NOTE: i personaggi sono nostri! Pherio e
Astre di Dhely. Pirecrate e Idrio di Kalahari. Anche se la divisione non
è così netta ci siamo suddivise i diritti d'autore in questo modo.
L'ambientazione è in una Sparta ideale (non cercate troppe coincidenze
spazio temporali, non ce ne sono troppe!) ma tutto ciò che siamo riuscite
a recuperare dei veri usi e costumi dell'antica Sparta è stato utilizzato.
Di odio. Di
amore parte
XI
di Dhely &
Kalahari
Astre si inginocchiò osservando il silenzio assoluto che lo circondava.
Mezza clessidra, non di più, e poi l'alba avrebbe infranto il silenzio
cristallino di quella notte.
Il braciere di rame scintillava rossastro, illuminato appena dalle braci
ardenti, ciò che era rimasto del fuoco di una notte. Il fumo, spire dense
e aromatiche, si svolgeva nell'aria immota, disegnando immagini, parole,
nomi, numeri . . Astre ne fissò le anse, calcolò rapidamente la cadenza,
respirò l'aroma e si lasciò affascinare da quella danza. Il fuoco aveva
bruciato, scoppiettante, per ore, la corteccia della quercia antica che
sorgeva in cima ad una di quelle colline che circondavano la spoglia
Sparta, aveva consumato le foglie di lauro, i pizzichi leggeri di erbe
profumate, di polveri preziose che avevano portato al cielo le sue
preghiere e i doni per quegli dei che avrebbero dovuto ispirarlo.
Se fosse stato nella sua dimora avrebbe bagnato le are degli dei con il
sangue di decine di agnelli sgozzati, avrebbe arso in dono le loro
interiora, avrebbe offerto il cuore e le membra colanti di grasso, avrebbe
adornato i templi di fiori e pietre preziose, avrebbe fatto polverizzare
zaffiri e ametiste perché si sciogliessero nell'acqua pura che avrebbe
usato per aspergersi prima di chiudersi in preghiera. Ma ora la sua
dimora, la terra dei suoi padri era lontana, forse più remota di quanto
non fosse mai stata.
Per l'ennesima volta abbassò il capo contemplando l'acqua limpida
contenuta in un recipiente piccolo, di argento liscio, sul cui fondo
giacevano due scintillanti pietre blu e verdi. E per l'ennesima volta vide
il volto teso di suo padre, immobile in un sonno senza risveglio.
Irato, si alzò in piedi gettando l'acqua sulle braci che sfrigolarono in
un suono quasi gracchiante, un urlo proveniente, pareva, dal cuore dell'Ade.
Il pianto di un'anima che ha perduto la vita.
Astre abbassò il capo, un sospiro pesante, ritornando a scivolare
inginocchiato. Doveva aspettare ancora, il tempo non era ancora giunto.
Voltando le spalle all'alba che stava scolorando il cielo scuro della
notte, fissò gli occhi luminosi come due ematiti su uno scintillio che
baluginava appena sul limite dell'orizzonte. Pareva una stella che tremava
sul limitare del giorno, indecisa se spegnersi o brillare.
Si spense dopo aver scintillato seguendo una strana intermittenza, un
pallore che nessuno che non la stesse cercando avrebbe notato. Che stella
curiosa, avrebbe detto Astre se non avesse saputo benissimo che era lì
per lui.
Era lì per portargli notizie.
Notizie forse più brutte di quello che aveva intuito nel fumo o sulla
superficie cangiante dell'acqua, ma notizie che sapevano di certezza,
notizie definitive.
Suo padre era morto.
Chiuse appena gli occhi. Non era un gran male, tutto questo rientrava nel
naturale ordine delle cose, ciò che non gli piaceva era tutto ciò che
poteva sentire ora muoversi intorno al suo cadavere. Persone, tante
persone, intrighi, fiume di denari e potere . .in una girandola che
rischiava di non avere fine.
Incrociò le mani in grembo con un sospiro.
Doveva ritornare in città o Kakeo avrebbe sguinzagliato i suoi
fedelissimi per cercarlo. Come se Astre avesse davvero potuto scappare.
