NOTE: i personaggi sono nostri, stanno quasi imparando ad ubbidire e fra un po' impareranno a fare i numeri, ammaestrati come le tigri nel circo ..^^! Ah! Dionide, new entry, è di Kalahari e ne è giustamente molto orgogliosa.
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Di odio. Di amore.

parte XVIII

di Dhely e Knp



Idrio si permise una pausa nel suo lavoro d'intreccio, seduto accanto ad una grande palma, rivolto verso Ovest, verso quel mare di velluto dorato che si estendeva per giorni e giorni di marcia. Gli occhi gli caddero proprio lì, sull'orizzonte di dune sinuose, dove fra poco Apollo si sarebbe immerso accolto da mille ninfe dai riccioli grandi e fini, gli occhi d'argento. Poggiò il capo al grande tronco, respirando l'aria che già iniziava a rinfrescare, quando tra poco sarebbe divenuta persino fredda: ancora non era notte, anche se Artemide di già splendeva in cielo, amica e nemica del fratello, e non era già più giorno e solo in quei silenziosissimi minuti si poteva levare lo sguardo per fissare il grande disco solare.

Lui faceva sempre di tutto per poterlo guardare.

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Pirecrate arrivò al termine della grande scalinata, alle spalle gli alloggi. Con gli occhi cercò la pallida figura di Pherio, ma tutto ciò che riusciva a vedere erano piccole fiaccole rosse, uniche e ben poche stelle di quella nottata. Il vento venuto da sud si era insinuato intorno quei corpi flebili e una dopo l'altra le aveva messe a tacere, con le eccezioni di quelle sempre vive nei templi, che si intravedevano appena. E gli stessi templi d'Apollo erano privati della luce candida e pallida della gemella del divino saettatore dalle nuvole portate da quella stessa brezza, dal mare, anche se il chiarore di Artemide sconfiggeva ogni tanto quell'oscurità, apparendo velata soltanto da un leggero strato di grigio. Avrebbe piovuto, e presto, e soltanto il vento sospirava in quella città che, all'improvviso, parve una necropoli.

Con un gesto secco cacciò un ricciolo che testardamente gli cadeva davanti gli occhi, accarezzando la spada che pendeva al suo fianco con l'altra mano. Non era la sua, ma una presa in prestito per quella notte da uno Spartiato che, non riuscendo a dormire, stava facendo ronda. Il Dimano iniziò a camminare a passo spedito, allontanandosi dal tempio e guardò un monte poco lontano. Sembrò per un attimo baciato dal chiarore della Luna, che subito tornò però ad eclissarsi dietro i veli cuscini del divino Zeus.

Una fonte. Pherio gli aveva parlato di una fonte.

Si guardò intorno e con i bei occhi azzurri vide una fila di cavalli. Andò davanti ad uno che, vedendo l'estraneo, nitrì, ma lui gli carezzò il muso placandolo. Lo sciolse e salì in groppa, senza sella: non ne aveva assolutamente bisogno, e prese il galoppo dirigendosi ad occhio verso il sentiero che lo avrebbe condotto da Pherio.

Intorno a lui i tempietti per gli ex voto scorsero velocissimi e ben presto lasciarono il posto alla foresta. Il rumore ritmico, a tre tempi e continuo, degli zoccoli riempì la notte buia e silenziosa, ad eccezione delle foglie che Pirecrate scansava nel suo incedere sopra il nobile animale e di qualche gufo che ogni tanto si faceva sentire. E forse erano gli occhi di quei gufi ad illuminarsi di un chiarore sinistro e spettrale quando i primi tuoni caddero dal cielo troppo gravido di pioggia.

Quando arrivò alle prime rocce del corto sentiero, esse erano già inzuppate dell'acqua che improvvisamente era scesa giù. Rallentò percorrendo la via fino ad arrivare nei pressi della fonte; lì scese dall'animale carezzandogli il collo e lo condusse sotto una grande quercia, dove avrebbe trovato riparo grazie all'immenso intreccio di foglie scure sopra le loro teste. Lo legò e si guardò intorno alla ricerca di Pherio, ma non vide nessuno.

Si avvicinò allora alla cascata e non riuscì a vedere neanche un riflesso distorto di se stesso tanto le gocce di pioggia cadevano nello specchio e quasi non riusciva ad udire il proprio cuore battere tanto era il rumore che facevano. Un tuono in lontananza rischiarò di bianco le nubi nere, seguito dal rimbombo simile ad un rullare di percussioni sul bronzo; un altro cadde proprio vicino alla fonte e in quell'attimo Pirecrate riuscì a scorgere una figura umana poco più in la, in cima ad una grande sporgenza rocciosa, che gli dava le spalle. I capelli biondi, sotto il fulmine, s'illuminarono di oro.

Il volto del Dimano si schiarò e allo stesso tempo si incupì. Sfoderò con lentezza l'arma e poi iniziò a camminare battuto dalla pioggia spessa e pesante, verso quella figura, coperto dal frastuono del temporale.

Gli arrivò dietro, a pochi passi, guardò la spada che il Panfilo si era slacciato ed aveva appoggiato accanto a sé. Pirecrate strinse l'elsa, con forza, sollevò l'arma a mezz'aria e il metallo tramava soltanto a causa delle gocce che sopra vi cadevano frangendosi in mille altre più piccole. Il volto era oscurato totalmente dalla pioggia, i capelli neri intorno al viso, il vestito carminio aderente al corpo. Attese, immobile come una statua, qualche secondo, ad occhi chiusi. Il cuore gli batté in petto e nelle orecchie, alzò lo sguardo al cielo, poi di nuovo su Pherio che non si era accorto di niente, le gocce sul terreno sempre più pesanti e sempre più lente quasi.

Un tuono cadde alle loro spalle.

Pherio sgranò gli occhi vedendo la proiezione di un'ombra umana, dietro di lui, sulla roccia. Tese completamente il corpo, una bestia pronta a sbranare per difendersi: afferrare la propria spada e sguainarla fu tutt'uno. Si scansò, si voltò per difendersi e menare il colpo. Alle orecchie d'entrambi giunse soltanto l'esplodere pauroso di quel tuono stesso.

