Critiche, commenti, domande e qualsiasi altro è tutto ben accetto! Si prega però di non ferire fisicamente le autrici altrimenti le signore Muse potrebbero risentirsi: non abbiamo ancora finito di pagarle!!!! ^^!!!
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NOTE: I personaggi sono nostri ..e vi assicuriamo che non hanno subito alcuna violenza, testardi, cocciuti e noiosi come sono non riusciamo quasi più a fargli fare quello che vogliamo! E pensare che facciamo tutto questo per loro! ^__________^
NOTE2: le menate pseudo-filosofiche sono di Dhely!
Di odio e
di Amore
parte
XXI di
Dhely e Kalahari
La distesa marina l'Uranica cupola specchiava quando il primo sole, ampie cariatidi di fulgore, strappò la nave bruna dall'incerta penombra d'un tremulo crepuscolo. Dalla finestrella angusta della sua nicchia scomoda Astre osservò l'oro sfociare sul pavimento e per un attimo si abbandonò ad un sorriso stanco: sebbene non lo sfiorasse, il sole già riscaldava più di quanto gradisse. Odiava avere caldo: i vestiti perdevano vitalità, addosso si facevano sudari. E non avere di che pulirsi e lavarsi decentemente non aiutava affatto.
Tirando il braccio indietro colse con le dita agili il laccio che durante la
notte aveva tenuto i capelli. Non li sopportava quando rimanevano sulla
pelle del collo prigionieri del sudore, quando il sonno poco gli era amichevole compagno: addormentarsi a tarda ora, la mente fissata su pensieri strani ed assurdi, similmente attaccato ad essi come un naufrago ad uno scoglio tagliente nella burrasca. Riassettò la coda, dopo essersi pettinato quei sottili filamenti neri facendovi scivolare le dita. Passò poi quelle stesse mani sulle coperte, con energia, uno sbuffo seccatissimo tra le labbra: sarebbe stata una giornataccia, lo sentiva fin nell'ultima fibra del suo corpo.
E quel suo intuito era sottile e infallibile come le stelle.
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"Pherio, devo chiederti una cosa."
La voce di Pirecrate s'avvolse nel suono della risacca, serena e quieta, spartiva il ritmo delle onde ballerine col sole. Lo spartano sollevò appena il volto, ammaliato com'era dallo scintillare incredibile dei raggi sulla superficie luminosa e spumeggiante, che piano s'infrangeva sui legni, e piano annuì.
"Parla dunque."
La bella fronte di Pirecrate leggermente si contrasse, cercando forse le parole più adatte, come se fosse, quella, una domanda che da molto gli pesava in cuore ma che non era mai riuscito a formulare. O forse non aveva mai trovato *qualcuno* a cui formularla.
"Se ci si allontanasse dal campo di battaglia, ma per un valido motivo . . sarebbe pur sempre tradimento?"
Pherio lasciò perdere il proprio sguardo in lontananza, e ponderando bene le parole gli rispose "Non ho la saggezza di un anziano, eppure una cosa la so bene: Sparta è la prima cosa. Non ci può essere nient'altro che abbia un valore simile a quello della nostra città per noi... - era basso il suo tono, faticava quasi ad uscire dalla barriera del cuore - e dovresti saperlo anche tu. Perché
questa domanda, Pirecrate?"
Come l'antenna d'una lumachina si ritira lesta all'incontrar d'una immensa foglia verde, così lo spirito di Pirecrate indietreggiò.
"Sì, lo so. Questo io lo sapevo già."
Amarezza in quella voce, nonostante il tono neutro. Pherio si limitò a sospirare appena. Sapeva bene che avrebbe dovuto rispondergli altro, o che almeno qualcosa avrebbe dovuto aggiungere. C'era, sì, qualcosa che poteva annidarsi nel cuore e riscaldarlo: una serpe era, terribile e con scaglie simili a piume argentate che promettevano il paradiso, e se ci s'abbandonava a tale dolcezza Sparta poteva divenire qualcosa di lontano. Ma non aggiunse nulla, perché forse non dandogli voce sarebbe prima o poi svanito come un pensiero sbagliato. Socchiuse appena gli occhi, accecato dalla troppa luce che scintillava sulla superficie dell'acqua. La nebbia muta tra i concavi monti al mattino scivolò tra loro.
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Lasciò la stanza con indosso una veste purpurea e leggera fino alle spalle e
le ginocchia, tenuta in vita da una cintura di colore più scuro, volto a raggiungere una parte del ponte che magari avrebbe offerto un po' di sospirata frescura. L'acqua salata, se atta non era proprio a rinfrescare il volto, almeno nell'infrangersi sui legni volava verso l'alto come cristalli invisibili, e freschi.
Uscì da sottocoperta. L'orizzonte quasi bianco e distante era sfondo a Pirecrate e Pherio, l'uno seduto dove sempre era solito e l'altro lì accanto. Astre troncò ogni sensazione deleteria sul nascere, d'istinto. Respirò un pò più velocemente
del solito, e si mise in un angolo discosto, godendo della vista dell'acqua che slittava spumando lungo i legni schiariti dalla salsedine.
Brillava il sole, ma le tempeste erano soltanto agli inizi.
Ci sarebbe mai stata pace per lui, per Astre? Sospirò, poggiando il mento sulle braccia incrociate e seguendo il bacio tra cielo e mare, lontano e sfumato dalla nebbiolina come se i due amanti si volessero celare agli occhi dei curiosi. Sì, un giorno sarebbe tornato al posto a lui spettante e niente lo avrebbe più fermato: la giovinezza e il demone che ora lo faceva sussultare ogni qual volta vedeva Pherio lo avrebbero già lasciato e con essi tutte le sofferenze. Perché niente lo poteva toccare se non un qualcosa che così intimamente gli si annidava dentro: tutto il resto intorno a lui, tutto ma tutto davvero, non aveva molta importanza ai suoi occhi.
Era forte, era pronto a tutte le tempeste: proprio grazie a questa sua preparazione si era potuto permettere il ritiro strategico in Grecia. O, almeno, credevo d'essere preparato a tutto.
Errava quando lo credeva: quanto si era sbagliato!
Tutto ciò di cui aveva avuto sempre bisogno era proprio ciò che aveva sempre disprezzato in nome della sua forza. Poteva affrontare tranelli di ogni tipo, aveva occhi ovunque; sapeva dar la morte in settemila modi; sapeva cosa rispondere a tutto. Lanciò un'occhiata Pherio e Pirecrate: anche loro guardavano il mare o il cielo ed il fulgido sole. Soltanto in quel momento registrò il fatto che Pherio non portasse mantelli sulle spalle. Cercò con lo sguardo il drappo e lo vide accatastato accanto a quello di Pirecrate in un angolo del ponte. Sorrise, una forte punta di malizia, ma stemperata in qualche modo dalla sua amarezza. Se Pherio presto non si fosse avvolto di nuovo nel suo mantello, non se lo sarebbe più potuto allacciare sulle spalle per un po'.
Qualcuno chiamò i due Spartani ed essi si diressero verso la voce lasciando la parte di poppa. Astre uscì dall'ombra afferrando il manto scuro di Pirecrate e mettendoselo sul capo per evitare che i suoi capelli fossero bruciati dal sole raggiante. Trovò posto nel luogo dove erano stati prima gli altri due.
A lungo guardò la nave fendere il mare spumoso, come i raggi di luce che tagliano le nubi squarciate dal vento, ed assaporò per bei prolungati minuti quel profumo, quell'aroma forte dei reami delle creature dai piedi d'argento. E poi un rumore, insolito. Mosse il capo, per guardar al lato, e vide unicamente le onde molli modellate dalle correnti, placide e tranquille...
Una di quelle creature argentate infranse il magico manto che divide i regni dell'aria e i regni dell'oceano. Volteggiò, veloce, di nuovo scivolò sotto il pelo dell'acqua, una scintilla grigia seguita da altre.
"I delfini!!" esclamò, poggiando le mani sul parapetto per potersi sporgere.
Pirecrate dal passo pesante uscì fuoricoperta e, posando gli occhi su Astre, lo vide totalmente preso da ciò che stava vedendo.
"Non hai mai visto i delfini?"
"Solo nei dipinti e nella mia fantasia.."
