D'ODIO D'AMORE

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CAP: 27/?

SERIE: original

AUTORI: Dhely & Kalahari (in stretto ordine alfabetico)

PAIRING: Pirecrate+Pherio (questo ragazzo ora ha una nuova ossessione e va assecondata! ^^), Idrio+Dionide (direi che si può, a questo punto, osare scriverlo nero su bianco,no?!)

RATING: angst, una gran quantità di angst...

NOTE: non credo ci sia qualcosa che non vi abbiamo già fatto notare nei cap precedenti!!

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Il fuoco si consumava basso, quasi spento: soltanto un grumo incandescente di braci, mentre qualche solitaria lingua guizzante ancora stava danzando la sua vita contro il cielo. Era da ore che lo osservava, quel misero fuoco acceso per chissà che motivo all'aperto, in un braciere di rame, e poi abbandonato lì, in un angolo, tra la sabbia che non poteva diventare ancora verde d'erba esposta com'era la vento asciutto e inclemente del deserto.

Le ombre s'erano allungate per ore, e per ore Pherio non aveva distolto lo sguardo. Poi il cielo era diventato scuro e s'era riempito di stelle, e la luna era solo una pallida unghia giù a sud, ma Pherio non aveva mai alzato il capo: non poteva saperlo.

Non aveva nulla da guardare.

Egoista, era stato appellato. Egoista. Per una vita aveva pensato solo a se stesso. Al suo onore. Era vero? Sì lo era. Tutto era sempre venuto dopo il suo onore, ogni cosa, anche la sua propria salvezza. Era quello essere egoisti? Se sì, lo era, se no. . non sapeva, non sapeva neppure lui. Ma non era vero che il suo cuore non aveva mai sofferto per altri che per se stesso, quello non era vero!

Non era vero!

Sentiva il suo cuore ricordare attimi di dolore estremo, ma la sua mente non voleva ripercorrere quella via.. e così si limitò a lasciare che la sofferenza gli fiorisse dentro e poi morisse da sola, senza una voce con la quale trovare consistenza.

Era così che doveva essere: morire in silenzio.

Come sua madre era morta. Chiudendo gli occhi al mondo, e le labbra, la mente lontana a contemplare altro. In silenzio lasciare che il tempo e la vita scorresse fuori di lei, lasciando che tutto fluisse, che il destino facesse il suo corso, che il suo guscio vuoto finalmente rimanesse immobile, a godersi un riposo che aveva pagato con una vita orribile.

Il destino, solitamente tortuoso e ingarbugliato ora si snodava elegante, piano e sinuoso sotto i suoi piedi.

Ma come al tempio di Athena era stato un segno, la lama spezzata del pugnale, a trattenerlo dal donare la sua vita, ora un altro legame lo impediva a compiere ciò che credeva fosse giusto: era uno Spartiato disonorato. E per le leggi lui non avrebbe potuto prendere in mano un arma, e per assurdo, aveva solo quelle vuote leggi a cui aggrapparsi per rimanere in parte a galla. Se si fosse ucciso infrangendo pure la legge, sarebbe stato peggio che morire mille e mille volte, e poi dentro di sé voleva ritornare nella sua polis, a spiegare ciò che era successo, perché lui mai, mai aveva tradito! Mai!

Ma il dolore premeva forte, dentro.

Il tradimento.

Il tradimento, la risposta della dea dagli occhi cerulei al suo tradire: non poteva aspettarsi altro. Non doveva aspettarsi altro. Pherio prese un profondo respiro, azzannando l'aria per cercare di farla arrivare nei polmoni, stretti come da una presa troppo rigida per esser spezzata.

Il fuoco danzava leggero, e in quelle movenze, Pherio sapeva, erano celate risposte a domande non espresse, e vi venivano indicate strade per mondi remoti, dove perdersi era semplice, e da cui non si poteva più uscire. Ma quei sentieri lui non era in grado di trovarli, la sua mente troppo piena di echi rimbombanti per cercare segni e tracce.

Il suo viso era un bel viso. Bellissimo secondo Pirecrate.

Maledetto secondo suo zio.

Sollevò una mano, i capelli troppo corti gli solleticarono i polpastrelli, anche se riuscivano ancora a scivolargli sulla fronte, cadendogli sugli occhi a velargli lo sguardo. Egli poteva ancora vederli, orribili e biondi scintillare nell'oscurità, indegni sotto il tocco leggero del fuoco danzante.

Osceni.

Nessuno Spartiato poteva avere dei capelli così. Degli occhi così. Un corpo così. Non doveva essere così chiaro, e così sottile: nonostante il suo impegno, il suo lottare, la sua fatica, la sua pena, egli non era più Spartiato.

Probabilmente non lo era *mai* stato. Nonostante non fosse mai stato sconfitto, nonostante non fosse mai stato meno che perfetto . . lui era troppo . . bello? Se lo fosse stato davvero, comunque, poi, la sua era una bellezza sbagliata. Pirecrate era Spartiato ed era bello, scuro, lucente di bronzo ed ebano, forte e irruento, guerriero. Anche se aveva gli occhi che avevano strappato alle coste coralline e agli zaffiri la lucentezza e il tono, anche se aveva ereditato dal proprio genitore un malo sangue, che alfine non l'aveva indebolito, ma che, anzi, l'aveva reso ancora più forte di quel che gli dei già gli avessero concesso. Capriccioso e testardo come un Achille, pronto all'ira, ma solo perché poi si potesse far pace.

E nonostante questa mala genìa, a Sparta Pirecrate occupava un posto ben preciso, un posto che aveva dovuto conquistarsi palmo a palmo e che dunque gli spettava per diritto: era Spartiato perché aveva combattuto e *poteva*. Mentre per lui, lui, figlio d'un vile e d'una folle, non avrebbe mai potuto essere così. Per lui, figlio d'una sacerdotessa disonorata, non era *mai* stato così. L'aveva sempre visto. L'aveva sempre saputo.

Pirecrate era stato chiaro, proprio come chi troppo accecato dalla furia non pesa le parole che dice. In una cosa sola aveva sbagliato: lui non ne sapeva nulla di Idrio, e non capiva perché mai l'ateniese avrebbe dovuto trovarsi a Firuzeh, ma per il resto. .

Allora probabilmente non aveva neppure mentito sulla sua bellezza: quella che suo zio diceva essere il suo disonore, il marchio della sua indegnità.

Aveva ragione suo zio. Quella bellezza aveva sedotto con se stessa, come una maledette meretrice, Pirecrate, ingabbiando entrambi, quella bellezza che per lui era una vergogna, che era il marchio della sua nascita infamante, della morte di sua madre, della rovina della sua famiglia. Impura, una Gorgone infida.

Pherio puntò intensamente lo sguardo su un bastone che era arso poco, posto male sul braciere: la punta incandescente giaceva salda in mezzo agli altri noccioli di brace, e senza le lingue di fiamma a lambirlo era ancora abbastanza lungo, a sufficienza per venir afferrato.

Lo Spartano rifletté per un attimo. Era un bastone un'arma? No, le leggi parlavano di armi da taglio, armi metalliche, non di oggetti, altrimenti ogni cosa sarebbe stata fuori dalla sua portata. Dunque quel bastone poteva prenderlo.

E la brace arrosso' terribile in uno scroscio di scintille che si levarono verso il cielo seguendo il suo movimento.

Che almeno quel viso infame non portasse più segni così evidenti d'una oscenità troppo forte! Che almeno il disgusto obbligasse a distogliere lo sguardo e non notare, magari, gli occhi chiari e i capelli biondi! Che ci fosse un segno materiale a cancellare in parte quel sigillo d'infamia morale che lo aveva accompagnato da quando era nato! Che bastasse quello a . . una mano scura, pesante, si gettò sulle sue, violenta, allontanando la brace così vicina al suo volto da ardere gli occhi solo nel fissarla.

"Sei impazzito, Panfilo?! Che fai?"

