NOTE: i pg sono nostri, li amiamo tantissimo e ogni capitolo è segno
tangibile del nostro sconfinato affetto! ^^!

Di odio e di Amore

parte XXV

di Dhely e Kalahari



Scotendo appena il capo, Pherio slacciò gli ultimi nodi che gli tenevano 
indosso l'abito indaco. I capelli volteggiarono sulla pelle al posto della 
stoffa: una sensazione piacevole, molto piacevole, forse troppo.

Forse.

La tenda era ampia per loro due spartani soli, stracolma: cuscini e veli e 
preziosi broccati e tappeti. Un unico lume brillava fioco in un angolo, ma 
Pherio non abbisognava di luce per saper la posizione degli oggetti in un 
luogo una volta statoci anche solo per un attimo. E tanto meno ne aveva 
bisogno quando l'unica cosa che dovesse fare era togliersi di dosso quegli 
stupidi abiti e coricarsi.

Non era stanco, non lo era per nulla: a Sparta l'avevano addestrato a 
sopportare ben peggio di quello, e lui bene sapeva cosa poter pretendere dal 
proprio corpo. La sua mente, invece, la sua mente era una grotta di Cariddi. 
Un mostro terribile, viscido ed oscuro attendeva ogni volta che il suo animo 
veleggiasse su quelle acque: un minimo cedimento aspettava, per scattare e 
avvilupparsi intorno ai pensieri, stringendo il cuore in una morsa difficile 
da sciogliere. Da quella battaglia lì, usciva sempre sconfitto: non c'era 
modo di vincerla! O, almeno, era ben oltre le sue forze. Per questo, oltre 
che per orgoglio, non gli piaceva avere cedimenti. Per lui significava 
troppo lasciarsi andare, permettere all'animo d'uscir fuori da confini che 
si rendevano invisibili una volta sorpassati.

Era malato, lo sapeva: fin troppo bene riconosceva i segni di quella malattia 
incipiente che da anni lo tormentava silente nel buio denso delle notti 
troppo lunghe, nelle ore solitarie e senza fine che costellavano al sua 
vita, di cui non conosceva il nome. . di cui forse non esisteva nome. E lui 
s'era sempre ben guardato dal nominarla, come se appellarla l'avesse resa 
più reale di ciò che già era. Terribilmente reale.

Il giaciglio profumava intensamente di Pirecrate e nonostante questo gli 
occhi si chiudevano, pesanti, senza voler obbedire all'ordine di una 
lucidità che già s'era smarrita dietro a pensieri, troppi, che gli 
ribollivano dentro. Pirecrate. . sua madre. .

'So che tua madre è stata rinchiusa.'

Rinchiusa. No, non rinchiusa: strappata dal cuore e dalla mente. I suoi 
genitori, i suoi fratelli, tutti quelli che erano stati suoi amici, che le 
erano stati vicini avevano cercato in tutti i modi di dimenticare il suo 
volto, il suo ricordo. Il suo nome non veniva pronunciato, come se fosse una 
maledizione: se essere toccati da un dio era un onore invidiabile agli occhi 
dei superni, di fronte al mondo questo era sventura e vergogna.

Soltanto lui: solo lui accanto a sua madre, nessun altro. Solo lui vedeva, 
solo lui sapeva, e assisteva e conosceva. . Sua madre era una pazza, che 
parlava al nulla, urlando frasi incoerenti, ignara del proprio corpo, 
dimentica del proprio nome, della propria stirpe. . del proprio unico figlio 
che, forse, aveva molta meno importanza di una singola foglia dell'ulivo 
antico che da secoli cresceva nel giardino interno del tempio di Artemide. 
Solo il bronzo che ai giovinetti si pone alle braccia l'aveva come destata e 
da allora quella fogliolina era divenuta un seme che sarebbe cresciuta e 
l'avrebbe vendicata. Era nato per la vendetta, per il sangue.


Pherio vedeva chiaro il tempio.

No, non quello di Artemide, non un tempio che aveva visitato, un tempio in 
cui era stato. Non era un tempio, era *il* tempio. Non Delfi, non Sparta: 
quel tempio viveva dentro di lui. Ed era un tempio dissacrato, o questa era 
l'immagine che rimandava: il candore delle lisce pareti era immacolato, non 
una metopa, non un triglifo, tutto era bianco, i colori scoloriti dal tempo, 
oppure mai applicati, le lastre d'oro, i rossi e i blu, il rame lucente. . 
nulla, nulla di tutto questo. Solo bianco e vuoto. L'aria stessa era 
immobile, senza incensi che si levassero come offerta, o i fumi densi delle 
pire o i canti morbidi che le sacerdotesse innalzavano all'alba, intessendo 
le proprie voci con il pallido schiarirsi del cielo.

Sua madre: una pazza lì abbandonata. Solo la pietà dei sacerdoti l'aveva 
salvata, solo la pazienza delle sue consorelle le aveva permesso di 
mantenere in vita quel corpo che era solo un guscio vuoto.

'. .in un Naos. .'

Il recinto sacro, la parte più intima del tempio, ove solo i consacrati 
avevano accesso.

Anche in quel tempio vuoto l'ingresso al Naos non era permesso e *quel* Naos 
aveva battenti d'un bronzo sì lucido da accecare la vista, a reggere 
imponenti porte. Chissà se l'Olimpo aveva porte così salde, così terribili. 
Di certo però le porte che custodivano l'Olimpo non erano spalancate. Quelle 
sì, perché attendevano lui e lui soltanto avrebbe potuto varcare una simile 
soglia. Le colonne intorno forse sarebbero state sfiorate da mani perdute, 
le volte contemplate da altri occhi impauriti, ma nessuno uomo o donna in 
nessun tempo da nessuna parte avrebbe potuto accedere alla stanza segreta e 
proibita.

Quel Naos era per lui, era destinato a lui e dopo di lui. . più nessuno, lo 
sentiva, lo sapeva. I battenti si sarebbero tesi, i portali pesantemente 
richiusi senza permettere né a richiami, grida, urla, di raggiungerlo. 
Neppure a dita strette in un pugno battente contro la dura scorza delle 
porte, sanguinanti per i colpi.

Un passo, un passo solo li divideva, il tempo d'un respiro, e quel passo gli 
era stato concesso in eredità da sua madre. Zeus era davvero un abile 
tessitore. E Pherio era lucido e perfettamente cosciente e questa sua 
consapevolezza bruciava come il ghiaccio: sapeva di potere, sapeva di
dovere.

Oh quanta paura da bambino quando, in silenzio, coi pugni sulle ginocchia, 
la fronte corrugata in un'unica ruga terribile di dolore e spavento, 
guardava la propria madre contorcersi e sbavare negli attacchi della 
malattia divina che tanto spesso la coglievano e la indemoniavano! A lui 
aveva messo un gelo nel cuore che non si può descrivere. E tuttora non 
riusciva a pensarla, quella donna che tanto odiava ed amava, senza sentire 
delle forti fitte al petto. Per lei, per se stesso. Non aveva mai ascoltato 
le voci delle altre sacerdotesse che così spesso avevano tentato di portarlo 
via di lì, lontano dalle urla: le era rimasto sempre accanto, vegliando come 
un piccolo Genio protettore.

Forse era stato tutto il terrore che lo aveva tenuto immobilizzato e 
tremolante nelle notti di luna nuova, quando temeva che Artemide non fosse 
in cielo perché doveva venire a trovarlo, e toccarlo, toccare anche lui. . e 
tremava e spesso la mattina s'era ritrovato con le bianche cosce bagnate di 
urina. . forse era stata davvero quella gabbia intorno al suo animo che 
glielo aveva coperto d'aspra scorza: reso infallibile nell'ignorare i 
sentimenti. Specie la paura.

Ma il tempio rimaneva un luogo che visitava spesso, contro le cui colonne 
s'accasciava respirando appena, e la soglia rimaneva comunque aperta per 
lui. Era lì.

Cosa l'aveva sempre trattenuto? Cosa l'aveva sempre reso in grado di 
rifiutarsi ad entrare, come invece aveva fatto sua madre?

Una treccia di biondi capelli lasciata cadere su un pavimento consunto da 
troppe ginocchia che si genuflettevano.

La dedicazione. La sua dea l'aveva salvato, senza mai esser presente al suo 
fianco, senza mai far pesare, o contare davvero nella sua vita. Ma quel 
giuramento era stato un'ancora che l'aveva trattenuto, e legato. E salvato.

Ora il vincolo era in frantumi, ora la voce chiamava con insistenza e una 
parte forte, urgente dentro di lui spingeva e gemeva. Traditore: aveva 
tradito la dea e se stesso, per cosa?

Lussuria.

Lui non era degno. Il mondo non era per lui. Il suo destino lo chiamava lì, 
lì dove era stata incatenata e trattenuta sua madre, lì ove lei era stata 
sepolta viva.

'Ma tu sei un uomo! Per te è diverso!'

Pirecrate.

Bastava quello? Bastava *lui* per non muovere quel passo? Per trovar la 
forza di rifiutarsi? Bastava. . la fiducia?

Lussuria?