Non c'era più alcun posto in cui potesse ripararsi, nessun'altra città
ora, per lui, era più sicura di quel covo di serpi venefiche che era
Sparta. E ora abbisognava di tempo per riflettere, per decidere cosa fosse
davvero meglio, quale fosse la mossa più adatta, il comportamento più
saggio. In breve, di tempo. E a Sparta poteva averne, sì.
Sollevò gli occhi cerchiati per il sonno che aveva perduto, per la
stanchezza e la fatica di essere unico sacerdote di dei remoti a quella
terra aspra, di essere cerimoniere di pratiche lunghe e complesse, e vide
il sole, il cielo diventare luminoso, improvvisamente chiaro come se
l'azzurro potesse esplodere sotto il manto rosa e dorato che ora aveva
avvolto il mondo. Un colore assurdo, che sulla terra non aveva eguali, se
non . .
Pherio.
Astre sospirò di nuovo, a denti stretti, un sibilo più che un sospiro,
più fastidio che piacere o aspettativa. Era diventatola sua maledetta
ossessione, lui, eppure non possedeva né il tempo necessario né la
volontà per relegarlo all'angolo buio della sua coscienza che meritava.
Non importava, dopo tutto quelle erano solo futili pensieri senza valore.
. sarebbe riuscito a fare di lui tutto ciò che desiderava, ci avrebbe
solamente impiegato più tempo di quello preventivato. Nessun problema.
Un paio di giorni e Pherio sarebbe finalmente tornato . . Astre non aveva
alcun dubbio che potesse tornare vivo. Non era un problema che lo avesse
mai sfiorato, Pherio era troppo . . bhè, non credeva corresse rischi di
non essere considerato all'altezza di chissà chi, in quella dannata città,
non lui. Sorrise pallido. I suoi occhi gli erano stranamente mancati.
Sospirò di nuovo sperando che Pirecrate non venisse avanti con chissà
che pretesa, adesso. Socchiuse appena gli occhi scuotendo il capo, non
aveva né il tempo né la voglia di preoccuparsi di lui, soprattutto il
tempo, ora, che era diventato il suo problema e il fulcro centrale della
pianificazione dei proprio giorni successivi. Ma no, cosa mai andava a
pensare? Era più che certo che Pirecrate, ora Spartiato, avesse ben altro
a cui pensare che non a lui, e poi quell'Antinoo gli avrebbe riempito a
sufficienza la testa di problemi senza che Astre dovesse aspettarsi chissà
cosa. E per quanto riguardava Pherio. . la vendetta riguardante lui
avrebbe assunto altre vie, pareva, adesso aveva decisamente altro a cui
pensare.
Ma la pazienza era ciò che, solitamente, rendeva migliore il gustare
certe soddisfazioni. E allora con pazienza sarebbe giunto allo scopo che
si prefissava.
Pherio sarebbe stato *solamente* suo.
___
"Come sarebbe a dire 'Pleto non c'è'?" richiese Polinice
alzando le braccia.
"Sarebbe a dire che non c'è: non è qui, almeno!" ribatté
Aristarco, mentre intorno ai capigruppo, nello spiazzo, le tende erano
state quasi tutte smontate dopo una colazione frugale, ma che ai giovani
era parsa come il banchetto di un re.
"Ieri sera c'era!" continuò Polinice e Pherio si allontanò
dalla discussione per recarsi a prendere il proprio cavallo.
Gli accarezzò il muso e quello con vigore lo mosse dal basso in alto, per
poi scuotere il capo e nitrire un po'. Una bella e grave espressione si
posò sul volto chiaro di quel giovane che ora era diventato, per le
leggi, uomo. Una sensazione, e idee che si allacciavano alle idee,
portandogli davanti agli occhi un quadro della situazione che non poteva
non dispiacergli. Un quadro che lui non avrebbe dovuto avere. Corrugò la
fronte.
Suo zio diceva sempre che il silenzio era una virtù.
"Riposato bene?" gli chiese e sciolse le redini dalla lunga e
pesante trave di legno. Avrebbe provato ad essere un uomo virtuoso,
allora.