Quando Pherio sollevò, con enorme fatica, lo sguardo su di lui, Dionide rimase senza fiato dal vedere l'enorme vuoto che erano divenuti quegli occhi chiari più di un'alba. L'uomo pietoso che era si ribellò a quella vista, prendendogli il volto fra le mani.

"Pazzo d'uno spartano! E' questo forse un modo per risolvere i tuoi problemi? Uccidendoti?"

Il sorriso di Pherio sembrava un cristallo spezzato.

"Non sarei morto."

"No, magari no! Ma perché allora sfregiare questo tuo bel viso? Sai quanti si sbranerebbero per possedere quello che tu disprezzi?"

Pherio si mosse delicatamente, e le dita morbide di Dionide gli permisero di allontanarsi.

"Non . . - scosse il capo, appena, poi chinò la fronte, al suolo, arrossendo vistosamente - il signore di Firuzeh non dovrebbe parlare a un servo più indegno d'un Ilota."

Ebbe in risposta un sorriso.

"Il Signore di Firuzeh s'è comportato male con un uomo, la sera del banchetto, trattandolo come se fosse una bella bambola senz'anima, ed era venuto per chiedere scusa. E al Signore di Firuzeh non importa se egli sia un servo o uno Spartiato o un re. Egli è comunque uomo, e ad ogni uomo va concesso rispetto. Questo è ciò che mio padre m'ha insegnato, e non sarà certo questo quell'insegnamento suo che non osserverò."

Pherio tacque, immobile, lo sguardo ancor fisso al suolo. Non era nato per stare con il capo chinato, non era capace ad assumere un atteggiamento sottomesso, notò Dionide. Tutto di lui era arrogante, in un certo modo, e poi una bellezza così luminosa non riusciva ad essere discreta neppure se avesse voluto . . la bellezza? Era per quello che . ..

"Quell'uomo non ha nulla da perdonare perché mai s'è sentito insultato dal signore dell'oasi. Dionide, non è caso di preoccuparsi per questo."

Dionide si sentì colpito da quel tono, il cuore fremente d'uno sdegno strano, un dolore soffocato, ma non aggiunse nulla, sollevandosi in piedi, indicando qualcosa nell'aria con la mano elegante.

"Andiamo, Pherio è ora di cenare, devi mettere qualcosa nello stomaco."

E non lo avrebbe mai lasciato da solo in quello stato. Quello stupido d'un Dimano poteva aver avuto ottimi motivi per riversare la sua frustrazione su Pherio, e Astre gliel'aveva lasciato di sicuro fare, ma nessuno avrebbe potuto dire che l'ospitalità di Dionide avesse mai mancato in qualcosa, soprattutto in un caso come quello! Ne andava del suo onore, oltre il fatto che non desiderava veder soffrir mai un uomo così bello, e si sarebbe cavato il suo stesso sangue dalle vene per evitarlo, se fosse servito a qualcosa.

Pherio si mise in piedi lentamente, le membra intorpidite dal rimanere troppo a lungo nella stessa posizione, ubbidendo senza una singola parola. Dionide sospirò di nuovo, per lui incomprensibile tutto quel dolore, tutta quella sofferenza data per capriccio a chi, forse, un tempo era stato orgoglioso e insolente ma che ora non possedeva più una sola arma per difendere la propria dignità, ed essa veniva calpestata e gettata nel fango senza pietà alcuna da coloro che gli erano stati al fianco per anni..

Come una folata di vento che dal deserto solleva le falde delle tende e come per capriccio divino l'accampamento scompiglia, così sorse improvvisa, nel buio che stava stendendo le brune dita, la voce forte dell'altro Spartano.

"Pherio! Si può sapere dove ti sei cacciato?!"

Dionide si tese sulla schiena, portando la mano al fianco dove teneva un affilato coltello che, nascosto, serbava sempre tra le pieghe delle vesti, in un movimento istintivo: ergersi come in procinto d'affrontare un nemico.

Nemico: Dionide sapeva che l'altro spartano nemico non era, Pirecrate stava prestando la sua opera per stendere i piani migliori perché il Re ritornasse in possesso del suo trono e della corona che qualche avventato traditore gli aveva strappata, ed era valente ed attento, scrupoloso e prezioso come alleato, ma questo non cancellava il fatto che Dionide ardesse d'istinto nel cuore di proteggere tutto quello che aveva tra le mani dal moro Spartano. Ed ogni volta che gli si faceva vicino l'aria sembrava appesantirsi di lampi e tuoni, ed erano solo saette quelle che si scambiavano con gli sguardi.

Pherio avanzò d'un passo rompendo i suoi gesti, superandolo in silenzio, il capo lievemente chino, poi si fermò, stringendosi le mani in grembo come un imbelle ad attendere ordini.

"Pirecrate."

Il suono della sua voce uscì a fatica dai denti ma l'altro parve udire lo stesso, e gli si avvicinò a grandi passi, divorando in poche falcate la distanza che li divideva.

"Pherio, come mai non t'ho trovato in tenda? Perché devo sempre girare tutto il campo per trovarti?"

Le spalle chiare sussultarono appena, un sospiro sfiorò l'aria innanzi alle labbra, come se Pherio si trovasse adesso di fronte a una discussione che già aveva affrontata, e che sapeva sarebbe ritornata, di nuovo e di nuovo come una maledizione che si perpetua.

"Hai mai, una sola volta, chiamato senza che io udissi e arrivassi?"

Domandò, quasi dolce, muovendo i palmi verso il cielo.

Dionide contemplò quella figura indocilita dalla furia del destino e di uno sciocco arrogante, un pavone meraviglioso pronto a graffiare dimostrando d'avere gli artigli di un'aquila non appena il caso lo avesse permesso. Le vesti tutte strette intorno al corpo ricadevano in morbide onde sospese, stropicciate appena dal troppo star seduto, e i capelli piombavano sottili intorno alle tempie come le grandi foglie di palma coprono i datteri. Bello come un semidio, e forse altrettanto maledetto di fronte agli uomini egli appariva, come ammantato da un qualche sigillo del Fato che gli esseri mortali non potevano comprendere ma s'intuiva sempre.

"Da quando i servi rispondono con una domanda a una domanda?! - quella voce profonda e tagliente spezzò l'incanto. Pirecrate strinse i pugni e Pherio tenne il capo fermamente chinato, senza muovere più un solo muscolo. Ed era questo che, più di tutto, faceva infuriare Pirecrate: la mancanza assoluta di una qualche reazione, una passività che sembrava totale, la dimostrazione di una capacità di sopportazione che pareva andare oltre l'umana possibilità. Fingeva, il Panfilo, come sempre aveva finto, e tramava con quella sua mente sottile ed aguzza creando arabeschi suadenti che non erano altro che mortali tele di ragno. Ma questa volta, giurò, egli non avrebbe trionfato su di lui, intessendo quelle sporche arti indecenti e biforcute. Non più. - Non voglio che t'allontani dalla tenda se non per un valido motivo, e se lo facessi devi venirmelo a dire! Mi pare d'avertelo già detto!"

Si mosse appena, il capo biondo, in un gesto morbido che cercava di essere gentile, delicato, e i polpastrelli d'una mano sfiorarono il palmo dell'altra.

"T'ho già chiesto il permesso di non dividere la tenda con te, ché non è consono che uno Spartiate dorma con un servo, e tu non m'hai risposto."

"Io t'ho risposto! Sei tu che non ubbidisci! Dannato! - ringhiò, tendendo una mano gli artigliò una spalla, strattonando con forza- Andiamo! Dormirai nella tenda in cui hai dormito finora!"

"No."