No non era stata lussuria, non solo: troppa solitudine, troppo dolore, 
troppo.. Pirecrate e il suo fuoco, Pirecrate con quella sua dolcezza tutta 
speciale, una gentilezza e un'attenzione a cui non era avvezzo, di cui 
nessuno gli aveva mai fatto dono. Bastava quello per trattenerlo sulla 
soglia? Per impedire alla sua mente di scivolare nel baratro morbido che 
portava all'oblio e forse alla disperazione e a dimenticarsi di sé, 
assorbito in altro? Bastava quello per non affogare?

E poi: era quella un'ancora salda? Era la fiducia ben riposta? Era lui 
abbastanza forte per non seguire i passi che, netti, vedeva spiccare come 
orme sulla sabbia del deserto?

'Per te è diverso!'

Il tempio, quel tempio, poteva non reclamarlo a se'? Poteva riuscire a 
rimanere libero, e padrone?

Il vincolo era infranto. . il giuramento a pezzi. . aveva infranto un 
giuramento. . ma una mano era tesa verso di lui e quella mano era forte: 
Pirecrate. Bastava Pirecrate a. .

Pherio sentì freddo, un freddo che ghiacciava l'anima e poi fu quasi arso da 
una vampa di calore, lambito da una fiamma guizzante che non era propria. Un 
nuovo legame che si stava forgiando.

Fiducia: Pirecrate.

Sorrise, addormentandosi.

___


Pirecrate gettò via la veste, inciampando nell'involto di lieve indaco che 
si ritrovò fra i piedi: ah, sì, quella cosa che quegli impudichi osavano 
chiamar 'abito'. Era un abito quello che lasciava un corpo si mostrasse con 
lascivia agli occhi desiderosi degli altri? Anche se colui che lo indossava 
non ne era al corrente? Chissà poi se Pherio s'era accorto dell'effetto che 
aveva scatenato in quella gente, se aveva notato gli sguardi e il resto. . 
cosa difficile era non accorgersene, a dir il vero, tanto quanto era 
difficile non suscitarli visto il corpo che poteva mostrare. .

Sbadigliò, ponendosi appena una mano innanzi alla bocca e ad occhi mezzi 
chiusi si lasciò scivolare accanto a Pherio, la testa che ancora girava un 
poco nonostante l'avesse immersa nell'acqua fresca dell'oasi. Il Panfilo 
dormiva beato, le membra simili a quelle d'un gatto che si gode un bel 
fuocherello quando fuori infuria una tempesta. Gli accarezzò la fronte col 
dorso delle dita, quasi stupendosi che quegli occhi non s'aprissero o un 
respiro più lungo o rotto gli prendesse il petto: Pherio continuò a dormire, 
muovendo appena il capo contro i suoi polpastrelli. Gli sorrise passandogli 
un braccio sotto la vita e stringendolo a sé: era bello, dopo tutto, perché 
mostrarsi stupiti se la gente di Firuzeh con tanta fatica riusciva a 
distogliergli gli occhi di dosso? Pirecrate sorrise appena ma quel gesto 
s'incrinò osservando con occhi attenti le piaghe sulle schiena che, invece 
di star chiudendosi, iniziavano a spaccarsi appena lì dove s'erano fatte più 
profonde.

Si sollevò allora, sbuffando contro la pelle delicata, la testardaggine di 
Pherio, e la propria incapacità di ignorare la cosa, sottraendosi al risposo 
e ad un sonno che gli promettevano infinite dolcezze e cercò l'unguento per 
spargerlo sulla schiena. Se entro il giorno successivo non fossero guarite, 
avrebbe chiesto aiuto ad Astre: lui non era competente di quel tipo di 
diavolerie!

Scansò i capelli e prese a massaggiare la pelle martoriata, mezzo 
addormentato. Quando sentì sotto i polpastrelli che l'unguento era stato 
pienamente assorbito dalle ferite come la rugiada dai fiori, scivolò in 
avanti, pel momento addormentandosi.

Ultima, innanzi allo sguardo, l'immagine del bel volto sereno di Pherio.

"Dormi bene. ." sussurrò, improntando un bacio leggero sulle labbra schiuse.

_____


Dal soffitto pendevano due lampade di bronzo ma soltanto una diffondeva la 
pacata luce della candela nella stanza. Dionide, entrando, un lungo mantello 
rosso proteggendolo dal freddo notturno, immediatamente riaccese anche 
l'altra candela: una singola luce rendeva spettrale il volto di Idrio. Come 
se fosse morto. Talmente fu la paura che gli prese il cuore da fargli 
allungare il volto al petto. Sentendolo muoversi sospirò, togliendosi i 
vestiti e prendendo una coperta che potesse ospitare entrambi: se suo padre 
avesse visto quello, ora, si sarebbe infuriato come una biscia.

'E' un luogo sacro questo non un rifugio di profughi!'

Sì, sì. . va bene.

Non potè non, appena prima di coprire entrambi, indugiar nell'osservare il 
volto del suo amato. Mentre stette fisso, immobile, con la lana che, tenuta 
da entrambe le mani, si tendeva sul capo, lo sguardo si velò d'amore: ancora 
una statua, una meravigliosa statua di marmo rosato, avvolta nella seta più 
fine e corvina, più preziosa e reale che era riuscito a trovare, solo per 
lui, solo per il suo amato. Ma nulla era troppo per avvolgere quel corpo 
prezioso, al suo cuore, più di ogni segreto tesoro nascosto nel grembo della 
madre terra.

Lasciando la coperta con la sinistra prese tra le dita qualche ciocca di 
quei capelli castani, carezzandola sulle tempie, per poi scendere coi 
polpastrelli sulle labbra e sentire il respiro sottile uscire dalle narici. 
Si chinò sulla bocca e lì lasciò un bacio, poggiando la propria sulla sua 
fronte.

"Svegliati presto, non resisto più senza il tuo calore e il tuo sorriso. ."

Prese una di quelle mani intrecciate sul grembo, per baciarne le nocche 
morbide e accarezzare a lungo la pelle lì così soffice. Sempre s'erano 
addormentati così, stringendosi le mani, accarezzandosele a vicenda fino a 
che il sonno non li coglieva entrambi.

Insieme.

_____


Nel cuore della notte Astre si ritrovò sveglio, e incredibilmente seccato. 
Perché non riusciva a riaddormentarsi, perché non riusciva a comprendere, e 
i dubbi erano divenuti chiodi fissi? Aveva sbagliato a lasciar andare via 
Pirecrate così facilmente e ora ne pagava il fio: certi particolari si erano 
come materializzati innanzi alla sua attenzione, e più ci pensava meno ci
capiva.

Che forse non volesse capire? Corrugò la fronte e si scansò dal pesante 
grumo che erano divenute le coperte lievi e preziose, stropicciate e 
martoriate dal suo continuo rigirarsi.

Pherio s'era allontanato presto dal banchetto, ma questo era da aspettarlo: 
Pherio odiava certe cose, era certo che se non fosse stato educato a 
sopportare la vicinanza di tante persone tutte insieme, la sua inclinazione 
naturale l'avrebbe portato a rinchiudersi in qualche buco solitario in una 
roccia sperduta, come aveva udito facessero alcuni uomini delle tribù a sud. 
Pazzi, il mondo era semplicemente pieno di pazzi! E Pherio probabilmente lo 
era davvero, come suo zio, e la maggior parte degli spartani.

D'altro canto, uno dei pochi di quella razza che gli sembrava almeno 
lontanamente normale a volte gli appariva così irritantemente stupido da. . 
no, non stupido. Non doveva permettere al suo fastidio di fallire così tanto 
su di un giudizio. Pirecrate non era stupido, Pirecrate era. . non trovò la 
parola adatta che calzasse a Pirecrate, ma solo un'immagine: un'anima 
forgiata nel fuoco. Chiunque gli aveva imposto il nome aveva dato segno di 
possedere uno sguardo realmente acuto.

Purtroppo per Pirecrate, se del fuoco possedeva la maestà, la forza e 
l'ardore, ne possedeva anche l'intrinseca purezza, e l'impossibilità di 
perdersi nei tortuosi anfratti cerebrali di cui Astre era invece mastro. 
Pherio era furbo, ma nessuno poteva stargli al pari, e pure lo spartano lo 
sapeva, per questo l'aveva sempre controllato così dappresso, lui che non 
s'era mai abbassato a degnare il resto degli esseri umani d'una semplice 
occhiata. Ma ovviamente con Astre un'occhiata non era sufficiente se non a 
capire.

Sapeva d'esser furbo e scaltro, e intelligente. Non era vanagloria, era 
solamente la verità. . e allora perché non capiva? Cosa c'era, come 
ingranaggi inceppati, che strideva nella sua mente? Perché, il re lo sapeva 
bene, dentro di sé aveva già pienamente compreso. . il problema era che una 
parte di sé non voleva accettare, non voleva *capire*.

Quanto poteva essere difficile accettare ciò che non collimava coi suoi 
piani e con la sua visione del mondo!

Si concesse un sorriso di scherno prima di alzarsi, stirandosi le gambe 
lunghe, scrollando appena il capo, ringraziando in silenzio la brezza fredda 
che gli sfiorò il viso uscito dalla sua tenda vuota.

