D'ODIO. DI AMORE.

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CAP: 28/?

AUTORI: Dhely&Kalahari (con soluzione di continuità!)

SERIE: original

PAIRING: PirecrateXPherio, Dionide+Idrio, Pirecrate+Astre

RATING: NC-17. Sesso (non troppo non-consensuale.. insomma ..bhè, fate un po' voi, è una cosa complessa!), angst

NOTE: le solite!

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Incredibile e enigmatico era guardare, quando il cielo lo permetteva, le nuvole bianche che, ciuffi di sole puro e candido, innanzi al re del deserto passavano, ma ancora più impressionante era tenere gli occhi fissi a terra e vedere le ombra avanzare, l'una dietro l'altra, oscurando senza che lo sguardo riesca ad afferrare l'attimo in cui arrivano. Dionide varie volte aveva provato a bloccare con le dita e gli occhi quell'istante sottilissimo, degno davvero d'esser paragonato al pelo di tensione sul fluido, tra aria e l'acqua, ma mai v'era riuscito: non che avesse avuto molte occasioni di tentare. Era impossibile bloccarlo, semplicemente.

Sarebbe stato come afferrare la luna tra le mani, tenerla sul palmo simile ad una falena, e poi farla roteare per vederne il volto oscuro e nascosto: non si poteva. Però sul cuore pesava quell'ombra.

Se lui ed Astre avevano in comune qualcosa in assoluto, era la paura del buio. O almeno da bambini, perché poi, crescendo, in una maniera o nell'altra l'avevano affrontata e chiusa in un'ampollina, tornando a guardarla ogni tanto. O almeno lui lo faceva: di Astre non era sicuro, troppo orgoglio serviva a tenere insieme il suo più antico amante, il suo più caro amico.

Stava di fatto che Selene era solo una presenza nel cuore, una gemella sospirata, per loro: il figlio del deserto fulgente e il figlio d'un sole mortale. E forse non era propriamente paura, perché assomigliava molto ad una vertigine: curiosità del vuoto, di quel che non si vede, di quei tesori così intrinsecamente radicati all'interno di anime meravigliosamente sacre.

Pur avendo da tempo intrapreso la strada infinita dei misteri dei venti, del fuoco, dell'acqua, delle stelle, non esisteva mistero più grande dell'animo umano: tolto un velo, eccone un altro, più colorato, più intenso, o magari più doloroso, rude. Una rosa che si schiudeva all'infinito.

C'erano il Sole e la Luna, c'erano due greci e due uomini dell'Oriente incipiante.

Dionide immerse nella profonda scodella d'acqua limpida a fresca, un panno morbido, sollevando con l'altra mano il capo addormentato del suo amato, ch'era giunto alla tenda sconvolto e distrutto nell'animo, e s'era abbandonato su tappeti preziosi e cuscini senza fiato, il cuore spezzato in petto. E Dionide aveva percepito come un grido, uno strazio inimmaginabile e aveva abbandonato la riunione, suscitando l'irritazione di Astre e una sorta di ghigno di scherno da parte di Pirecrate. Ma che mai poteva importargli?

Che cosa mai poteva essere più prezioso al suo cuore di quel giovane greco a cui ora ripuliva le labbra belle ed il mento di sangue, stringendolo sempre di più al proprio petto mentre gli toglieva i vestiti nel freddo della notte, ricoprendolo nuovamente di lana e lino soffice? Poteva comprendere Astre! Quanto riusciva a comprenderlo solo lui stesso arrivava ad intuirlo! Avrebbe ucciso per quella virile Selene, così delicata, fluida, argentea, e forte, sorridente sempre con sfumature e luce diversa: avrebbe potuto togliere la vita ad un altro essere umano, sì, per possedere solo lui chi albergava nel suo cuore. Poteva uccidere in mille e un modi, per questo era stato educato a frenarsi, a ragionare, ad aspettare che la rabbia allentasse gli artigli aguzzi dal suo cuore, perché se quello che gli era stato concesso dal destino e dalla propria forza interiore era un immenso dono, continuamente doveva spezzare le proprie carni per d onarlo al mondo nella giusta maniera e misura.

Avrebbe ucciso la radice stessa dei loro mali, se non avesse rispettato la vita concessa all'uomo; egli avrebbe ucciso Pirecrate senza esitazioni, senza neppure darsi troppa pena, senza che la sua vittima s'accorgesse della cosa se non quando fosse stato troppo tardi, se solo fosse stato abbastanza sciocco ed impulsivo da non capire che egli era null'altro che uno strumento d'un essere davvero potente, che si divertiva a governare e intralciare le vite mortali. Un arco, ed Idrio la freccia. Il bersaglio: non lo conosceva, era presto per poter anche solo pensare un nome.

Poteva anche essere lui stesso il bersaglio, per aver osato opporsi alla divinità. Comunque fosse stato, nessuno aveva colpa di per sé. Neppure Pirecrate, perché egli era, come tutti loro, solo se stesso.

Ma c'era il suo amato, il suo Idrio, straziato e in fin di vita, trascinato verso l'abisso da una forza senza nome, senza che lui potesse far niente se non tenerlo fra le braccia e tentar di fargli aprir le labbra, e fargli bere quel poco di latte e liquore che gli avrebbe ridato un poco di vita alle guance ceree. C'era quel dolce amante delle notti lunghe, quella creatura di platino liquido che soleva avvolgerlo col suo amore. . Il dolore si tingeva di rabbia come un papiro rossastro schizzato d'inchiostro corvino, e le lacrime scioglievano gli arabeschi neri.

"Idrio. ."

Lo chiamò, piano, sussurrando accanto ad un orecchio, quel capo abbandonato nell'incavo della spalla, le labbra pallide. Fece scivolare una mano sul collo, con l'estrema delicatezza di chi maneggi una statua d'avorio del paese della seta, e gli sollevò la fronte, tenendola così rivolta verso di lui, sfiorando la bocca con la bocca, invocando il suo nome ancora, ancora e ancora, fino a che le lettere si persero nella dolcezza della sua voce.

Quando appena accennò a baciarlo, gli scogli si frantumarono, spaccandosi, umidi, e il verde del mare ruggì innanzi al suo sguardo sorpreso, plumbeo.

Non un suono, se non il fruscio di membra che, ignorando il tirar delle vesti sulle coperte, si staccarono, disperate, dalle sue, cadendo indietro.

"Idrio!"

Mani volarono per l'aria, supplicandolo e ordinandogli di stargli lontano; le labbra troppo chiare si muovevano, ignorando il mutismo come se le orecchie fossero state chiuse e non si fossero accorte della differenza.

Lacrime scivolarono sul volto, lacrime di occhi senza sguardo, e tanto lo spaventarono che ignorò quelle mani, buttandosi avanti, afferrandole, tenendolo giù col peso del proprio corpo, cercando di far tornare anche l'anima in quelle membra furiose e terrorizzate. Ma più Apollo corse dietro a Dafne, più le dita della ninfa sfumarono in foglie, sparendosi, meraviglioso alloro.

Petto contro petto, due cuori impazziti dal dolore e dalla paura, due costati rigidi dal troppo respiro impietrito.

Idrio gemette con un suono penoso, straziante, lungo, e di nuovo svenne, rapito via dall'oscurità, mentre Dionide gridò tanto forte che Firuzeh sussultò tutta.

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Mille petali di luce frusciavano al vento, mille macchie d'ombra sfrigolarono le un sulle altre: una dolce cortina gli schermava lo sguardo dal sole fulgente. Sospirando, Idrio si tirò su, il capo reclinato verso una spalla, stringendo le labbra, schiudendo le palpebre. Il gorgogliare d'un fiume gli arrivò limpido alle orecchie e aprì del tutto gli occhi, guardandosi intorno, restando sbigottito nuovamente da quella tiepida aria, da quell'immenso estendersi di verde, come da tempo non ne vedeva, come da tempo non era riuscito più neppure a sognare, se non pallido e sbiadito.

Prima di svegliarsi a scoprire ch'era stata l'ennesima illusione.

Passò le dita tra i fili d'erba morbidi, chiome al vento spirante, e sorrise, finalmente, e rise sdraiandovisi nuovamente sopra, rannicchiandosi nel profumo. Il cuore era leggero, forse troppo, ma non aveva importanza: stava bene, stava meravigliosamente bene. Le gambe godevano del fresco del prato, le guance erano accarezzate dalle margherite bianche e rosate, il respiro della terra lo sentiva forte come se fosse stato il petto d'un amante e l'ombra della grande chioma ben al di sopra delle sue membra l'avvolgeva in quel tepore primaverile: stordente.