Pherio lasciò che il suo corpo, docile, si piegasse, ma la sua voce era forte e sicura come se non fosse lui, il servo: forse non sapeva molte cose, e di certo molte altre non le capiva, sapeva bene poi di essere un indegno, conosceva la sua pena, e il motivo vero per cui la stava scontando, tuttavia se c'era un'intenzione e una verità impressagli nell'animo come da uno stampo di brace, questa era che mai, mai più in tutta la sua vita, avrebbe diviso un giaciglio col Dimano. A prezzo della sua stessa vita: si sarebbe lasciato uccidere, semplicemente, lì su due piedi, dov'era ora, piuttosto, senza emettere un suono, senza il minimo gesto di supplica, ma non avrebbe sopportato quella vista, e quei pensieri, di nuovo. . e i ricordi ..il ricordo di ..del suo tradimento e.. e quel piacere che mai avrebbe dovuto provare e che invece.. invece.. e che c'era stato, nonostante tutto. E lo aveva bramato senza scampo e ancora, di nuovo, le sue carni traditrici lo b ramavano diffondendo nell'animo un veleno che stillava incoscienza e una terribile sete.

Pirecrate parve infuriarsi maggiormente.

"Non voglio che t'allontani d'un solo passo e né desidero ripetermi su questo punto: sempre sotto agli occhi voglio averti. E adesso muoviti!"

Un grido feroce e imperante, uno strattone più forte e Pherio inciampò appena, muovendo un passo, e qualcosa forse stava per uscire di nuovo dalle sue labbra, che Dionide dalla sua posizione poteva vedere contratte dall'ira e da .. dalla vergogna?

"Pirecrate!"

Dionide chiamò, la sua voce chiara e forte che risuonava avvezza alle immense ampiezze del deserto. Solo ora si accorse che il Dimano non l'aveva scorto, nascosto un po' com'era dalle ombre sghembe nate dalle tende, ed accecato negli occhi dalla propria furia.

Lo fissò interdetto e tosto un lampo terribile solcò quelle iridi profonde. Dionide vide la gelosia contrargli i lineamenti belli e scuri, mentre con la mano stringeva ancora più forte la spalla di Pherio. Ma quando Pirecrate si voltò a fissare il Panfilo c'era solo il disgusto a velargli lo sguardo.

"Sei il mio schiavo, Pherio! E non t'ho dato il permesso di giacere con altri uomini!"

La voce cattiva di Pirecrate raggiunse l'intento, sprofondando come una freccia infuocata in un profondo spacco dell'animo. Pherio sollevò il capo di scatto, gli occhi lucidi all'inverosimile, ricolmi di tante, troppe cose per essere dette a parole, finalmente colpito sul vivo, finalmente a mostrare qualcosa . . ma troppo in fretta si morse un labbro e distolse lo sguardo, tacendo.

Dionide si corrugò: non amava vedere qualcuno che trattasse con così tanto sgarbo degli uomini, nella sua oasi, fossero pure schiavi, o la peggior specie di assassini. Firuzeh era un'oasi, e come tutte le oasi obbediva solamente a leggi sue interne, che garantivano il delicato equilibrio sulla quale esse stesse si fondavano. Il rispetto era la prima norma e regola.

"Se quella voleva essere una insinuazione di bassa lega, Pirecrate, t'assicuro che sei stato molto bravo nel pronunciarla: è falsa esattamente come ci si aspetta da certe affermazioni! - prese un lungo respiro di fronte a un Pirecrate fremente di sdegno, trattenendolo poi nel petto come un leopardo pronto allo scatto: sapeva che erano cose che, in fondo, non dovevano riguardarlo. Ma il sangue nelle vene stava bollendo, e non ce la faceva ad assistere, muto, a tutto quello. - Comunque Pherio non giace, non ha mai giaciuto con me, e molto probabilmente non lo farà mai, anche se, devo ammettere, è curioso che proprio tu sia così preoccupato per la sua integrità. Di solito a portare avanti certe insinuazioni sono i *mercanti*, preoccupati dell'integrità della merce che vogliono vada venduta ai porti."

Un sorriso di scherno, pesante, che si oppose all'occhiata terribile di Pirecrate, insultato nell'intimo dall'affermazione che lo paragonava a un infimo mercante.

"Non c'è poi più molta integrità da preservare, qui, mi pare. - il capo pieno di ricci neri si scosse, poi si mosse quasi leggero, un ghigno orribile a indicare Pherio, immobilizzato da troppe cose, troppi sentimenti, troppe sensazioni, a pochi passi da lui - Ma sono io che devo riportarlo a Sparta, dopo averlo trascinato a Persepoli, e non mi deve sfuggire. Dovrebbe ringraziare che non lo lego a una catena come fosse un cane!"

Dionide socchiuse le palpebre, riducendo l'immensa sfera del cielo e della terra a loro tre, cercando la verità come chi guarda senza timore la tempesta di sabbia cercando un punto più chiaro, per lì dirigere il proprio cammello e i propri piedi, mentre le mani trascinano l'animale indifferente e i venti sferzano il capo coperto di stoffe.

Pirecrate s'era mostrato, fin dalla prima volta in cui l'aveva visto, degno del nome che portava, con una tempra che con poco sforzo davvero riusciva ad essere odioso e insolente per la sua arroganza eppure, nonostante la rabbia che gli stava montando nell'anima, a lui che era figlio della vita più aspra e delle esperienza dei mercanti, si rendeva conto chiaramente che lo spartano non stava insultando lui, non *voleva* insultar lui, e che, probabilmente, certe cose gli sarebbero uscite dalle labbra anche se non fosse stato presente a quella scena.

Ricordò con chiarezza le mani bianche avvolte intorno a un messaggio, gli occhi chinarsi appena, smarriti in un istante nel perdere qualunque cosa, d'improvviso, la propria stella polare, le certezze d'una vita intera, e le labbra mortalmente pallide, che parevano così morbide, di Pherio, modulare parole che cercavano di spiegare, a chi mai aveva visto Sparta, cosa volesse dire esserne figlio, e il dolore che voleva celare al mondo ma che non poteva non apparire in qualche modo, e la sua composta bellezza che nello sforzo di parer impassibile s'era colorata d'una umanità struggente ..e capì come Pirecrate poteva sentirsi così pazzo dal desiderio dell'avercelo sempre accanto, terrorizzato dal farlo fuggire, arso fino al midollo dalla gelosia che qualcun altro potesse toccarlo.. poteva capire, anche se non approvava.

Anzi, di più: *capiva* forse sin troppo di quell'oscuro sentimento che non lascia il respiro e come un'onda altissima sprizzata dal cuore acceca la ragione. . Non s'arrese tuttavia, perché non si deve far del male solo perché si è gelosi e possessivi. Inoltre aveva un presentimento molto forte: era troppo quello per essere nato tutto da un'anima che sì, era fortemente impulsiva e passionale, ma era anche pura in se stessa.

E solo una persona era in grado di fare certi raggiri con una freddezza simile di calcolo.

Sospirò, avvicinandosi ai due, come a voler allungare, protettiva, una mano invisibile verso quel magnifico essere che si spaccava le labbra dai morsi pur di non gridare la propria angoscia e disperazione.

"Potrà anche allontanarsi dalla tua tenda, ma non può fuggire da Firuzeh, Pirecrate, neppure se volesse. Lascialo libero di camminare quanto vuole, ora che può farlo, perché, se davvero lo trascinerai in quest'avventura, molto presto non ne avrà più la possibilità."

Pirecrate, insolente, gli diede la schiena.

"Se è questo l'ordine del signore dell'oasi - ringhiò, si voltò verso Pherio- Gioisci in silenzio del fatto di aver sempre le spalle protette da qualcuno più potente di te, Pherio, ma sta sicuro che non durerà per sempre! Dormi pure all'aperto, se è questo quel che vuoi, dunque! Nella polvere come i vermi tuoi pari. . tutto sommato ti si addice.."

Pherio non disse una sillaba, non respirò neppure, si limitò ad abbozzare un piccolo inchino prima di ritrarsi di nuovo nelle ombre che ora s'eran fatte più lunghe.

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Impazzire... era tardi temerlo: era già pazzo, già da tempo.

Da quando aveva accettato le mani erranti di Pirecrate sul corpo.

Da quando aveva infranto il giuramento.

Da quando aveva confessato ad Astre d'amarlo.