Vuota, ovvio: adesso c'era pure Dionide che s'era invaghito di quello 
stupido d'un musico ateniese! Morto! Doveva essere morto, quel dannato che 
ora si frapponeva fra lui e il suo amante per negargli anche quel poco di 
conforto che poteva pretendere, e invece era vivo, e respirava e 
probabilmente, ma solo probabilmente, avrebbe di nuovo aperto quegli suoi 
scioccamente dolci occhi al mondo e Dionide. . bhè, Dionide ne sarebbe stato 
così assolutamente, schifosamente entusiasta fino al momento che di lui si 
sarebbe stancato. Dopo tutto era solo un servo. . Quanto diamine può durare 
un'infatuazione verso un servo?! Qualche anno ancora, e molto probabilmente 
l'Ateniese si sarebbe ritrovato in qualche altro mercato di schiavi.

Bene, ognuno al proprio posto.


Meditò a lungo su quella acredine che avvelenandogli l'anima rischiava di 
offuscargli il giudizio, mentre vagava per l'oasi immobile e silenziosa, 
esausta per il troppo danzare, il troppo brindare, il troppo amare di quella 
notte che stava diventando quasi mattina, lentamente, all'orizzonte lontano.

E un pensiero improvviso lo fulminò sul nascere di quel sole che era troppo 
remoto per rischiarare già il presente, come quando una risposta troppo a 
lungo meditata sorga da sé nella mente dopo averla accantonata dalla 
disperazione.

Incredulo allungò il passo lieve verso la tenda approntata per gli ospiti, 
scansando appena il telo che ne chiudeva discreta l'entrata, lasciando che i 
suoi occhi si abituassero alla penombra non fitta che vi aleggiava 
all'interno.

Eccoli: i tappeti sgargianti e morbidi, sotto i piedi, le poche 
suppellettili, il manto carminio di Pherio, che per la serata era stato 
abbandonato, ben ripiegato sotto la spada di bronzo lucente e quell'altro, 
quello di Pirecrate, gettato invece a terra, una falda scura, stillante 
acqua. Ecco il piccolo recipiente di unguento che, sapeva, le donne a cui le 
cure dei due ospiti erano state affidate avevano lasciato loro, a terra, 
quasi vuoto ormai anche se neppure una giornata prima era stato intatto, e 
colmo. Ecco i grandi cuscini, poi, tanti e morbidi e colorati, che ammassati 
sul fondo della tenda erano giaciglio e nido insieme, graditi agli spartani 
poiché, come poteva intuire, i corpi erano accucciati sotto il lino candido 
e lo
strato di lana lavorata per tenere lontano il freddo della notte del 
deserto.

I cuscini erano tanti, perché gli spartani erano due, e in due avrebbero 
dovuto dormire in quella tenda, ma. . separati! Invece solo una metà dei 
teli e delle coperte era utilizzata, l'altra parte era ancora intatta: non 
era stata per niente toccata! Ad Astre non serviva muoversi oltre per 
intuire quello che dannazione già *sapeva*, per vedere quello che già aveva 
visto, e fin da Sparta aveva visto e non aveva creduto!

Non aveva creduto nonostante tutto gli dicesse il contrario! Non aveva 
creduto perché Pirecrate gli aveva giurato che. . eppure anche solamente 
sulla soglia della tenda, come egli era, si potevano intuire i due corpi 
allacciati, si potevano immaginare le membra bianche e morbide di Pherio 
perdersi, aggrappate a quelle forti di Pirecrate, e vedersi la curva della 
spalla del Dimano su cui spuntava, come un arabesco disegnato d'oro, una 
ciocca appena di lunghi capelli chiari. Avesse aguzzato lo sguardo avrebbe 
visto le dita scura avvolte a quei fili pallidi, e quei palmi chiari premuti 
contro il petto dell'altro. Avrebbe potuto seguire la curva disegnava dai 
lini e intuire l'intrecciarsi stretto delle gambe e scoprire che, essendo 
gli abiti di entrambi sparsi un po' ovunque, i due erano nudi, a dormire 
pelle contro pelle, i respiri lenti e rilassati. .

Spalancò gli occhi, furioso.

Quella pelle candida che doveva essere sua, e solo sua! Quel corpo ch'era 
rimasto vergine per decenni, lo era rimasto per cosa? Per venir donato a 
colui che da decenni lo sfidava, lo insultava, cercava di affondare un palmo 
di ghiacciato bronzo nelle sue viscere? Colui che lo voleva vedere morto, e 
sepolto, e che in mille modi ci aveva provato? Quel corpo che *lui* aveva 
curato, che *lui* aveva riempito di attenzioni, che *lui* aveva protetto e 
accarezzato, e bendato, e lavato e massaggiato e cosparso d'oli e unguenti e 
....

Quel corpo era *suo*!

Non fosse altro per la fatica che aveva profuso perché la sua bellezza non 
fosse sporcata da quegli stupidi usi guerreschi, ché a Sparta non sapevano 
neppure comprendere quando il destino aveva consacrato un fanciullo ad altri 
scopi che quello di macellare altri uomini!

Stupidi loro che di fronte a un giovinetto bello e luminoso e unico come 
doveva essere stato Pherio non l'avevano tenuto rinchiuso da qualche parte, 
come vista troppo terribile da essere esposta al mondo ma l'avevano gettato 
in una fossa di leoni affamati di sangue giovane e fresco, invidiosi di lui, 
della sua bellezza, dei suoi movimenti!

Stupido Pherio che aveva sempre assecondato, venerato, idolatrato quelle 
abitudini che vedevano nel valore di un uomo solo il numero di cicatrici 
riportate sul corpo, non comprendendo che ogni scalfittura che avesse resa 
meno perfetta la sua pelle era solamente un peccato che urlava vendetta al 
cielo!

Stupido Pirecrate che quelle ferite aveva lottato per aumentarle e stupido, 
stupidissimo Fato che l'aveva fatto nascere in una città come Sparta! Se 
fosse nato a Persepoli, i più ricchi, i più nobili di tutta Persia si 
sarebbero svenati per possederlo. Sarebbero giunti fin dall'Egitto per 
ammirare le grazie di quel fanciullo d'oro che tanto somiglia ad Adone, di 
possesso del Principe Astre . .

Se fosse nato altrove. . ovunque tranne che a Sparta avrebbe potuto essere 
suo! Avrebbe dovuto essere suo! L'avrebbero addestrato e gliel'avrebbero 
regalato perché non esisteva su tutta la terra una gemma più fulgida di 
quegli occhi incastonati nell'avorio pallido di quel viso! E non esisteva 
nessun altro di più degno e nobile del Nobile Astre per poter essere il 
custode, il padrone d'un tale tesoro!

Ringhiò, modulando un suono basso, di pura furia, rabbia stillante veleno, e 
solo lo sguardo di scatto sollevato di Pirecrate gl'impedì di cingere l'elsa 
della spada di Pherio con le dita ed affondarla in quel grumo di membra e 
corpi avvinghiati, insulto vivente alla sua maestà.

Gli occhi di Pirecrate, dunque, s'alzarono, preoccupati, lucenti anche se 
densi d'ombre, riconoscendolo subito. In quelle iridi celesti scurite dalla 
notte non passò neppure per un attimo timore o reverenza, solo una piccola 
nota di stupore e poi compassione.

Pirecrate sollevò appena due dita portandosele alle labbra, aggrottando la 
fronte.

"Non far rumore, Astre -ed era appena un sussurro dolce. Astre ricordava la 
voce di Pirecrate sussurrare quel tono, lo ricordava bene e non era giusto. 
. Pirecrate non lo desiderava più, Pirecrate. . aveva perso anche 
Pirecrate?- Pherio ha. . qualcosa. . -un labbro fu morso dai denti bianchi: 
preoccupazione, poi lo Spartano prese un altro profondo respiro- E' molto 
debole e delle ferite che non si chiudono. . devi vederlo, Astre. Ma -e 
questa volta lo sfacciato sorrise- solo quando si sveglia. Lascialo dormire, 
ti prego."

Compassione.

Preoccupazione.

Vide le braccia forti muoversi piano sollevando appena quel corpo divenuto 
lievemente sottile, e avere in cambio non un cenno che Pherio si fosse 
destato, come se il sonno del Panfilo fosse mortalmente profondo. Lo strinse 
appena, scivolando piano sotto le coperte, per tenerlo al caldo.

Se, pensò Pirecrate, Astre avesse sentito com'era fredda la pelle di Pherio 
si sarebbe allarmato! Ora, proprio ora piccoli brividi erano venuti a 
scuoterne la superficie pallida e la sua fronte era tesa, imperlata di 
sudore, e il suo cuore batteva forte, troppo forte, dentro di lui, come se 
volesse spezzarlo in due per scappar via dal petto.

Forse, però, Pherio aveva bisogno del persiano subito, non si poteva né si 
doveva aspettare il risveglio. . gli passò le labbra sulla fronte gelida e 
si oscurò voltando di nuovo il capo.

"Astre!"

Chiamò.

Ma il persiano era scomparso, uscito dalla tenda senza dire una sola 
sillaba.