Nella luce dello Spartano scintillò un lampo luminoso come tra nembi oscuri, e rise in quel modo in cui solo gli Spartani ridono: come se fosse un grave strappo alle regole, indecoroso.
"Sono sempre un buon segno per i viaggiatori..." disse, allontanandosi verso chissà che meta.
Il re di Persia, il prediletto di Hermes, il principe delle magie e delle spezie, che aveva già compiuto mille viaggi ma che mai era stato visitato da simili messaggeri di buona sorte, rimase a lungo a contemplarli saettare come i lampi dorati, sparire, e di nuovo spuntare dove meno lo si aspetta.
Giocò allora, vide se era in grado di prevedere da quale onda, da quale concavità o rotondità del mare avrebbero fatto capolino sprizzando spuma e richiami; e i delfini giocarono col bambino che era in lui, e che rideva di cuore. I gomiti appoggiati al legno, i capelli che sfuggivano al legaccio, gli occhi frementi, il volto raggiunto dagli schizzi che all'improvviso s'erano fatti più alti, Astre sembrava essere stato rapito da uno spirito felice.
Avrebbe continuato, se solo, d'improvviso, quelle splendide creature non si fossero inabissate come un segreto che non va sciolto. Deluso, posò gli occhi all'orizzonte, dove lunghe linee scure serpeggiavano. Troppo acuti e precisi erano i suoi occhi: non potevano trarlo in inganno. E uno strano vento freddo gli avvolgeva le membra accaldate. Scattò in piedi, correndo dentro, urlando ai marinai di cambiare rotta. Pherio uscì fuori da una delle cabine, interrogandolo con iridi gelide.
"Una tempesta, dritta davanti a noi!"
"Per Zeus! - il capitano della nave, sibilò tra i denti una preghiera a Poseidone uscendo alla luce di quel sole, che presto sarebbe stato coperto, e vedendo quel che in fretta s'avvicinava- Uomini, preparatevi!"
Pirecrate corse ad aiutare, Pherio indugiò quel tanto che bastò ad Astre per scoccargli un'occhiata di rimprovero. Come erano cambiati quegli occhi..
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Ricordava il mare farsi pece, e i flutti spumeggianti rombargli nelle orecchie. C'era di fronte ai suoi occhi l'acqua a invadere ogni singolo angolo del mondo e il fragore, quel terribile fragore trascinato dal vento furioso, aveva il potere di fargli fremere pure l'anima.
Ovviamente se solo si fosse lasciato il tempo di prestargli ascolto.
Ma Astre aveva già visto una tempesta. Ad innumerevoli aveva assistito, nel suo regno, sporto al di fuori degli alti spalti, bianchi, a picco sulle scogliere che giù, fin'alla talatte dal colore bruno del vino di Grecia occidentale, si gettavano ripide. N'era stato già vittima, nella sua breve vita, d'un paio, eppure mai aveva neanche osato immaginare che il mare potesse essere così furente contro di lui, che lo odiasse così tanto, che desiderasse con tanta violenza strappare la vita a piccoli, insignificanti, umani che, come formiche, brulicavano di continuo sulle sponde del regno di Poseidone.
Si leccò debolmente le labbra tagliate dal sale, sforzandosi di aprire le palpebre. Assurdo era il pesante tintinnare della luce da cui fu accecato: il sole in alto brillava come un'enorme perla incandescente, incastonata in un azzurro pulito e limpido, uno scherno vivente a coloro che, come lui, solo per fortuna erano sopravvissuti al mare che inghiottiva la terra e poi la vomitava di nuovo. Lo riscaldava però, con una gentilezza immota, mentre la brezza gli sfiorava la pelle, la faceva sfiorare da sottili sbuffi di sabbia. Le onde erano ora gentili e riempivano il suo spirito di una certa pace e tranquillità.
Voltando con attenzione il capo da una parte e dall'altra si vide adagiato su una bianca sabbia fine che dava al profondo golfo un aspetto celestiale; erti e appuntiti erano i bianchi scogli contro il cielo, punteggiati dalla rada macchia densa. Se le ninfe caste di quei luoghi gli si fossero inginocchiate accanto, giocando coi suoi capelli, mostrandosi ai suoi occhi feriti e dolenti come ombre, cattive, celanti il proprio volto.. non si sarebbe stupito.
Ma non c'era nessuna ninfa in quei luoghi. Le avrebbe percepite altrimenti.
Solo?
Si mise a sedere. Il capo gli girò in fretta, ma gli diede tempo di abituarsi. Lo stomaco invece si contrasse, violento, obbligandolo a piegarsi in avanti, le mani che si ferivano sugli scogli appuntiti, e buttare fuori i liquidi acidi. Le tempie batterono forte, un mal di testa lo cullò per qualche minuto in una semi-incoscienza, le labbra rimasero dischiuse, ad esse appeso un sottile filo biancastro. Vi passò le mani non appena ripresosi un poco, sciacquandosi quella bocca riempita d'amaro.
Solo?
Quando ormai la luce irreale della spiaggia candida s'era affievolita, i riflessi del sole nel pelago blu non più frecce acuminate, azzurro il cielo, prese a ponderare la situazione. Il ritrovarsi quasi illeso era un miracolo, mentre tutt'intorno schegge di legno erano state gettate sulla rada, e il mare nei paraggi si vedeva punteggiato di resti della nave che tanto impudentemente veleggiava contro la tempesta.
Solo?
Asia. Quella era Asia, non più Grecia, di questo ne era certo: sentiva la terra sotto di sé vibrare finalmente in una lingua che conosceva! Finalmente la sua terra, e non più prigioniero in una straniera! Finalmente il suo regno! Era re senza trono e senza corona, era vero, ma cosa mai poteva importare, ora?! Era a casa! Vero, senza un alleato, probabilmente senza che nessuno lo volesse appoggiare, anche all'interno del palazzo di Persepoli, ma almeno . .
Solo?
I boriosi spartani erano stati sopraffatti dall'alieno Poseidone? Affogati nel male profondo che, 'balbettando', li aveva respinti? Era forse il mare dell'Asia che li aveva cancellati riconoscendoli come invasori? Nemici?
Pirecrate e Pherio sapevano nuotare? Aveva vissuto a Sparta per tanto, troppo tempo secondo i suoi gusti, ma non lo sapeva. Non riusciva a credere che in potenza quei due ragazzi non avrebbero potuto salvarsi, ma davvero poteva sperare? Avrebbe dovuto farlo, poi? Ci avrebbe davvero perso se quei due fossero morti? Socchiuse un poco le palpebre. Non sapeva dove le onde lo avessero gettato, e di certo avere al suo fianco due guerrieri che avrebbero potuto occuparsi del lato più pesante di un suo ritorno fisico alla sua capitale non poteva che essere una cosa desiderata..
'Distinguere ciò che è da ciò che appare.. ' Ecco le parole del dio che, anche ora, gli premevano in cuore. Ed il suo cuore, dannato traditore, sanguinava assenzio, all'idea di non rivedere più lo spartano! E anche Pirecrate . . un mondo senza Pirecrate, improvvisamente, gli sembrava assurdamente vuoto e oscuro, e privo di vita e luce e forza . . amico? Era così che avrebbe dovuto chiamare Pirecrate? Un amico spartano, lui che era re di Persia! Le sue labbra si piegarono con amarezza, affondando il capo tra le ginocchia che aveva strettamente avvicinato a petto.
E il suo cuore gli rimandò una voce lontana, attutita dal rumore del mare, ma forte che chiamava, e chiamava *lui*. Ninfe ninfe ninfe... Astute erano e, sebbene la Grecia fosse ormai un ricordo, ancora più pericolose erano le creature che si muovevano lì dove il sole non era uno dei tanti dei, ma l'impietoso giudice di vita e morte.
Eppure... no. Non sentiva nessuna creatura ed era lucido.
"Astre!"
Che strana cosa, allora, la memoria! Era certo che Pirecrate mai l'avesse chiamato con quel tono insieme imperioso e lievemente ansioso, appena sollevato, come se fosse felice di vederlo quando, ormai, non se lo aspettava più.
"Astre! Dannato persiano, per Ares, rispondi!"