Non c'erano api, non le sentiva, e neppure tra i fili brulicavano i minuscoli insettini che tra quel verde smeraldo avevano la propria vita: esisteva a riempire l'aria solo lo scorrere d'un fiume, lì così vicino che pareva esser a portata di mano. Rise, nuovamente, e sorrise sentendosi la voce uscir di gola pura, perfetta. Modulò i piccoli suoni che gli venivano in mente: imitando il cielo, il fiume, il fruscio del vento fra rami frondosi, e poi le voci dei suoi ricordi, frasi, parole, piccole sciocchezze d'ogni giorno. Si mise a schiena contro terra, spalancando lo sguardo all'immensità e alla bellezza che lo sovrastava, col respiro e col cuore traboccanti d'una strana sensazione. Come l'ambrosia dopo una corsa troppo prolungata e stremante: la sua pace, la sua serenità. Niente e nessuno l'avrebbero perturbata, adesso.

Doveva solo. . star sdraiato e non fare niente: i piedi erano pesanti, le mani sottili blocchi di marmo e il formicolio del sangue nelle vene una tenera ninna nanna, da cui lasciarsi cullare ed accarezzare.

Sì, si stava proprio bene.

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Are'heia poggiò un manto sulle spalle del fratello, porgendogli un po' di latte appena munto. La notte ancora era lunga innanzi ai piedi delle ore, ma a quel grido era subito accorso da Dionide, per prestargli il proprio appoggio: c'erano ombre scure e pesanti negli occhi di quel grande signore e il cuore piangeva nel vederlo così affranto.

"Fratre. . Disii ch'i' vada a chiamar el principe?"

"No, no: lascialo riposare."

"Posso far qualcos'altro per te?"

"Torna in tenda, e riposa."

"No."

"E' un ordine."

Lo sguardo di suo fratello minore gli penetrò lo spirito.

"Va bene, Dionide mio."

Gli diede un bacio sulla fronte, stringendolo forte al petto. Le braccia di Dionide, seduto, avvolsero quei reni velati da mille stoffe.

"Ti voglio bene, fratellino."

"Andrà tutto bene, prima o poi: la notte non è mai sola."

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Il coltello tra le dita spandeva intorno a sé la fioca luce delle candele sospese nell'aria, a seconda di come Pirecrate lo muoveva, osservandolo.

Pherio se ne stava pochi passi distante, in ginocchio, i pugni serrati sulle cosce, il volto un poco abbassato, un mantello logoro e chiaro sulle spalle, e il Dimano, seduto sui morbidi cuscini, teneva sciolti i capelli ribelli e rigogliosi e mori. Lunghe le ciocche rotondeggiavano sugli omeri, quasi volendogli sbattere in faccia, anche visibilmente, la loro differenza, l'incolmabile abisso che ora li divideva. Eppure non era una vergina Artemide che scioglie i fili rossi e lucenti per lasciarseli ammirare, ma intimando con l'arco e con le frecce nella faretra di non avvicinarsi. Nel profondo il crudele falco covava delle uova di cui non conosceva neppure la progenie. C'erano, e questo bastava. I capelli erano lì perché Pherio vi versasse le proprie lacrime.

Pirecrate così era un Ares sanguinario, pronto ad avventarsi sul collo palpitante della vittima designata ma, considerandola troppo inferiore per sé, ne sopporta l'esistenza, la vita, per disonorarla ancora e ancora. E si diverte. Ma un uomo non è un dio, e seppur nel cuore gli ribolliva la furia, la mano non s'avventava su membra che docilmente si sarebbero fatte percuotere. L'umiliava nel profondo e non era contento, perchè ai suoi insulti non echeggiava risposta, o reazione di sorta; non riusciva ad odiarlo veramente e s'odiava per questo.

Avrebbe dovuto essere avvezzo, lui, figlio di traditore, schernito, beffeggiato, messo da parte, ma mai ignorato: messo da parte perchè troppo nobile e bello, per tutta la sua vita nella città che era i suoi genitori e i suoi carcerieri insieme, ad essere tradito, questo era vero. Nonostante ciò mai si sarebbe aspettato una pugnalata simile alla schiena inferta da Pherio. Quel semidio bello e biondo, fulgente come un campo gravido di spighe sotto il solleone estivo doveva aver conosciuto sulla sua stessa pelle il significato dell'integrità e dell'importanza dell'opporsi all'ingiustizia morale. L'aveva compianto pensando alla sua solitaria, dolorosa fanciullezza, eppure ora tutto brillava sotto una nuova luce: Pherio cresciuto nell'odio aveva imparato a spargere dolore intorno a se. E forse, Pirecrate si scoprì a pensare, Pherio avesse sempre mascherato ogni cosa, che avesse sempre finto, pure con lui, pure quando . . anche se .. c ome si poteva camuffare l'espressione del volto e il tremito dolce e la morbida ombra accogliente che ne velava le iridi? Che razza di uomo era lui se riusciva a mostrare un'anima così pura e fragile e insieme, senza vergogna, portare greve nel cuore la colpevolezza di azioni così abiette e indegne?

Il silenzio tra loro sembrava come il filo di quella lama di rame che tanto abilmente roteava la sinistra del Dimano tra le dita: era in grado di tagliare il fiato nel petto, arma terribile.

Come sarebbe stato semplice affondare quel pugnale nel suo petto chiaro, per squarciargli la pelle e vedere se quella splendida creatura possedesse davvero, dentro sé, un cuore palpitante o solamente un masso sterile! Come sarebbe stato delizioso posare di nuovo le dita su quella pelle chiara.. indegno e traditore, Pherio era, ma bello da perder la ragione! Era stata la sua bellezza a camuffare il suo vero animo! E lui avrebbe dovuto odiare quell'apparenza, che ora sì, gli era insopportabile, eppur muto lo chiamava come una sirena senza voce..

"Posso andare?"

Gli occhi di Pirecrate divennero due sottili fessure scintillanti, una fiera desiderosa sangue, disgustata e la furia che bruciava alta nel cuore.

"No."

Pherio si ritrasse appena col busto all'asciuttezza di quel divieto, cercando di non mostrare quanta ansia gli metteva l'esser costretto a stare così vicino a Pirecrate, eppur non abbastanza da potersi lamentare di qualcosa apertamente col Dimano. Ma l'altro spartano non mosse neppure un muscolo, non concretizzando l'ira velata appena dietro la sillaba, come non notando il suo arretrare, il manifestare quel suo voler fuggire quando in effetti, con la mente era da tempo molto, troppo lontano.

"Piuttosto apri i drappi. Dovrebbe esserci luna piena, stanotte."

Felice a quel pensiero, incurante di altro, Pherio s'alzò, le vesti scivolando distrattamente sul corpo tornito, i muscoli perfetti a tendersi e rilasciarsi, e s'avvicinò all'ingresso della loro tenda, ripiegando la stoffa morbida in spirali e allacciandola in alto alle cordicelle rosse che servivano a tenerla, con movenze lente e raffinate Pirecrate ben seguì i movimenti di quelle mani che pur essendo così eleganti e belle, e forti, erano macchiate di crimini senza nome e per cui meritavano la punizione che aveva sentito fosse in uso dalle parti dei deserti. Un taglio netto con una sciabola lucente, e il sangue sarebbe schizzato come un onda costretta tra due scogli durante una burrasca. Il cuore sussultò come graffiato a quell'idea che improvvisamente gli parve come empia, insostenibile e terribile, e il Dimano sospirò in silenzio. Un sentimento, che non riusciva a combattere e che lo lacerava dentro, a volte lo cost ringeva a fremere. Odiava Pherio per quel che aveva fatto, per avergli mentito e per essersi comportato in maniera così ignobile con chi non era in grado di sollevare nulla in propria difesa.. Ma tutto ciò si scontrava con qualcos'altro. Emozioni forti che gli palpitavano dentro e gareggiavano su quale delle due avesse visto il tramonto vittoriosa. Solo questo sapeva: c'erano, e lo mutilavano.

Ed era incredibile pensarci, era impossibile tentar di comprendere. Perché Pherio aveva dovuto comportarsi così? Come aveva potuto errare tanto lui stesso a giudicare il Panfilo: non avrebbe potuto. . *amare* mai un animo simile eppure. . Pherio era lì, bastava che si fosse alzato e avvicinato e avrebbe potuto sfiorargli la guancia e suscitare una luce, se di ribrezzo o contentezza non importava, in quegli occhi. .

Forse Astre s'era sbagliato, forse niente di quello era vero o magari era una verità velata e distorta. .