Pirecrate si strinse al petto Pherio con una strana solerzia, una dolcezza 
preoccupata: quali erano gli incubi che potevano fare quello? Piagare un 
corpo giovane e forte in quel modo? Fin quasi a spezzarlo? E poi lui era 
Pherio! Pherio dei Panfili! Quel testardo arrogante che aveva accettato una 
sua sfida giù alla Pista, aveva combattuto e l'aveva pure sconfitto con la 
febbre che gli mordeva le carni! E Astre. . perché non s'era fermato? Non 
s'era forse sempre occupato di lui quando stava male? E ora dov'era andato? 
Forse a prendere qualcosa? Medicine, forse.. ma dimenticò in fretta Astre.

Pherio gemette, agitandosi lentamente fra le sue braccia. Pirecrate strinse 
gli occhi, preoccupato, baciandogli la fronte con piccoli tocchi di 
farfalla.

"Pherio!"

Sussurrò appena. Il Panfilo socchiuse allora gli occhi, velati e distanti, 
affogati in qualcosa di indistinto e doloroso

"Pi..Pirecrate.."

Sussurrò, poi cadde di nuovo in un deliquio muto e immobile.

_____


Pirecrate.

Faceva male il costato pensarlo, e crederci, poi . . Faceva male il costato 
come già era accaduto, con il cuore che, per quanto avrebbe dovuto essere 
immerso nel riposo tranquillo, sbatteva e si torceva in petto, impazzito, 
con i polmoni contratti, ardenti e i muscoli trafitti e deboli, appena 
tremanti. Lui che faceva cinquanta giri di Pista trovandosi appena con un 
po' di fiato grosso, lui che poteva sopportare una giornata intera di 
allenamenti sudando appena, sotto il sole più inclemente dell'inclemente 
Sparta, lui che senza problemi stava senza mangiare per settimane, e senza 
bere, durante gli allenamenti alle battaglie, lui che era il migliore in 
tutta Sparta, mai battuto, mai sconfitto, mai piegato, lui aveva attimi in 
cui il suo corpo stesso, solitario, crollava, e si rifiutava di muovere un 
passo, e il capogiro diveniva così intenso che i muscoli della schiena si 
rifiutavano di tenergli sollevato il capo, e le membra parevano non poterlo 
sostenere.

E il cuore, il suo cuore: pareva un uccellino ingabbiato che preferisse 
uccidersi sulle sbarre della prigione piuttosto che vivere lontano dalla sua 
libertà.

Il dolore era nulla, il dolore era niente, non aveva peso, non aveva 
importanza, ché la sofferenza era altra, era *dentro*, era non essere in 
grado di comandare il proprio corpo come la perfetta macchina che voleva 
fosse. La mente annebbiata mostrava di non essere in grado di mantenere le 
redini salde in pugno e lui . .

Pherio si strinse il petto.

Il dolore era crollare nella polvere, mentre tutto il resto intorno a lui 
rimaneva immobile, senza un motivo, senza che un nemico l'avesse colpito o 
un amico. Senza che una parola avesse affondato gli artigli appuntiti nel 
cuore, o senza che l'onore fosse macchiato o l'orgoglio beffeggiato.

E Pirecrate . . Pirecrate che così non era mai caduto. Mai.

Pherio l'aveva guardato, a lungo, l'aveva studiato con attenzione, conosceva 
tutto del suo avversario, ogni cosa, ogni tratto del suo viso, ogni muscolo, 
il modo che aveva di respirare, la maniera in cui i capelli gli si 
appiccicavano alla fronte, conosceva come l'ira gli colorava le iridi, o la 
furia gli faceva tremare i polsi, o i sentimenti serrare le labbra.

Pherio lo sapeva.

Pherio lo aveva visto, e lo ricordava.

E Pherio ricordava il proprio crollare nella polvere, ora che non poteva 
cadere perché era già steso, e nell'universo indistinto che era divenuto ciò 
che lo circondava, ai suoi occhi macchie di colore senza contorni, ricordava 
solo, e perfetto, la sensazione. La terra negli occhi, il fiato che si 
mozzava nei polmoni, la coscienza sveglia ma lì, sempre un passo troppo in 
là per prendere contatto con ciò che lo circondava, solo la capacità di 
percepire e capire, senza potersi muovere . . chiusa in gabbia.

E il cuore, dei!, il cuore doleva peggio che dopo una giornata 
d'allenamento! Peggio che dopo i cinquanta giri di corsa! Peggio che dopo le 
parole di sdegno e d'odio e disgusto!

Ricordava . . ricordava suo zio, i suoi passi, le sue mani, le parole, i 
pugni, i calci. Ricordava Aspasia bambina, urlare e piangere.

'Zio! Zio! Così lo uccidi!'

Ricordava il sangue tra le labbra, e il cielo una macchia indistinta di 
colore senza profondità. Ricordava suo zio, ciò che gli aveva detto, 
ricordava la vergogna, il suo essere indegno. Ricordava se stesso, una 
bambola rotta, gettata in una strada polverosa, sofferente ma senza voce, 
senza possibilità di muoversi e l'unico desiderio del suo cuore, di 
spaccarsi sulla grata che era il suo costato, per morire, se non poteva 
essere libero . .

Ricordava Pirecrate. In piedi in fondo alla strada.

Ricordava il suo sguardo.

E ora il cuore faceva un po' più male.

_____

Piccoli baci gli percorrevano il volto sfinito, morbide carezze gli 
sfioravano delicatamente le guance, gli pettinavano con le dita, i capelli 
all'indietro, lasciando nudo il suo viso, che potesse respirare agevolmente, 
che non si perdesse i primi raggi tiepidi di quel sole che, già alto nel 
cielo diffondeva i suoi raggi benefici sul mondo.

Il corpo di Pirecrate era una fornace, attaccato al suo, eppure, se soffriva 
il caldo, non si liberava dalle coperte che li avvolgano entrambi e che 
parevano essere appena riuscite a riscaldare le membra ghiacciate di Pherio.

Di questo Pirecrate non fece parola, si limitò a continuare ad accarezzargli 
il volto con baci morbidi e dolci, donandogli sorrisi come lui non ne aveva 
mai avuti, e quando la preoccupazione riuscì a stemperarsi in quello sguardo 
azzurro e chiaro, furono le labbra a raggiungere le labbra, suggellando un 
silenzio, o qualcosa di cui Pherio non riuscì ad intenderne i motivi.

Si lasciò andare pesantemente fra i cuscini.

"Sono. . sono sfinito, Pirecrate."

L'altro sorrise appena.

"Lo so, lo vedo. Hai avuto una notte agitata da incubi, prova a riposare ora 
che la notte è lontana."
_____


La notte era davvero lontana, e remota, e trascinava via gli incubi che 
s'era portata seco. Soltanto uno non svaniva infranto dai raggi del sole, ma 
anzi per essi prendeva forme sempre più solide e consistenti.

E l'animo di chi ora mirava l'alba duro e inflessibile, le braccia sottili 
incrociate, ben piantato su una delle alte rocce che sovrastavano l'immensa 
e bella Firuzeh, i capelli scuri alla mercé del vento, quell'anima si 
raffreddava: ali affilate di ghiaccio e roccia la rinchiudevano in una dura 
scorza. Il cuore s'era spaccato però, e la ferita era come il fuoco del Sole 
negli occhi di pietra pomice velati appena dalle lacrime.

"Aster! Aster stai accorto che di lì cadi!"

Abbassò lo sguardo verso Are'heia che reggeva un cesto di datteri in mano e 
sorrise, nel modo unico che sapeva fare Astre. Un sorriso benedicente da re.

"E' bello stare in alto."

"Le pietre -la voce era chiara seppur abbastanza lontana; nessun altro in 
giro- son sempre pietre, mio Re, sia che siano sfiorate dai nembi bianchi 
del cielo, sia che segnino i confini del diserto!"

"Tu sei ancora giovane. ."

"Forse. Il mio fratre ti reclama, ma forse desideri stare in solitudine. Gli 
dico che vi incontrerete dopo?"

Astre salto giù dall'alta pietra, atterrando facilmente su quella scalinata 
naturale generata dal vento, e ne percorse in fretta i gradini. Ad Are'heia 
sorrise.

"Sai per caso se il Greco s'è destato?"

"Lo avrebbe letto anche un cieco sul volto del nostro amato fratello, se 
Iehder avesse aperto gli occhi."

"Voi l'amate, quel Greco?"

"Sa farsi amare."

Are'heia indicò col volto ad Astre la direzione per giungere lì dove Dionide 
lo aspettava e si recò poi dove si doveva recare. Il Persiano giunse lì dove 
l'attendeva Dionide.

"Buon giorno Astre, dormito bene?" domandò, versando un po' di latte in due 
tazze di terracotta smaltata di bianco.

"Il vino ieri sera era forte, ma non rimane sullo stomaco."

"Felice che ti sia gradito."

"Come poteva non piacermi? Belle sono sempre le vostre feste, anche se sul 
tavolo non vi sono cibarie sontuose. I vostri datteri sono meravigliosi."

"Sono un vanto per noi. Ti ricordi quando ne assaggiasti uno e dicesti: 
'Papà dovrebbe farvi trasferire a Persepoli'. "

"Ci siamo limitati a prendere i semi delle vostre palme, ma ahimè, l'aria è 
diversa."

"Hai ragione" gli sorrise, con lo sguardo di chi sa qualcosa e non attende 
il momento di rivelarla.