'Dannato persiano'?! Sollevò di colpo il capo e udì distintamente il proprio cuore gioire nell'intuire una figura scura contro il candore delle rocce sopra di lui, ammantata del colore del sangue di un'aquila. Pirecrate! Alle sue spalle, Pherio appena si sporse un poco dallo strapiombo schermandosi gli occhi con una mano e disse qualcosa troppo a bassa voce perché Astre potesse udirlo. Pirecrate rise forte.
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Le urla spaventose del vento s'attenuavano ogni ora che passava, fino a divenire un sussurro pacato e continuo. Dionide si coprì il capo uscendo fuori dalla sua tenda, dopo aver sorriso dolcemente ad Idrio che lì rimaneva. Il Greco abbandonò il capo sui cuscini soffici, accarezzando distrattamente il proprio corpo nudo che pareva cera dorata alla luce dei lumi ad olio sparsi per il grande ambiente.
Sospirò pago, sollevandosi sui gomiti e guardandosi intorno, cercando la cetra di cui Dionide gli aveva fatto dono. La trovò un pò più in là, alle sue spalle, mezza coperta da un quadrato di lino sottile. Lo scansò pigramente con una mano, e prese lo strumento che in ogni sua parte era perfetto: il legno profumava di aromi sconosciuti ai suoi sensi ed era leggero e scuro, sembrava fatto per le sue mani; le corde vibravano al minimo tocco, ed erano perfette per le sue dita precise ed abili.
Le pizzicò a lungo, sistemandole fino a che non ottenne le sfumature desiderate. Prese ad corteggiarle, lentamente, fino a che il suo spirito a sua volta non si fosse accordato con lo strumento, e iniziò a cantare, nell'attesa che tornasse il suo amante.
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"Astre, ci hai messo paura!" esclamò Pirecrate, saltando dall'ultima roccia: su tante aveva posato i piedi veloci e forti come uno stambecco di montagna, senza esitazione e senza scivolare fino a che dalla cima di quel roccioso picco ne era giunto alle pendici. Pherio seguiva poco dietro, chiedendosi come faceva Pirecrate ad essere tanto agile su un terreno così difficile, e cercando di ricordarsi le pietre su cui aveva poggiato i piedi il Dimano. Non mostrava la sua difficoltà però: sembrava solo più pacato nelle movenze.
All'affermazione di Pirecrate il Panfilo aveva guardato Astre in volto con occhi assorti, che divennero di ghiaccio scoprendo che lo sguardo per quell'istante sospeso era ricambiato. Il giovane re abbassò il volto coperto di salsedine, per negarsi alla vista l'immagine dolorosa di Pherio che ancora stava scendendo. Ficcò gli occhi in quelli strapieni d'azzurro del Dimano, sorridendo.
"Allora sapete nuotare!" disse, e la voce gli uscì raspa da labbra rigate dal bianco del sale e dal rosso dei tagli.
Pirecrate si voltò a guardare Pherio, pensoso, e voltandosi di nuovo verso Astre gli disse, a bassa voce, nell'orecchio: "Un giorno ti racconto delle scappatelle al mare."
Astre non poté fare a meno di sorridere, e d'improvviso si chiese come avrebbe potuto sopportare quel viaggio se Pirecrate non fosse stato lì con loro: terribile. Anche se più terribile di così... stentava ad immaginarlo.
Notò tra le pieghe della veste dello Spartano un livido scuro e Pirecrate, accorgendosi che il persiano stava fissando quel punto, scosse il capo.
"Scogli."
Pherio, indispettito, venne avanti, incedendo come il sole: venerabile, rilucente, bellissimo, ma inaccostabile e imperscrutabile. Piccole ferite sanate dalla salsedine come scie di stelle cadenti si trovavano su tutto il suo corpo, segno di un'arenata molto fortunata in una baia corallina.
"Dove saremo?"
Astre avrebbe voluto lanciargli un'occhiata fredda e stilettante, ben conscio ormai della sua superiorità dovuta all'appartenenza alla terra che ora calpestavano, ma le forze non glielo permisero.
"L'unico modo per saperlo è camminare fino a che non troviamo una città."
Pherio guardò il mare.
"Non credo riusciremo a recuperare niente dai resti della nave, sebbene
delle provviste ci farebbero comodo."
"Ci saranno degli animali qui intorno, o no?"
Pirecrate guardò Astre. Pherio, prima che il persiano potesse rispondere qualunque cosa, ribatté.
"E cacciamo con le spade?"
"Un modo lo troveremo - intervenne Astre- adesso la cosa migliore è muoverci di qui."
Il Panfilo mosse appena le iridi simili a quel cielo smagliante, in segno di seccatura, ma il volto rimase impassibile, se non per le labbra che appena si discostarono l'una dall'altra, secche. Ecco: Astre non poté scostare gli occhi da quel che accadde dopo, La lingua rosea di Pherio che velocemente le umettava; e il volto dello spartano che si negò ai suoi occhi perché s'era voltato e con grazia accostatosi alla rupe, la risalì. Quei capelli che sciolti, annodati dal mare e pesanti, gli ondeggiavano intorno come un'aureola di luce.
Astre si costrinse a fare un passo, ignorando le farfalline improvvise nello stomaco non di certo dovute al trauma e la rigidità alle gambe, ma una caviglia gli cedette, dolendo improvvisa. Riuscì ad afferrarsi in tempo ad una roccia, evitando di sfregiarsi sulle altre, appuntite.
"Sei troppo debole per salire: vienimi sulla schiena - suggerì Pirecrate- Avanti: io e Pherio sono ore che ci siamo ripresi. E' meglio che risparmi energie ora per poter camminare dopo, che usarle tutte subito, no?"
Il principe esitava, inconsciamente guardando Pherio, che già s'era reincamminato su tra i sassi arrotondati dal vento e dalle alte maree. Il rosso scarlatto che sulle pelle di Pirecrate sembrava un rubino incastonato in una pietra un po' scura, su quella di Pherio era una goccia di sangue versata sull'alabastro grezzo, che non poteva corroderlo.
Si scosse. Era vero: l'unico modo per uscire di lì era risalire... Ma allora perché Pherio non aveva aspettato su? Cedendo alla stanchezza, si mise sulle schiena di Pirecrate, sorprendendosi del fatto che non gl'importava di quel che Pherio avrebbe pensato. E i capelli di Pirecrate sapevano di pietre calcaree e di mare: si lasciò sfiorare da quel profumo, socchiudendo le palpebre.
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Idrio riaprì gli occhi, sorrise a Dionide che, sedutogli accanto, lo guardava in silenzio. Posò il citaredo lo strumento sulle gambe, mentre l'altro gliaccarezzò la pelle sopra l'occhio sinistro.
"A cosa pensavi?" chiese Dionide, sciogliendosi dal capo la stoffa con l'altra mano, liberando i capelli che avevano un qualcosa di selvaggio nel loro arricciarsi, lucidi e scurissimi seppur non neri, e cadergli intorno al viso forte, scolpito con l'eleganza della mitezza.
"Ares, per gelosia di Afrodite, si mutò in un cinghiale per colpire Adone a tradimento durante una caccia. Una volta ho visto una persona che assomiglia ad Adone... in Grecia."
"Era tanto bella?"
"Non era una donna!, che hai capito? Era un ragazzo."
"Ahhhh. Ho motivi per essere geloso?" stuzzicò, sogghignando appena.
"Ti assicuro che l'unica sensazione che mi ha dato sono stati i brividi. Gelido era il suo modo di guardare, però aveva chiome che sembravano raggi di sole e pioggia dorata intorno alle tempie, la pelle bianca, occhi tanto chiari ed azzurri che sembravano specchi del cielo. Non avevo visto mai nessuno così."
"Lo incontrasti ad Atene?"
Idrio rimase un attimo pensoso. "No, a Sparta."
Il fatto che Idrio fosse stato a Sparta e non gli aveva mai neppure accennato la cosa fu più rapido a solcargli i pensieri, del fatto che forse sapeva di chi stava parlando il Greco.
"Non mi avevi mai detto di essere stato nella città cara ad Ares. Che ci facevi nella Lacedemone tu?"
"Una volta sola... accompagnai un gruppo diplomatico."
"Non ti seguo."