Vi salì sopra e lo fece muovere fino al centro dello spiazzo dove
fermentavano quelli del suo gruppo, tutti raggianti di gioia, tranne uno,
il cui viso era velato di sofferenza. Mineo, tale era il nome di quel
giovane, era a capo quasi chino e regalava un sorriso di circostanza agli
altri entusiasti che lo circondavano; Pherio gli si avvicinò e tirò
leggermente le redini. Il cavallo si fermò obbediente e il suo conducente
proferì queste parole: "On teòi philousin, apotnèskei nèos (muor
giovane colui ch'al cielo è caro)", quasi a bassa voce, con una
delicata fermezza che, labbra in grado di ordinare uomini conoscevano di
rado, ma sapevano esprimere. Il giovane compagno di Plistarco, dunque,
eccolo. A quel caduto doveva, inconsapevolmente la vita e mai nessuno
l'avrebbe saputo . . come poter affermare che Polinice avesse cercato di
pugnalarlo alle spalle? Come portare un'accusa simile di fronte agli
Anziani senza alcuna prova? Come sognare di esser creduto? L'unica cosa
che avrebbe potuto donare a Plistarco caduto, ora, era un onore
immacolato, e l'epiteto di coraggioso. Avrebbe parlato per lui e in onore
della sua gloria durante le rapide cerimonie funebri, davanti ai suoi
genitori. E al suo compagno avrebbe regalato un ricordo fulgido,
un'immagine da tentare di imitare, di cui essere orgoglioso.
Null'altro poteva fare.
Mineo lo guardò fisso, gli occhi lucidi si asciugarono e sorrise
sinceramente, ricevendo un'occhiata ferma da quello che gli aveva mostrato
tanta sumpateia. Poi Pherio spronò di nuovo il cavallo che, a passi lenti
e cadenzati, arrivò al gruppo dove i ragazzi dovevano probabilmente
essere compagni di Pirecrate, se mai Pirecrate avesse dei compagni.
"Dov'è Pirecrate? - con la sua voce profonda e uno di loro gli porse
attenzione, si guardò intorno schermandosi dal sole con una mano e glielo
indicò poco distante, sotto l'ombra probabilmente fresca di un albero.
Fece ripartire il cavallo ondeggiando sulla sella dura, la schiena eretta
e il portamento fiero. Giunse proprio accanto a Pirecrate che, a braccia
incrociate, era appoggiato al legno e guardava lontano.- C'è un cavallo
libero e siamo d'accordo nel concederlo a te." disse semplicemente,
senza aspettarsi una risposta, e quindi tirò le redini tornando sui suoi
passi.
Il cavallo obbediente nitrì appena. Pherio tenne l'atteggiamento altero e
nobile che gli era proprio anche se il cuore era gonfio di pena e domande.
Domande a cui, però, non poteva ricevere risposta, ora, a cui forse non
avrebbe mai potuto rispondere. Solo un sospetto, appena un'ombra ma nulla
più. Quella figura scura e solitaria, accanto all'albero che sorgeva al
margine dell'accampamento era la stessa che aveva condotto i suoi ragazzi
alla vittoria. Aveva, silente, imparato a fidarsi di lui se non, forse, a
conoscerlo attraverso quel suo tacere e Pherio si scoprì certo che,
qualunque cosa Pirecrate avrebbe potuto fare, mai sarebbe stata un'azione
disonorevole. No, non il Dimano. Mai.
"Ne sai nulla, Pherio?" Polinice gli chiese quando fu ritornato
portata d'orecchio.
Pherio lo fissò con uno sguardo intenso poi scosse il capo.
"Di Pleto? Non l'ho mai visto durante lo scontro, doveva essere in
un'altra ala dello schieramento."
Polinice, furente scosse di nuovo il capo, fumante di rabbia e irritato da
chissà che pensieri.
"Hai sentito nulla dai ragazzi? O comportamenti strani?"
Pherio si ritrovò a sorridere, freddissimo.
"I 'ragazzi' sono Spartiati, ora. Se sapessero, parlerebbero."
Null'altro, solo quella immobile minaccia inespressa, quella lieve
consapevolezza di poter finalmente parlare a quell'uomo come un pari e non
dover temere un suo gesto sgarbato come segno di disonore. E un velato
avvertimento: 'non incolpare i miei ragazzi, non gettare su di loro fango,
oppure scoprirai il motivo per cui non sei riuscito ad assassinarmi come
un ladro nella notte.'
