione o un'altra, quei due spartani, tutto sarebbe fallito.
"Potresti!"
La rabbia di Pirecrate era davvero fuoco! Con tale forza dalla sua parte, Pirecrate non poteva e non doveva tener nulla, soprattutto ora che il destino con così tanta chiarezza s'era espresso essere in concordanza con i suoi stessi desideri.
Era sempre stupore e incredulità trovarsi di fronte a un essere simile.
"Sì, potrei."
Un muro, un muro terribile. Pirecrate sapeva di non poterlo sfondare e di non aver altre armi per affrontarlo, non comprendendo che non c'era nulla da affrontare, ma solo sa porre un passo dietro l'altro. Ma Dionide al Dimano non avrebbe parlato, e Pirecrate al signore di Firuzeh aveva già detto fin troppo.
Risentito riprese la spada, portandosela al petto e fece per andarsene.
"E che farai ora?"
Lo Spartano si fermò, poggiando il piede sollevato in terra, voltandosi quasi del tutto.
"Noi spartani ce la sappiamo cavare, in qualsiasi situazione."
Affermò, con orgoglio, l'amarezza negli occhi.
"Sai bene che Astre non sarà felice della cosa."
"Lui non saprà niente. A meno ch-"
Gl'occhi di Pirecrate avvamparono, ma le mani di Dionide, sollevate a palmi avanti, con una lenta condiscendenza pacata, parve interrompere una reazione ben più esuberante.
"No, spartano. Dalle mie labbra non uscirà nulla, né chiedo qualcosa per una libertà che già avete."
Pirecrate scrutò attentamente il volto di Dionide, aperto e sincero, almeno a quanto gli sembrava. E il suo intuito concordava coi suoi occhi.
"Cosa vuoi, allora?"
Dionide ponderò bene se parlare o meno: una sorta di incertezza gli fluttuò negli occhi, come se una parte di lui stesse combattendo per una decisione già presa. Era mago e sacerdote, vero, ma soprattutto Dionide era mercante, figlio di mercanti, e non era mai leggero a donare ciò che possedeva le chiavi del suo cuore.
L'ultimo scrupolo fu spazzato via come un granello di sabbia vien cacciato dalle lacrime, sotto e palpebre, e il signore proferì la sua richiesta:
"So che vuoi molto bene a Pherio, nonostante gli ultimi accadimenti. Ma Idrio non ti rimane comunque indifferente. Idrio non verrà con te in Grecia, né tu ti avvicinerai a lui. Questa è la mia richiesta."
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Sulla terra verde, che germogliava pur senza l'aratro, quando il mondo era stato troppo giovane ancora per conoscere lutto e perdita, il sangue del più bello e virtuoso dei mortali s'era sparso, schizzando e posandosi sulle foglie come rugiada, rendendo carmini i gigli, disegnando scie lunghe sui petali fioriti, come se fossero stati i fiori a piangere sangue, come se sangue fosse piovuto dal cielo disperato. Il sangue che aveva tenute vive le membra d'un nobile cacciatore amato da Afrodite ed odiato da Ares, da lui strappato alla luce del giorno e al respiro della vita: Adone.
Splendido Adone, meraviglioso a tal punto che la stessa dea dell'amore di lui s'era invaghita, e Ares per questo l'aveva odiato. .
No.
La storia non fu veramente questa: fu la cecità degli dei, eccetto Eros stesso che in petto aveva serbato la verità, a credere che la gelosia per la bella Afrodite, traditrice costante, fosse stato il vero ed autentico motivo a condurre Ares, in quella giornata luminosa di primavera, a mutarsi in un animale selvatico, in un cinghiale, ed adescare il cacciatore, trasformandolo in preda.
Nella notte dei tempi Ares uccise Adone per la gelosia che gli rodeva il costato, le vene e l'anima, per una gelosia pura, atroce, densa come quella che solo gli dei sanno sopportare, profonda come solo quella che gli uomini sanno suscitare. Il desiderio che non veniva appagato, la negazione radicale di un solo sguardo, le parole mute, i gesti velati: c'erano pensieri avvinghiati su se stessi nelle notti scure e solitarie come covi di serpi nere che mordevano le viscere. E c'era la cecità di quegli occhi belli, che si posavano sul dio e non riuscivano ad intuire che quel dardeggiare di sguardi accesi di fiamma e sangue non erano per odio o vendetta.
Adone, felice, cacciava nelle foreste profonde, lontano dall'amante tradito della dea, preoccupato ma senza vero timore. Ares, era vero, era appellato, anche nell'età dell'oro, dio crudele e sanguinario e sanguigno, pronto a spaccar la testa d'un uomo per un nonnulla, ma egli, Adone, di che crimine mai s'era macchiato? Afrodite l'aveva scelto come trastullo di qualche notte ed entrambi sapevano che, tra lei dea e lui mortale, non avrebbe potuto esserci null'altro che quello: trastullo, gioco breve e per quello prezioso e dolce. Con quanti altri mortali la splendida Artemide era giaciuta, e giaceva, suscitando forse la gelosia del suo divino amante ma senza dover preoccuparsi di chissà che scomposta reazione da lui?