"Passamene più di uno: me ne hai fatta venir voglia."

Dionide ne prese una manciata e li appoggiò su un cuscino di lino, tra loro 
due che, mezzi supini, si godevano l'ottimo latte di capra e l'impasto dolce 
delle donne.

"Stamattina da un messo m'è arrivata una notizia che forse gradirai molto."

"Non ho visto messaggeri arrivare."

"Ho i miei messi. Nuove da Sparta. -Astre sorseggiò il latte ancora caldo, 
attendendo la conferma a quello che già il fuoco gli aveva svelato- Sembra 
che il capofamiglia dei Panfili sia stato accusato di tradimento, e lasciato 
morire mangiato dalle mosche sotto il sole. Come è il sole in Grecia?"

"Di certo dona una morte squisitamente più lenta rispetto a quello di qui: 
gli sta bene."

"Avevi già chiesto a qualche spirito di rivelarti tutto ciò?"

"Sì."

Dionide poggiò il proprio calice e con quella stessa mano fece avvicinare il 
capo del Persiano, lasciando scorrere tra le dita i capelli sottili, 
sussurrando nell'orecchio, entrambi sorridendo.

"Che vogliamo fare?"

"A questo penso io: non vorremo far rischiare la vita a quel bel collo 
chiaro, no?"

"Mi ha colpito molto quell'incarnato, quegli occhi, e quei capelli. Se anche 
tu non avessi in mente qualcosa, di certo non gli farei lasciare l'oasi 
sapendo che si recherà a una fine così terribile. Come la metteremo comunque 
con quel suo testardo amico?"

"Ti assicuro che non sarà affatto difficile. E sono convinto che tu 
converrai con me."

"Riguardo a cosa?"

"Il tuo Ateniese, come sai, l'ho conosciuto. E conosco i Greci meglio di 
te."

"Non parafrasare su questo, Astre! Mi metti apprensione."

"Non è forse troppa, per uno schiavo?"

"Te l'ho già detto: sarà uno schiavo, ma per me. ."

"Va bene, ho afferrato il concetto. Torniamo a noi piuttosto: un uccellino 
che, nato libero, viene messo in gabbia, ad essa non resiste per più di 
molto."

"Non gli ho imposto mai catene."

"Guarda la cosa dal suo punto di vista: non aveva molta scelta, in fondo. E 
comunque rimane il fatto che se gli Spartani se ne tornassero in Grecia, se 
noi glielo permettessimo, lui potrebbe voler andarsene."

"No!"

"Dionide, forse vuoi rinfrescarti le tempie?! Smettila di ragionare col 
cuore! E' anche per te che faccio questo ragionamento: se Pherio e Pirecrate 
se ne tornano nella loro madrepatria io rimango senza loro due e tu potresti 
perdere Idrio."

"Sai. . con le tue parole io sento che qualcosa mi nascondi. E non fatico a 
immaginare l'ennesimo tassello del tuo delizioso quadretto: Idrio ha 
conosciuto Pirecrate, a Sparta. E' vero?"

"Sì, ed è dove anche l'ho conosciuto io."

"Di qui il nome della sua aquila."

"Non aver quell'espressione, amico mio! Idrio ti appartiene, nessuno 
potrebbe mai togliertelo e gli unici due esseri, la Morte ed io, non te lo 
sfioreranno. Chi sfugge alle grinfie di un dio ha il cuore e l'animo forte, 
e io non ho interesse a sottrartelo, ne' lo farei mai. Ho in mente un piano 
che permetterà ad entrambi di ottenere ciò che vogliamo e senza troppi 
scomodi: il Dimano ha un certo legame e un certo ricordo del tuo Ateniese. E 
non credo si rifiuterebbe di scortarlo nel nostro pericoloso viaggio a 
Persepoli. Contemporaneamente Pherio non può tornare in patria senza aver 
Pirecrate come garante del suo operato. Non gli crederebbero mai se fosse da 
solo a giurare per la propria fedeltà a Sparta, e né comunque credo lo 
farebbero se anche Pirecrate ne fosse garante: Pherio dovrà venire con noi."

"E da Persepoli nessuno dei due si muoverà più -Dionide rimase silenzioso, 
pensante, poi riprese- Ma gli uccellini liberi messi in gabbia non stanno 
bene, mio Re. Per non parlare di due spartani."

"Catene di seta sono più sottili, Dionide, che di ceppi di ferro e fuoco: 
s'abitueranno. E poi non sottovalutare la mia arte persuasoria."

"No, questo mai."

"Nel tuo volto leggo l'esitazione."

"Io. . credo che lascerei andare la mia anima, il mio Idrio, via, se sapessi 
che tornato in patria l'attenderebbe una sorte felice. Non voglio essere il 
suo dolce carceriere."

"Amico mio, tu gli vuoi bene e si vede. Ma sta attento: spesso a pugnalarti 
le spalle è proprio chi ti sta più vicino. -con un sospiro di oratoria 
nascose quello vero che gli infiammava i polmoni- Nessun ti dice che Idrio 
non sceglierebbe Pirecrate a te. Amore è cieco. Io stesso amo infinitamente 
il Dimano, ma ragiona: Idrio se ne va, tu piangi ma sei comunque felice che 
lui possa esserlo, sebbene lontano da te e con un altro uomo. E che cosa 
aspetta l'Ateniese tornato in Grecia? Pherio potrebbe essere ucciso e a 
Pirecrate data una condanna ancora peggiore: l'ennesima infamia del nome, 
forse la distruzione della memoria dei Dimani, e l'esilio. Cosa vuoi, che 
Idrio invecchi senza poter mangiare e mendicando per le strade di Grecia?"

"Pirecrate non lo permetterebbe"

"Fidati di me, Dionide!, che di Sparta ne mastico molto. Pirecrate sa appena 
leggere e scrivere e per quanto possa tentar di fare non sa far altro che 
combattere. Anche ammettendo che le sue immense doti militari gli permettano 
d'essere adocchiato da qualche sovrano potente di qualche polis, nessuno lo 
metterebbe a capo d'un esercito sapendo che ha tradito la propria città. 
Come aveva fatto suo padre d'altronde. Una vita di miserie e di stenti. . 
pur credendo che l'amore basti per essere felici e la solita cantilena che 
in due si supera tutto, credi che basterebbe sul serio a dare la gioia al 
tuo Ateniese?"

"Astre, mi sento confuso."

"Datti un po' di tempo e sarà tutto più chiaro. Intanto perché io e te non 
ci dedichiamo a un po' di dolce piacere?"

______


La sorpresa di un nuovo giorno lo scoperse a palpebre appena sollevate, gli 
occhi fissi nell'immagine d'un vanesio sogno, e le mani sottili intorpidite. 
La veste fresca e candida che gli avvolgeva le spalle scivolava giù lungo le 
braccia supine come se la terra la stessa tirando a sé, e mille pieghe 
facevano ombra le une alle altre e alla pelle che, pallida, riverberava i 
timidi raggi d'un sole albo.

Voci lontane invadevano lo spazio virgineo delle orecchie e fu come se 
fosse, quella, la prima volta che avesse mai udito in vita sua. E anche i 
colori erano troppo evanescenti e grande lo stupore nel poter correre i 
dintorni delle cose. Si tirò su, adagio, una mano poggiata a stoffa morbida 
che gli copriva il petto e il corpo intero. Sentiva il respiro del proprio 
cuore, sentiva il respiro dell'aria e il tenero scivolare dei granellini di 
sabbia lì dove la stuoia soffice dove riposava non c'era.

Vide Pirecrate avvicinarglisi e beccargli delicatamente gli inframmezzi 
delle dita, muovendo le ali scure. Gli lasciò un bacio sopra il capo e si 
sollevò, per correre fuori e cercare il suo caro amato, per fargli sapere 
che era vivo e che stava bene! Stranamente non c'era quasi nessuno in giro e 
quelle poche persone le evitò accuratamente affinché nessuna voce giungesse 
alle orecchie di Dionide del suo risveglio. Strano, pensò, doveva esserci 
stato banchetto la notte prima.

Che Dionide non l'avrebbe trovato ancora sdraiato, questo con la mente lo 
sapeva, tuttavia non aveva potuto non sperarlo col cuore. Il sole era già 
sorto, ed era bello ed era meraviglioso! Forse il suo signore e amante non 
aveva resistito ad andar a goderselo su una pietra accanto alle tende, o 
forse era desto e già indaffarato, o forse stava facendo colazione. Con un 
sorriso entrò all'interno dell'ambiente e camminò leggero fino a dove 
s'aprivano i drappi dove lui e Dionide solevano sempre far colazione 
insieme.

Con la coda dell'occhio vide Are'heia e prima che questi potesse dirgli 
qualcosa, si mise un dito innanzi alle labbra, chiedendogli di far silenzio. 
Are'heia lasciò cadere il cesto che teneva tra le dita, per afferrare 
l'Ateniese e non fargli vedere, e trattenerlo.