"Sono un orfano: mio padre morì durante una battaglia contro Spartani e Tebani. La mia città si prese cura di me, come di altri orfani, e fui affidato a un tutore, Timoteo. Io.. son grato a Timoteo: è stato un bravo tutore. Sai, ero piccolo quando morì papà, quasi non lo ricordo. Ho solo.. immagini, nella mente di lui, a tratti, niente più. Però, e non fraintendermi, sin da quando riesco a tornare indietro con la memoria, c'è stato un uomo che s'è preso veramente cura di me. A metà tra un genitore ed un amico; ma non siamo mai stati amanti. Gli volevo.. gli voglio molto bene.. Insomma, che dicevo? Ah, sì: Timoteo fu chiamato come ambasciatore e andai con lui quel giorno."
Il giorno che lo aveva strappato per sempre ad Atene.
Dionide gli rispose col silenzio e con uno sguardo pieno di affetto, mentre, rimessosi in piedi, si slacciava il resto della veste, commentando i danni che aveva fatto per ora la tempesta di sabbia ed aggiungendo che se l'erano cavata molto più felicemente dell'ultima volta.
"Non è detto che sia finita: tante volte viene e dopo un'ora va via, altre rimane per giorni e giorni di seguito. Non ce n'è una uguale all'altra."
"Io ancora non capisco come possa piovere sabbia dal cielo, e non l'acqua."
"Anche io faccio fatica ad immaginare quella che voi chiamate pioggia: una tempesta in cui sia quel che noi chiamiamo oro, nel deserto, a scendere così generosamente sulla terra. Comunque credo di aver capito a chi ti riferivi prima."
"Intendi quel ragazzo simile ad Adone?"
"Esattamente. E' Pherio della famiglia panfilia, la più potente di Sparta; è molto probabile che un giorno diventi re."
"Sparta è lontana da qui, come fai tu a sapere queste cose?"
Dionide sciolse l'ultimo nodo che separava la sua nudità da un dolce piacere, lasciando cadere la veste leggera in terra, per andarsi a sdraiare accanto ad Idrio, cingendogli la vita con un braccio. "Le notizie volano, specie quando sanno di leggenda."
Prima che il Greco potesse porre un'altra domanda, venne avanti poggiando le proprie labbra su quegli invitanti boccioli, avvolgendolo con la sua passione, la foga simile ai venti che circondavano Firuzeh. Nessuno sarebbe venuto a disturbarli, nessuno si sarebbe mosso dal proprio giaciglio fino a che la voce del deserto non si sarebbe placata ed estinta per lasciare di nuovo spazio al sole e a un cielo senza nembi.
E poi non era gradevole, in quella lunga notte piena di vento e di ululati singhiozzanti, ricordare quello che stranamente aveva ricordato il giovane Idrio: Adone, Attis ne era la nomina in Asia, veniva ricordato per la sua morte cruenta sotto le zanne aguzze del crudele cinghiale Ares; Attis, il cui sangue per i popoli d'oriente era simbolo di morte e rinascita; Attis, colui il cui sacrificio avrebbe portato la vita alla terra e alle popolazioni che si bagnavano in quel liquido di rubino.
Perché Idrio aveva la mente occupata da certe infausti presagi? Cos'era quella memoria sorta all'improvviso quando nulla pareva riportare alla soglia della coscienza l'immagine di quel giovane, sfortunato semidio, che doveva morire perché chi lo circondavano, vivessero nella prosperità?
Chissà come mai, poi, una creatura che pareva essere nato per fare il re di Sparta, dovesse essere così simile ad *Adone*. Che scherzo del fato era quello? Che scherzo del fatto era quello di avere tra le braccia un Ateniese dolce come un dio e morbido e profumato e bello come i cedri del Libano..
Gli si mise sopra, a cavalcioni, senza lasciar che neanche per un attimo le loro bocche si separassero, ormai esperti in quel gioco in cui era sempre lui a spuntarla. Idrio infatti dovette riprendere fiato, e allora lui calò sul suo collo, mordendo piano, afferrando appena la pelle morbida e liscia tra i denti bianchi, per poi tenerla tra le labbra.
Il Greco gridò, strozzato, il piacere di quei piccoli morsi, afferrando il capo di Dionide e riportandolo sulla sua bocca, abbracciandogli le spalle. I fianchi gli furono accarezzati con gentilezza, e lui vibrò fin nelle ossa e il sangue gli scorse veloce nelle vene; le gambe forti e il peso dell'altro gli impedivano di inarcarsi e così si ritrovò prigioniero dei suoi movimenti, dei suoi ritmi e dei suoi tempi.
"Mhhh spostati Dionide, voglio darti piacere con le labbra"
"No. Ho in mente qualcosa di diverso..."
Idrio sollevò un sopracciglio, "Cosa cosa...?"
"Voglio che questa nostra notte duri a lungo, perché quando la tempesta sarà finita, passeranno giorni prima che alla sera abbia forza sufficiente per amarti: Firuzeh è grande, e c'è tanto da fare, come sai."
"E che avresti in mente allora?"
"Guarda un po' cos'ho sgraffignato dalle riserve di Irsha?"
Stuzzicò, allungandosi per prendere tra le mani un cesto lì vicino e poggiandolo al di là capo di Idrio, in modo che il Greco non lo potesse vedere.
"Chiudi gli occhi, mio fiore"
Il Greco fece come chiesto e sentì le dita dell'altro invitarlo a mettersi in posizione seduta. Si sentì prendere le ciocche di capelli che gli solleticavano i lobi delle orecchie, e con pazienza iniziare a intrecciarle con qualcosa di pesante: maestria in quelle mani che come sapevano dare carezze simili a quel vento profondo del deserto, che sembra venire da ogni luogo, così trattenevano fermo un cavallo poco docile.
"Finito?"
"Quasi. Poi tocca a te."
"Son curioso: che combini?"
"Un attimo ancora... Fatto!"
Idrio si portò le mani al capo, e per l'impazienza si mosse un pò troppo bruscamente, ritrovandosi qualcosa tra le dita. Dionide aveva il volto soddisfatto; guardò cosa avesse tra le mani, e vide che era un chicco d'uva, scuro come il sangue. Se lo mise tra i denti, e quando morse, sentendone il sapore, sobbalzò.
"L'ho fatto venire apposta dalla tua Atene con la scusa che andava a me. Contento?"
Sì, sapeva del sole placido della sua bianca città; dei campi in cui gli uomini raccolgono i grappoli d'uva coi piedi nella terra brulla, e le viti piegate sotto la copia dei loro frutti. L'aria satura d'aromi e sapori, gli ulivi dai crini d'argento che fiorivano tra le rocce e l'erba delle colline, un mare fulgente alla luce del giorno e riempito di dolce respiro dalle correnti del vento. E l'acropoli in vetta, gli dei per tutti gli anni a venire intagliati nella pietra lattea e appena venata dei marmi; lucidi come specchi quei pavimenti. E il fumo dei sacrifici a Demetra a fine estate, quando il caldo distorceva il terreno ambrato e i grilli riempivano l'aria...
Una lacrima gli sfuggì dalle ciglia, correndo come un lampo giù per le guance che già conoscevano la prima barba. Ingoiò il chicco, asciugandosi gli occhi. Quando risollevò il capo Dionide lo guardava, assorto.
"Idrio, io non ti chie-"
"No, non ne parliamo. Non ne parliamo mai."
Prese velocemente tra le agili dita due grappoli maturi e si avvicinò a Dionide, in una carezza leggera tra i capelli ve l'intrecciava: quei frutti che profumavano della sua Grecia. Ma d'improvviso si bloccò, il vento lanciò un urlo come se fossero anni e anni che ingoiava brezza ed aria. Tirò indietro i ricci di Dionide, preda d'una fame terribile, con forza stringeva quei capelli nelle dita, le labbra carnose dell'altro preda dei suoi morsi. Dai due grappoli intessuti nei riccioli neri, staccò con i denti un chicco e di nuovo calò su quella bocca morbida, e gustarono insieme quel che Dionide non avrebbe conosciuto mai.
Amaro era il sapore di quel frutto.
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"Heeeeeeeeermes io mi sono rotto!!!!"