Pherio fece leva con tutte le energie sulle gambe riuscendo a spingere indietro l'avversario e quando un altro lampo fu scagliato giù dal cielo vide chiaramente il volto di Pirecrate, impassibile, davanti a lui, teso ed arma in mano. Strinse le labbra, come a non volerci credere: Pirecrate che l'aveva attaccato alle spalle?

"Pirecrate - disse, semplicemente, lo sdegno dipinto nelle parole- TU!!" gridò poi scattando in avanti e menando affondi che costrinsero il Dimano ad indietreggiare.

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Pareva ancora più bello dei tramonti che si potevano vedere tra le pianure del suo paese natio, ma non poteva superare in bellezza quello che tanto spesso si era soffermato a guardare dalla finestra di casa sua, ad Atene. La sua abitazione era sul lato est, proprio accanto alla via principale, tra altre case appartenenti a gente di modesta condizione. La sera, quando aveva finito i suoi studi e non aveva niente da fare, si sedeva davanti al proprio davanzale e guardava il Partenone oscurarsi per via del sole che gli tramontava proprio dietro.

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Le loro spade tagliarono la pioggia, la sbatterono via, la frustarono, incontrandosi e scivolando l'una contro l'altra fino all'elsa, macchiandosi di rivoli di sangue che con l'acqua divenne rosato, colpi che arrivavano a sfiorare e mai ad affondare. Ma non perché non lo volessero loro.

Pherio pianse fiele e dolore sotto quella pioggia e contro quel maledetto che gli aveva portato via Astre: lo odiava, li odiava tutti e due e li avrebbe uccisi e lasciati marcire in due boschi lontani mesi di marcia. Il sangue era tanto acido da corrodergli le vene e la sua furia gli fece dare un colpo molto più veloce e rapido degli altri. Pirecrate vide la lama cadergli addosso di netto e facendo un passo all'indietro credette di sfuggire: ma la schiena colpì il duro tronco di un albero.

Continuò a guardare Pherio dritto negli occhi.

La spada fu bloccata da una sporgenza del nodoso albero, appena a sinistra del collo di Pirecrate, che fu soltanto sfiorato. Pherio digrignò i denti vedendo il suo tentativo fallire in quel modo ed era già pronto a ritrarsi per poi affondare definitivamente quando sentì il suono sordo della spada di Pirecrate, che l'aveva lasciata cadere, contro il terreno. La guardò e vide che non era la sua.

"Perché non mi hai sfidato con la tua?" avrebbe vinto, forse, se lo avesse fatto! Se lo voleva uccidere perché aveva usato una comune spada quando sapeva che l'abilità sua era di molto inferiore a quella della persona che voleva assassinare? Era *assurdo*!

"Perché sei uno Spartano, perché, per quanto io credo e so, siamo amici, perché non voglio farti del male"

"Andiamo, figlio fetente di traditore! Con chi credi di avere a che fare?" chiese con tutto il veleno che aveva in corpo e che doveva sputare per non rimanere ucciso lui.

"Con uno Spartano che deve imparare ad essere sincero." rispose, gli occhi fermi, caldi, le gocce scivolavano lungo il volto, al riparo di un tetto frondoso.

"Parli a me di sincerità? A me? Sei tu quello che mi ha tradito, Pirecrate!" l'energia messa dentro quella frase non urlata avrebbe potuto agghiacciare più di un grido, e suonava molto più pericolosa. Anche se le folgori saettanti dietro gli occhi di Pherio non erano affatto indice di controllo.

"Non ero al corrente di quello che c'è tra te ed Astre, altrimenti non mi sarei mai permesso" e quel tono era sincero, era maledettamente sincero. Oh, quanto sarebbe stato più facile se avesse visto un'ombra in quella iridi nette ed intense! Facendo scorrere la spada verso sinistra avrebbe tagliato il collo a quell'infame... e ...e sarebbe finita lì. Quante cose invece in questo modo gli metteva davanti?

"Io non sono insieme ad Astre!!" questa volta gridò, chiudendo gli occhi, serrando le labbra.

NO! Lui non...aveva niente a che fare con quel Persiano! Lui doveva fare il suo dovere, lui... non poteva tradire la propria famiglia, Sparta, la Grecia, per un uomo che non valeva niente. Niente. Un barbaro, e della peggior specie, velenoso e infido, furbo e senza onore. Un persiano. .

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Era tutto così lontano ora, un ricordo perso tra le piaghe spietate del tempo, ma che in alcuni momenti gli tornava davanti gli occhi con tutta la forza di cui poteva disporre. Idrio lasciò rilassare il muscoli, le mani sopra le gambe che reggevano ormai nodi allentati di quel tappeto che avrebbe dovuto finire per il giorno dopo, e per qualche istante profondo quanto quel vento s'abbandonò ai frutti del dolce canto di Morfeo...

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Pirecrate guardò quel volto contratto lottare col proprio dolore e il cuore gli si strinse. Pherio era egocentrico, era un bastardo, ma non meritava tutta quella sofferenza. Cautamente tastò il polso che reggeva la spada che gli sfiorava il collo, prendendo la lama coi polpastrelli dell'altra. Pherio, ancora ad occhi semichiusi, come in trance, lasciò che Pirecrate si liberasse: i pensieri ormai gli correvano nelle mente fuggenti, senza lasciargli la possibilità di metterne uno accanto all'altro.

Pirecrate prese il volto di Pherio tra le mani, passando le dita tra i capelli zuppi e bagnati, sciolti fino al termine della schiena e con delicatezza gli carezzò il capo attraverso quella matassa d'oro. Osservò quelle iridi azzurre rivelarsi, con lentezza. La pioggia prese a ticchettare il terreno con maggior leggerezza e già degli squarci s'aprivano nel cielo.

Sentiva quella pelle chiara tremargli sotto le dita, le sue spalle contrarsi appena, le mani abbandonate lungo i fianchi.