Ma Idrio fece in tempo ad aprire nel silenzio più assoluto la tenda, a 
sollevare quei drappi tenendoli appena tra le dita. Gelido si fece il suo 
sguardo, e vuoto. Senza dire niente, inorridito, lasciò che i drappi si 
richiudessero e le mani andarono al petto, tremanti. Si voltò, e come il 
ghiaccio si scioglie colpito da un sole cocente e rosso, così gli occhi si 
riempirono di lacrime. Un singhiozzo gli squassò il petto, sconvolto. Prese 
un respiro profondo, cercando di ignorare quel pianto, di arginare quel che 
non si poteva arginare, fallendo miseramente.

Are'heia gli porse una coppa d'acqua, osservando il contegno del Greco nei 
gesti e allo stesso tempo il suo sconvolgimento negli occhi. Idrio aprì la 
bocca per ringraziarlo e parlò, ma neanche un suono superò la barriera della 
labbra. Gli occhi verdi si aggrottarono e ritentò uno, due, tre volte.

"Idrio, non puoi parlare: hai perso la voce."

Un respiro nel costato bloccato, un singhiozzo a infrangere il gelo nel 
petto, e le palpebre s'abbassarono, seguendo il movimento del capo e le 
membra crollarono nel sonno che un sentimento troppo forte scatena. Le bende 
intorno alla gola cedettero, slabbrandosi tutte ed Are'heia le sfilò 
facilmente essendo queste di seta. Trascinò poi il corpo senza reazioni e 
leggerissimo del Greco fino al giaciglio. Suo fratello non sarebbe passato 
da quella parte e non avrebbe visto. Forse Iheder non gli avrebbe fatto 
capire mai nulla e forse Dionide non l'avrebbe mai saputo.

E poi, in fondo, che c'era da sapere? Lui era un re del deserto e il suo 
amato uno schiavo. Dionide aveva dei precisi compiti come capo e fratello 
più grande della gente di Firuzeh: si sarebbe sposato presto e sarebbe 
andato con delle donne per avere bambini. E Idrio aveva un posto a Firuzeh 
solo perché c'era Dionide. Astre aveva domandato se l'amavano: sì, era vero, 
volevano bene a quello straniero sempre gentile e sempre dolcissimo. Doveva 
essere bello poter contare su un simile appoggio e comprendeva suo fratello.

Ma non sempre la vita era piacevole, non sempre le cose belle erano 
possibili.
_______


Pirecrate abbassò la spada che per l'ennesima volta aveva fesso l'aria che 
lo circondava con il leggero sibilo che solo una lama superba sapeva 
intonare. Era stanco e sudato, le membra appesantite dalla fatica dolevano 
un poco, ma era piacevole quella sensazione addosso. Era bello e pulito come 
il terso cielo di primavera essere sfiniti dopo una giornata d'allenamenti, 
anche se era da pazzi, come gli avevano detto, allenarsi sotto il sole 
incandescente del deserto. Ma a Pirecrate bastavano le foglie alte delle 
palme svettanti, sotto le quali la pallida ombra era sufficiente frescura.

Un suo insegnante, a Sparta, per beffeggiarlo, gli aveva detto che avrebbe 
potuto benissimo andare ad allenarsi nella fucina dello zoppo Efesto e da lì 
non ne sarebbe uscito neppure sudato.

Ma Sparta.. Sparta era lontana da lì. Lontana come possono essere solamente 
quei territori ai confini del mito, perduti tra nebbie di ricordi e desideri 
del cuore.

Se Pirecrate ricordava il dolore, l'umiliazione, la fatica, il disonore, la 
furia e la rabbia ancora gli montavano dentro, nuove di zecca, brillanti 
come forgiate di nuovo dal suo spirito indomito, e le sue vene si riempivano 
di lava ribollente pronto a squarciare il petto di chiunque, ora, osasse 
anche solo pensare che lui avrebbe potuto essere indegno di qualcosa.

Ma il resto era lontano, era un ricordo di fanciullo, quando tante volte ci 
si domanda se esso sia davvero frutto della memoria o dell'immaginazione. 
Sparta era. . lontana. . Pirecrate la sentiva tale. Questo aveva detto, poco 
tempo prima, a Pherio, e il Panfilo ne era rimasto disgustato, e 
contrariato, ma lui non aveva mentito, era davvero quello che provava.

Non che mancasse la nostalgia: Pirecrate non era stupido, sapeva bene che 
come il luogo che aveva forgiato la sua forza, il suo carattere, la sua 
visione del mondo, anche fosse accaduto nel modo peggiore possibile, essa 
sarebbe sempre stata nel suo cuore, e poi, lui di Sparta era orgoglioso, era 
un vanto portare la tunica carminia degli Spartiati, passare a testa alta 
fra quei barbari e sapere di essere non solo Greco, non solo libero, ma 
Spartano! Ma ora ..ora, forse, Pirecrate si sentiva solo e semplicemente 
libero.

Sì libero: come uomo libero aveva dei doveri verso la sua città ed essi li 
avrebbe assolti, e solo perchè lo voleva. Ma ora non doveva più trattenere 
ogni respiro e meditare se quello sarebbe stato degno o meno, se quello 
sarebbe stato dimostrare una debolezza o una propensione al tradimento. Ora 
era Spartiato, e se questo non significava che coloro che non si erano mai 
fidati di lui improvvisamente incominciassero a farlo ora, voleva anche dire 
che per la Legge, lui non era corrotto. Che aveva in parte ripagato il torto 
di suo padre e che se gli avessero lasciato il tempo, avrebbe dimostrato che 
la discendenza dei Dimani era destinata a divenire grande e fulgente.

Pherio diceva che era uno sciocco e che non capiva nulla, eppure lui viveva 
Sparta come una spina nel cuore, come se suo zio Kakeo si trovasse dietro 
ogni anfratto, a scrutare ogni suo passo, ogni sua azione per giudicarlo, 
come aveva sempre fatto. Pherio non sarebbe mai stato libero.

E diceva, il Panfilo, che lo faceva per dignità, perché lui solo a se stesso 
aveva da dimostrare qualcosa. . e invece Pirecrate aveva idea che fosse solo 
paura. Paura di svegliarsi un giorno e scoprire che il sogno in cui tanto 
intensamente s'è creduto, la fede che aveva sostenuto attraverso prove e 
dolori, che aveva obbligato a sofferenze inenarrabili non era null'altro 
che... un sogno. L'immagine lontana di un'immagine sfocata nella lontananza 
dei ricordi, a metà tra la memoria e la fantasia.

Sparta era lontana per lui. Non significava certo che avrebbe tradito, 
quello non avrebbe mai potuto farlo, ma ..ma era vivere senza l'assillo di 
occhi e giudizi già espressi prima della sentenza. Lui, la sua Sparta, la 
sua Sparta, se la sentiva dentro, ed era l'orgoglio, la forza, la 
disciplina. Era la sua eccellenza. Non aveva bisogno di una Gerousia per 
sapere se quello che faceva era in armonia con la Legge, perché la Legge, 
diceva Licurgo, era qualcosa di impresso a fuoco dentro ogni Spartano. Per 
questo si era liberi: perché si possedeva la Legge. Per questo si agiva con 
rettitudine: osservando la Legge dentro di sé.

Pherio, lo sapeva, avrebbe ascoltato in silenzio scuotendo poi il capo, 
accusandolo di ripetere le parole ma di non capirne lo spirito. Ma Pirecrate 
non voleva *capire* lo spirito, perché uno spirito non si comprende, si 
vive, si accetta, o al massimo lo si rifiuta ma la comprensione.. Pherio 
invece era fissato con quelle sciocchezze del comprender tutto, dell'aver 
tutto pianificato e dispiegato sotto gli occhi. Era sempre un generale in 
battaglia, anche quando giaceva morbido fra le sue braccia Pirecrate 
immaginava che riflettesse, e chissà a che stupidi risultati giungeva! Era 
grato che certe cose il suo pudore lo costringessero a tenersele per sé, non 
avrebbe potuto tacere a riguardo.

Non per altro s'erano lasciati a male parole, quella mattina, con Pherio che 
accusava Pirecrate di aver dimenticato il rispetto, e Pirecrate che aveva 
tentato di spiegargli che l'andare a letto con una persona cambiava tutto, 
mutava il grado di fiducia, si approfondivano certi legami in cui il corpo 
aveva solo aspetti secondari.

Ma qualcuno aveva osato anche solo pensare di incrinare la terribile 
fortezza ghiacciata di Pherio, e questo era più che sufficiente per mettersi 
a scagliar anatemi contro il mondo. Pherio era un idiota: non riusciva a 
godersi nulla con quella sua smania di dover comprendere ed analizzare e. . 
non era una sorpresa che a Sparta non si fosse mai messo in luce come 
trascinatore d'uomini. Egli non era un trascinatore d'uomini! No, lui era. . 
era uno scrutatore d'animi ma non li sapeva infiammare, ne conosceva i 
meccanismi ma non metteva mai le mani su quelle leve.

Ricordava il loro combattimento al mese: erano stati meravigliosi, proprio 
perché ognuno dei due aveva compensato l'altro. Ed era curioso, ma non 
inaspettato, che Pherio ne fosse consapevole quando Pirecrate neppure s'era 
accorto di possedere lui stesso qualità simili.