Da quando aveva *iniziato* ad amarlo e aveva discusso e lavorato in silenzio perché per suo zio fosse più conveniente tenere in vita il giovane persiano, piuttosto obbligarlo nel suo talamo, piuttosto amarlo ogni notte, ad ogni respiro e possederlo, e farlo suo, che non assassinarlo e inviarne il corpo a Persepoli dopo un congruo riscatto per Sparta.

Da quando aveva deciso che Pirecrate, per quanto indegno e figlio d'un traditore, e così assurdamente noioso in quella sua continua e vana sfida, non meritasse di morire nella sabbia polverosa della loro piccola città, ma che ogni sconfitta fosse sempre degna d'un segno di rispetto per un guerriero così abile, il quale, se era destinato a morire con una spada in mano, avrebbe dovuto farlo su un campo di battaglia e non per suo capriccio.

Da sempre.

Aveva ragione suo zio, che ora giaceva morto insepolto, abbandonato da qualche parte gettato in un crepaccio intorno a Sparta. Aveva ragione lui: era pazzo, la follia era la macchia che l'avrebbe accompagnato assieme al suo aspetto osceno. Era peggio che pazzo, forse, era indegno. Impuro. E per rimediare a quell'impurità non esistevano riti o preghiere o doni, non esisteva nulla che dei o uomini avrebbero mai potuto fare.

Avrebbe dovuto essere ucciso, secondo le regole di Sparta, appena nato. La sua stessa venuta al mondo era stata una sventura per la famiglia e la città, eppure sua madre aveva urlato, implorando la dea vergine di fare di lui un'arma per rimediare al suo disonore, e gli anziani non potevano nulla contro le invocazioni di una sacerdotessa toccata dalla dea.

Aveva vissuto per quel motivo, con *quello* inciso dentro: consapevole ad ogni respiro che quel che possedeva non era di suo merito, che a lui non era dovuto nulla, neppure ciò che aveva conquistato da se stesso. Pure quello non era altro che favore di dei lontani che avevano accettato che una macchia come lui vivesse nella pura Sparta.

Aveva cercato di far capire tutto ciò a Pirecrate, ma come poteva comprendere uno che era disonorato, ma non da se stesso, che doveva vivere per rimediare a un errore commesso dal proprio padre . . ma per il quale almeno, in qualche modo, esisteva la maniera d'espiare?

Sparta: per lui non c'era davvero nulla al di fuori di Sparta. Era Sparta che gli aveva permesso di vivere, infrangendo le proprie stesse leggi, lasciando che un'eccezione crescesse tra la sue fila perché tutti avessero sempre sotto gli occhi l'abominio che avrebbero sempre dovuto combattere: la corruzione.

Era corrotto, la sua carne, il suo spirito. Era marcio e puzzava. Nonostante avesse indossato gli abiti, avesse fatto suoi gli atteggiamenti e i modi di Sparta, egli era un intruso, lo era sempre stato. La vergogna della città tutta, e ora. .

Ora aveva ciò che davvero meritava: nulla.

Lontano dalla sua città, era stato definito traditore, le insegne gli erano state strappate, i capelli tagliati, la spada tolta, e pure la possibilità di combattere, fosse stato anche per difendersi. Se suo zio era stato messo a morte, Kakeo che era stato Spartiato fra i migliori della polis, di fronte a un giudizio, di lui che avrebbero fatto? Neppure l'avrebbero graziato con la morte, neppure avrebbero permesso che il suo sangue impuro macchiasse una volta di più il suolo della sacra Sparta!

Di morire lui non aveva timore, ma era altro che lo terrorizzava: l'esilio? C'era di peggio perché lui, cacciato da Sparta, semplicemente si sarebbe ucciso. Rimanere a Sparta come schiavo. . schiavo.

Nei corridoi infiniti della sua mente quella parola rimbombò come tuono per poi perdersi in un sospirare che non si sarebbe estinto.

Lui, nato sacerdote, era stato strappato da suo zio dal sacro recinto per esser cresciuto come ogni uomo libero e degno, e ora, invece? Non solo imprigionato in un tempio! Non sacerdote, ma nulla! Peggio che polvere. .

Paura? Se aveva paura?! Sì che ne aveva per gli dei, sì! Non voleva una vita simile! Per cosa vivere, assistere al susseguirsi delle albe alle albe se il presente premetteva un futuro tanto infame?! Per cosa continuare a respirare?

Perché ad essere solo era avvezzo, a vedersi respinto da tutti pure, quello non lo impauriva ed era, anzi, la sua forza: la sua solitudine era stato il suo bastone. Invece lui era stato così stupido da credere altrimenti e gli dei gli avevano amaramente ricordato quale fosse il suo posto, prima con Astre e poi con Pirecrate.

Quelli che, come lui, non erano degni di prestare giuramento su se stessi, perché in se stessi non avevano valore sufficiente per dar peso alle proprie parole, non potevano neppur sentirsi traditi. Nessuno li tradiva, ma semplicemente li si trattava come i rifiuti che erano. Ed era stata solo ed esclusivamente colpa sua credere alla dolcezza, cedere al desiderio di protezione, e illudersi che il calore di Pirecrate potesse durare più d'un attimo. Come se le parole dette nei momenti di passione avessero un peso reale. Come se il fuoco che poteva venir acceso dalle sue membra potesse davvero riverberarsi in un cuore.

No, tutto quello non era per lui.

Lui, se voleva rispetto, doveva mostrarsi migliore di chiunque altro, e comprarsi la pace disarmando chi gli stava intorno, perché alla prima debolezza nessuno avrebbe evitato d'affondare il colpo in lui. .

E magari che quel colpo fosse venuto, allora, a spezzare alla radice quella vita che ora era greve e terribile!

Fuori Sparta non poteva vivere, *senza* Sparta non voleva vivere, oh dei, e come *servo*! Cosa aveva fatto per meritarsi quello?! Bastava il segno infamante della sua nascita a tormentarlo e condannarlo in quel modo?

Bastava?!

Che qualcuno gli rispondesse. .

Pherio chiuse gli occhi, un greve dolore a pulsargli in petto e i polmoni di fuoco. Non c'erano risposte per lui, gli dei non si sarebbero mai potuti rivolgere a un traditore di voti quale era. Gli avevano dato la possibilità di dimostrare quel valore che avrebbe potuto avere nell'animo, nonostante tutti sapessero fosse cosa impossibile perché non ce n'era, e lui li aveva traditi.

Era venuto meno alla parola data.

Aveva tradito i più sacri giuramenti.

La dea. La sua città. Il suo nome. La sua stessa integrità.

Tradimento.

Qual era la pena per un tradimento simile?

Ora non c'era per lui più luogo alcuno dove nascondersi, neppure quel tempio che saldo dentro di lui era sempre stato, che l'aveva protetto con quelle colonne pesanti e troppo bianche quando i flutti della sua anima s'agitavano e la mente non era un porto sicuro a cui approdare. Il tempio ch'era tentazione e insieme protezione, legame, ora era crollato, ed era stato lui stesso a farlo crollare proprio come era capitolata la sua volontà di fronte alle carezze dolci e ardenti che ora, ancora, maledette e infami, sentiva scivolargli sulla pelle!

Cosa possedeva, ora?

Un se stesso indegno, era un uomo che non era più libero, che non valeva più nulla, un servo senza dignità, senza. . nulla. Non era neppure uomo. Solo uno schiavo la cui vita non era propria, che non poteva decidere, che forse non poteva neppure pensare.

E dei ricordi. Sì, ricordi dolorosi, infamanti, pesanti.

Sentiva la mente lacerarsi lentamente sotto il peso di quei pensieri, forse presto sarebbe finito a fissare il mondo con sguardo assente, come sua madre, in quel modo, forse, una parte del dolore sarebbe terminato, e forse .. forse ora doveva solo smettere di lottare per mantenere intatta la propria lucidità, per non scivolare giù, lungo quel pendio che da sempre sentiva friabile sotto i piedi, quando la sua mente percorreva le strade solite che non erano mai state solide per lui.