Polinice fece per parlare di nuovo, ma chiuse la bocca di scatto. Il suo
odio riverberava in quegli occhi scuri ma neppure una parola gli sfuggì
dai denti. Pherio si limitò a sorridergli, pacato.
Pirecrate chinò la testa, socchiuse gli occhi guardando il sole poco alto
e si staccò dall'albero; passò in mezzo gli altri ragazzi che gli si
affollarono intorno, quelli stessi che il giorno precedente aveva condotto
alla vittoria. Li osservò: i loro visi erano distesi, felici come non
mai, e parlavano, parlavano, parlavano . . Li congedò con un gesto della
mano ed uscì dalla calca tenendo lo sguardo fisso sull'aria, le labbra
piegate in una curva senza espressione. Non aveva voglia di udire parole
leggere che sapevano di gioia e vittoria, qualcosa di scuro gli pesava sul
cuore, qualcosa che era senza parole, senza nome. Guardò Pherio che
parlava, a cavallo, ad un paio d'altri capisquadra e scosse il capo. Una
strana sensazione gli era provenuta, ora, anche da lui ma ben poco, ora,
aveva una qualche importanza.
Giunto davanti ai capigruppo abbassò leggermente il capo in segno di
saluto e poi prese il cavallo che un anziano gli porse. Posò una mano
sulla sella ed una sull'anca, possente e si tirò su: senza perdere lo
slancio, elegantemente passò una gamba dall'altro lato e cadde sulla
sella. Represse l'indicibile dolore che gli spaccò ogni vertebra a
partire da. .
Sentì chiaramente la ferita all'interno del suo corpo riaprirsi, ma
niente trapelò dal suo volto.
"Andiamo!" qualcuno disse e Pirecrate fece partire il cavallo,
rimanendo per tutto il viaggio in completo silenzio.
"Stanno tornando! Stanno tornando: i ragazzi del mese sono
tornati!!" qualcuno esclamò irrompendo durante gli esercizi
d'allenamento e i ragazzi si voltarono tutti assieme in un'unica
direzione; mollarono le armi per correre a vedere la processione dei neo
Spartiati.
Antinoo fu il più lesto ad arrivare fuori dal Campo e si bloccò proprio
sulla strada, sporgendo il capo: vide passare due capigruppo sui cavalli,
poi altri ragazzi, ma il viso che più bramava di scorgere non si
affacciava assieme a quelli. Una strana angoscia gli attanagliò la bocca
dello stomaco, un timore che non avrebbe dovuto esserci . .
Lo stesso Pherio passò prima ed Antinoo corrugò la fronte; quel mezzo
spartano, adesso Spartiato, si voltò indietro e sul ponte comparve
l'ultimo cavallo: Pirecrate procedette in sella sopra un cavallo bruno e
nervoso, le spalle abbassate e il volto fisso da qualche parte; Antinoo
storse la bocca nel vederlo in quello stato sommesso, proprio come non
aveva visto mai uno sempre pieno d'energie come Pirecrate. Gli venne la
voglia di farsi avanti, avvicinarsi a quel cavallo e persuaderlo a
scendere e abbracciarlo, poterlo tenere stretto tra le braccia come se
percepisse che in quel momento Pirecrate avesse un abisso di sofferenza
nascosto sotto una coltre d'acqua ferma.
Tuttavia si trattenne, dovette trattenersi e l'osservò passare come se
fosse stato un fantasma. .
Che poteva essergli capitato? Pherio? Era successo qualcosa con il
Panfilo? Oppure che altro? L'inquietudine gli bloccò il respiro ma,
qualunque cosa fosse, tempo mezza giornata e tutta Sparta l'avrebbe
saputo. Che si fossero messi *davvero* insieme?!? Antinoo si trattenne
dallo scoppiare a piangere, non riusciva ad immaginare una notizia
peggiore di quella ..e anche se non fosse stata vera ..era *certo* che
quel Pherio centrasse. Aveva notato lo sguardo fermo con cui aveva
cercato, nella fila, l'avanzare di Pirecrate, aveva visto le sue mani
stringersi con uno scatto fino a far sbiancare le nocche, aveva visto la
sua fronte adombrarsi per un attimo.