"Tieni solamente Astre lontano da me. Farò ciò che mi è stato ordinato di

fare, Pirecrate, anche se questo mi costasse . . "

Tacque, fissando Pirecrate in volto anche se lo sguardo era perso nel vuoto.

Astre.

"Perché?"

La voce dell'altro spartano gli giunse ovattata, ma riuscì a rispondergli,

soffocato, sorridendo amaro.

"Perché sono innamorato. Di un persiano. - chiuse gli occhi, con forza, il dolore che gli solcava la bella fronte in un'unica ruga profonda - Nient'altro, solo questo. Tienilo lontano da me."

Non vide il sorriso leggero ad increspare le belle labbra di Pirecrate, gli si allontanò di un passo, seccato, sollevando di scatto una mano, voltandogli la schiena.

"Lui lo sa?"

La domanda assurda dell'altro lo fece ringhiare come se fosse un predatore. Le nubi erano ormai assassinate da enormi squarci in cielo, in cui si intravedevano nitide le stelle scintillanti, immobili e pallide, come se stessero trattenendo il fiato.

"Taci, Pirecrate, taci! -furia e rabbia, di nuovo sorsero tra di loro e di nuovo si schiantarono sui due come un'ondata di marea- Che ne vuoi sapere, tu, di come mi sento! Traditore m'hai chiamato prima, ed avevi ragione! Traditore della mia patria, della Grecia! Amare un barbaro! Che vuoi capirne tu!"

Si voltò verso di lui, gli occhi traboccanti luce e odio.

"Non posso strapparmi il petto dal cuore, perché questo è l'unico modo che avrei per non provare più . . - si posò una mano sul petto e abbassò il capo -per non provare più *questo*. Ma non tradirò i miei giuramenti, le mie promesse verranno mantenute, la mia parola rimarrà sacra. Diglielo al tuo amante, se vuoi! Diglielo che non serve sperare, o intrigare, per ottenere ciò che io non posso dargli! Se vuole liberarsi da me, deve uccidermi."

Il suo sorriso divenne un ghigno, amaro, voltandogli le spalle. I capelli lunghi e pesanti dalla pioggia gli danzarono sulla schiena.

"E tu, se volessi aiutarlo, dovresti prendermi alla schiena, perché - la sua voce divenne un sussurro- non sei abbastanza bravo per me. E lo sai."

Sentì il ringhio indistinto e furioso di Pirecrate ma non lo degnò di un ulteriore sguardo. Il sentiero impantanato gli si srotolava ai piedi, e lo seguì, in silenzio, da solo.

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// Il mercante arabo sciolse la corda che lo teneva legato al cammello, ma lui non aveva le forze per farci caso: si appoggiò ad uno dei tanti pali che tenevano in piedi il complesso sistema di tende. Respirava con fatica, il fiato mozzo nella gola e gli occhi irritati a morte dal troppo sole e dalla sabbia. Il riposo non durò a lungo, perché fu strattonato dall'uomo, che lo incitò a procedere e lui mosse uno, due, tre passi tremanti ed insicuri in avanti, sull'orlo del collasso: ormai neanche sentiva più il dolore nei polsi, o nei piedi. Aveva soltanto tanta voglia di lasciarsi andare e, perché no, a quel punto, di morire...

E l'unico dolore per ciò poteva averlo per non esser seppellito in patria sua.


S'accorse d'aver chiuso gli occhi soltanto quanto sentì un gran frastuono ed i riflessi lo costrinsero ad aprirli. Tutto davanti a lui era sfuocato all'inizio, ma poi per qualche attimo riuscì a vedere distintamente, più giù, un cavallo nitrire con forza in mezzo agli oggetti e ai tappeti scarlatti, all'oro e all'opulenza di quel luogo. La figura che sopra vi stava, quella, non riuscì a distinguerla. Ma il cavaliere in sella, di colpo svoltò direzione, dirigendosi verso di loro.

Una donna, araba, la lunga veste e il volto adornato da orecchini, già d'età avanzata, urlò al ragazzo dei rimproveri.

"E lascia che s'arrabbi!" esclamò ridendo il giovane tra un tirare brusco e l'altro di redini in mezzo alle tende. Idrio guardò il tutto da lontano, camminando verso dove il mercante lo voleva condurre, le mani lasciate pendere in avanti, legate, strette.

I galoppi si fecero più vicini attutiti dalla sabbia soffice e, dove c'erano, i tappeti.

Dionide incitò il cavallo a procedere più velocemente, e quando vide il mercante Arabo con vicino qualche suo schiavo, gli occhi scurissimi come il limo del Nilo gli brillarono sotto i capelli, e su di essi i riflessi del sole.

"Come va ragazzo?" gli domandò l'Arabo, vicinissimo. Gli passò proprio accanto e sorreggendosi sulle gambe si inclinò a destra afferrando di forza lo schiavo e trascinandolo in sella.

"Te lo riporto dopo!" esclamò aumentando la presa e guardandosi dietro: il mercante stava fumando dalla rabbia e la sua nutrice sputava fiele.

Idrio non aveva fatto in tempo a ritrarsi, le mani sul petto, che qualcuno gli era piombato addosso e lo aveva tirato su di forza; adesso si ritrovava in una presa stretta, su un cavallo lanciato al galoppo nel deserto, guidato da un pazzo scatenato.

Dalla paura iniziò a tremare e strinse i denti.

Oh no...oh no, o DEI!!!! Che maledizione gli pendeva sulla testa? Che fthonos teòn (invidia da parte degli dei) lo perseguitava? Cercò di mettersi nel modo più sicuro possibile sulla sella, anche se questo significava dover stringersi ancora di più a quel barbaro, e, in un accesso tremendo di rabbia, tentò di alzare il capo per dirgliene quattro: dove lo stava portando? Che voleva da lui? Ma nel farlo si sbilanciò un po' troppo e, se la presa dell'altro non fosse stata salda, sarebbe caduto giù. Stette immobile allora, pregando gli dei che volessero finisse presto tutto quanto.