"Eros ti conviene darti una calmata." Eros strinse talmente forte il pugno che ruppe il ramo di palma che finora lo aveva protetto dal sole assurdo di quelle lande desolate. Buttò l'unica sua speranza di lenire il caldo in terra, calpestandola furiosamente.
"Possibile che ci siamo persi! Persi persi persi quando tu sei il dio delle strade!!"
Hermes sollevò un sopracciglio tremulo, riprendendo a camminare.
"Dettaglino: *qui* tutto è una strada; le uniche strade che percepisco con le mie capacità, che almeno sono utili per cose pratiche, sono quelle già percorse. Se ad un certo punto chissà che diamine di carovana, per Zeus, s'è come dispersa, colpa mia non è! Da qualche parte arriveremo, da qualche parte staremo ora."
"E dove di grazia? Mi giro e sinistra e c'è una duna, mi giro a destra e c'è un'altra duna, guardo avanti, ce ne sono migliaia, guardo indietro. Ahhhh neanche più le nostre impronte di vedono! Per non calcolare che Ares chissà dove se ne sta, e va in giro coi suoi cavalli! Perché noi non abbiamo un cavallo? E' forse speciale lui per avere un cavallo? Che ha di speciale? E' burbero, rozzo e provinciale, non ti viene a chiedere le cose per favore manco se lo volesse Zeus... ed ha un cavallo! *Io* invece perché mai devo bruciare i miei piedi profumati e soffici sulla sabbia così calda, perché diamine mamma non m'ha avvertito di portarmi calzari chiusi!!""
"Non credo che Afrodite sia mai venuta da queste parti. E ti ricordo che noi non abbiamo un cavallo perché tu sei il dio dell'amore, e io sono il dio della parola. So volare, ma *non*, e sottolineo il *non* - e per sottolineare la sottolineatura al 'non' fece un gesto orizzontale con la mano- sono intenzionato a portarti sulla schiena. - Eros si mise le mani ai fianchi, sgranando gli occhi e intimandolo di non aggiungere una sola sillaba al suo adorabile discorsetto- Tu sai volare, ma appena messo piede in Asia le tue ali sono risultate inutilizzabili."
"Ti delizia il rammentarmi le mie disgrazie, Hermes caro?"
"No, sto facendo il punto della situazione."
"Ahhh, fantastico."
"E ringrazia il fatto che tenga tanto al tuo sedere, perché altrimenti io con questo caldo qui a miglia dai pascoli e dalle greggi non ci sarei venuto."
"Per quanto tu tenga al mio bel fondoschiena, Hermes, ti rammento che quello che generazioni d'uomini fa ha rotto le scatole ad Ares, non sono io, sei tu! E quello che c'era andato per le piste sono io, e non tu! Tu come al solito ne sei uscito meravigliosamente, senza nemmeno un bozzo, mentre io ho perso gli amanti che finalmente avevano i requisiti per farmi divenire un dio a tutti gli effetti! Tu non sai cosa significhi essere sospesi tra l'uomo e gli dei. Ho la mia vita immortale, ma certo... ma certo!, solo fino a quando gli uomini non si estingueranno. Gli dei non hanno bisogno di me. E dove finirò? Lo sai bene dove finirò! Sospeso per sempre, stavolta, tra il nulla e voi, senza più possibilità di riscatto!"
Tacque Eros, i capelli come scie di stelle gli scendevano dal bel capo, la pelle risaltava sul suo lungo mantello, intorno al volto, come il riflesso della luna nel mare in una notte estiva.
Hermes tacque un lungo, sospeso istante, come rapito da un qualche pensiero o da un'immagine che, fugace, gli avesse traversato la mente lasciando un'impressione netta. Scosse il capo, abbozzando un sorriso.
"Andiamo! Andiamo mio giovane amico, 'chè il broncio non è nato per essere dipinto sul tuo bel viso! Ti lamenti e piagnucoli proprio come il bimbo che sei, Eros, non ti rendi conto della potenza che l'unicità della tua posizione ti dona!"
"Hai perso forse il senno per il troppo sole? O che altro?"
"Sarà che parlo e dico il vero, è per questo che ora dubiti di me? - rise di nuovo scotendo lentamente il capo, dolcemente- Sei a metà fra gli uomini e gli dei, sei mobile, incostante, fluttuante come una piuma in balia delle tempeste ma, guarda! Io sono Hermes, il dio della parola, degli inganni, dei ladri, del commercio, dei crocicchi, il più astuto e rapido di tutto l'Olimpo, eppure qui, calcando un suolo che non riconosce in me un suo dio, io mi ritrovo senza poteri, quasi un mortale, quasi!"
"Anch'io lo sono, se non te ne fossi accorto! In più mentre questi barbari riconoscono come dio un qualche Essere che ti somiglia, io .. io no! L'amore qui non viene considerato! La terra qui è arrossata di sangue di vittime vergini, ed ingannano loro stessi chiamando amore solo ciò che è frutto di pozioni e menzogne!"
Eros aggrottò la bella fronte come per un forte nuovo dolore.
"Ma l'amore, mio amato Eros, ha molteplici, infinite forme, tu lo sai meglio di me! Eppure una sola rimane la sua essenza - Hermes gli posò le mani sulle spalle scrollandolo appena- Se un giorno i mortali non fossero più, se questo è il desiderio del Fato, padre nostro, cosa credi che ne sarebbe di noi Immortali, non più pregati, non più temuti, non più venerati né ascoltati? Saremmo come statue silenti e immobili di un tempio vuoto in cui spazzerebbe senza intralci il vento del tempo e null'altro. Invece tu, Eros, sarai sempre Amore. Sempre uguale a te stesso. Non fissarti eccessivamente sulla tua forma perché quella in te è un puro accidente e non la forma d'individuazione, come capita a ciascuno di noi! - Hermes rise guardandosi intorno, allargando le braccia e lasciandosi andare in una mezza giravolta- Pensa, in queste terre abitate da barbari, come li consideri, magari fra qualche generazione l'Amore verrà visto, pregato, idolatrato sotto altre forme che non le tue adorabili spoglie! Magari non un giovinetto alato ma .. ma una bianca colomba che scocca non frecce ma dardi di luce pura .. e saresti ancora tu, Eros, un altro nome, forse, altre parvenze, ma saresti tu! Perché allora quel dolore nella tua voce? Quel dubbio su un futuro che agli Immortali non deve mai fare paura? Cancella l'ombra densa che rovina il tuo bel viso .."
"Un ..un piccione?! Un garrulo, squallido piccione?! Mi stai insultando?"
Hermes unì le mani di fronte al viso e rise.
"Non piccione ma colomba! E poi è solo un'ipotesi .."
"Ipotesi che non mi garba! E poi, lasciatelo dire Hermes, sei troppo complicato! Che discorsi sono questi, e cosa diavolo il ...il 'principio di individuamento'.. "
"Individuazione."
Eros scosse leggero una mano nell'aria con fare noncurante.
"Quel che è! Mi fai venire il mal di testa con tutte queste tue blatere piene di se e di ma!"
"E tu sei fatuo, mio bellissimo Eros! Ma questo non importa! - ritornò serio, quasi oscuro- Dobbiamo sbrigarci e giungere dove dobbiamo oppure Ares, che già ci precede, otterrà troppo di ciò che brama e questo non è mai un bene."
Eros s'incupì a sua volta, facendo frullare un poco le sue ali, arruffando le piume come un passero che cerchi riparo dal freddo troppo pungente, per lui un modo in più per esprimere la sua irritazione.
"Troppi ingranaggi sono in moto qui intorno e abbiamo poco tempo da perdere in queste chiacchiere! -sbuffò- Un piccione! - una piuma scappata dalle sue ali scivolò volteggiando a terra e Eros rise sollevando il capo di scatto, avvicinandosi a passo fermo e lieve a Hermes - Hermes!! Ma poi mi porti a vedere quell'oasi che mi raccontavi essere tanto bella?!"
Domandò, prendendogli la mano e stringendola forte nella sua. Hermes lo guardò negli occhi, e vi vide nelle profondità un'ombra. Una paura di cui forse il dio dell'Amore non voleva preoccuparsi; un timore che forse neanche lui s'era accorto di avere. Più simile ad un brivido, ad una pesantezza nel respiro.