E il voltarsi rapido di quell'Astre, mostrare le spalle a Pherio come se
stesse cercando qualcun altro di ben più importante nella fila degli
uomini di ritorno . .
___
Pherio correva, leggero come una gazzella, sotto i pallidi raggi della
luna calante. La luce che sprigionava da essa era scarsa ma lui conosceva
quei sentieri ad occhi chiusi, fin da quando era bambino era stato portato
lì a giocare, dentro il recinto sacro del tempio di Artemide, dove le
vergini sacerdotesse venivano tenute lontane dalla vista e dal contatto
dal resto del mondo.
Ed ora, sotto le querce sacre il frusciare dei suoi passi era un'eco
conosciuta, le alte sacerdotesse, se per caso riuscivano a vederlo,
chiudevano gli occhi e fingevano di non aver notato nulla, solo il
silenzio usciva dalle loro labbra, un patto antico con la dea permetteva a
lui, unico uomo dopo secoli, di metter piede in quel luogo negato a tutti
gli altri. Lui, l'unico uomo che avesse visto la luce nel tempio della dea
vergine.
Seguì, costeggiandolo, l'ampio muro che costituiva il retro del Tempio,
ora bianco di un candore assurdo di ossa, poi tagliò giù per il piccolo
orto pieno di erbe profumate e poco altro, con il rosmarino che, immenso,
gettava nell'aria il suo aroma inconfondibile, fino a che i suoi sandali
risuonarono calpestando il pavimento di sasso del dormitorio delle
sacerdotesse.
Erano appena tornate dalle solite preghiere giornaliere, che si
intessevano al sorgere degli astri, le piccole porte erano chiuse, il
silenzio e il buio era assoluto e spettrale, quasi, infranto solo da un
fascio di luce lattea, netta e decisa, proveniente dall'ultima porta in
fondo al corridoio, socchiusa, e da una litania bassa e modulata, un
ossessionante ripetere di epiteti della dea frammisti a singhiozzi
strazianti.
Lei lo stava attendendo, come tutte le notti. Come sempre.
Pherio soffocò il tremito che, come sempre gli prese, il gelo solito che
gli serrò la bocca dello stomaco mentre nella sua mente, la voce forte e
squillante di suo zio si alzava con furia 'Stai dissacrando un terreno
sacro! Stai insozzando quelle candide mura! Non puoi tu, uomo, recarti
dentro il sacro recinto delle sacerdotesse vergini!'
La dea Artemide aveva ucciso, nel mito, tutti gli uomini che avessero
osato porre lo sguardo su di lei, aveva fatto strage di maschi e le sue
ancelle erano obbligate a seguire il suo esempio pena una morte indicibile
e atroce. Ma lui . .
Aprì lievemente la porta per scivolare dentro la misera stanza. Una donna
era inginocchiata di fronte alla finestra spalancata e intonava preghiere
miste a lacrime mentre, le braccia alzate, le mani affondate nei capelli
aggrovigliati come un cespuglio di rovi, scoteva con forza il capo da una
parte all'altra, in preda a una terribile crisi.
I Grecia si credeva che i folli parlassero con gli dei, fossero la loro
bocca e tramite di loro i Supremi parlassero. Esseri sacri e spaventevoli
che andavano curati con attenzione, a cui rendere omaggio e di cui essere,
in maniera silente, terrorizzati.
Come un'oracolo, colei che era stata la più nobile ed altera bellezza di
tutta Sparta ora giaceva vestita di stracci, tremante sul pavimento nudo
della sua cella che aveva scelto, fanciulla, di abitare per i pochi anni
obbligatori del servizio reso alla dea e che, invece, non aveva mai
lasciato. La follia era ciò che l'aveva salvata, altrimenti il suo
destino sarebbe stato segnato.
Una donna disonorata, in Sparta, poteva sopravvivere per la legge, ma non
era detto che accettasse di vivere con un simile peso che le macchiasse il
cuore e l'onore. Soprattutto lei.