Le dune sembrarono inabissarsi in una depressione baciata dall'ombra e Dionide,

dai capelli d'antico fusto di una palma d'oasi, strinse ancora di più a sé quello che pensava fosse proprio un ragazzo e incitò il cavallo ad aumentare la velocità, saltando tra la sabbia fine del deserto. Assaporò l'odore del vento caldo con tutto il suo essere; diede la direzione giusta al cavallo, ben conoscitore di quella parte di deserto, e continuò la corsa tra le dune dorate, profanate nella loro appena ondulata perfezione dalle falciate possenti dell'animale. Non ci volle molto ad arrivare in un'oasi più piccola di Firuzeh, quest'ultima detta Turchese per il colore profondo dell'acqua, ma assai più bella: era lì che andava ogni volta aveva bisogno d'essere lasciato in pace. Tutt'intorno allo specchio d'acqua rigogliava una fiorente vegetazione, e sopra di esso v'era una sporgenza rialzata dove una palma sovrastava col suo lento e flebile molleggiare, le foglie grandi e smeraldine che sempre nascondevano dolci frutti, ed un tronco spesso che, se trasformato in albero maestro, avrebbe condotto ogni nave fuori da qualsiasi tempesta.

Scese dal cavallo e porse una mano allo schiavo dal volto che, coperto dal cappuccio, rivelava soltanto una porzione di labbra e di mento. Tutto il resto in semi ombra. Quello senza dire niente scivolò giù passandogli accanto come se non esistesse. Dionide rimase con la mano a mezz'aria, stupito da tanta alterigia in uno schiavo, e si mise a rincorrerlo quando esso scattò in avanti, ma tremante, verso la vegetazione.

"Dove vai? - gli chiese nella propria lingua, procedendo a passi lunghi ma non affannati, ben conscio che prima o poi l'avrebbe preso e che, beh, si vedeva non avesse forze per andare lontano- Tanto ti prendo, vieni qua!"

Idrio obbligò le proprie gambe a non piegarsi, ma non riuscì a camminare e si fermò, appoggiandosi al tronco dell'immensa palma che s'affacciava sulla grande pozza d'acqua sottostante. Acqua... cielo...acqua! Si girò a guardare quel folle di un barbaro che sempre di più si avvicinava: la veste blu gli copriva interamente il corpo e lo fissava in un modo che gli fece venire la pelle d'oca. 'Aiuto!' invocò dentro di sé, nella speranza che qualche dio potesse avere pietà d'un povero mortale.

Ma nessuno venne e quello continuava ad avvicinarsi parlandogli in una lingua che non aveva mai sentito anche se percepiva in essa un'impronta d'accento che aveva già avuto modo d'ascoltare, dove non si ricordava.

Lo fissò e fece dei passi indietro, fino a che non sentì il vuoto dietro un piede. Chiuse gli occhi e si lasciò cadere, con tutta l'intenzione di lasciarsi morire affogato: era meglio una morte libera che una vita di schiavitù.

Dionide spalancò gli occhi vedendo lo schiavo abbandonarsi alla caduta e scattò in avanti, ma non riuscì ad afferrarlo in tempo. Lo guardò cadere nell'acqua e non fare cenno di risalire, sebbene lo specchio non nascondesse dietro di sé una grande profondità. Si lanciò anche lui.

Arrivato sotto la superficie dell'acqua nuotò verso la forma immobile che continuò a scivolare fino a toccare il fondo. L'afferrò e, portandoselo al petto, risalì in superficie, correndo verso la riva per farcelo sdraiare.

Tirò indietro il cappuccio bagnato, rivelando un viso immobile e pallido, fradicio. Le labbra livide. Vi si tuffò sopra, aprendole e soffiandovi dentro tutta l'aria che riusciva a metterci: come aveva fatto ad arrivare a quel livello in così poco tempo? Non poteva esseri messo a... respirare. Bando alle fandonie! Si rituffò sopra quella bocca tiepida, percuotendogli anche il petto, cercando di rianimarlo.

Quando stava per arrendersi quello sputò acqua dalle labbra e tossì, forte. Dionide lo fece mettere su un fianco ed attese che si riprendesse.

"Se (tu)!! - sputò aprendo gli occhi azzurri come l'acqua di quell'oasi e guardandolo torvo- Se bàrbare, se...idìota! E'mellon tnèskein kai tòde èmelon! (tu barbaro, tu... stupido! Stavo per morire ed era questo che volevo!)" //



Idrio schiuse gli occhi e si umettò le labbra quasi sull'orlo del conscio, ma la brezza ancora calda lo avvolse nuovamente, cullandolo ancora nel sogno...



// Dionide osservò quel volto perso lottare col proprio dolore e sentì un sussulto nel cuore: quel giovane Greco, dopo lo scoppio d'ira aveva riappoggiato il capo sulla sabbia, tremante. Con dolcezza allora gli prese quelle mani legate strette e usando un pugnale che aveva appresso ruppe le corde, liberandole. La pelle dei polsi era strappata e la carne viva palpitava davanti gli occhi: come avevano potuto legarlo così stretto? Cautamente sfiorò uno dei due polsi, appena passandovi sopra le dita e il Greco si tese, ancora ad occhi chiusi, pieni di lacrime di disperazione. Dionide si alzò, strappò una parte della costosissima veste e la inumidì nell'acqua, dividendola poi in altre due parti. Tornò accanto al ragazzo e gli fasciò i polsi: quello si lasciò andare ad un'esclamazione di dolore e insieme sollievo alla percezione dell'umido in una parte che gli bruciava tanto.

Riaprì i begli occhi e lasciò che il barbaro lo sollevasse tra le braccia: era come essere cullato, come avere la netta sensazione di potersi abbandonare entro quell'abbraccio.

E così fece. //

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Pirecrate strappò le redini dal ramo e saltò al volo sul dorso del cavallo, calciandolo nel fianco con tutta la rabbia e la furia che gli girava per le vene. L'animale, colto di sprovvista da simile impeto violento, si lanciò con gli arti anteriori verso l'alto, impennandosi verso la luna, e una volta tornato su tutte e quattro le zampe pestò il terreno fangoso. Pirecrate, stringendo le gambe con forza intorno alla pancia, riuscì a rimanere al proprio posto e a non cadere, anche quando quello iniziò a volare sopra la strada infangata, in discesa.