Eppure, lui che era tanto acuto e intelligente, come poteva pretendere che, 
ora, tra loro non fosse cambiato nulla? Come poteva stupirsi che Pirecrate 
non volesse toccarlo ogni volta che ne avesse la possibilità? Che non 
volesse che sentire la sua pelle sotto le dita, e perdersi tra quei capelli 
d'oro che sembravano davvero, e che gli dei tutti lo perdonassero d'esser 
tanto blasfemo, *davvero* quelli d'un semidio. . Quale immaginava fosse il 
motivo che l'aveva spinto lì, ad abbracciarlo, sostenerlo, amarlo 
furiosamente. . Pherio non riusciva a capirlo, e Pirecrate ...bhè, in tutta 
sincerità Pirecrate anche Pherio sentiva distante. Una distanza diversa, 
eppure l'incomunicabilità esisteva comunque.

Il suo cuore però gli faceva sperare altro, e ora, con l'animo leggero che 
cantava e gioiva di ogni palpito Pirecrate aveva voglia di fidarsi. Poi 
Pherio era bello, ed era bello perdersi nel suo morbido calore, ed erano 
belle le sue braccia attorno, e le sue labbra.

Pherio, Pherio, sì, era bello, e accendeva un fuoco ardente nelle sue 
membra, e il suo ricordo gli scaldava stranamente il cuore, avvolgendolo in 
un tepore di cui ne era grato. Il battito del suo cuore, accanto, era una 
musica dolce nelle notti trascorse insieme, e notare, ora, per la prima 
volta dopo anni, quella strana debolezza, quella fragilità nascondersi sul 
fondo di quegli occhi così chiari che parevano fatti di metallo era di una 
dolcezza infinita.

Dolcezza sì. Non s'era mai accorto, forse nessuno in Sparta s'era mai 
accorto della morbida dolcezza dell'animo di Pherio. Era quasi fragile. . ma 
solo quasi o non sarebbe sopravvissuto a tutti quegli anni di dolore. . e 
poi la sua pelle era sempre così fredda che gli suscitava dentro così forte 
il desiderio di scaldarlo proprio come quando impellente gli sorgeva dentro 
il bisogno di stringerlo, di farlo sentire protetto, e al sicuro. . Pherio 
accettava tutto quello, a volte se ne lagnava, ma solo perché era un 
testardo, perché in realtà mai s'era allontanato davvero dal suo tocco, come 
se di quello avesse un bisogno, un'urgenza che lui stesso non sapeva di 
possedere.

Già. Pherio. Strana creatura, ambigua e profonda, come può esserlo il cielo 
di primavera velato dalle nubi leggere portate dal vento forte. Il solo 
pensarlo gli faceva fiorire un sorriso sulle labbra.

Pirecrate si asciugò il sudore dalla fronte. Aveva sete. Chissà se avrebbe 
trovato Pherio accanto alla polla d'acqua al cuore dell'oasi, che era anche 
il luogo in cui il suo compagno preferiva appartarsi?

Lo sperò.


Pherio sentì zampette leggere solleticargli il naso e aprì gli occhi: una 
farfalla dalle variopinte e screziate ali gliele batteva innanzi alle 
ciglia. Seppure aveva mosso, appena, il capo, l'animaletto leggero non volò 
via in cerca di qualche altro fiore, bensì gli salì fino alle sopracciglia 
tutta contenta di quel colore che resemblava i petali esotici simili al 
sole. La seguiva appena con lo sguardo e con un sollevarsi leggero del volto 
mentre alzava una gamba: stava comodo così, i polsi incrociati dietro la 
nuca, i gomiti alti, coricato sull'erba alla freschissima ombra, e non gli 
sembrò il caso di perdere una posizione così piacevole solo per cacciare un 
insetto.

"Sembri un fiore davvero.."

La farfalla volò via e al suo posto vide Pirecrate che lo sovrastava: aveva 
i palmi appoggiati sulle ginocchia e il capo appena chinato in giù, giusto 
per poterlo osservare meglio, forse.

"E su quali basi lo dici?"

"Lo vedo da solo."

Pherio sbuffò e si alzò in piedi, per fronteggiarlo. L'erba che s'era 
attaccata alla pelle un po' scivolò via, un po' rimase lì dov'era.

"Se cerchi rogna e vuoi attaccare briga, Pirecrate, non uscirtene con le 
cose più assurde e sfidami direttamente! Che, per caso, hai perso il 
coraggio?"

Pirecrate sollevò le spalle, passandogli accanto e dandogli la schiena, 
immergendo un'anfora vuota che aveva trovato lì, nell'acqua e riempiendola. 
Con un unico gesto forte le rovesciò addosso al Panfilo prima che questi 
potesse minimamente *sospettare*.

"Se qui c'è uno coi bollori, quello sei tu, mio caro Pherio!"

Poi fece lo stesso col proprio corpo, per cancellare in parte la fatica 
dell'allenamento.

Pherio lo gelò con un'occhiata omicida mentre si scrollava l'acqua da dosso. 
Fece per andarsene, quando Pirecrate gli prese un braccio obbligandolo a 
voltarsi e, per non farsi scorgere da nessuno, lo tirò giù in modo che, 
seduti, i cespugli li avrebbero coperti.

Il Dimano rise appena, non riuscendo a nascondere la propria felicità, 
sussurrando il suono fra i denti, ma Pherio si rabbuiò comunque.

"Ridi sempre, sei indecente Pirecrate!"

Pirecrate gli sfiorò il viso e lui si ritrasse al tocco, scansando lo 
sguardo.

"Io non ti capisco più, Dimano.." finì con un tono debole di voce, appena un 
sussurro.

Pirecrate lo prese tra le braccia e lo baciò, tenendogli la nuca soffice con 
una mano e lasciando correre una mano sulle gambe lunghe. Era lui che non lo 
capiva, avrebbe voluto dirgli! Lui! Perché era sempre così difficile per 
Pherio lasciarsi andare, perché nonostante entrambi sapessero sempre come 
sarebbero finite le cose e entrambi, alla fine, desiderassero null'altro che 
quello, perché mai Pherio rendeva sempre tutto così difficile? E per cosa, 
poi? Pirecrate non sapeva..

Pherio, battendogli il pugno sul petto forte e teso, tentò di liberarsi con 
poco convincimento da quella presa, fuggendo con le labbra rosate da quelle 
del Dimano che domandavano e donavano e che le inseguirono fino a che non 
riuscirono a catturarle nuovamente.

Come al vento di primavera anche i bambini più restii non riescono a non 
arrampicarsi sugli alberi, così la bocca di Pherio non poté non rispondere a 
quel dolce assalto.

"Pherio. ." modulò profonda e velata la voce del Dimano mentre lo tirò giù, 
in terra, tra gli altri fiori colorati e densi di aromi che stordivano.

Mani chiare affondarono in corvini ricci spettinati e, tra il lino bianco 
che cingeva il sinuoso collo albino, si infilarono le dita scure, 
sciogliendolo, scoprendo sulla pelle chiara impressi i segni di quelle 
labbra ardenti. Quando Pherio tentò di scansarlo nuovamente, il petto in 
fiamme, alle quali non sapeva dare nome e che avevano mille e una radici, la 
bocca di Pirecrate calò sulla pelle tra le spalle e la giugulare dove 
intenso correva il sangue, e morse.

"Pirecrate che fai? -gridò in un sussurro strozzato e spezzato la voce, come 
di chi avesse appena corso dal tartaro a qui con Cerbero fiatante sul collo- 
Se ci vedon-"

"Ohhh quanto sei noioso Panfilo!"

L'ennesima occhiataccia tra quelle ciglia castane data da quelle iridi 
luminose lo fece fermare, ma naturalmente non desistere.

"Certe cose non vanno fatte alla fonte dove la gente si abbevera, 
screanzato!"

"Non ti va bene il posto, eh? Perfetto allora corriamo in tenda!"

"No!"

"Perché no?"

"Perché non mi va!"

Pirecrate lo toccò senza preavviso tra le gambe andando a colpo sicuro oltre 
la veste di lino leggera e Pherio cercò di afferrare il braccio del Dimano 
con le mani, stringendo al contempo le cosce. Ma la mano si mosse solo per 
accarezzarlo, uno sfiorare gentile e non, come pareva aver temuto, un gesto 
brusco e violento. Pirecrate intuì la paura lieve che gli aveva velato il 
movimento, ma non ne diede voce.

"Dovresti imparare a leggere meglio i segnali del suo corpo: non mi pare sia 
del tutto scontento della cosa, proprio no!"

Pherio arrossì così violentemente che anche le orecchie si fecero di brace e 
Pirecrate sapeva bene che bastava una piccola spinta e il Panfilo sarebbe 
ceduto. Tuttavia sentiva che c'era qualcosa che lo tormentava, una maledetta 
spina avvelenata come infilata tra le vertebre, dietro la schiena.

"Allora. Cos'hai Panfilo?"

Pherio tenne le labbra rigidamente chiuse come se, facendo così, avesse 
arginato al fiume di parole ed emozioni che sgorgavano dal cuore.

"Lo sai cosa ho!"

O meglio: gli sarebbe tanto piaciuto che Pirecrate l'avesse saputo perché, a 
questo punto, non riusciva più a tacere niente ma parlare gli faceva troppo 
male. Stranamente sentì un pizzicorio dietro, tra le vertebre, forse dato 
dalla posizione o da qualche malo movimento.