Se un giorno i Greci si fossero spenti, quella colomba dalle fulgide ali lucenti avrebbe vissuto vedova la propria vita? O, a quel punto, la propria condanna?
No, perché lui, Hermes, avrebbe trovato il modo di sopravvivere: non aveva prediletto Astre per niente.
_____
Idrio si era addormentato, poggiando il capo sul suo braccio sinistro. Dionide aveva fatto scivolare il destro intorno alla vita del suo amato, e appagato ne respirava ora l'odore fresco della pelle. Osò avvicinare le proprie labbra a quelle del greco, attento a non destarlo dai suoi sogni, e gustò con la leggerezza d'una piuma il sapore dell'uva e dei loro sperma congiunti che lì aleggiavano.
E nel cuore ancora quella macchia densa che nè con la ragione nè con i sentimenti voleva lasciarlo. Sospirò pesantemente, tirandolo ancor di più a sè.
"Tra quei fiori giacevano, avvolti dalla nube bellissima, d'oro ne crollavano giù brillando gocce di pioggia"
Il Greco aprì gli occhi lentamente, le palpebre come l'orizzonte lontano che si schiudeva nel mare, e sorrise.
"Eri sveglio."
"Non da molto... mi eran venute in cuore queste parole."
Dionide lo fissò a lungo, e vide che Idrio stava trattenendo molte cose in quel cuore grande.
"Fiel'a shuah..."
Il suo amato si aggrottò, chiedendogli con lo sguardo di spiegargli quel che aveva sospirato. Dionide socchiuse le palpebre.
"Tì lèlekas;"
"Fiel'a shuah ireme' hie no'rkeph."
"Non conosco queste parole della tua lingua, Dionide..."
"Questo perché non te le ho mai dette."
'Perdonami'.
"Ora mi fai venire la curiosità!! E non è una cosa carina! Posso infuriarmi più di Ares se mi provochi!"
"Ares Ares Ares! Adone! Atene, Sparta, possibile che non riesci a pensare ad altro?"
Si espresse con voce improvvisamente alterata, muovendosi di scatto e alzandosi in piedi. Idrio si ritrasse, come fisicamente colpito. Stelle di dolore e rabbia gli lucidarono gli occhi, ma non le lasciò cadere, mettendosi in piedi a sua volta, e, ritiratosi in disparte in un angolo, si rovesciò sul capo la giara d'acqua che tenevano per pulirsi. Il fluido scuro gli lavò il corpo, finendo tra la sabbia in terra e ingoiato fu da questa come il mare ingoia la terra nel flutti. Quando ebbe finito era solo nella tenda. Solo.
Chinò il capo, strinse i pugni, sulle labbra e sui capelli gocce pendevano come di rugiada.
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Le stelle erano semi di melegrane infuocati e ardenti gettati nel cielo, ammantato di un gelido cobalto, per un banchetto divino. Astre chiuse gli occhi, nelle orecchie i lunghi e malinconici sospiri del mare, ma tra le labbra, sì, lo sentiva, era come se fosse lì al posto del sale, il vino speziato della corte di Persepoli. Tutto ciò che lo circondava, in un modo o in un altro, per la lunga giornata trascorsa gli aveva rammentato questo o quello: una roccia bianca di uno scoglio, spezzata, aveva richiamato dai suoi ricordi le conchiglie vergini che quando era molto piccolo s'era dilettato a raccogliere, e che, una volta cresciuto, gli erano state amiche assai preziose; un ramo piegato d'un albero che, lungo la costa, cresceva in altezza, lo aveva riportato a quando, per la prima volta, Uth gli aveva imposto le mani sul capo, rendendolo partecipe d'un qualcosa di grande in cui una sola persona al mondo gli era superiore.
Un'eccezione quel principe, il quale invece di crescere pago dei tappeti e dei cuscini, dei bicchieri d'oro, di vesti d'argento e di diamanti, che spezzavano la luce bianca in languidi arcobaleni, sempre aveva scrutato il mondo con sguardi curiosi ed acuti. Ed era sempre stato odiato per la sua intelligenza, scomoda per i nobili, debilitante per chiunque lo avesse fissato nelle iridi così profonde, simili al cielo che ora gli era un tetto imperscrutabile...
Passò una mano tra i granelli di sabbia su cui s'era coricato per quella notte: era la sua terra, la *sua* terra. Socchiuse lo sguardo: il fuoco acceso da Pirecrate arrossava le pietre della spiaggia ma non riscaldava perché non bruciava col necessario ardore. Pherio montava la guardia ed Astre era certo che lo stesse facendo a dovere.
Lui e il suo senso del dovere..
Sorrise, chiudendo gli occhi.
'Ikunmba zeleth no uai...- sospirò, tra le labbra, le sopracciglia increspate e concentrate; scostò il capo da un lato, e poi dall'altro, in preda ad una vertigine che era felice di poter riprovare -Ikum ha meneth siu lai... Piur henek medekastè.... Uba iu ankh... iun... ha...'.
Sentì bruciare le mani come se fossero state trafitte da punte di lancia incandescenti, e il dolore misto ad un atavico piacere gli corse per tutte le vene del corpo.
Premette i palmi al terreno, e il suono gutturale che mise fuori la sua bella gola fu ingoiato dalle fiamme che d'improvviso avvamparono dal docile fuoco lì vicino. La vista annebbiata, udì il suono di una lama che in parte viene sfoderata. Ma come... bastava così poco per far spaventare Pherio? Le membra indolenzite, ma lo spirito soddisfatto, prima che Inite, custode delle fiamme e delle scintille, riaffondasse verso gli scuri abissi della terra, Astre gli porse i suoi saluti. Era contento d'essere tornato a casa.
_________
Dionide sollevò il capo dal papiro che aveva sotto gli occhi, lo sguardo perso nel vuoto. Si stropicciò le palpebre, mettendo da parte le carte che stava leggendo. Con cura arrotolò il fragile materiale e lo riallacciò con le sottili stringhe di cuoio, poggiandolo nella mensola. Il luogo in cui si ritirava per far i conti era a metà tra le tende sospese in aria e una parete di roccia, e lì era stato scavato per creare spazi in cui poggiare i preziosi papiri, lì dove era asciutto e non rischiavano di rovinarsi.
La mano rimase a contatto con la roccia, mentre cercava di quietare il suo cuore in tumulto. Dovevano parlare. E gli avrebbe chiesto perdono.
"Dionide Dionide! Sei qui?!" arrivò una voce da fuori, e poi suo fratello minore comparve all'uscio, come in preda dalla fatica del respiro.
"Cosa c'è, Ari'heia?"
"Un uomo, avvolto nella tempesta! Ha chiesto del padrone di questo posto!"
"Cos'è tutta questa agitazione, fratello?" domandò, andando verso di lui.
"Se solo l'avessi vis-"
La sua voce cadde, si frantumò all'improvviso non appena percepì di nuovo la presenza inquietante di quell'uomo. Are'heia si voltò e s'allontanò dall'uscio, mettendosi dietro a Dionide, tremando quasi. Tra le tende appena mosse dagli spifferi della tempesta di sabbia fuori, fece il suo ingresso un uomo.
Aveva lo sguardo di fiamme e fuoco, gli occhi di pietra, gli zigomi e la fronte di chi pur essendo maturo negli anni ancora è fonte viva di energie e forze; i capelli gli scendevano mossi intorno alle tempie, ordinati e pesanti andavano a tuffarsi nel mantello scuro sulle spalle ampie di quel forestiero.
"Non è gentile entrare qui, senza aver atteso il mio arrivo."
L'uomo si strappò il mantello, senza staccare gli occhi un attimo da Dionide. Le labbra gli si piegarono in un sorriso, che ai mortali pare un ghigno terribile. O forse lo è davvero. Rispose in Greco, un greco secco ed asciutto, un dorico fortemente dialettale "Me ne infischio delle vostre usanze barbare, e non mi piace perdere tempo in chiacchiere."
Dionide chiese con gli occhi al fratello di lasciare il grande ambiente, e non appena orecchie estranee furono lontane, si piantò di fronte al Greco.
"Bene, e a me non piaci tu. Quindi facciamola finita in fretta, va bene? Se sei un dio qui non hai niente da fare, se sei un demone so come difendermi da quelli come voi." gli rispose asciutto, le mani intrecciate dietro ai reni, fissandolo dritto negli occhi dovendo tenere il capo leggermente rialzato.