Un cavallo da re, senza alcun dubbio.

Mentre sentiva i tendini di tale nobile fiera, dono di Poseidone, tendersi e rilasciarsi quasi strappandosi, i vasi sotto la pelle sussultare come fossero il cuore, non poté far altro che gridar a piena gola tutta l'aria che aveva. Qualcosa dentro, un nodo stretto al petto, gli fermò il sangue: come aveva potuto essere così stupido da lasciarsi coinvolgere in un affare simile? Quale demone lo aveva preso?

Ma soprattutto: perché adesso stava così male?

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Aprì gli occhi, di colpo ritrovandosi a guardare la notte asiatica che già avvolgeva la terra: quel cielo eternamente sereno, eternamente presente ed uguale nel deserto, era ora completamente coperto da stelle dai lattei mantelli. Selene splendeva tranquilla sopra il suo capo, come una bella zingara dagli occhi profondi e onniveggenti. Guardò i fili del tappeto e riuscì a riprenderli, anche se fu costretto a risciogliere un paio di intrecci per poter stringere l'intreccio che aveva lasciato allentare. Sin da subito Kassim aveva notato quanto fossero sottili le sue dita, e la loro agilità, ed ad uno schiavo maggiore aveva affidato il compito di insegnargli come si intrecciassero gli scarlatti e purpurei fili di un tappeto orientale.

In attesa che i signori degli Harem avessero di nuovo tempo per curarsi di schiave e di schiavi: il re di Persia era morto e molte cose, specie per la mancanza del principe ereditario, misteriosamente sparito, richiedevano una concentrazione continua sul problema. I commerci non andavano dunque come succedeva di solito per Kassim, ma quell'uomo sembrava non farci caso: impeccabile organizzatore aveva distribuito agli schiavi funzioni differenti in modo da non rimetterci.

Cercò di far fare il passaggio dovuto ai fili ma la luce d'Artemide non era come quella del fratello... Dei, e adesso come avrebbe fatto? Sarebbe dovuto andare a prendere un qualcosa per illuminare il lavoro, ma proprio quando stava per decidere se farlo o no una torcia dietro di lui rischiarò il piccolo spiazzo intorno alla palma.

Si voltò, vide il figlio di Kassim, Dionide, procedere verso di lui con il suo controllore alle spalle. Il cuore gli balzò in petto.

"A che punto sei col tappeto?" disse in voce altera il giovane arabo, fermandosi.

"Ho.. -esitò- ho quasi finito" e non era vero: gli mancava ancora metà. Dionide lo guardò per un lungo momento, gli occhi quasi freddi.

"Bene, controllo io! Sharazam - si rivolse allo schiavo che aveva il compito di tenere sott'occhio Idrio- tu va pure" lo congedò e quello se ne andò.

Idrio rimase pietrificato, senza saper cosa fare, quasi dimentico di dove fossero le proprie gambe. Quando Dionide si avvicinò, poggiando la torcia su un apposito piedistallo, gli venne da piangere. Quello guardò il tappeto ancora da finire e disse soltanto

"E meno male che sono una persona previdente..." in un sussurro.

Idrio, come ridestatosi, saltò in piedi e gli corse tra le braccia, spargendogli baci sul viso, sul collo e piangendo dalle felicità.

"Mi sei mancato"

"Anche tu: i giorni mi son stati anni, qamar (mia Luna)!"

"Quando, quando!, hai rimesso piede su questa duna, Dionide?"

"Lyum (oggi), ma non sono potuto correre subito da te, come il mio cuore mi suggeriva..."

"Tuo padre... a volte ho tanta paura"

"Questa nostra angoscia finirà presto: dalla prossima luna nuova tutto sarà diverso - gli prese il volto tra le mani- allora sarò io a decidere - gli baciò una guancia con tenerezza- gli schiavi che devono lasciare - lo strinse ancora più forte a sé saziandosi per lunghi momenti del sapore delle sue labbra- e quelli che rimarranno a Firuzeh"

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I drappi vegliavano l'ingresso d'una della stanze, pendendo dall'architrave in pietra ricoperta da lastre pregiate. Un debole fascio di luce spirando al di sotto delle stoffe, nunziava l'alba. I sandali intrecciati e bagnati schioccavano sui marmi, lasciando orme scivolose e luminose. L'acqua sulla pelle era gelida, ma per Pirecrate non aveva importanza. Aprì di scatto quelle tende, quasi si strapparono sotto le sue mani, e rimase accecato dal sole passato dalla finestra proprio dirimpetto all'entrata.


Astre, il sole alle spalle, guardò immobile le gocce cristalline e pure sul corpo di Pirecrate infiammarsi alla luce dell'alba. E poi gli occhi del greco... gli sembrava di poterne vedere il fondo tanto erano trasparenti. I suoi, invece, erano prigionieri di lingue gelide che durante la notte gli avevano impedito di dormire. I capelli scivolavano sul pugno che accoglieva la fronte e le labbra erano rovinate dalla piega amara, ora più che mai, sottolineata. Non mosse il capo, lo guardava da sotto le sottili sopracciglia nere, tirate.

'Riesco ad ucciderlo?'. Perchè sì, voleva uccidere Pirecrate. E poi Pherio. Non con un veleno, no, ma con il ferro di una spada persiana. Voleva sentirli rantolare e guardare la loro vita affievolirsi proprio di fronte al suo volto, voleva guardarli col disprezzo che entrambi meritavano e sputar loro in faccia ciò che non sarebbero riusciti a rifiutare. Che neppure il più valente degli spartani era mai riuscito a evitare.

E la sapda persiana l'aveva proprio accanto a sè, ancora bagnata del sangue del Dimano. Sapeva usare una spada, no? Era anche bravo con la spada, quanto lo era con l'arco, col pugnale e coi veleni.

Aveva il sole alle spalle.

'Riesco ad ucciderlo'.