"Pherio. ." sussurrò con voce appena udibile, e l'altro si voltò verso di lui. Pirecrate avrebbe voluto possedere braccia impietose per poterlo afferrare e stringere in maniera tale che non l'avrebbe più lasciato andare.

Folle, sì. Era folle.

"Posso andare?"

Era lì quel corpo divino, eppure negli occhi non brillava la luce dell'animo le sue belle labbra a ripetere l'unica richiesta che probabilmente gli graffiava il cuore e i muscoli con un'urgenza tale che non poteva chiudere dentro di sé. Pirecrate vide il suo non essere presente, la sua incolmabile lontananza, il suo non lasciarsi toccare anche nell'essergli accanto, vide l'abisso dietro al quale s'era nascosto, ritirandosi agli sguardi come una luna che calasse dietro i veli d'una eclisse e la furia lo prese, strinse tra le mani la lama affilata e la lanciò, nell'ira, a scivolare sull'aria gelida della notte, stridenti il rame e il ghiaccio. Pherio appena riuscì ad evitarla, e solo perché aveva intuito il movimento, scintillante nelle iridi spalancate del Panfilo, e se ne stette così, in piedi, senza più nulla da dire, nel terrore di dire qualcos'altro o di fare un altro gesto suscitando una reazione che non avrebbe mai voluto.

Il terrore.

Un terrore che affogava le proprie radici nel suo passato e che rinasceva ora, da esso, con violenza.

Sua madre, sua madre scattava così quando era presa dai tremiti divini. . sua madre. . stesa su quel giaciglio di paglia, madido del sudore di spalle ossute, gli occhi pieni di vuoto e di niente. . quegli occhi ch'erano come specchi in cui il volto d'un bambino si rifletteva piangendo, e gridando. . di smetterla.

Di smetterla!

Non riusciva a sopportarlo, questo no. Sparire, sparire avrebbe voluto, in silenzio, rapito da qualche divinità e trascinato in chissà quale prigione dorata, privato della volontà e della coscienza o obbligato a voler quel che gli dei desideravano. Ma il cuore veniva schiacciato dal peso di quegli attacchi e quegli urli, pressato fino a che non iniziava a gemere nel più assoluto silenzio e veniva ingoiato dal dolore, fatto a brandelli dall'orribile strazio e lasciato sanguinante per il giorno a venire e per altri ancora, fino a che la ferita avrebbe appena iniziato a chiudersi e allora di nuovo sua madre avrebbe urlato e guaito e folle si sarebbe lacerata le vesti richiamando il terrore e la paura e l'orrore..

Se solo Pherio fanciullo avesse conosciuto un modo per far terminare tutto quello l'avrebbe fatto. Aveva pregato tanto la dea notturna, aveva pregato e chiesto, supplicando lei e suo fratello, aveva chiamato e invocato fino a non aver più fiato in gola, fino a non aver la mente in fiamme, sconvolta quasi quanto quella di sua madre, ma mai nessuno aveva risposto, e allora si limitava a sedere a terra, al fianco della madre, i pugni stretti sui ginocchi, a fissarla terrorizzato, non abbandonando il suo fianco mai, per nessun motivo, perché lei non aveva nessuno oltre suo figlio. Lui non aveva nessuno oltre sua madre.

Il Panfilo chiuse di nuovo i pensieri, ricordi troppo lontani per avere una qualche utilità, dentro di sé, sigillandoli, e prese un minuscolo respiro e si chinò a raccogliere l'arma, tenendola tra le mani attraverso la stoffa delle propria veste, involta su se stessa, di lino tenero, e la porse di nuovo a Pirecrate, tenendo gli occhi inchiodati in terra come se il volto del Dimano fosse stato quello di Ares in persona venuto lì a compiere ciò che doveva..

Rimase così, il collo esposto, i capelli che gli ricadevano intorno al volto in attesa.

Pirecrate, furioso, pazzo, gli afferrò una mano, una di quelle mani diafane dalle dita forti ed eleganti, simili al fusto d'un salice bianco. Si portò alle labbra il polpastrello del pollice, nella maniera in cui sogliono gl'insegnanti spartani punire i fanciulli, e morse forte, fino a che non sentì il sapore del sangue sulla lingua. E, per Zeus, non l'avesse mai fatto, chè sentì sulla lingua scorrere il sapore d'un nettare colto dalle campanule dell'Olimpo. .

Sentì i muscoli tentar di sciogliersi, di liberarsi, ma non lo permise perché aveva or ora assaggiato il miele più dolce e tenero, misto al vino più aspro che mai fu sparso, e lui non l'avrebbe lasciato andare. Senza guardare gli afferrò il busto, lo tirò a sé, lo piegò sotto di sé, assaltandolo, senza dargli respiro, senza dar*si* respiro, strappandogli le vesti, sfilandosi le proprie mentre combatteva la ribellione insolente.

Tra le gambe gli s'insinuò, vincendo le cosce, bloccandogli i polsi sopra la testa. Succhiò via dal collo una goccia di quell'aroma rosso, lì caduta e sparsa sul morbido incarnato, respirando a fondo e con tutta l'anima il profumo di sabbia e fiori, impregnato, e della loro Sparta, così indelebilmente impresso. I capelli gli solleticarono il naso mentre lo affondò dietro le orecchie, schiudendo le labbra.

Il tepore di quel corpo gli infiammava le membra, lo faceva impazzire nel desiderio rovente di riscaldarle e di renderle di brace.

"Pherio. ."

Gli sfiorò una guancia e i loro occhi si incrociarono.

"Lasciami andare."

Una coppia gemella di lacrime sigillò la supplica: lacrime acri e luminose, così rare che Pirecrate non poté distogliere lo sguardo, affascinato e stregato a suo doloroso malgrado. Non riusciva a muoversi, non riusciva più a muover la lingua, ma solo a contemplare una simile bellezza: mezzo nudo, ne sentiva la pelle lungo il proprio corpo, e il respiro trattenuto in gola; vedeva le sue iridi cercar una via d'uscita, spalancate, abissali. Così diverso dal suo sguardo solito, chiaro e lucente, luminoso, senza ombre, saldo e sicuro, bello come un'alba gelida d'inverno, ora esso si mostrava fragile, terrorizzato forse come quello d'una bestia braccata, ma, per gli dei, così bello, così terribilmente bello..

Il cuore perse un colpo, e abbandonò la fronte su quella del Panfilo, muovendo i polpastrelli lungo le spalle, in una carezza affettuosa e lunga che cercava di sciogliere i muscoli troppo contratti, cancellando in parte quel terrore che non doveva, non poteva esserci .. come poteva Pherio aver paura di lui? Poteva odiarlo, poteva provare un'infinità di cose, ma paura?

La paura non era un sentimento per il Panfilo! Di lui, poi!

Quante volte avevano combattuto e Pherio l'aveva sconfitto? Quante volte era stato gettato nella polvere per colpa di quel dannato dalla pelle chiara come il latte, come la luce della luna che si infrange sulle are abbandonate? Quante volte Pherio aveva potuto piantargli una spada nel cuore e non l'aveva fatto? Non aveva mai avuto paura del Pirecrate che lo sfidava con armi in pugno, mai s'era tirato indietro, mai aveva rinunciato, sicuro e orgoglioso della propria forza, come poteva provar timore, ora?

*Perchè* aveva paura di lui, ora?

"Baciami Pherio."

Pherio tremò, una canna sfiorata dal vento, ma non si oppose, non si rifiutò cedette semplicemente, come fa la creta fra le mani dell'artigiano, senza alcun pensiero, senza alcun sentimento nel cuore essiccato dal troppo dolore fece quel che gli era stato ordinato: nulla aveva più importanza.

Il bacio era freddo, sapeva di cenere e fiele. E la paura era una bestia che gli azzannava le viscere impedendo di ritrovare in quel tocco le mani ardenti di Pirecrate che così tanto calore e passione avevano saputo risvegliare in lui. Ma ora in lui non vi era più nulla da risvegliare, tutto era troppo lontano, il suo corpo solo un guscio vuoto che rimaneva in vita perché la sua volontà lo obbligava a tener fede a un qualcosa di così antico di cui non si ricordava neppure più.