Eppure se c'era una, e una sola remota possibilità che alla Nobile volessero davvero ascoltarlo! E recuperare in parte l'onore! E poi.. suo zio era colui che, nel bene e nel male gli aveva donato tutto ciò che aveva posseduto: un nome, l'onore, la forza. Doveva lavare l'onta che l'aveva colpito. . solo per quello, solo per quello che il dovere gli imponeva di fare non poteva piegare i ginocchi e chinare il capo attendendo in silenzio la morte, o l'oblio dei sensi, o entrambi.

Aveva quel dovere che lo teneva legato, e se tutto il resto aveva tradito, su quello non l'avrebbe fatto. Avrebbe ripagato il debito con Kakeo e poi. . poi forse sarebbe stato libero di pregare qualcuno di ucciderlo.

Era così stanco. . perché suo zio era stato accusato? Quante volte avrebbe preferito ritornare sconfitto in patria ed essere ucciso da lui, piuttosto che questo! Perché Astre non l'aveva avvelenato quando sapeva che lo stavano portando in Egitto, a morire? Perché Pirecrate, al posto di. . di amare il suo corpo con furia e passione non l'aveva ucciso, affondando l'elsa nel suo petto, spargendo il suo sangue, finalmente sconfiggendolo?

E perché. .

Percepì appena il tepore morbido d'uno sguardo scivolargli addosso e sebbene non avesse spostato il capo, sapeva bene a chi apparteneva: occhi scuri, di velluto, densi d'ombra e preoccupazione. Come se non fosse a sufficienza perseguitato dagli sguardi pugnalanti di Pirecrate, anche sempre quel Dionide a scrutarlo, domandando in silenzio troppe cose, cose a cui non voleva neppure porre mente!

La vampa dell'orgoglio gli si riaccese dentro e le belle labbra, piegate appena in un ghigno mesto, si tesero nella furia, mentre con forza si abbracciava le gambe. Non v'affondò a fronte: gli occhi chiari si puntarono ancor più fissi ed assenti a osservare qualcosa posto in lontananza, non importava cosa. . Odiava suscitare pena nell'animo d'altri! S'egli era un uomo disonorato, un servo senza valore, comunque quel barbaro non doveva, non poteva mostrarsi in pena per lui! Almeno lui era stato Pherio, Pherio dei Panfili, uno Spartiate! Lo era stato, ora non lo era più, ma l'onore che era rifulso nel suo passato era così grande che avrebbe dovuto suscitare solo ammirazione sulla fronte d'un barbaro!

Non durò a lungo quello sguardo, perché una voce invocò Dionide, e il giovane e bel signore, seppur a malincuore, si voltò, rientrando, l'animo greve di quella vista: a Firuzeh, luogo di pace e dolcezze, nessuno avrebbe dovuto mostrarsi così afflitto e tormentato. . il dolore scritto a chiare lettere su quel volto chiaro ed attraente erano altrettante spine nel suo cuore gentile. L'incantesimo della sua oasi mostrava la sua debolezza, in quegli infausti giorni densi di cupi presagi, e lui ne soffriva sinceramente come se una ferita fosse stata aperta nel suo stesso costato.

Ma la vera corona di spine spasmò nel petto quando intravide il suo Idrio mortalmente magro camminare lento, come uno spettro a metà tra questo e l'altro mondo. Sulla punta delle labbra balzò il suo nome, pronto a chiamarlo, pronto ad avvicinarsi a lui per. . per cosa non sapeva, ma per cercare, in una maniera che non aveva ancora trovato, di comunicare col suo amato o perlomeno di stringerlo e tenerlo così e respirare un poco petto a petto, quando alle sue spalle sorse di nuovo la voce chiara e urgente di Astre.

"Dionide! Che fai lì con la testa per aria?! Abbiamo bisogno di te per terminare questo lavoro, lo sai!"

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Intravide Dionide chiudersi dietro i drappi e la luce rossa della tenda estinguersi nella notte buia. Idrio fece un passo, ma fu troppo e si dovette portare una mano alle labbra, appoggiandosi con l'altra ad un'anfora alta e robusta, respingendo con un estremo sforzo l'ennesimo conato che quella sera gli aveva stravolto lo stomaco: non riusciva a mandar giù un boccone che subito si sentiva male. Il gelo gli copriva la pelle, i singulti la pancia e il sudore la fronte, il pallore le labbra.

Si sentiva debole e i passi erano malfermi assieme alla sabbia che scivolava tra le dita dei piedi in una piacevole carezza ingannatrice: fredda. Nel momento in cui di nuovo si sentì mancare, afferrò con un piccolo mestolo dell'acqua e mandò giù, lasciando che il liquido fresco gli corresse ai lati della bocca e sul collo e tra le pieghe setate della benda alla gola.

Prese un respiro profondo, placandosi quando il cuore già era partito in battiti impazziti: aveva paura. Si sentiva venir meno: era come nuotare e non riuscire a tirare più la testa fuori dall'acqua, intravedendo il cielo vuoto attraverso una spessa lastra di ghiaccio e attaccarsi con le labbra alla gelida crosta, nel tentativo di strapparvi, inutilmente, l'aria. Scivolava verso un oblio che gli avvolgeva sempre di più le membra e lo sguardo, e non c'erano più appigli per lui: i ricordi gli strappavano le forze, le nere speranze gli facevano sanguinare l'anima come coltelli.

Quanto, per tutti gli dei del cielo e della terra, gli sarebbe piaciuto correre lì dove Dionide era sparito, averne il diritto, e accoccolarsi tra le braccia avvolgenti del suo amante, senza guardare né ascoltare niente, senza disturbare nessuno, buono buono: che male avrebbe fatto? Iniziava a mancargli il calore di Dionide, il suo amore così strano, così pacato e determinato, non bruciore che arde ma un posto comodo di fronte al fuoco. Quanto gli mancava. . e più il tempo passava più lo sentiva lontano e più sentiva il freddo corrergli assieme ai brividi sulla pelle. Forse, forse Dionide non lo voleva più e. . come dargli torto? Come poteva amarlo ora che aveva le membra coperte da lividi e graffi e piccole cicatrici gelide, bianche, e che non poteva neppure più cantare per lui?

Quando aveva voluto tenerlo a sé, non c'erano stati ostacoli che lo avevano tenuto fermo: suo padre Kassim, il capo dei servi nella tenda degli schiavi. Niente poteva arrestare la sua volontà e il suo desiderio: aveva sempre trovato il modo di raggiungerlo, faticando e rischiando anche quando sapeva che lui, un misero schiavo dai polsi feriti, lo avrebbe respinto. Il cuore gli stava piangendo sangue rosato adesso che avrebbe, forse, dovuto elemosinare uno sguardo dal signore dell'oasi. E in quel momento sarebbe tutto finito: l'amore non si elemosina e Dionide non ne aveva così poco in cuore da doverne fare elemosina alcuna.

Dionide sapeva amare, e farti sentire al centro del suo universo, al centro di tutto, protetto ed al sicuro.

Ora, ora invece. .

Un bacio, che avrebbe dato per un ultimo bacio vero da quell'amante! Poi, poi avrebbe potuto pure lasciarsi andare, staccare dal ghiaccio la bocca livida ancora piena della dolcezza di quelle labbra calde e appassionate. Liberare così entrambi. Chiuse gli occhi, respirando appena, lasciandosi cadere sulle ginocchia e abbandonando il capo, senza più lacrime sotto le palpebre.

L'Idrio che era giunto all'oasi, giovane incosciente e innocente, era morto per sempre e adesso ne rimaneva un'ombra cupa e malata che sfocava sempre di più con piccoli singhiozzi sempre più deboli.

Come stupirsi se non mi vuole più?, balbettarono le labbra mute, mentre un braccio avvolse la fronte ripiegata su un ginocchio, e l'altro tirò forte il manto, facendo riaprire le ferite sulla mano e scorrere il sangue lungo le bende.