Adone cacciava cervi dalle ampie corne sui monti verdi della nativa Grecia e sorrideva al sole che gli stancava le membra e lasciava che la muta di cani si addentrasse nella fitta boscaglia, rimanendo egli indietro. Il gorgogliare della fonte l'aveva chiamato, attraendolo a sé e lui aveva accettato l'invito di buon grado, abbandonando la lancia sull'erba, facendosi scivolare la spada dalla vita, gettando i sandali di lato.
La caccia, il sole, il sudore.. sorrideva il giovane mortale, più bello diqualunque dio Ares avesse mai visto, così aitante e così sfuggente, come neppure una ninfa delle acque sapeva essere. Per Adone vedere Ares e ritrarsi era tutt'uno, sempre, chinare il capo, arretrare, timoroso, disgustato volgeva il capo dall'altra parte, con un'alterigia arrogante che solo i mortali osavano mostrare al dio del sangue e delle battaglie.
E se su quelle labbra lui avrebbe voluto morire, se quel corpo voleva fosse suo, l'impossibilità di avvicinarglisi senza suscitare un qualche segno di rifiuto gli era impossibile, e allora c'era posto solo per la gelosia, ormai, e l'odio e il desiderio non soddisfatto divennero fiele che offuscava la vista e mordeva gli arti. E se non poteva, Ares potente, stringere quelle membra nel piacere l'avrebbe fatto nella morte, e la morte improvvisa e dolorosa cadde su Adone, e gli occhi furono, per una volta almeno negli occhi, il suo corpo mortale fra le braccia del dio, e le sue labbra, belle e dolci sussurrarono, infine, il suo nome.
"Ares.."
Aveva detto, Adone, nella notte dei tempi, e il cielo era esploso di dolore in un'alba sanguinante. E l'oscurità senza fine l'aveva colto.
Idrio aprì lentamente gli occhi, serrato a metà tra l'universo degli dei e quello umano, galleggiando sospeso nell'etere del limbo. Si chiese se era quello che i semidei riuscivano a scorgere tra le pieghe della vita d'ogni giorno: la luce che rischiara, un terzo occhio evanescente che attraverso gli altri due riesce a scrutare e scova, ritrova, le verità seppellite sotto terra d'argento.
Affondò una mano nella sabbia dopo aver scostato i cuscini e i tappeti, quella terra soffice e compatta come le onde del mare cristallino, e poi fece navigare i polpastrelli lungo le pieghe setate del giaciglio di Dionide, raccogliendo le tracce invisibili e chiare del suo calore, sorridendo e spostandosi lì, affondando il volto tra i guanciali. Il vaso di Pandora era stato aperto, e mille stelle ratte ne erano fuoriuscite, illuminando dall'alto i sentieri più nascosti alla sua limitata vista mortale. Ares e Adone.
Quando dovevano aver sofferto? E nessuno dei due aveva compreso quel che li univa, e li legava. Forse semplicemente non avrebbero tollerato la verità; non *potevano* sopportare quel che era, quel che scintillava puro e candido, perchè in loro non era mai albergato quel candore, una simile purezza.. Non era nella loro natura, nè avrebbero potuto vivere il sentimento che li legava. Il destino era un laccio molto più forte e saldo, e solo Ares aveva voluto spezzarlo, con una falciata di scure, distruggendolo pur di non dover più soffrirne. Era un dio, poteva permetterselo, sebbene il prezzo fosse stata la vita umana, e la sua eterna dannazione: un pellegrinaggio attraverso gli anni, di corpo maledetto in corpo.
Quanto doveva aver sofferto il fulgente Pherio?
Simile al metallo egli era, di ferro risplendente, così freddo e così penetrante. Anche la pietra sembra gelida, e sembra scaldarsi solo quando le mani di qualcuno la toccano e sfiorano a lungo, però. . Non è così: la pietra ha il suo respiro, la sua vita, ed è talmente sottile che risulta quasi impossibile ad occhi freddi riuscire a coglierla.
Idrio s'alzò, seguendo i propri tempi, arricciando le labbra, coprendosi le membra con un lenzuolo di seta azzurra. Cercò il catino che conteneva l'acqua e con essa purificò il volto, lasciando che dalla bocca e dal naso scivolassero via le gocce fresche. Le mani appoggiate attraverso il manto chiaro lungo i bordi dorati tremavano un poco, sotto i colpi della debolezza. Ma già si sentiva meglio, sentiva di star riprendendosi e, sebbene gli orizzonti del suo sguardo non più godevano d'una aurora schietta e tagliente, adesso il sole splendeva alto, rischiarando anche quel che al momento non riusciva a scorgere.
Guardò il proprio riflesso turbato e tremolante per le onde concentriche che si facevano sempre più rade, e ad esso sorrise, infrangendolo con la mano e andandosi a vestire per il giorno veniente: delle affascinanti fanciulle avevano bisogno del suo aiuto nella tessitura...
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