Ma tutto quello non aveva importanza. I suoi occhi, stretti per chiudere fuori qualcuno che non riconosceva, che si avventava su di lui come un assassino per strappargli il cuore con le mani, ora vedevano un altro mondo e di quell'altro mondo gioivano, come sempre, nell'assoluto abbandono della contemplazione, e solo per il fatto di essere strappati dalla consapevolezza di essere vermi striscianti nella polvere esso era una benedizione. Ma per lui era doppia benedizione: come il fiume Lete che l'avesse fatto rinascere, ora tutto era vuoto e.. e morto forse, ma l'apparenza era gradevole, era perfetta, smagliante il verde dei boschi frondosi in cui cacciare, o passeggiare, o giacere semplicemente fissare il tragitto di un sole che non feriva mai gli occhi, per poi lasciare il posto a una luna perennemente piena, che mai calava, mai scompariva, che parlava al suo cuore sempre, con parole sussurranti e lievi, cullanti, quasi come quelle di una madre che non aveva mai avuto.. o che, se aveva avuto, ora non ricordava più.

Parole silenti ed eterne. Parole in qualche modo che gli suonavano diverse nelle orecchie da quelle che sapeva. Ma era gradevole, e bello, abbandonarsi allontanarsi, chiudersi in quella realtà che era viva e palpitante, un mantello pesante che gli pesava sulle spalle, dolcemente, proteggendo e avvinghiando, l'unico modo degno per attendere ciò che doveva essere il compimento del suo destino.

Il suo corpo, perduto da qualche parte, lontano dalla sua sensibilità, cacciato in un atro abisso in cui non voleva più cadere, poteva essere senza aria da spingere nei polmoni, senza cibo ne' acqua, aperto, spezzato, infranto, ma lui non ne soffriva, lui non ne sentiva il dolore. Non c'era dolore che proveniva dalle sue membra, ma solo dalla sua anima, e ora la sua anima era in pace. E in pace Pherio giaceva e attendeva che il sole compisse il suo corpo e una nuova luna e di nuovo il sole.. e attendeva la fiera che sarebbe giunta a divorargli il cuore e che finalmente gli avrebbe concesso la vera pace.

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Dionide scosse il capo, mettendosi sui gomiti ad occhi dolorosamente mezzi aperti, guardandosi intorno. E lo sguardo cadde sulle morbide onde castane, sparse sui guanciali. Baciò un orecchio morbido del dolce amato, che nel sonno si mosse, sospirando, ritirandosi ancora di più entro le calde coperte come il micetto di pochi giorni, e poi il signore dell'oasi s'alzò, ponendosi sulle spalle un lungo mantello scuro, allacciandolo sul petto.

La notte era buia, e oscura. Le stelle se ne stavano timide e rintanate, parevano bambine che appena s'affacciavano oltre le grate delle finestre, facendo splendere gli occhi oltre i sottili spazi. Qualcosa non andava, qualcosa stava per accadere e persino l'aquila di Idrio sbucò dalle ombre, silenziosa per non destare nessun altro, posandosi sulle spalle forti avvezze a tender corde e tirar drappi in cielo.

"Aquila, tu resta col tuo amico, e veglialo: hai occhi e orecchie più acuti dei miei."

L'animale ubbidì, volando basso e penetrando tra gli alloggiamenti di Dionide, ponendo le ricurve affilate unghie sui cuscini scomposti, inflessibile statua a guardia del cuore d'un tempio sacro.

 

C'era un lungo bastone nel naos dell'oasi, in quel luogo palpitante e segreto, un bastone d'un legno mai visto dai lidi eoi a quelli esperii, simile al marmo per quant'era lucido, simile al legno di quercia, per quant'era antico, simile al buio per quant'era scuro. Dionide lo prese tra le mani, pronunciando segreti giudizi, tenendo la punta ornata delle dieci sacre sfere verso il cielo, sottile. Come gemiti lontani gli giungevano, voci di ombre vaganti per l'aria, ombre che non appartenevano al mondo dei vivi.

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Helios.

Sole lucente e perfetto.

Dardi infuocati che non ferivano ma carezzavano, suscitavano sospiri ma mai ferite, e poi si riverberavano giocando con la lunga chioma dorata, sparsa sulle spalle sottili e chiare che sfavillavano, giocando con spicchi di luce che, frusciando, penetravano la intricata e sottile cortina di rami piegati sotto foglie sottili e giovani, lucenti del salice prediletto, specchiantesi nel fiume.

Il fiume parlava con le mille sue voci e avrebbe narrato le infinite vicende mortali se qualcuno avesse voluto prestargli orecchio. Ora Pherio, però lasciava che il suo sguardo si riposasse, vagando su ciò che lo circondava, assorbendo con l'anima la pace e la tranquillità e la perfezione immobile che lì trovava e lo incantava.

Come poteva aver mai desiderato altro di diverso?

Come poteva esistere altro che lo rendesse così soddisfatto e lo facesse sentire in se stesso completo, a suo agio?

Era a casa.

Sì, perché se mai aveva avuto un posto che avesse potuto chiamare così, di certo era quello. Tranquillo, al sicuro. Nascosto da Colui che veniva e voleva strappargli tutto, ammantato di furia e forza, possanza. Odore di sangue e violenza, che voleva la sua vita, e peggio di tutto voleva infrangere ciò che sentiva dentro, ora.

Era un dio Colui che veniva a ucciderlo? E la promessa non espressa di cui lui era consapevole, intessuta a doppio filo con il suo destino, era quello che il Dio carminio voleva portare a termine? Qualcosa che Chi era più potente del Dio aveva stabilito?

Il suo proprio destino era essere assassinato da un dio crudele, anche ora che la sua vita era solo quella, immobile, di un perenne contemplare?

Che importava?

Pherio socchiuse gli occhi, i giochi di luce che sfuggivano dalle foglie lucide e scure del salice era ciò che ora gli allietava il cuore. Di questo era soddisfatto, e questo bastava.

Attendeva.

Attendeva di morire, perché quella era l'unica cosa che toccasse davvero ai mortali, ed essa non sarebbe stato poi tanto atroce se era il destino che così voleva. Era nato per morire, e per null'altro. Pherio avrebbe atteso la morte, con tranquillità estrema, e quando fosse giunta l'avrebbe accolta a braccia aperte. Coi palmi innalzati, le dita brillanti per l'aria, ricoperte di goccioline d'acqua, avrebbe forse sorriso a quella belva che, caricando, battendo con forza gli zoccoli oscuri in terra, sollevando zolle verdi, avrebbe puntato al suo cuore. E le zanne bianche gli avrebbero frantumato le ossa, facendo a brandelli il suo nocciolo palpitante. Era quello che voleva, ora.

Il primo ed unico desiderio, l'estrema e sincera invocazione che cullava dentro, la stella verso cui guardava mentre lasciava che la barca fosse condotta dalla corrente.

'Pirecrate'.

Spalancò lo sguardo di scatto: i rami, l'erba, i fiori, s'infransero e si ricomposero. Una vertigine.

Chi era quel nome pronunciato in un luogo ove parole non erano mai sparse al vento in maniera avventata? Chi l'aveva pronunciato? E perché Pherio aveva sentito dentro qualcosa rispondere a quel richiamo, come se fosse qualcuno legato a lui in qualche modo?

Qualcuno. . legato a lui?

No. Nessun legame lo stringeva. Era completamente libero. Completamente solo

Se prestava attenzione, poteva sentire dolore e pianto. Pietà lo colse, improvvisamente, anche se percepiva chiaro il sottofondo violento e sanguinario che poteva portare con sé solo qualcuno toccato dal crudele Ares. 

Disperazione: era un tremito dissonante che rendeva opaca quell'aria di cristallo e faceva fremere, dolorando, ma Pherio seguì il richiamo con passo svelto, e saldo.

Giunse ad un piccolo tempietto votivo, dedicato al semidio Orfeo, albo e circolare, nobile nelle sue sottili e svettanti colonne, che forse aveva già visitato, che probabilmente aveva già visto in qualche altra vita. . ma la memoria, lì, era un qualcosa di breve, così labile e frangibile quando la superficie del fiume. Ricordare significava tentar di catturare le lucciole nella notte, frammenti di verità e di menzogna, remoti e insignificanti. Né c'era qualcosa che poteva turbarlo più, perché non era rimasto più nulla da turbare. .

Dalla pietra piana degli architravi le sculture di animali si sporgevano in fuori, rapiti e tesi: i cervi allungavano i corni vellutati, le volpi i musi umidi, i lupi le zampe lunghe, i volatili le piume sottili e i ricci ammorbidivano gli aculei, tenendoli bassi e mesti. Tutti rivolti verso il divino cantore, sfidavano i confini del marmo e vincendoli placavano il cuore a poterlo guardare, feriti per sempre dal suono della sua cetra, avvinti nella dolcezza e in un talento incantevole.