Si alzò in piedi, tenendo saldamente con la destra l'arma infoderata: la mano mancina era molto più veloce, sebbene un pò meno precisa, dell'altra. A lui occorreva solo la rapidità. Era quella la sua arma, era quella la sua migliore abilità, la velocità della mente e della mano, l'unica cosa che avrebbe potuto abbattere lo spartano.

"Astre..."

Appena fuori dalla finestra della stanza cresceva un grande albero d'ulivo. Dalla terra prendeva la forza e dall'aria il respiro. Si apriva in due tronchi principali e nessuno mai aveva colto le sue olive dall'età del mito. L'ombra generata dai rami biforcuti oscurava al sole il muro bianco, lasciando tuttavia che la luce arrivasse alla finestra della stanza che dava ad oriente del grande alloggio di Delphi. I primi passeri saltellavano qui e lì, fischiettando un pò dandosi il buon giorno. All'improvviso un vento fortissimo e strano soffiò, smuovendo le fronde, che diedero ombra a parti prima illuminate dalla dolce luce dell'alba. I piccoli uccelli volarono via, spaventati.





Astre battè violentemente contro il tavolino. All'ultimo momento aveva tentato istintivamente di frenarsi e il polso frapposto tra lui e un colpo doloroso aveva scricchiolato contro il legno. La testa cadde in avanti, la schiena piegata, il respiro incastrato in gola. Quando schiuse le labbra serrate un rivolo di sangue cadde vischioso sul legno. Sputò allora, per liberarsi di quel sapore terribile che mai aveva offeso la sua bocca, figlio di re, e si portò una mano allo zigomo, che bruciava a doleva in una maniera incredibile sotto le dita.

Pirecrate raccolse l'arma da terra senza lasciare per un attimo con lo sguardo la figura piegata del persiano; prese poi il fodero, dove rimise la lama con calma.

"Va a letto, Astre. Hai bisogno di dormire. *Ho* bisogno di dormire."

"Non dirmi quel che devo fare!"

Gli occhi di Pirecrate si incupirono per un attimo, poi si addolcirono nel modo unico in cui riusciva ad essere solamente lo Spartano.

"Non parleresti così, se fossi lucido. Dormi, ti farà bene." finì poggiando la spada in terra ai piedi del letto e gettandosi sopra le coperte. Respirò l'odore di pulito e di campi in fiore intriso nel lino, e l'ultimo pensiero prima di addormentarsi fu il ricordo delle pesanti coperte della sua adorata Sparta.





L'arma, in terra. E Pirecrate sul letto gli dava la schiena. Si portò una mano davanti alle labbra, vide le dita tingersi del rosso vivo del sangue. Ripiegando una parte della veste umidì la bocca, sputando quello che ancora aveva tra i denti e pulendosi. Altri rivoli accesi gli arrossarono le labbra, un papavero in boccio, mentre le prime preghiere del mattino si innalzavano nella prima nebbia mattutina.

Socchiuse appena gli occhi con la luce del nuovo giorno che gli feriva dolorosamente le pupille scure.

Fece qualche passo verso la porta, non sapendo che dire, che fare. Guardò ancora Pirecrate, adagiato sulle lenzuola inumidite dalla pioggia che si portava addosso, e tra tutte le cose che gli sarebbero potute venire in mente, la prima fu: deve avere freddo. Si tolse il mantello pesante che aveva usato per ripararsi dalle punte gelide della notte e avvicinandosi al letto ve lo buttò sopra, voltandosi per ritornare sui propri passi.

Non poteva saperlo, ma: sebbene il lino chiaro della veste era sporco di sangue, i capelli spettinati, gli occhi leggermente arrossati, nessun sovrano aveva mai inceduto altrettanto nobilmente come lui in quel momento.

Arrivato all'entrata, alla luce, mentre il letto ancora coperto da un'ombra leggera, si voltò per un attimo, e un sorriso appena accennato sulle labbra insanguinate mimò

'Grazie'. Ed uscì.

I piedi gelidi di Pirecrate cercarono il mantello caldo di Astre e quando lo trovarono se lo portarono vicino, per lasciarsi riscaldare.

___



Le pesanti e altissime porte di legno scuro e nodoso erano chiuse da molto tempo. Nulla usciva fuori da quella sala in cui Pherio era entrato: tutto era tenuto celato agli occhi degli altri. Il Lucente illuminava l'oscura strada del futuro attraverso la bocca della Pizia e nessuno, oltre a chi era andato a chiedere il responso, poteva assistere.

Astre osservava le piante che adorvavano il cortile interno dalle bianche colonne, in disparte dagli spartani, riconoscendo tra le varie foglie qualcuna che gli sarebbe stata utile. Si fece la nota mentale di venirle a prendere prima che sarebbero dovuti ripartire. Il vestito gli arrivava fino alle ginocchia, perchè la sopravveste aveva dovuto bagnarla per pulirla del sangue, ma per fortuna non era una mattinata fredda, sebbene il sole non arrivasse in quell'angolo che si era scelto.

Respirò profondamente, lanciando una mezza occhiata alle porte serrate del tempio. E sì: i Greci erano proprio strani.

"Quelli della Ionia sono proprio strani!" affermò sottovoce Ilo, lo spartano più vicino d'eta a Pirecrate, sei anni di sola differenza, a confronto degli Spartiati molto più anziani che guidavano il gruppo. Pirecrate rise, guardando di sottecchi Astre.

"In un certo senso."

"Ma tu quello lo conosci bene?"

Pirecrate lo scrutò e scrollò le spalle. "Non mi interesso dei barbari."

Ilo rise a sua volta, alzandosi in piedi.

"Già abbiamo tanti problemi per conto nostro: giusto ieri sentivo parlare due guardie proprio sotto la mia finestra. Pare che di questi tempi sia meglio viaggiare scortati: sono avvenuti molto incidenti per via di briganti lungo i sentieri. Ah Grecia Grecia, dove andremo a finire..." finì, allontanandosi per andare a curiosare in città.

A Pirecrate non andava di rimanere seduto.

"Non ho mai visto Delphi con calma, e questa potrebbe essere l'ultima volta... -disse a se stesso guardando verso la direzione presa dall'alto spartano- Astre, io vado a farmi un giro. Vieni?"