Una voce alta manifestò il proprio dissenso lì, tra gli uomini che pianificavano, e la riconobbe.

Pirecrate. Un fuoco ardente in grado d'infrangere ogni barriera, di piegare con uno sguardo intenso la più forte delle pietre. Una fiamma che trascinava giù nell'Ade e sollevava tra le stelle ardenti, stordendo e facendo rinascere a nuova vita. Un animo simile poteva esser caduto nel petto mortale d'un uomo, destinato alla fredda e nera terra, solo perché qualche dio l'aveva fortemente invidiato. Come potersi immaginare quegli occhi farsi ombra e perdersi tra le ombre del mondo dei morti? Quegli occhi così meravigliosi, seduttori e felini, in grado di far capitombolare. . Un momento: Pherio poteva esser stato. . *sedotto* da Pirecrate e poi era successo quel qualcosa che lui non sapeva, ed era anche per questo che forse. .

No. Con quale cuore strappare a una persona se stessa e poi abbandonare quella conquista su un marciapiede, mercé delle ruote infami dei carri? Non riusciva a *credere* che Pirecrate potesse. .

Ma, forse, per Pirecrate era stato come per Dionide: s'era sbagliato. Ancora una volta cadeva preda della propria ingenuità stupida ed infantile: il signore di Firuzeh l'aveva amato notti intere senza riposo e altrettante notti l'aveva tenuto fra le braccia sussurrando in un continuo dolce sospiro d'amarlo. Ora non l'amava più, invece, e allora si stava chiedendo se fosse stato amore il suo. Pirecrate, che tanto appassionato era, poteva avere in realtà carboni, nell'animo, ad alimentare quel fuoco sterile?

Tuttavia, un angolo della sua mente si ribellò: quella notte all'Eurota non fu Pirecrate a sedurti, ma fosti tu stesso ad attirare a te quelle belle labbra e lasciarti a tua volta baciare; inoltre quando partisti una ciocca dei suoi profumati capelli legò ad una freccia e la scagliò sul tuo carro. E Dionide forse, forse. .

Se entrambi l'avevano tradito a quel modo, e a quel modo erano traditori, il suo cuore sanguinava comunque al solo sospetto: due catene diverse lo univano a Dionide ed a Pirecrate, ma erano entrambe come forgiate nelle fucine stesse di Efesto il claudicante: avvinghiavano, e pesavano, e comunque per tutta la vita non sarebbero cadute. Anche se a quello non riusciva a dare un nome, anche se ora entrambi gli parevano sogni che non avrebbe potuto neppure tenere nel grembo e stringere forte, piangendo.

Una sagoma s'alzò sopra le altre e mani eleganti, cinte da braccialetti silenziosi, danzavano nell'aria.

Astre. Da Dionide era venuto a sapere che era un gran Re. Ed infatti da egli veniva un'arcana luminescenza, una conoscenza che affondava le radici in millenni addietro: quegli occhi probabilmente nascondevano abissi che solo le Parche avevano potuto osservare, e in lui c'era la maestà, c'era l'incedere di qualcuno destinato a diventare un dio, in grado di vedere a fondo e lontano, con verità oltre le nubi dell'umana fatica: però quello sguardo ora era offuscato da sentimenti forti ed oscuri, dall'orgoglio e dalla brama che non avrebbe potuto mai essere sopita.

Era di bella persona: lineamenti regali, un cipiglio tipico dei nobili, fascino. Era bello veramente. Determinato e fermo nei propri propositi. Avrebbe spaccato con la frusta o con la scure qualsiasi pietra gli si sarebbe posta sul cammino, o col veleno degli scorpioni. Ma sembrava di continuo morso da denti che non lasciavano tregua, e gli avvelenavano quel cuore che in sé poteva essere buono, poteva essere dolce e anzi, era certo che egli amasse, e dal profondo: altrimenti non avrebbe potuto spiegare quell'odio, quel dolore che da lui si emanava.

Più guardava, più temeva Astre, perché bene poteva immaginarsi quanto male poteva infliggere uno che stava soffrendo a quel modo, e che aveva il potere di farlo. Ma non lo odiava, non poteva odiarlo: era così chiara al suo debole sguardo la sofferenza che gridava, e la sua tristezza tutta mascherata dall'arroganza, e la solitudine. . era nato per essere Re, e Re di un immenso ed potente regno, per giunta, era ovvio che fosse solo. Ma che vita triste, quella passata in solitudine in un palazzo splendido adornato di cose meravigliose!

Le cose, dopo tutto, son solamente cose, e non hanno alcun valore se non c'è qualcun altro con cui condividerle. Un sorriso non lo si può comprare, né si può la felicità: frasi banali, ma come gli aveva spiegato Aristide, in queste banalità era nascosto un grande insegnamento. Ed era vero. Col denaro si poteva possedere un corpo, ma nessuno avrebbe potuto possedere un cuore o un'anima. E come doveva essere diverso giacere tra le braccia di Dionide piuttosto che tra quelle di un cortigiano! Astre non era sciocco: sapeva tutto ciò e non voleva dovervi rinunciare. . era naturale che anche lui volesse al suo fianco un cuore caldo da cui essere amati, e un'anima bella da amare. . che poi, forse, quell'anima si fosse ritratta al suo sguardo, e avesse rifiutato il suo tocco e non avesse risposto al suo richiamo. .

Idrio socchiuse gli occhi, e vide una figura ammantata, all'ombra di una tenda, intenta a fissare un punto troppo remoto perché lo si potesse raggiungere solo con lo sguardo: Pherio.

Ancora aveva imprintato nell'animo il brivido di paura che lo aveva preso quando la prima volta aveva incontrato quel terribile spartano! Che occhi limpidi e taglienti da avere addosso! E quel viso, poi, così bello e luminoso che quasi era un dolore fissarlo direttamente! Cosa fosse successo davvero Idrio non sapeva: aveva intuito qualcosa da Dionide, ma questi era estremamente parco di parole riguardo a quello, e poi stavano preparando la partenza, muovendo uomini armati, o così gli pareva. Avevano tutti molto poco tempo per occuparsi di. . dei servi.

Cosa altro poteva essere ora, infatti, Pherio, sbattuto come uno straccio e logoro nello sguardo? Sì, perché celavano quelle iridi il proprio dolore nella maniera che distruggeva l'anima, e lo facevano per non morire. Per tenersi in piedi, in qualche modo, per non dover continuamente guardarsi il petto e trovarselo pieno di sangue scuro.

I capelli biondi erano tagliati male, di netto sulla nuca, e spiovevano sul viso: una lunghezza assolutamente disonorevole per uno Spartiato; più nessuna tunica carminia, neanche drappi di lino col colore delle rose di Maggio, ma solo un pallido colore che moriva a confronto con quella pelle; niente più spada allacciata in vita. Poco aveva conosciuto di Sparta, lui, Ateniese, ma di certo era sufficiente per saper che Pherio non sarebbe mai andato in giro in quel modo di sua spontanea volontà, né Pirecrate avrebbe potuto trattarlo con la brutale indifferenza con cui lo aveva visto rivolgersi al compagno in quei giorni, se le cose non fossero mutate in maniera radicale e improvvisa.

Chissà se era vero quello che aveva pensato: Pherio e Pirecrate, l'uno tra le braccia dell'altro. C'era qualcosa di giusto, un nodo che correva al tappeto in maniera perfetta e armoniosa, in quel pensiero, sebbene mille fossero le difficoltà che portavano a siffatto intreccio. Erano molto diversi tra di loro, ma entrambi forti e saldi, figli gemelli della Lacedemone e di dei.