E proprio come uno di quegli animali, Pherio era accorso al richiamo del giovane che però non stava più cantando. Nè avrebbe potuto. Or ora aveva terminato la propria triste melodia, e per le pareti rotonde scivolava ancora. Perchè nulla lì veniva ricordato, se non come spettro d'una fantasia ma niente neppur vi si creava: si attendeva. Invece quel cantore dalla voce perfetta, dal cuore ardente di passione e di miele, aveva generato nel proprio strazio note belle, che non andavano perdute ma, come corpi aerei di ninfe montane, aleggiavano e vivevano per diffondersi nella spirale eterna dello spazio, mai soffuse dal tempo che ivi non esisteva.

Quel cantore però ora se ne stava piegato, nascosto quasi dalla minuscola ombra della piccola ara, disperato, con una mano che sosteneva il busto riverso a terra, l'altra sollevata, appena e a sfiorare, la bianca superficie di marmo dov'era appoggiata un'arpa nera d'ebano lucente, ad accarezzarla piano come se i polpastrelli stessero gemendo pur di lasciarla ma non vi riescano. Delle sette corde d'argento, sei erano state spezzate e insanguinate, terribile visione, simbolo d'un atroce dolore.

Strazio.

Pherio conosceva lo strazio, ch'andava oltre il puzzo del sangue e la sensazione della violenza.

Pherio conosceva l'umiliazione che infrangeva non il corpo, ma il cuore e l'anima.

Pherio conosceva il tradimento che uccideva senza armi: germogliava in uno sguardo e frustava come la grandine. E le lacrime che non potevano venir versate altrove erano lì, in quel mondo, in cui fluivano come nell'oceano troppo vasto per venir toccato da un fiumiciattolo putrido, e i gemiti che le labbra non potevano modulare erano lì che risuonavano.

Il rifugio estremo di chi non ha più nulla a cui aggrapparsi se non una vita che sta sfuggendo dalle dita, non ha più nulla cui rivolgersi se non alla stessa stella che aveva ingannato la nave, sfracellandola sugli scogli nella tempesta più nera.

Pherio lo sapeva. Pherio conosceva quella sensazione: il dolore, la sofferenza, la vergogna, la disperazione.

Pherio si ritrovò a sorridere, accarezzando lieve quei capelli troppo corti, e il tremito che nacque in quel corpo sottile e provato fu terribile, ma gli occhi si alzarono di scatto su di lui e riconosciutolo, lo inondarono d'una morbida luce smeralda: il sole che s'infrange sul mare profondo e la luce ne vien riflessa in mille angoli e mille modi, dagli scoglie ai fondali, tanto che i branchi di pesci si riuniscono e brillano argentei sotto la superficie muovendo le pinne trasparenti.

"Pherio!"

Il ragazzo esclamò, tendendogli le mani.

I palmi erano feriti, profondi tagli sulla pelle chiara, lacerata con forza, e Pherio come se fossero stati quelli del proprio fratello li prese fra i suoi. Come conosceva il suo nome? E perché lo pronunciava? Lì mai nessuno l'aveva chiamato per nome se non . . tanto tempo prima, era solo un ricordo svanito, talmente lontano che aveva creduto fosse un sogno.

S'inginocchiò di fronte a lui, passandogli una mano sul volto sottile, asciugando le lacrime amare.

"Perché piangi?"

Sentiva chiaramente quel potere alieno su di lui, un marchio impresso a fuoco, il desiderio atroce di deturpare, strappare, manipolare una pianta innestando su un fuscello fruttifero un virgulto velenoso, malefico, ma ugualmente chiedeva con voce gentile, in quanto intuiva che, per quanto grave quel peso e assurda quella sofferenza, non era quello il problema che ora stava assillando quel piccolo Orfeo.

"Non mi lascia andare! Non mi lascia andare!"

E disperato, a malapena represse un nuovo singhiozzo, non sapendo più dove rivolgersi, o a chi, appena sfumando nei contorni delle membra, come se stesse lottando per rimanere lì. Le lacrime si mischiarono al sangue e come un marchio impresso a fuoco sulle carni iniziò a brillare rosso sul petto chiaro, violento. Il ragazzo urlò in un lungo gemito l'ardere di quell'agonia, e per questo Pherio stavolta non si scostò, spaventato. Mantenne salda la presa sulle mani e anzi le strinse ancora di più, perchè esse spasmarono sotto le sue dita.

"Idrio - disse, quel nome gli era sorto sulle labbra come per miracolo - Chi non ti lascia andare?"

Idrio strinse gli occhi scotendo il capo.

"Lui.. lui mi ama. Io lo so. - singhiozzò - E anche io.. solo che, ora. . Lui mi vuol tenere lì, ove io non posso! Questa. . questa -"

La voce inciampò in un rantolo, e il petto si contrasse ancora di più, piegandosi su se stesso, come se una lama da dentro gli stesse torcendo le carni, obbligandolo al silenzio. L'erba verde si macchiò di sangue.

____

Dionide infisse il proprio scettro tra le rocce che, come schiuma, si piegarono alla sacra sfera che ne suggellava l'estremità inferiore.

Mancavano diciassette clessidre di argento al sorgere del sole e l'ora più buia s'appressava col suo passo invisibile e silenzioso, pronta ad avvolgere senza lasciar tempo di comprendere. Tuttavia le stelle gridavano dall'alto del cielo, e la terra sospirava piano per non farsi udire nel suo aiutarlo: Dionide aveva sempre saputo che tipo d'essere umano era Pherio in realtà, ma solamente ora questa sua consapevolezza era sciolta dal velo di mistificazione che gli era stato posto innanzi allo sguardo. I fili del destino sembravano scorrere troppo velocemente sotto un pettine inflessibile e duro, spietato: i nodi s'avvicinavano, s'urtavano e a malapena lasciavano vivi quegli stessi fili che presto o tardi sarebbero stati recisi dalla violenza dello strappo.

Pherio non sarebbe sopravvissuto, non ora, che stava aiutando qualcun altro.

Dionide si rimproverò aspramente per non essersi accorto prima della verità, di essersi lasciato accecare dai propri sentimenti, dalla particolarità del suo animo che l'aveva condotto ben fuori la rotta, privandolo della sua innata saggezza. E forse Astre stesso aveva qualcosa a che fare con tutto quello: era ammaliatore il suo amato Re e purtroppo non comprendeva quanto lui stesso fosse ingannato da se stesso.

Un suono acuto fischiò nelle orecchie e il signore di Firuzeh stette immobile mentre l'aria gli strappava il mantello, cacciandolo in un angolo e mentre il pendaglio di sua madre, ambra pura e antica in cui erano inglobati pezzi d'una antica terra germogliante, che sempre portava appeso al collo, fluttuava in terra, delicatamente trainato dalle gobbette di sabbia rossa. La pietra intorno a lui singhiozzò, e lampi d'azzurro gli circondarono le membra, ruotando e incidendo sul pavimento mille segni. Adesso chiara nella mente sentì la voce di Astre, destato da quel tumulto sovrumano, e il suo maledir qualcuno o qualcosa; sentì il tono morbido e preoccupato di suo fratello giungergli alto, quasi a supplicarlo di stare attento; sentì l'insofferenza e il dolore che l'animo piano e desertico del Dimano celava: un deserto aspro e difficile, ma coi suoi tesori e con le sue meraviglie, che necessitava solo. .

Del cielo azzurro e del sole dorato.

Il deserto non poteva esistere senza la volta concava, rischiarata dai fiori dell'altro mondo ricoperti di rugiada e dalla regina candida e pura al centro, vestita di bianco e seta lucente e platino prezioso, fine la polvere tra i capelli, incoronata delle orchidee sanguigne e rosee quando stava all'orizzonte, divina maestà; il deserto non poteva stare senza il re dell'universo, sovrano della vita e della morte, presenza silenziosa e morbida, così fedele e costante che si poteva inciampare nell'errore di crederlo eternamente accanto a sé. Un disco cinto di dardi accecanti che impedivano di coglierne quel cuore immenso e palpitante d'una vita così strana e aliena da quella terrestre, ch'era impossibile coglierla ed intuirla se non quando scendeva un poco dall'alto del proprio seggio, e si rendeva di rame incandescente, dolce e romantico, nostalgico, un po' triste per la notte ventura.

Il cuore del Dimano era limpido innanzi ai suoi occhi, innalzati a uno sguardo immortale, seppur stracolmo di sentimenti in lotta tra di loro: Dionide tese le labbra quando intravide la fiamma guizzante che si muoveva verso il suo amato. Il tempo non la demoliva, né lo spazio la sfiancava: era lì, accesa su legna che ardeva senza consumarsi. Un affetto che era passione, che era amore fraterno, che era vicinanza.