Il Persiano lo guardò, un pò sorpreso e gli sorrise venendogli incontro.

"Va bene." rispose unendo dolcemente le mani dietro la schiena, bagnato ora dal sole splendente.

Nel camminare incrociarono un sacerdote, che non si curò di salutarli neanche. Usciva mesto mesto da un altro cortile. Pirecrate lo riconobbe: era uno tra quelli che quella mattina, come tanti topolini di campagna, Pherio aveva sbattuto fuori dalla sala a furia di occhiatacce e passi incalzanti.

Il biondo Panfilo aveva avuto una faccia che avrebbe potuto far ritrarre terrorizzate anche le Arpie: furioso, col volto segnato da una notte bianca e da troppi pensieri tempestosi.

Nessuno dei due conosceva niente di Delphi: vagabondarono senza una meta precisa, in silenzio, accanto a tutti i templi splendidi che offriva la città sacra per Apollo. Due persone tanto diverse tra loro e così distanti dall'ambiente intorno non potevano non colpire.

D'un tratto una bambina, vedendo quei due stranieri passare, spalancò gli occhi e gli corse incontro, andando a finire quasi addosso ad Astre, chiedendo con gli occhi vivaci

"Vieni a giocare con noi!!" esclamò.

Astre tentò di ritrarsi ma la piccola gli prese una mano e con la forza della sua tenerezza lo condusse via. Il principe lanciò un'occhiata a Pirecrate, che stava ridendo sotto i baffi, ma non per molto: un altro bambino gli arrivò da dietro e lo supplicò per andare a giocare con loro. Il Dimano guardò intorno, e si vide circondato senza via d'uscita da tanti pargoletti in attesa di una risposta mentre alcuni avevano iniziato a trascinare Astre per il vestito. Cercò di non farsi prendere dal panico e provò un tentativo di rifiuto, però purtroppo non era lui il diplomatico della delegazione. . due bambine si stavano per mettere a piangere e la gente aveva iniziato ad osservare.

"Ma è vero che sei di Sparta?" gli chiese uno in dialetto Ionico zompettandogli intorno. Pirecrate, nonostante l'accento, lo capì.

"....Sì... -si bloccò. Il bambino lo fissava intensamente- E tu?"

"Di Mileto!!" s'intromise un altro, con gli occhi chiari, tra i due, vedendo che l'amichetto stava stringendo amicizia con il guerriero prima di lui.

"E tu e tu?" domandarono altri ad Astre, che cercava di levarseli dal vestito.

"Di Mileto anche io..." rispose ma subito dopo vennero altre domande, tre per volta.





Liene fu l'unica tra tutte che, non appena lo Spartano si sedette su una roccia, gli balzò sulle ginocchia prendendo quel posto d'onore con un'espressione aperta e diretta. Il Dimano per un attimo non aveva saputo cosa fare, quel peso lieve sulle ginocchia, ma poi le aveva sorriso e l'aveva lasciata fare: anche se quella era una femmina, aveva sempre una gran simpatia per le persone di carattere...

"Oh, sei leggera piccolina!" le disse e subito dopo lanciò un'occhiata ad Astre, un po' in disparte, evidentemente a disagio. Pirecrate si domandò se il principe di Persia avesse mai avuto a che fare con dei bambini; non che lui fosse cresciuto come tutore, però... i bambini gli piacevano, era come un poter esprimere qualcosa sepolto dentro di sè senza aver paura di niente, ben cosciente che non sarebbe stata respinta.

"Raccontateci una storia!" incitò Moira, una bambina dagli occhi scurissimi

mettendosi proprio accanto ad Astre e appoggiandosi col capo alla sua spalla. Qualche altra sorrise sussurrando qualcosa di inespresso all'orecchio della vicina.

"La racconto io, io io!" intervenne Liene dalle ginocchia di Pirecrate, quasi cadendo per la foga, se non fosse stato per l'intervento previdente del Dimano.

"Noooooo!! Tu non sei capace!!" dissero quasi in coro i maschietti, messi in

circolo.

"E invece racconto...vero Pirecrate?" gli chiese furbetta, avendo capito ormai i punti deboli di quel ragazzo dal sorriso traditore della rigidità e timore che poteva incutere.

"Che storia è?"

"Parla di come sia scomparso il principe!" rispose lei allegra.

"Che principe?"

"Il principe di Persia!!" esclamò ed iniziò a raccontare con grande scioltezza una della tante favole che qualcuno si inventa per spiegare cose strane o per farsi più grande, storie che poi diventano mezze verità cui spesso molti credono.

Moira, i capelli scurissimi che danzavano alla lieve brezza sulla pelle chiara della braccia di Astre, osservava di sottecchi il ragazzo molto intensamente.

Anche Pirecrate era intento a guardare Astre. Stava ascoltando con apparente attenzione: chissà su quali pensieri gli indugiava la mente...

Che situazione: Pirecrate comprendeva lo stato d'animo di Pherio, tuttavia non poteva fare a meno di pensare a quanti guai quella testardaggine causava. Anche se in fondo lui stesso non aveva fatto qualcosa di diverso: un Ateniese... Pherio gli aveva detto 'che ne puoi sapere, tu!'. Forse molto di più di quanto il Panfilo osasse immaginarsi e di quanto era disposto ad ammettere, perfino a se stesso. Un leggero rossore gli velò la pelle sotto gli occhi.

Un Ateniese. Idrio. La Grecia poteva entrare in conflitto con la Persia, si odiavano da decenni. Ma Atene... e Sparta.... si portavano dietro un rancore di secoli, intriso nel sangue e non negli affari di politica.

No, non avrebbe mai più rivisto Idrio. E magari il tempo avrebbe smorzato ciò che si portava dentro... tuttavia Pirecrate era ben conscio della stretta che gli teneva il cuore. Con dolcezza, senza però lasciarlo andare. Tra il mescolarsi di tutte queste cose ed altre, un pensiero sorse come un loto nasce sull'acqua: non gli importava della politica, e se Idrio gli fosse stato vicino in quel momento...