"Coraggioso sei, barbaro. Ma non sfidare me, chè grandi guai e problemi potrei portare a questa oasi di pace e serenità che tu custodisci e in cui vivi."
"Il vostro nome di grazia?"
"Non sei meritevole neanche di udirlo, il mio antico nome. Dov'è l'Ateniese?" disse, scansando Dionide per i suoi passi e guardando le varie entrate della grande sala romita.
"Non so chi sei, e non mi importa. Vattene di qui, se non vuoi incontrare guai." gli rispose, allacciandosi in modo strano e complesso, di nascosto dietro la schiena, i bracciali di pietre intorno ai polsi.
"Lo ripeto per l'ultima volta: tempo da perdere non ne ho. Dov'è l'ateniese"
Come all'improvviso inghiotte e trema la dura roccia isolana grande sgomento destando, così fu veloce e tremendo il braccio del Greco a sferrare il suo colpo; come le acque inghiottono il fendente con rabbia condotto, così i polsi di Dionide a pararlo. La lama feroce sfregò contro quelle magiche pietre che tintinnavano e abbagliavano nella loro luce, ma le braccia del giovane uomo tremarono di tensione e dolore, mentre quelle dello straniero vibravano d'indomita furia selvaggia.
Cadde su un ginocchio Dionide, ma la testardaggine e la volontà gli impedirono di soccombere così presto.
"Notevole. Fossi stato un uomo degno di questo nome, un Greco, magari forse ti avrei preso sotto la mia custodia. Per adesso non mi sei buono a nulla."
E tra loro giunse un richiamo, pieno di spavento e preoccupazione. Idrio entrò, scansando con le mani delicate di musico le tende: Dionide in ginocchio, uno straniero gli torreggiava sopra come un minareto d'una scogliera impervia sovrasta il mare di sotto. Il citaredo sfiorò con i suoi occhi quelli dello straniero, e le gambe cedettero sopra un peso immane. Pesanti le sue membra, macigni, terrorizzate non riusciva a muoverle neanche di poco, se non per tremare.
"Finalmente ci si incontra."
La voce venne appena davanti a lui, ma lui non osava sollevare lo sguardo. Rasentando i tappeti carmini vide più giù Dionide sdraiato, del sangue scuro che giù scivolando per i capelli sottili s'allargava sul rosso del pavimento.
"Dionide!" lo chiamò, poggiando le mani in terra e cercando di avanzare. Si sentì afferrare, rudemente e cercò di dimenarsi. Ma mai, neanche per un istante, d'istinto, osò guardare in volto colui che stava ora ridendo in modo tanto crudele.
_____
La nobile e orgogliosa Sparta, in secoli di vita non aveva mai mostrato il fianco al nemico, mai aveva avanzato richiesta di resa, mai si era chinata a compiere azioni indegne di un nobile passato e di un futuro che doveva essere, se possibile, ancor più fulgido.
Ogni Anziano lavorava per far crescere i ragazzi con quell'unico obbiettivo nella mente, loro che per quella causa avevano già dato tutto, che fino a che avrebbero avuto vita, avrebbero continuato ad affannarsi per far ottenere alla Città la gloria che meritava. C'erano stati tradimenti nel passato, ma essi erano talmente scarsi di numero che i traditori si potevano contare sulla punta delle dita di una mano, e il loro nome, così esiguo, era davvero vittima di ingiurie e, conosciuto, veniva utilizzato realmente come segno di scherno e offesa. Pirecrate ne era l'esito vivente.
Ma mai, come in quel giorno, se giammai s'era parlato di tradimento con accenni lievi e distaccati, i cuori di ognuno erano stupefatti e disgustati e increduli e ..sollevati, forse, insieme. Perché se tradimenti c'erano stati in passato, mai si ricordavano di così gravi azioni e di un tale rumoroso tonfo, dalle vette più alte della nobiltà e dall'onore stesso di Sparta al fango lercio dell'infamia.
Parole e frasi erano già volate leggere, di bocca in bocca, come farfalle dalle ali umide che, pesanti si staccano dalla terra per riprendere a volare dopo un acquazzone. E ora le parole si erano aggiunte alle parole ed erano divenute prove, e notizie che non dovevano essere sapute venivano svelate agli occhi della Gerousìa, e ora sotto un sole inclemente, a picco, ove non poteva esistere un'unica ombra, un uomo fiero ed eretto era pronto a sostenere il giudizio della città.
Lui che non s'era mai piegato.
Lui che aveva vissuto solamente con l'idea e la meta di rendere sempre più nobile e forte la sua Sparta.
Lui, che per anni aveva sopportato in silenzio la vergogna che nella sua stessa famiglia cresceva, che per anni si era affaticato e aveva fatto in modo di piegare quel giovane albero destinato a crescere deforme e malato, e l'aveva potato, aveva sfrondato i rami marci, l'aveva plasmato e flesso, morbido ancora com'era il suo fusto chiaro, perché fosse degno di dirsi uomo libero, e Spartiato insieme. Perché se non poteva essere realmente valente, vista la sua nascita, si poteva almeno crederlo un uomo giusto. Un uomo, se mai uomo lo fosse diventato, di cui una città non avrebbe dovuto provar vergogna.
E invece ora il destino si accaniva contro di lui, e lui stesso era la macchia che insozzava il nome della sua famiglia, una delle più antiche ed influenti di tutta Sparta.
Ma lui sapeva bene che i Panfili con lui non sarebbero stati cancellati dalla storia di Sparta; figli e nipoti, che ora chinavano il capo e distoglievano lo sguardo da lui, scandalizzati e sgomenti perché il loro patriarca s'era in quel modo macchiato nei confronti della loro polis, non sarebbero stati obbligati a mutare il loro nome, e tramite loro i Panfili avrebbero continuato a portare prestigio in dono agli dei. E per quanto riguardava lui stesso, quel nome che ora pareva macchiato per l'eternità, Kakeo Panfilo sapeva che quando si sarebbe potuto scoprire tutto quello che ora andava nascosto allora lui avrebbe riavuto indietro, integro, il suo onore.
E sapeva anche che, nonostante il suo sangue, il suo aspetto, Pherio, ovunque fosse ora, se fosse stato abbastanza abile da ritornare vincitore dalla missione che lui stesso gli aveva affidata, non si sarebbe dato un attimo di respiro prima di riuscire a svelare la verità agli occhi degli spartani. E quello, sorrise l'anziano Kakeo, era proprio un amaro scherzo del destino: il suo onore nelle mani di un bastardo mezzo barbaro, di quell'indegno di suo nipote, così amico, così vicino, così 'intimo' del Re di Persia che in tutta Sparta li credevano amanti! Suo nipote.
Era strano, assurdo, quasi una maledizione ora che le Moire stavano per recidere il filo della sua vita non riuscisse realmente a pensare a qualcun altro oltre che a lui.
La sua famiglia era stata prodiga di figli, aveva numerosi nipoti degni, che s'erano ricoperti di gloria con azioni sui campi di battaglia e non, nomi che a Pherio per anni aveva ripetuto, facendogli ricordare da che schiatta discendeva, a che altezze doveva assurgere per definirsi davvero un Panfilo. Persone le cui azioni, e il suo rammentarle, dovevano costantemente umiliarlo, purificarlo dell'orgoglio che vedeva, brillante, crescere in lui.
E ora, quell'inetto di suo nipote, quel mezzo barbaro, quel lucente figlio di quella pazza di sua sorella, che parlava con gli dei ma che non era riuscita a evitare un'insidia di uno stupido barbaro, era l'unica persona che riusciva a vedere, chiaramente, con gli occhi dell'anima di fronte a se' senza ombre, senza esitazioni o sforzi.
Suo nipote.
Pherio il lucente.
Quel nome che dallo scherno che era, era diventato un appellativo pieno di stupore e rispetto tra i suoi compagni. Pherio che era così chiaro, la sua pelle così bianca, che non si abbronzava mai, morbida e vellutata come la buccia di una pesca matura nonostante la vita che conduceva, e quei capelli d'oro, vergognosi e insieme .. affascinanti . .