Prima che l'equilibrio della sua mente, ora delicatissimo, simile ad una stalattite che se toccata da mani umane viene uccisa e non cresce più, prima che fosse scaraventato dalla forza del proprio cuore di nuovo nel proprio corpo, strappato in malo modo il legame che aveva intessuto, s'estraniò, cacciando via i sentimenti, tornando di nuovo freddo e pieno d'elettrica energia, un'ambra sfregata da mille pezze di lana, iridescente.

L'anima di Pherio non era a quel livello di coscienza: c'era solo l'ombra del suo corpo, indistinta, mentre quella di Idrio lampeggiava a tratti, schiarendosi sempre di più. Sentiva il legame che lo teneva saldo al Greco, una catena di fili di ragnatela che premevano intorno al polso e gli ricordavano in continuazione di lui e della sua presa: non lo avrebbe lasciato andare, per quanto avesse gridato, per quanto avesse potuto supplicarlo. Non così doveva morire un uomo: non era giusto, perché gli dei se non sono polvere, sono pur sempre ombre, e quindi non avevano diritti d'avanzar pretese in quel modo. Non avrebbe lasciato vincere Ares: avrebbe combattuto con tutte le armi che possedeva pur di proteggere quel che gli era caro.

Pherio, dove sei?

_____

Un lampo gli attraversò il cervello, un lampo azzurro, e Pherio dovette appoggiarsi al marmo dell'altare, mozzo nella gola il respiro e allucinante il bagliore dentro alle palpebre.

"Pherio. ."

Sussurrò appena la voce di Idrio, una mano sul petto, l'altra tesa verso di lui, sfiorandogli le dita, invitandolo a sedersi. I capelli biondi fluttuarono innanzi alla fronte che si piegava, e ricaddero come una nebulosa d'oro intorno alle membra che s'appoggiavano al muro. Tremanti le mani del giovane dalle ciocche di miele e salice sfiorarono le tempie, in un gesto che voleva cacciare il dolore.

"Non.. non è niente.."

"Oh Dionide. ."

Pherio tenne socchiusi gli occhi, sfiorandosi il capo, cercando in un lago infranto da un sasso scagliato da lontano, quel che gli serviva. E all'improvviso ebbe paura, paura che sotto alle dita il mare si sarebbe spalancato, ritraendosi al suo tocco, lasciandolo senza più nulla da contemplare mentre attendeva. .

Spalancò le palpebre nel sentire che l'altro, coprendosi più che poté il segno di Ares, gli aveva sfiorato la nuca e gliel'aveva fatta poggiare su una spalla, cullandolo in silenzio, canticchiando parole remote, che neppure lui riusciva a decifrare, ma che spiegavano sotto le membra un oceano di meraviglie incontrastabili, innominabili, che lo quietavano ed esaudivano la promessa speranza di beatitudine.

Sola, al centro di quel mondo sottile ed incantevole, una rosa nera che stillava polline avvelenato, contaminando quelle che le erano vicine, generando altri fiori che ben presto avrebbero preso il posto del candore e la dolcezza, violenti e infami.

Il Dio avrebbe ben presto avvinghiato quel cuore gentile e lo avrebbe tormentato fino a che non l'avesse visto spezzarsi nella lotta, e nella ribellione, e cedere e crollare sulle ginocchia. C'era del guerriero in Idrio, un lottatore che non cedeva la terra amata se non perchè qualcuno lo cacciava indietro, un combattente che avrebbe preferito la morte piuttosto che vedersi umiliato in quella maniera, piuttosto che causare del male a chi gli aveva fatto del bene.

Nel petto guizzò una scintilla, uno strano calore, mentre quella giovane anima gli carezzava teneramente le guance, invocando nomi d'un oscuro passato ma suscitando sentimenti più che vivi, più che attuali, che sfrondavano la perfezione di quel luogo a lui sacro e caro più di ogni altro Ricordava vagamente la polvere del frantumo d'un marmo altrettanto caro, della passione travolgente che gli aveva fatto anelare il ridere, la tenerezza e. . l'amore.

Piano, appena, a quella benedetta bonaccia, sentì i flutti del cuore rispondere, gonfiarsi e caricarsi, pronti per gettarsi sulla spiaggia, spumando. Ma prima c'erano quelle mani da guarire, c'era quello spirito altrettanto sacro da riportare in purezza, e non era solo dovere, né pietà, né il solo destino che segnava la vita poteva avere una simile forza, per quel che lo spingeva: c'era una sorta di gratitudine, di cui ancora non comprendeva la causa, di cui ancora non *poteva* comprenderne la matrice, che di nuovo gli faceva dono del respiro, che, labbra sulle labbra, infondeva l'alito di vita. Se l'avrebbe accettato davvero, se il suo cuore sarebbe stato portato a un simile grado di follia (che Artemide con lui fosse paziente, che stesse dalla sua parte e lo proteggesse!), questo era un altro discorso: glielo offriva, senza pretendere nulla in cambio, senza neanche accorgersene.

E questo era più che sufficiente.

Abbassò gli occhi chiari sul segno osceno e lucente che, cuore di bestia, palpitava attraverso la stoffa sottile; sciolse le mani di Idrio dalle sue e posò le dita sul suo petto, scansando l'abito.

"Non posso far nulla con colui che ti tiene legato a se con catene d'amore, con. . Dionide -sospirò- Ma posso fare questo, se vuoi: posso sciogliere questo legame, posso farti tornare libero, com'eri."

Idrio abbassò il capo verso l'impronta della mano di Ares che spiccava impressa sulla sua carne e che stillava veleno direttamente dal cuore e tremò. Le dita sottili e chiare di Pherio erano così fragili a paragone delle mani che ricordava bene aver avuto addosso, e quel potere, poi . .

"Non v'è nessuno che possa far quello che tu mi stai promettendo, me l'ha detto Dionide. ."

"Lascia che i medici medichino ciò che è di loro competenza. Io non sono un medico. Vuoi che sciolga il nodo che ti tiene legato ad Ares crudele? Questo non ti ridarà indietro la voce, perché, t'ho detto, non sono un medico. Ma sarai libero dal sangue."

Se c'era qualcosa che nitidamente ricordava, che bastava un nonnulla per rievocare innanzi allo sguardo, quello era il cielo d'una valle piana, costeggiata da rocce, splendente: una stella cadente lo attraversava di traverso, indicando un punto che non avrebbe voluto raggiungere; e il mare che costeggiava lidi rocciosi e bianchi, polvere di alabastro, gli cullava spesso l'animo con una profondità che non era del fiume fresco. Ma gli occhi che lo fissarono non evocarono nulla: glielo posero innanzi, come se, conchiglie, avessero trattenuti il pelago tremolante e ora lo lasciassero fiorire di gioia.

"Volerlo lo voglio, ma. . se io torno e non funziona, non sono sicuro di riuscire a poter tornare. . qui."

"Non chiedo fiducia, Idrio, perché so quanto essa è preziosa e difficile da conquistare. Dammi solo il permesso di dimostrarti che io merito in parte la tua fiducia. Lasciami fare ciò che *so* fare e non temere."

Ed era vero, Pherio sapeva dentro di sé cosa andava fatto. Di fronte al muto, silente annuire di Idrio si trovò a muover le dita lentamente, seguendo un tracciato che brillava di fronte al suo sguardo, come una tessitrice che sciogliesse il proprio lavoro, il filo intessuto nella carne, insieme al destino di Idrio s'allentò piano, seguendo i punti esatti, tirando e sollevando, infilando e tagliando, rammendando con pazienza i piccoli strappi, disgiungendo Idrio da Ares, come fili rossi gli rimanevano inerti fra le dita, scintillanti odio e rabbia, ma fissi, per ora.

Quando staccò le dita, il tessuto era ancora intatto. La carne richiusa, l'anima risanata.

Idrio sollevò gli occhi, stupito ma felice, come se la speranza fosse stata così forte da oltrepassare lo scetticismo ma nell'animo fosse rimasta l'ombra del dubbio.

"Come hai fatto?!"

"Non lo so. - sorrise appena- Ma ora puoi scegliere. E .. - la sua voce divenne appena un pò più triste- e se in parte ho guadagnato la tua fiducia, Idrio, non tornare più qui. Non sei fatto per questo, tu. Puoi vivere fuori, vivi, e ridi e . . e canta, Idrio. Mi sarebbe piaciuto udirti cantare, Idrio"

"Tu hai salvato non la mia vita, che è poca cosa anche ai miei occhi, ma la mia anima. - si sporse verso di lui, sfiorandogli una spalla- Canterò per te se è solo questo che posso fare..."