"...e così è fuggito con la bella principessa del deserto!"

"Ma prima, quando sei venuta a giocare con noi, hai raccontato che morivano entrambi sulla cima della roccaforte!" chiese un bambino con un sopracciglio alzato. Liene sbuffò, guardandolo con un'occhiataccia.

"E invece adesso va via con la sua bella!"

"Non puoi cambiare la storia!" intervenne un altro bambino. Liene gonfiò le guance, scostandosi i capelli da davanti gli occhi.

"Sì che posso!" rispose stizzita.

"Tanto è solo una storia..." disse Moira.

"Come se tu sapessi come sono andate le cose!" ribatté una bambina dalle trecce lunghe e gli occhi verdi.

"Sì che lo so!"

"E allora dillo! Dillo dillo!"

"Il principe è fuggito perché dove vivevano c'erano persone cattive."

Negli occhi di Astre brillò un bagliore, impercettibile.

"Bambini vi ho trovati! -esclamò una donna e tutti, vedendola, si alzarono in piedi- Spero non vi abbiamo recato fastidio"

"Nessun disturbo."

affermò Pirecrate. I bambini li salutarono facendo a gara chi per primo riuscisse a farlo mentre le bambine aspettarono i loro turni. Liene arrivò davanti a Pirecrate, lui le mosse i capelli, lei gli prese una mano per farlo piegare e gli diede un bacio sulla guancia. Gli sussurrò in un orecchio come una scolaretta imbarazzata che confessi il proprio amore.

"Ti vedo triste... -si tirò un po' indietro, guardando lo spartano negli occhi- Cos'hai?"

Pirecrate prese un respiro, e le sorrise.

"Niente, piccola, niente...".

Liene si riavvicinò all'orecchio del ragazzo e fece per dire qualcos'altro: aprì la bocca, ma solo aria le uscì dalla gola. Richiuse le labbra e si ritirò indietro, guardando in un angolo qualcuno, avvolto in un lungo mantello, che la fissava minaccioso. Cercò lo sguardo di Moira. L'altra ragazzina scosse il capo: 'non preoccuparti'.

"Devo andare ora -tornò a guardare l'angolo, ora vuoto- kaire, Pirecrate" si congedò correndo via veloce, ben attenta a non imboccare sentieri strani.


Moira si avvicinò ad Astre, i capelli selvaggi intorno al volto e due occhi grandi e profondissimi. Si fissarono per un attimo e poi il volto della bambina si chiuse nel sorriso di chi sa molto.

"Il tuo amico sta chiedendo i responsi?" gli domandò spostando il capo di lato; un ricciolo scivolò sulla fronte.

"Sì.." rispose chetamente Astre. Moira increspò le labbra, quasi in evidente disappunto e divenne improvvisamente vivace.

"Noi ci rivedremo, Astre!" esclamò porgendogli un ramoscello raccolto dalla terra e corse via, dietro a Liene, salutando con un cenno Pirecrate.

Astre notò, perplesso, che quello era un ramoscello d'alloro quando di allori a Delphi non ce n'erano.





Moira saltò sopra la roccia, sopra un'altra ed un'altra ancora, fino a raggiungere con agilità sorprendente la cima di una piccola collinetta calcarea, bianca e lucida alle luci del sole autunnale. Proprio lì, tra le rocce aspre cresceva un ulivo dono di Pallade e su di esso stava, semi supino, un giovane dal capo biondo ed i capelli umidi d'ambrosia, sul collo bianco come il latte e sulle gote rosate morbide ciocche di capelli sparse alcune sul petto, altre sulle spalle. Persino la grande stella, il Sole, carro alato d'Apollo, sembrava vacillare di fronte a simile bellezza.

"Canto te, Eros, dalla bionda chioma:

come Apollo è rivestito di luce intorno

al tuo volto danzano le lucciole di campagna;

non guardare i miei capelli scuri come un

pruno selvatico, ma i miei occhi che soltanto

su di te, figlio di spuma marina, si posano

dal sorgere di colei che rosate ha le dita

al tramontare del dolce carro di Febo"

Cantò Hermes ritornando alle sue sembianze originali. Quegli occhi scuri come gli abissi marini e luminosi d'intelligenza quanto una luna piena erano gli stessi.

"Guardai intorno la campagna, Demetra lieve

col suo soffio felice per me:

le spighe erano cresciute e tra di loro

noi due, i più giovani tra i numi immortali,

potevamo giacere, svestiti della nostra

eternità, come due fanciulli mortali,

che attendono la notte per i loro atti d'amore"

Gli rispose Eros col sorriso d'un incantatore sincero.

"Lo hai visto?" domandò, guardando la snella figura di Hermes dai sandali alati avvicinarsi alla pianta saltellando, tra le mani il lungo scettro di due serpenti che si incrociano.

"Chi, quel vecchio broncio lungo di Ares? Sì, l'ho visto".

"Dici che non finiremo nei guai?"

"Noi, nei guai? Se Zeus avesse dovuto finire in un guaio per ogni scappatella che si è permesso a quest'ora starebbe lui legato sulla roccia, neo-Prometeo! Tranquillo: non stiamo intralciando niente. Possiamo dire che 'aiutiamo' il corso degli eventi" ribatté, semplice, Hermes, alzando mani e spalle, cadendo poi pensoso...

"Tu hai qualcosa in mente" constatò Eros, portandosi un dito tra i denti, mordicchiandolo. "Ti conosco: non mi stai dicendo tutto."

Hermes sorrise, pieno di buona malizia. "La stessa identica cosa che stai pensando tu da molto giorni mortali!" gli rispose, sparendo nell'aria. Eros poggiò una guancia sul dorso della mano, il gomito adagiato sul ramo, e chiuse gli occhi, sorridendo per tutto quello che era a venire.

Lui non aveva mai colpe di nulla: cosa può esistere di più naturale ed intimo dell'amore? Ogni cuore umano trafitto da un suo dardo conosceva: mai aveva scagliato andando contro ciò che ogni anima ha in sè.

Mai, per quanto gli uomini affermino il contrario.

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