Tanto più qualcosa ferisce e fa soffrire, tanto più dovrebbe suscitare il ribrezzo dello sguardo: ma quando si ama la fonte di quella sofferenza, come poter non lasciarvi indugiare gli occhi? Delle volte quel qualcosa che lo prendeva dentro era più forte di tutti i suoi buoni propositi, e spesso nel suo guardare sottile aveva sorpreso Pirecrate a cercare Pherio con gli occhi, come se fosse irritato di non trovarselo al fianco, o come se si stesse aspettando di vederselo balzare alle spalle per colpirlo a tradimento. E quando riusciva a scovarlo era sempre e solo odio e disprezzo che si dipingevano in quelle iridi che sapevano essere dolci e gentili come solo il sole di primavera. Raramente parlava al ragazzo biondo, se lo faceva era per dargli ordini, urlati, aspri e secchi, e poi rimproveri mordaci per non aver fatto quello che aveva chiesto abbastanza in fretta o abbastanza bene, ma la fatica che doveva fare per staccargli lo sguardo di dosso era così palese che Idrio si domandò se fosse lui l'unico ad accorgersene.

Idrio, da spettatore qual era, in cuor suo sapeva bene che avrebbe di molto prediletto le parole, anche le peggiori e le più infami, a quegli sguardi: ché erano sguardi terribili, che uccidevano dentro, in grado di spezzare il cuore. E nonostante Pherio sembrasse indifferente, Idrio sentiva che era semplicemente. . lontano, perché nessuno che fosse stato al suo posto avrebbe potuto resistere.

E vedeva anche Astre notare quegli sguardi, e gioirne, e Dionide incupirsi di fronte ad essi, ma non aveva mai accennato a niente, mai aveva cercato di parlarne con Pirecrate, non che lui avesse udito.. e poi, perché Dionide avrebbe dovuto preoccuparsi di un servo che, a quanto pareva, non era neppure suo? Eppure a Dionide dispiaceva, lo leggeva bene in lui, e lo sapeva, perché aveva imparato a conoscerne il cuore. L'aveva visto, inoltre, spesso tentare di avvicinarsi a Pherio, invitandolo nella sua tenda a mangiare, quando Astre e Pirecrate erano troppo impegnati altrove, e sapeva che lo faceva tenere d'occhio da alcune donne, perché si occupassero in maniera discreta di lui, non facendogli mai mancare il cibo e abiti puliti, cose a cui il suo nuovo padrone, Pirecrate, non pensava affatto.

Come poteva essere che il cuore traboccante d'amore che stringeva nel petto Pirecrate, potesse vomitare tanto fiele e seminare una simile crudeltà sui propri passi? Che forse lo Spartano non aveva mai conosciuto il dolore e con tanta leggerezza ne tempestava quel povero animo? Pherio era in una pena tremenda, sbattuto qui e lì da nere tempeste implacabili se non col sangue versato da una lama suicida.

Il viso di Idrio si addolcì terribilmente, stringendosi appena le mani pallide. Che tristezza facevano quegli occhi tanto chiari e tanto solitamente arroganti e pieni di luce e sicurezza ora opachi e velati, distanti, come se contemplassero qualcosa che stesse al di là del normale mondo umano!

Non odiava Astre, come poteva non gemere dentro per la pena di Pherio?

Aristide gli ripeteva sempre che begli occhi son simbolo di una bell'anima, e che la bellezza tutta indica la virtù di un uomo. Pherio era fulgido e meraviglioso, e allora di cosa aveva potuto macchiarsi per cadere così in basso? Di che peccato era stato l'artefice perché fosse bersaglio? Di che mancanza?

Ma a lui non importava: aveva scoperto a sue spese che quegli dei a cui sempre aveva innalzato offerte e preghiere e canti fanciulleschi erano dei crudeli, pronti a dimenticarsi di ognuno di loro, e di strappar loro la libertà senza alcun motivo, forse divertendosi, anzi, a provarli di fronte a sempre nuove avversità. Probabilmente, dunque, Pherio non aveva fatto nulla per essere marchiato con quel disonore, e, anche se fosse stato, a lui sarebbe dovuto importare?

Idrio gli si avvicinò con passo leggero, le mani intrecciate in grembo.

Pherio intuì appena il suo movimento, voltandoglisi verso ma, riconosciutolo, accennò appena a un cenno del capo. A metà strada fra un saluto e un 'vattene': non aveva mai amato circondarsi di persone, e anche ora, soprattutto ora, il desiderio di stare solo era così forte che lo faceva sfuggire anche alle minime comodità che gli venivano offerte, come dormire in una tenda con altri schiavi, o accettare i pasti a una tavola comune. Piuttosto non mangiava, e si coricava sempre all'aperto, non giù nell'oasi, fra il verde, ma sul retro delle tende, sulla sabbia, avvolto il più possibile nel misero mantello che aveva. Approfittava spesso delle coperte che Dionide gli faceva avere, ma non aveva mai accettato di essere ospitato nella tenda di qualcuno, fosse pure un magazzino.

Un caparbio spartiate era stato, e forse non era più spartiate, ma di per certo rimaneva cocciuto e arrogante.

A quel pensiero Idrio non riuscì a non sorridere. Si vergognò subito di quello e, arrossendo, incrociò le mani sul petto chinando appena il busto, in una specie di saluto.

"Buona serata anche a te, Idrio di Atene."

Sussultò sollevando di scatto il volto, con gli occhi sgranati dalla sorpresa.

Da quando ..da quando quella ferita gli deturpava il collo, levandogli la parola forse per sempre, tutti s'erano sempre rivolti a lui.. bhè ..nessuno mai aveva più 'parlato' con lui, come invece aveva fatto in quel momento Pherio, come se avesse risposto a una sua frase. Era stato un gesto di saluto, ovviamente, il suo, ma di solito le parole che riceveva avevano tono ben diverso. Erano sempre asserti che presupponevano di essere quelli che iniziavano un discorso che lì sarebbe finito, ed era vero, solo che ..

Lo spartano distolse gli occhi, riprendendo la sua posizione. Stava iniziando a far freddo e la brezza gelida della notte stava iniziando a sussurrare fra le tende. Fra poche ore il deserto già così vuoto di giorno, si sarebbe riempito di ombre ansanti, buio e stelle e il freddo avrebbe artigliato anche il cuore, non solo le carni.

Idrio sentì forte la tristezza ora pesargli in cuore, ma in modo nuovo, un sentimento struggente, invincibile come sempre ma più pacato, i cui morsi erano segni vividi dentro di sé, ma la belva pareva lontana, o almeno sazia.

Per quale motivo?

Idrio non lo sapeva. Ma era come portare un unico, greve peso non più da soli. Era la vicinanza silente e distante di Pherio? Forse era perché Pherio continuava a trattarlo come sempre aveva fatto: socchiuse gli occhi un poco, e si avvicinò di un altro passo, e poi un altro. Mosse gentile una mano nell'aria indicando la terra accanto all'altro che si strinse nelle spalle, in risposta, aggrottando la fronte e senza voltarsi gli rispose.

"Siediti un po' dove ti pare. La terra non mi appartiene."

Idrio sentì come se qualcosa gli si sciogliesse dentro. E Pherio finalmente si voltò verso di lui, mettendo a fuoco lo sguardo con attenzione.

Il silenzio e la solitudine erano cose che si potevano anche sopportare in due, e rimaneva comunque silenzio, e rimaneva comunque solitudine, ma qualcosa c'era di diverso.

'Diverso' non era il termine esatto, serviva qualcosa che indicasse altro.. ma Idrio non lo conosceva e allora si accontentò di quella vicinanza silenziosa, di quel nulla che si stendeva di fonte a loro di quel dolore che li ammantava entrambi, diversi e soli, gettati ognuno in un proprio, intimo, assurdo abisso di sofferenza, eppure accanto l'uno all'altro.

Come il diapason vibrante fa tremare la corda a cui si accosta, così Idrio sentì se stesso iniziare a risuonare secondo una nota forte, già presente nell'aria, che non proveniva da lui ma che in un qualche modo gli apparteneva.

L'oscurità buia della sofferenza gli si aprì sotto i sensi, inghiottendolo ed avvolgendolo come in un bozzolo tiepido, il desiderio di nuovo rinacque in lui come una malinconia d'una terra divina ove quella sofferenza non ci sarebbe stata, ove quel velo che gli impediva lo sguardo sarebbe caduto, ove la sua gola avrebbe di nuovo potuto cantare, ove..