Suo malgrado non riusciva a non vedere nella memoria, di nuovo, quel momento
in cui Pherio, giovinetto, di ritorno da uno dei suoi viaggi a Delphi come
accompagnatore dei doni per il dio e la sua Pizia, si era presentato di fronte a lui con i capelli corti, tagliati, recisi di netto sulla nuca, morbidi fili sottili a sfiorargli appena l'attaccatura delle sopracciglia chiare. E ricordava fin troppo bene il groppo che per un attimo gli aveva chiuso la bocca dello stomaco, all'idea che quei capelli fossero stati persi, che non avrebbe mai più potuto passarci una mano attraverso, che non avrebbe mai più potuto obbligarlo ad arcuare indietro il capo stringendoli con forza nel suo pugno, e sentirli morbidi e folti mentre il suo viso pallido e affilato da ragazzino triste era così vicino al suo che baciarlo sarebbe stato tanto semplice quanto indegno.
Baciarlo, sì.
Quel bacio che non era mai venuto, che per anni aveva trattenuto sulla punta della lingua perché Pherio non era altro che un mezzosangue, un indegno, un corpo flessuoso che poteva piegarsi, forse anche spezzarsi sotto le sue mani violente che ora, a Delphi, qualcuno, forse davvero la dea dagli occhi di cielo, grigi come il ferro, protettrice della città a loro nemica, aveva deciso che lui, l'anziano e nobile Kakeo dei Panfili non avrebbe mai potuto toccare.
Una dedicazione!
Quello stupido, piccolo bastardo s'era dedicato a un dio! Ad essa, Athena, aveva offerto il suo corpo, aveva adesso giurato una purezza che lei non aveva mai mostrato di prediligere in qualche modo .. eppure la dea aveva accettato, e ora, nonostante quasi nessuno ne fosse consapevole, Pherio camminava sotto il cielo dei mortali come se fosse un sacerdote, legato ai Superni con catene invisibili ma impossibili da spezzare, il suo corpo chiaro dedicato ad essi, con la promessa sacra che nessuno mai l'avrebbe sfiorato pena l'ira e la maledizione e forse anche peggio.
Quel corpo che da quel momento era diventato ai suoi occhi sacro e inviolabile più che i recessi di un qualunque tempio. Quel corpo che, forse per un altro snervante scherzo del destino, a ogni anni che passava, a ogni giorno, a ogni respiro, gli pareva diventare sempre più attraente e desiderabile.
Quel corpo che anche ora, a un respiro dalla sua morte non riusciva a togliersi dalla mente, e il fuoco ancora gli invadeva le vene, pensando, immaginando che sensazione sarebbe stata passargli le mani addosso, e fantasticare su che sapore avrebbe potuto provare, e che sfumatura avrebbe mai assunto quella voce sotto il suo assalto ..e piegarlo, di nuovo e di più, costringerlo sotto di sé e farlo urlare finalmente dal dolore, e vederlo piangere, quel maledetto, così bello che era una maledizione! Così splendente che quella dedicazione era null'altro che una maledizione! Perché lui non lo poteva toccare. Perché ora non l'avrebbe mai potuto obbligare, perché Pherio non avrebbe potuto farsi convincere a non fuggire, ad accettare ciò che suo zio aveva in serbo per lui, non più.
E le sue carezze erano diventati violente, erano diventati colpi e schiaffi, e sonore, schioccanti frasi grondanti odio e disgusto.
Perché solo questo era ciò che ora, meritava Pherio.
Pherio dei Panfili.
______
Pherio, come scosso da un brivido, cambiò posizione in un sonno che pareva davvero poco piacevole. Sospirò, chinando un poco il capo verso il petto.
Pirecrate buttò nella fiamma il tronco di un arbusto che era riuscito a recidere prima che il sole fosse coperto dall'orizzonte, e alzò il capo al cielo stellato.
"E' molto bello, vero?"
"Non riesci a dormire, Astre?"
"No."
"Dovresti"
"Non puoi dirmi quel che devo e non devo fare!"
Il Lacedemone guardò il persiano, quasi nascosto alla luce del fuoco per chissà che strano gioco di ombre: i capelli erano un tutt'uno con il mantello e l'oscurità dei cespugli alle sue spalle, e gli occhi, seppur neri e imperscrutabili, avrebbero avvilito le stelle lucenti del cielo.
"Era solamente un saggio consiglio."
"Non ti facevo uno stimatore del cielo, Spartano.."
Disse con ironia Astre, socchiudendo le palpebre che velarono appena lo sguardo.
"E avevi ragione... solo che questa sera ci sono molte stelle cadenti."
Astre tenne per lunghi momenti il capo rivolto verso l'alto. Dovevano essere stati proprio oscuri i suoi pensieri, se gli avevano impedito di notare una cosa simile. E poi, cos'era che stava pensando? La testa forse gli avrebbe fatto male se avesse tentato di provare a ricordarlo.
La scogliera che, mentre il giorno avanzava assieme ai loro passi, era andata mano mano sollevandosi, adesso si trovava alle loro spalle: bianca, ora sembrava argentata come la luce della luna che si rispecchia nell'acqua; la vegetazione, piante basse e ispide, sembrava esplodere dagli anfratti ed era scurissima, e bruciava così velocemente nei loro fuochi. Il mare innanzi a loro era sconfinato come il cielo sul loro capo...
"Io credo che da qualche parte finiscano - continuò Pirecrate- forse vengono accolte nell'Ade, dove ogni luce di spenge. Il tuo popolo cosa crede?"
Il persiano si strinse nel mantello, e sembrava tenere tra le labbra la risposta come una cosa preziosa, indugiando forse. Ma poi guardò l'amico, appoggiando una guancia sul ginocchio.
"Sono messaggere di morte. Quando ne cadono così tante... o è stata attaccata una città, oppure qualcuno di importante è stato lasciato morire lentamente. Ma dipende sempre dai casi."
Pirecrate lo ascoltava con orecchio attento, d'improvviso incipigliandosi ogni qual volta innanzi allo sguardo gli si presentava all'orizzonte una scia lucente.
"Sei preoccupato per qualcuno?"
"Sono tutti morti quelli della mia famiglia, e tu e Pherio siete qui."
Astre scivolò in uno stato pensieroso, incrociando le braccia sulle ginocchia portate al petto. Poi si alzò, dirigendosi verso la banchina dalla rientranza che durante il giorno Pherio aveva deciso fosse idonea a utilizzare. Coi piedi nudi e sottili tracciò un disegno, ma il mare lo cancellò. Il principe, ben intenzionato a non arrendersi, lo delineò di nuovo e, prima che le onde potessero portaglielo via un'altra volta, da centro della figura prese un pugno di sabbia.
Sperava bastasse.
La sabbia sotto la pelle dei suoi piedi, indurita dalle asperità dei terreni che calcava, era morbida e piacevolmente fresca. L'estate in Asia era già arrivata. Per un attimo pensò ai giardini immensi dei suoi appartamenti privati, ai colori dei fiori e delle foglie, dei boccioli, al diletto che provava nel passeggiarvi e nel raccogliere dai fusti delle piante la linfa che avrebbe usato per uccidere o per salvare. Non durò molto: subito la sua visione fu totalmente e di nuovo riempita da quel fuoco acceso, Pirecrate seduto, Pherio sdraiato.
Gli occhi, guardando il Panfilo, erano caduti su una sottile ciocca di capelli che scivolava sulla roccia platinata, tagliandone il colore col suo oro disarmante.
"Dove eri andato?"
Astre sorrise enigmaticamente, gettando tra le fiamme la sabbia e coricandosi di nuovo sulla sua roccia.
"E' un'altra delle nostre credenze: porta bene gettare sabbia nei falò sulle spiagge" rispose celando la verità della sua azione; si coprì il capo col cappuccio, gli occhi ben fissi sulla fiamma, aspettando quel che gli avrebbe rivelato.
Pirecrate semplicemente poggiò le mani indietro, fissando la cupola blu. D'un tratto percepì un brivido lungo la schiena, come di un nemico nascosto. Voltò il capo, cercando con gli occhi abituati all'oscurità, ma non vide niente. Quella notte non sarebbe riuscito a prendere sonno.
________
Continua...
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