Il sorriso che ebbe in cambio da Pherio era come una nuvola che velasse la luna.

"La cetra qui è rotta. Ora vai, Idrio. Ogni attimo che passi qui, è un attimo che perdi della tua vita, ed essa è così preziosa.."

"Ma . . vieni con me, almeno!"

Pherio si rabbuiò, scotendo il capo con forza.

"Questo è il mio posto, Idrio. Vai via!"

Idrio si mise in piedi, mesto, guardando la cetra insanguinata e spezzata, e i fili rossi che pendevano, come ancora animati, dalle dita lunghe e sottili di Pherio e sentì qualcosa stringergli il cuore, paura e preoccupazione insieme, un orrido pensiero che con zampette di ragno gli scivolò nella mente, non lasciando dietro di sé che sensazioni troppo impalpabili per essere dette.

"Tornerò a cantare per te. Ti prego, permettimi almeno questo."

In risposta ebbe uno sguardo vuoto e un respiro stanco, affranto, come quello di un uomo che tanto avesse faticato, lavorato, corso, che tanto si fosse preoccupato e avesse sofferto che ora si impegnasse a non crollare a terra esausto.

"Vai, ché qualcuno ti sta attendendo con ansia."

Sofferenza.

Idrio non riuscì a trattenere le lacrime e gli si gettò tra le braccia, cingendo le spalle, nel tentativo di trasmettergli un po' di calore anche se i loro non erano corpi veri, ma solo illusioni di corpi, che lui stava iniziando, oltretutto, a percepire in maniera sempre più sfocata, mentre l'orizzonte e gli alberi più lontani si stavano mescendo come i flutti e il gorgoglio del fiume.

A metà tra quel limbo, quel luogo che non esisteva, e la vita, il ragazzo sentì distintamente le sensazioni del corpo di Pherio come se fosse stato il proprio: i piedi freddi, membra roventi vicine, un cuore che batteva preda d'un incubo appena palpabile, un dolore alla base dei reni e. . le labbra palpitanti. C'era qualcosa nelle labbra di terribile, una sofferenza che sovrastava su tutto il resto e che s'incarnava in quella bocca soave e troppo. . tesa. Rigida.

Tutto quel ch'è duro, si spezza perché è morto, ed Idrio fu pervaso dal terrore e dal presentimento che avrebbero dovuto albergare in Pherio, e che invece abbracciavano lui, come supplicandolo di far qualcosa perché nelle orecchie dello Spartano non trovavano delle docili amiche, ma solo delle dure oppositrici e dinniegatrici.

Idrio posò la propria bocca, piano piano, su quella di Pherio, tremando, lasciando che egli, da solo, accettasse la dolcezza e la tenerezza, perché se qualcuno avesse spinto ancora su quella povera anima, la solitudine in essa e la fuga si sarebbero fatte profonde come una spina che si tenti di strappare, sottile e sottopelle, con le unghie: sempre più giù, sempre più in profondità, fino al punto in cui nessuno avrebbe più potuto far nulla.

Schiuse le labbra, appena, muovendole su quel freddo marmo che se non reagiva mostrava segno di testardaggine e difficoltà quanto almeno di bisogno, e senza muoversi bruscamente diede termine a quel bacio, dandogliene un altro sulla guancia, affettuoso e svanendo dalla vista, promettendogli che sarebbe tornato.

Sulle dita di Pherio pendevano le viscide spire di Ares, che più le guardava più si scurivano: in parte morivano e si seccavano, in parte gli si attaccavano allo spirito per quel che bastava per causargli del fastidio.

Forse sarebbero state la guida al Dio, che finalmente l'aveva trovato e sarebbe venuto.

Tuttavia ora non si sentiva più così sicuro, così *al* sicuro come prima, lì dove attendeva la propria morte.

Una sottile spirale gli avvinghiava il cuore, e sperò che quel giovane Orfeo non fosse tornato, e il suo tempio si spaccasse in mille pezzi, cosicché sarebbe stato libero e di nuovo felice: una volta legatosi a quel mondo, una volta che si giungeva lì, difficilmente si riusciva a tornare indietro.

Idrio tornava alla vita, perché non era lì che voleva stare.

'E tu, tu, Pherio. . dove vuoi stare veramente?'

Si sentì terribilmente, solo, e per un attimo ebbe voglia di piangere.

___

Pirecrate si sollevò dai cuscini, destatosi appena da un sogno che gli aveva gravato sul cuore e sui muscoli col peso d'una pantera.

Al primo spalancare d'occhi, lo sguardo fu per la figura prona che gli giaceva al fianco. Allungò la mano scura, tremante appena e ne scoprì la pelle fredda: Pherio giaceva immobile, non un suono dalle sua labbra se non il respiro regolare d'un sonno abissale.

Aveva visto i capelli che un tempo, alteri ed orgogliosi, serpeggiavano intorno alle spalle come cobra indiani, intrecciati di ànemon e d'anèmones: di vento furente e sferzante, e d'anemoni rossi, turgidi del sangue fiorito ai piedi del tempio d'Artemide a Sparta. Aveva visto quei polsi avvinghiati ad arabeschi oscuri da lunghe e convesse foglie di edera selvaggia, e gli occhi gelidi fissarlo senza emozioni. Se avesse tenuto una spada in mano invece che fissarlo e penetrarlo con quello sguardo paralizzante, se tra le dita avesse tenuto l'elsa e non delle ciocche morbide e lucenti dei suoi capelli, Pirecrate era convinto che Pherio avrebbe infierito, infilando la lama pollice dopo pollice nel costato, senza mutare minimamente espressione.

Il desiderio l'aveva colpito con la forza d'un tuono, sebbene la freddezza era quella d'un Pherio guerriero e non d'una creatura che spaccava le membra del mondo e di esse ne faceva guanciali per le proprie notti di fuoco.

Il fiore della loro giovinezza che esplodeva e loro che ne succhiavano il nettare.

Gli occhi di Pirecrate si velarono di furia, rabbia e disgusto. Si sollevò in piedi, strappandosi di dosso i lini morbidi che li avevano avvolti, appressandosi all'acqua per bagnarsi il volto e le mani.

Come aveva potuto?! Che fuoco gli aveva bruciato la mente e il costato, le viscere per posar di nuovo le mani su quel corpo infame? Perché con Pherio accanto non riusciva a frenare i suoi istinti e il desiderio diveniva così assurdo e graffiante da non potersi dire? E perché ..si guardò le mani, pulite, ma ancora ricordava bene il sangue a ricoprirle e le urla di un corpo sottile che non era quello di Pherio, che, a sentir Astre non doveva neppure essere reale.. eppure Pirecrate ricordava la sensazione della notte passata, ciò che aveva provato nel tener stretto di nuovo a sè quel corpo chiaro, e sapeva il desiderio oscuro risorto dentro di lui, la volontà assurda di affondare i denti in quel collo bianco e bere il suo sangue, strappargli il cuore o almeno un gemito, e sentiva ancora dentro la rabbia che l'aveva colto nel non riuscire a far uscire dalla scogliera che erano quelle labbra belle null'altro che respiri, e lo sguardo vuoto, vuoto anche della paura. . solo il nulla in quegli occhi.

E Pirecrate era impazzito di furia e ira, per quello.

E ora neppure il rimorso riusciva a provare, ma qualcosa di molto più profondo, qualcosa di terribile a cui non voleva dar voce, altrimenti l'avrebbe ucciso.

Prese una stoffa morbida, inzuppandola d'acqua pura e poi s'inginocchiò accanto a Pherio, immobile, ancora. Scostò i lini che l'avvolgevano, con delicatezza e per un attimo dovette chiudere gli occhi: troppo bello anche così quel corpo. La perfezione che era lasciava senza fiato anche se ora era davvero come una statua, ma egli era una statua che solo un dio poteva aver plasmato, tante cose gli suscitava in cuore la sua sola vista, e il dolore, la pietà, e poi i ricordi, il suo infame comportamento con Idrio e tutto quello che gli si rovesciava addosso ogni volta, ogni singola volta che sollevava lo sguardo su di lui.

E il desiderio ..dei, il desiderio. Atra fera, senza onore, orrida, disgustosa, che gli faceva a brandelli le viscere sempre, che non sapeva combattere, che non riusciva ad arginare, non con Pherio, che non riusciva a impedirle di mettergli le mani addosso, e la pelle sotto le sue dita era una scossa che non poteva sopportare, che gli faceva rinascer dentro ricordi e pensieri e .. Pirecrate scosse il capo, con rabbia. Strinse i denti e gli pulì il sangue secco dalle cosce bianche, mordendosi le labbra dalla vergogna.