Boschi lucenti e umidi, pieni di vita e luce gli si spiegarono di fronte, le narici furono incantate dall'aroma d'ambrosia che si spandeva come la visione nitida e pulita: il mondo fanciullo, un dipinto dalla pittura ancor fresca dai colori sgargianti che non hanno ancor subito l'attacco del tempo, e che mai, mai verranno sopraffatti dal grigiore.

L'immobile lucentezza delle statue di perfetto marmo, eppure lì c'era vita, e vita vera: come se il mondo ideale fosse reale, ora, di fronte ai suoi occhi, come se gli Archetipi avessero messo radici e a lui, mortale, si mostrassero, e il mondo Iperuranio accogliesse in sé un uomo.

L'incanto era troppo, tremendo lo stupore e la gioia terribile, col cuore che bruciava i petto..

Una caccia?

Idrio voltò appena il capo. Il bosco frondoso dalle lucide foglie scure non era troppo fitto, si vedevano ampi spicchi di cielo chiari, in lontananza risuonavano, perdendosi, corni, e il latrare di cani all'inseguimento d'una preda.

Gli dei cacciavano?

Tentò un sospiro, e la voce tremula suscitò la risposta d'un passero su un ramo alto e il cinguettio poi s'interruppe in un frullar d'ali. Idrio sorrise, dunque, seguendo il suono argentino e scrosciante di quel che pareva essere una fonte che s'infrangeva su ciottoli chiari: l'acqua, ecco, ad essa avrebbe voluto intonarsi e cantare ad essa e con essa le bellezze di quel mondo che promettevano oblio e pace, senza passato né futuro, tutto perduto in un eterno presente lucente. Acqua, sì, l'acqua a cui lui era legato, la sua Atene, il suo stesso nome..

Un dio però era chinato alla fonte.

Un dio, sì, perché se in cielo brillava l'astro solare con tutta la sua pura forza, la sua luce si rifletteva per intero su quel corpo che ora aveva di fronte, a tal punto che dovette abbassare gli occhi per il dolore, sollevando le mani a cercare, creandola, un'ombra che fosse pietosa.

Un dio? Apollo stesso, probabilmente, cacciatore ma senza frecce. Idrio vedeva i sandali appoggiati poco lontani dalla figura china sulla superficie liquida e poi, come gettata, abbandonata, una lancia di lucido rame.

Troppo lontana, pensò, e si stupì di quel pensiero.

Eppure esso era forte, e gli instillava ansia, e dolore.

Il dio si alzò in piedi, tendendo i muscoli perfetti, lasciando che sottili rivoli d'acqua ne rinfrescassero la pelle accaldata. Indossava, egli, solamente una stoffa rossa allacciata intorno alla vita, del color del sangue, e senza arco e frecce ..no, no, egli non era Apollo.

Idrio quasi urlò a comprendere. La lancia troppo lontana, la veste rossa indosso, rossa come il sangue, rossa come quei fiori che una ninfa gli aveva intrecciato ai capelli.. bello, il più bello, amato d'Afrodite, odiato da Ares, geloso e furente, tramutatosi in un cinghiale per spezzare la vita di quel mortale che aveva osato sfidare un dio nel cuore della bellezza.

Adone!

Adonais! Fece per chiamarlo, tendendo una mano, urlandogli di tenere accanto la lancia, così simile quell'immagine alle pitture che da piccolo aveva visto sulla morte dell'eroe nella sua Atene che quasi ora poteva sentire il frusciare delle fronde spezzate, e intuire ove il cinghiale avrebbe caricato e il sangue che sarebbe fiorito su quel corpo così bello..

Il semidio si mosse.. ed egli non era che un uomo.

Pherio.

Idrio sbatté le palpebre: cosa ci faceva lo spartano in quel posto? La tunica rossa a cingergli i fianchi? E la piccola corona di anemoni rossi sul capo? Eppure era lui, conosceva quel volto, sapeva quel profilo.

Era lui, dimentico di ogni cosa, a cacciare cervi tra quei monti che non erano .. che non erano 'reali'.. Idrio corrugò la fronte. Che chiarore strano aveva ogni cosa intorno a se'! Quello era il mondo degli dei? Quello era il mondo dei sogni. I *suoi* sogni. E perché sognare Pherio cacciatore? Perché vederselo con quell'espressione che non aveva mai potuto immaginare sul volto nobile dello spartano?

E perché..

Pherio si voltò verso di lui.

La sua espressione mutò.

L'espressione di Idrio si mutò.

E capì.

Non erano i *suoi* sogni, quelli. Quello era ..era *vero*, da qualche parte, in qualche modo. E la consistenza di quel mondo che quasi scivolava addosso, etereo e sottile, pura luce che trapassava ogni cosa, che esponeva e straziava e non lasciava scampo, era qualcosa di reale, come la morbidezza d'un petalo sulle dita, o il calore del vento del deserto.

E quello era Pherio.

E Pherio lo fissava pallido e teso, non riconoscendolo, ma sentendolo vivo, unico oltre se stesso in un posto dove i mortali e i viventi non potevano mettervi piede se non dopo un lunghissimo percorso tortuoso.

Pherio era lì che si nascondeva? Pherio era lì che stava, ora? Lontano da Pirecrate e da tutti?

La paura divenne un dolore grifagno a mordere il costato, gli occhi negli occhi facevano troppo male e ora si sentì, Idrio, terribilmente vulnerabile e qualcosa dentro di sé faceva troppo male, come se si fosse destato da un tocco conosciuto. Il terrore sopito riprese forza, e il ricordo, l'orrore affondarono di nuovo i denti nel suo cuore.

Idrio urlò, lo sguardo di Pherio divenne terribile, terrore e furia mischiati insieme, riconoscendo nell'ateniese un segno osceno, un marchio orrido che gli prometteva sofferenza, e atrocità.

Quel mondo, il suo mondo, era stato invaso. Era quello il cinghiale che attendeva? Era quella l'arma che Ares aveva scagliato contro di lui? Era quel fanciullo che l'avrebbe ucciso? Pherio non lo sapeva, ma vedeva chiara la luminosità rossastra di Ares stendersi su quelle membra sottili.

Non riuscì che a pensare di fuggire, scappare, nascondersi. Un uomo lo poteva sconfiggere, ma Ares, Ares no.

Sollevò le mani di fronte al volto. Udì l'urlo agonizzante, terrorizzato di Idrio che non vedeva più la foresta e le foglie, il cielo, la fonte, il prato, ma l'incubo di aver l'anima strappata da mani ad artiglio che violavano qualcosa di ancor più sacro che il proprio corpo, ma non lo guardò di nuovo. Fece solo un passo indietro, e un altro, e un altro .. se si fosse spinto abbastanza a fondo, né Ares né più nessun altro avrebbero potuto raggiungerlo.

E sarebbe stato salvo.

Idrio urlò e urlò e urlò.

Urlò finché poté.

Urlò finché non ebbe più voce, ma solo la gola fatta a pezzi da un dio crudele, sotto un cielo stellato, rantolando sulla sabbia rossa del deserto.

Annaspò sconvolto lottando contro la nausea, contro il suo corpo ghiacciato e terrorizzato, contro l'uggiolio penoso che orrido gli usciva dalle labbra, si mise in ginocchio, vomitando sangue, lacrime bollenti a solcargli la pelle ardente di febbre, poi si obbligò in piedi sull'orlo della follia. Guardò Pherio, immobile e impassibile, e riconobbe in lui quella figura che aveva guardato dritto nel suo animo e aveva visto il segno che Ares gli aveva lasciato sull'anima, unico fra tutti coloro che lo circondavano.

Pherio ed Ares per un attimo si sovrapposero nella sua mente, ed Idrio fuggì, singhiozzando di fronte a quello che non avrebbe mai potuto lasciare dietro di sé.

Perché era se stesso.

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