"E' per quello che ho detto stamattina?"

Pherio, battendo le mani in terra, riuscì a sollevare il busto, piantando 
gli occhi azzurri in quelli di Pirecrate. Le loro iridi che parevano schegge 
di pietra controsole erano di nuovo quelle del generale che urla comandi ai 
suoi uomini.

"E' per tutto! Sei un irresponsabile, Dimano: abbiamo perso nella nostra 
missione diplomatica! Quell'anguilla d'un Persiano c'è sfuggito dalle mani. 
Neanche se adesso Apollo scendesse tra noi per darci una mano riusciremo più 
a fare qualcosa! Tu hai detto che Sparta ti sembra lontana, a me invece 
sembra più vicina che mai! Hai idea di quel che ci faranno una volta tornati 
nella nostra polis?"

Pirecrate si mise a sedere, guardandolo serio.

"Tuo zio ci difenderà, Panfilo! Quel -si morse la lingua prima di prendere a 
litigare con Pherio anche per quello- quell'essere è sempre riuscito a 
girarsi le cose come gli pareva e piaceva! C'entra anche lui in questa 
storia, no?"

Pherio abbassò il capo, stringendo le spalle, fuggendo il suo sguardo. Il 
peso del passato, e dei legami che a quel passato lo tenevano immobile erano 
come macigni sulle sue spalle.

"Temo piuttosto che mio zio se ne lavi le mani di noi due."

Il tono di rabbia e anche, incredibilmente, dolore con cui Pherio disse le 
ultime parole colpì Pirecrate a pieno petto. Kakeo mai era stato tenero con 
Pherio, mai; né l'aveva tirato su perché egli si affezionasse a quello zio 
severo che per il suo bene gli aveva fatto versare tanto sudore, lacrime e 
sangue. No. Ma, a parte la piccola Aspasia che Pherio vedeva solo quando 
dallo zio era trascinato dall'accampamento in casa, non aveva avuto nessun 
legame oltre a quello che divideva con Kakeo. E, Pirecrate pensava, forse 
faceva più male essere legati con qualcuno dall'odio che non avere alcun 
legame, come invece era stato per lui.

Lo guardò per un lungo attimo cercando di capire: forse Pherio adesso non 
sapeva più dove sbattere la testa. Non per salvare la propria vita... no. 
Per rimettere in piedi quell'onore che, da un fallimento così vistoso ed 
importante come quello di non aver condotto il Re di Persia in Egitto, era 
già a pezzi.

Pirecrate si volse appena di lato, ove come dei piccoli fuochi avevano 
richiamato la sua attenzione e, come colpito da una folgorazione, colse 
alcuni fiori dai cespugli, intrecciandoli lievemente tra di loro e 
posandoglieli a grappolo dietro un orecchio. Con pazienza poi prese quei 
capelli lisci, tirandoli indietro in modo che quelle strane margherite rosse 
non ricadessero. Rossi, sì, erano fiori rossi, ed erano incantevoli fra quei 
capelli .. che strano, si ritrovò a pensare che gli ricordassero un'immagine 
che forse Astre gli aveva descritta, o forse era solo che i capelli biondi 
intrecciati a fiori rossi stavano particolarmente bene, anche se quel rosso 
avrebbe dovuto avere di più la densa tonalità calda del sangue.. Eppure il 
Panfilo sembrava così assorbito in sé da non aver notato. Sembrava.

Il Dimano gli cinse la vita con le braccia e portò entrambi sulla terra 
germogliante, stando così per un po' condividendo un silenzio piacevole e 
tiepido. Il capo di Pherio da solo s'abbassò un poco, sottraendosi al suo 
sguardo e cercando il suo petto per poter poggiare la guancia fresca al 
costato battente. Pirecrate si mise sulla schiena in modo che, stando così, 
potesse sentire meglio e più nitido il battito del cuore.

"Non pensare cose strane, Dimano: mi rilassa."

"Non pensavo a nulla del genere, Panfilo. ."

Un sospiro sfuggì dalle labbra scostando i capelli d'oro che vi ricadevano 
innanzi.

"A cosa stai pensando, allora?"

"Ti arrabbieresti se te lo dicessi."

Il volto di Pherio si sollevò, e lo scrutò con quegli occhi chiari che ora 
sembravano così grandi, e lucidi. Le sue braccia, stringendo il Panfilo, lo 
fecero arrivare all'altezza del suo sguardo, cosicché non potesse fuggire.

"Dai, dimmelo."

"Sparta tutta ci tradirebbe."

Pherio scosse il capo con furia, come se non credesse davvero in quello che 
stava per dire.

"Ma solo perché noi non siamo stati in grado d-"

"E' da quando sono nato, Pherio, che mi porto dietro un qualcosa che non ho 
fatto io! C'è sempre stato un qualcosa che non sono stato in grado di fare!"

"Che vorresti dire con ciò?"

"Che Sparta ci dona quel tanto di libertà che vuole lei."

Le palpebre di Pherio si spalancarono, ma niente altro si mosse; poi si 
richiusero e un tremito prese le membra.

"Che dovremmo fare noi, allora? -il Dimano altrettanto chiuse gli occhi, 
tacendo- Non dovresti insinuare certi dubbi e poi non avere le risposte, 
sciocco d'un Pirecrate!"

Le iridi celesti, di nuovo alla luce del sole, gli spalancarono innanzi un 
abisso senza nome e tutto intorno le piante, il cielo e il lontano 
orizzonte, scomparvero. Dai reni una mano di Pirecrate risalì il corpo senza 
staccarsi mai dalla sua pelle e attizzando gelide fiamme e cascate di fuoco 
nel corpo, fino a che non gli si fermarono, accostate ad una guancia.

Lo baciò, così, senza rispondere niente alla sua domanda, stavolta le labbra 
non cercavano di superare la barriere della sue, né la lingua gli 
s'insinuava come dolce ospite nel palato. Era. . incredibile e impossibile 
tutto quello che gli trasmetteva con un solo tocco. Sentiva un calore simile 
al magma fuso colargli nel cuore e farglielo esplodere, spezzando la pietra, 
infondendola di carne viva e pulsante e. .

L'aria gli sibilò nelle orecchie, gli occhi videro una colonna bianca e 
forte frantumarsi sotto una terribilmente dolce carezza e tanto fu lo 
stupore di quella visione che lo sguardo rimase attonito nell'osservare in 
silenzio crollare su un lucido pavimento di marmo architravi senza fregi, 
frantumandosi e frantumando senza produrre alcun rumore.

Il Tempio, il Tempio! Il *suo* tempio! Stava. . crollando. Eccola lì, la 
porta spalancata, coperta dal soffitto che rovinò penosamente come tonando. 
E forse se non ci fossero state le braccia forti di Pirecrate a trattenerlo, 
per istinto vi si sarebbe gettato sotto.

"Pherio, Pherio!"

Il volto di Pirecrate, preoccupato e chinato sul suo, lui che si sentiva 
coperto da sudore ghiacciato e che strinse forte le mani del Dimano, tanto 
forte da far uscire una mezza smorfia di dolore sul viso scuro.

"P-Pire..crate. ."

"Shh, shh. Tranquillo: ci sono io."

Singhiozzò i respiri ma, di nuovo a contatto con quel cuore forte, presto si 
placò e quasi s'addormentò in quella presa che non lo stringeva ma non lo 
lasciava neppure andar via: si sentiva le vertigini, come se il pavimento 
dove avessero poggiato i suoi piedi fino a quel momento fosse 
definitivamente crollato. E ora il suo mondo su cosa avrebbe potuto poggiare 
se era bastato così poco a far crollare le sue certezze vecchie di decenni?

Un bacio di fuoco. .

"Pherio?"

"Sì, Pirecrate?"

"Qualunque sia il nostro destino, potrai contare sempre su di me. Non voglio 
lasciarti solo, né voglio riesserlo io."

"Io e te?"

"Io e te."

"A Sparta?"

Pirecrate non seppe che rispondere e, invece che starsi zitto, decise di 
parlare e di rispondere quel che pensava, quel che gli pesava, prezioso, in 
fondo al cuore.

"A Sparta ci attende la morte."

"Se servirà a lavare il nostro disonore, Dimano. ."

"Pherio. Tu ti senti disonorato?"

"Mio zio. ."

"Tuo zio ci farebbe mangiare dai vermi entrambi."

"Ho fallito."

"Abbiamo."

"La Gerousìa. ."

"Non è qui. Non è niente."

"Sei blasfemo."

"Non è vero, e tu lo sai. Non abbiamo tradito."

"Non siamo indegni allora?"

"Di vivere intendi?"

"Dell'onore."

"Un onore che è solo un nome, io non lo voglio. E tu?"

"Voglio vivere."

"Viviamo allora."

"Non te ne andrai mai, vero?"

"Non ti abbandonerò."

"Lo giuri?"

"Lo giuro."

"Anche io lo giuro."

"Va meglio ora?"

"Sì, molto meglio."

"Riesci ad alzarti?"

"Sì, riesco."

"Perché sorridi?"

"Voglio far l'amore con te."

"Andiamo in tenda?"

"No. Qui. Tra i fiori."


Continua...







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