Cosa gli stava capitando? Era uno schiavo, era un indegno, doveva odiarlo, non provar tenerezza per lui. Non doveva provare nulla di ciò che sentiva dentro per Pherio. Era un infame traditore, un maledetto, un . .

Con le dita gli sfiorò una spalla, e delicatamente lo fece voltare cercando di cingergli addosso gli abiti che lui stesso aveva fatto a brandelli, ma Pherio giaceva così irraggiungibile che dovette levargli le mani di dosso, rimanendo a fissarlo come se fossero state due bambole poste lì da una volontà che le schiacciava. Sentiva un assurdo dolore sordo, dentro, così profondo che risuonando rimbalzave per i corridoi della sua anima, amplificandosi ogni momento che passava: si sentiva male.

Lui e Pherio: che s'odiassero o. . s'amassero, questo non cambiava che non c'era forza che poteva tenerli lontani e separati.

. . Perché non si svegliava? Non era da lui avere un sonno così pesante! Gli sfiorò la fronte coi polpastrelli e sentì solo freddo, la pelle morbida era deliziosa e liscia ma il tepore era svanito, come un deserto che di notte non sa trattenere il caldo torrido del giorno e diventa una fiera dagli aguzzi canini ghiacciati.

Posò le labbra sulle labbra appena schiuse, il suo fiato tiepido era regolare ma lento, un fanciullo che dormisse nel cuore della notte.

Gli strinse addosso i lini e le coperte di lana, cingendogli le spalle, stendendosi al suo fianco, tenendolo fra le braccia, cercando di trasmettergli calore, terrorizzato da quel silenzio e da quell'immobilità che non era umana, che gi feriva il cuore in maniera assurda.

Non sapeva che fare, cosa pensare, cosa fosse giusto provare. Per Pherio e per se stesso. Eppure le sue braccia a cingere quel corpo era come se abbracciassero una parte di sé, c'era qualcosa di giusto e profondo in quello starsi accanto, c'era un sentimento profondo che gli fioriva entro, e se pensava ad Idrio si sentiva lacerato in due, in maniera terribile, eppure non poteva non provare quel che provava per l'ateniese, così come non riusciva a liberarsi di ciò che gli avvinghiava il cuore di fronte a Pherio.

Infame e traditore, sì, ma il suo cuore lo era altrettanto, pareva, e lui..

Astre morse coi denti aguzzi la mela verde che teneva tra le mani, osservando Pirecrate chinato sulle membra immote di Pherio. Quando il Dimano s'accorse della sua presenza gli sorrise, pallido, sollevandosi dai cuscini morbidi e soffici per andargli incontro.

"Pherio. . sta male."

Annunciò, con un filo di voce, guardandolo come se in lui fosse riposta una speranza che poteva solo sperare ed intuire, che ancora doveva scoprire ma che poteva esserci effettivamente: Astre era un medico, no? Sapeva tante cose, molte più di quanto lui avrebbe potuto apprendere, se avesse voluto a fosse riuscito, in tutta la vita che gli rimaneva. Il Persiano lanciò l'occhiata all'uomo supino, scrollando le spalle.

"Non sta male."

Il Dimano guardò lui, negli occhi, e poi Pherio, di nuovo lui e di nuovo Pherio, sospirando. Astre gli passò un braccio intorno alle spalle, baciandogli la tempia e la guancia, sibilando nella gola quando sentì un noto profumo sulla pelle.

"Non so che fare. ."

"Devi stare tranquillo: Pherio s'è trovato in situazioni peggiori, e se l'è sempre cavata."

"Ma tu non puoi fare niente?"

Non era tanto il tono di voce, quanto la preoccupazione e l'ansia celate nelle parole, automaticamente velate da un orgoglio che si mostrava appena, ad irritarlo profondamente: Astre vedeva Pirecrate piegarsi ai propri sentimenti, e si sentiva ardere da un odio senza nome, da una collera in grado d'abbattere le scogliere della costa troiana, se solo fosse riuscita a trovare un canale.

Sorrise allora, freddo, sfiorando con la bocca le labbra di Pirecrate, indicandogli l'uscita col capo.

"Lo visiterò, così starai più tranquillo."

Lo Spartano gli scoccò un'occhiata riconoscente, stringendolo un po' di più tra le braccia, e sparì oltre i drappi.

Astre incrociò le braccia: un raggio di sole penetrava dal soffitto aereo e illuminava la pelle diafana di Pherio, rendendola simile a tanti spicchi e gemme di luna, irradiando di calore quelle labbra che, per tutti gli dei, avrebbero sedotto i marmi del Partenone. Le Cariatidi si sarebbero sfilate dalla loro loggetta, lasciando crollare il tetto che, sulle loro teste di fanciulle, s'appoggiava. Si inginocchiò accanto a lui, sfiorandogli la bocca coi polpastrelli.

"Se solo tu fossi stato più intelligente, Spartano: avrei potuto darti. . tutto. Ma adesso che sono io ad avere le pedine tra le mani, fuggi! - gli si accostò all'orecchio, infilando una mano sotto la veste, sul petto, sfiorando un capezzolo con le unghie- Non c'è luogo dove io non ti troverò, non ci sarà respiro, per te: ovunque."

Il profumo di quel maledetto lo stava intossicando e il suo corpo stava iniziando a gridare: si scostò, serrando le mascelle, graffiando. Non un cenno di dolore, neanche il respiro era mutato nel petto: il sonno che lo avvolgeva lo stava proteggendo in una maniera assurda, blasfema. Era una sfida alla sua potenza, un affronto aperto, un modo per tenere Pirecrate legato a sé.

E il Dimano cadeva in quei tranelli da vergine vestale, credeva alle moine di quell'ipocrita che non gli lasciava via di replica, ma soltanto un terribile struggimento interiore. Pirecrate era troppo buono, era molto più tenero di quanto lui stesso avesse previsto, se si lasciava sedurre a quella maniera dall'infame Panfilo.

Ma non avrebbe vinto, Pherio, perché a costo di minacciare Dionide avrebbe fatto salire Idrio sui cavalli per Persepoli, e Pirecrate sarebbe venuto con oro, e a Dionide avrebbe strappato il suo schiavo se questo era il nodo per allacciare il Dimano a sé, e avrebbe tagliato i tendini alle gambe di quell'Ateniese in modo da tenerlo lì, a completa disposizione dei capricci del suo futuro gran generale! Gli avrebbe ridato la voce, a costo di tirar giù i segreti più remoti della medicina, se a Pirecrate fosse piaciuto così!

Dionide sarebbe stato privato d'un fardello inutile e pesante, libero nuovamente di passar le notti con gli amanti che più gradiva. Ah che tempi quelli in cui il signore dell'oasi veniva a trovarlo nella sua reggia sconfinata! In cui s'erano abbandonati ai piaceri più sfinenti e al sesso più sfrenato, sotto una luna immensa e profonda, scovati dall'alba ancora pieni d'umori e dalle gambe indolenzite e languide. Dionide placava ogni sete con una carezza, suscitava un desiderio con una frase dalle innocenti parvenze, ma così ricca e piena di allusioni che era impossibile non piegareil capo in quel collo e lasciarsi trasportare via.

Poi era venuto il tempo del suo ritiro in Grecia. Dionide era stato il suo unico rammarico, l'unico oggetto della sua nostalgia. E poi c'era stato Pherio: l'aveva impresso innanzi agli occhi la prima volta che incrociarono lo sguardo, come dimenticarla. E adesso Pherio era lì, remoto e lontano, intoccabile, corti quei fili d'oro ma sempre belli, sempre sensuali nel loro ricadere intorno alle tempie.

Era inutile negarlo: lo desiderava più di quanto desiderasse Pirecrate e Dionide insieme.

Dentro gli scoppiò come una vena e si portò una mano al petto, cercando di reprimere il dolore, stringendo le labbra. Ma non chiuse gli occhi, guardandolo fisso in volto, cercando di combattere il caos immenso che gli era esploso dentro, che spingeva contro le pareti del sul cuore per trovare uno sfogo, che invocava le lacrime sotto le palpebre affinché si lenisse quel poco che bastava per non farlo singhiozzare e collassare.

Ora che era non più in Grecia, ora che lui era libero e Pherio era schiavo, le cose erano cambiate, ma i sentimenti erano gli stessi. E non poteva cambiarli: solo negarli, imbavagliarli. Per essi non c'era spazio, come non ce n'era mai stato: poteva avere tutto, poteva volere tutto, ma sentire.. no. C'erano cose che non andavano sentite.

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