Pherio mosse un passo in avanti, in silenzio. La pena gli strinse il cuore
e lo stupore, solito, lo inchiodò lì quando quegli occhi spiritati,
iniettati di sangue, scuri e lucidi come legno pregiato trattato con cura,
si puntarono su di lui. Un urlo lacerò l'aria, la donna arrancò
penosamente per mettersi in piedi, scivolò di nuovo sulle ginocchia ed
avanzò a gattoni verso di lui.
Arcuò quel corpo che era stato bello sopra i suoi piedi e,
abbracciandogli le ginocchia, piangendo e ridendo insieme, gli baciò i
sandali. Pherio tremò a quel contatto e, dolcemente tese le mani verso di
lei prendendola per le spalle.
"Mamma . . "
Lei sollevò il volto contratto e sorrise, folle. Gli gettò le braccia al
collo, baciandogli il volto.
"Sei giunto! La dea ha risposto alle mie richieste! Tu sei la spada
della mia vendetta! Tu laverai l'onta del mio disonore!"
Pherio sorrise abbracciandola piano, cullandola come se fosse una bambina.
A questi sproloqui era abituato. Aveva passato l'infanzia accanto a quella
madre toccata dalla mano della dea dopo che quel barbaro aveva violato il
suo corpo consacrato. Aveva passato anni al fianco di quella pazza che lo
guardava come se fosse il suo tesoro, l'arma del suo riscatto, e passava
ore e ore a spiegargli che da grande avrebbe dovuto riempire l'Eurota di
sangue nemico e l'avrebbe donato ad Artemide e lei sarebbe stata
purificata. E sempre, anche ora, sentiva la voce di sua madre parlare di
quello straniero maledetto, senza rispetto né dignità, che come tutti
coloro non provenienti dalla Grecia, avevano come unico scopo quello di
corrompere il sangue glorioso di Sparta e di gettare la città nel fango.
Metà del suo sangue proveniva da lui. Da quell'uomo che neppure meritava
quell'appellativo.
"Mamma, stai tranquilla adesso . . è tardi, devi riposare .. "
E la sua voce ritornò nenia, maledizioni contro quel barbaro mentre gli
sfiorava i capelli lucenti e, con lo sguardo, lo idolatrava tremante. Ma
metà del suo sangue era di quel barbaro . . la gola gli si strinse in un
nodo di disgusto. Prima che suo zio lo accettasse, aprendo la sua casa a
quell'ultimo nipote disgraziato, aveva vissuto lì, con unica compagnia
sua madre che raccontava del sangue corrotto degli uomini e di come lui,
il piccolo Pherio che portava indosso i segni e i colori della dea,
avrebbe vendicato il suo onore col sangue di mille e mille nemici.
Per questo aveva sopportato anni e anni di addestramento, per questo aveva
sopportato ogni parola brusca, ogni atteggiamento aggressivo da parte di
suo zio, per questo comprendeva ed accettava l'odio che vedeva riflettersi
nelle iridi di molti. Le sue mani sarebbero già state sporche di sangue
anche se mai avesse ucciso un uomo.
La donna gli passava le dita tra i capelli, singhiozzando. Finalmente il
suo fiato si era calmato un poco, la disperazione stemperata, come al
solito, nella vista del suo unico figlio. Pherio le sorrise e lei lo
abbracciò, felice.
"Sei la risposta della dea . . ucciderai i barbari e purificherai il
mio onore .. "
Parole e parole di ventri squarciati e viscere esposte e sangue, sangue
ovunque, sangue da riempire non solo l'Eurota, ma il mare intero, e la dea
sarebbe stata soddisfatta, perché lui era stato fatto nascere per quello
scopo, lui la dea l'aveva inviato perché affogasse nel sangue il disonore
toccato alla più altera e nobile delle sue sacerdotesse. Il suo lento
cullare la madre era dolce, la sentiva tremare agitata fra le braccia,
come se lui fosse stato un amante troppo a lungo atteso, come un sogno
fatto realtà, Pherio le baciò piano il capo mentre lei parlava e
parlava, parole che lui già conosceva, una litania eterna che aveva
riempito la sua vita.
"Andiamo mamma, è ora di dormire. Le preghiere alla dea le hai
elevate e adesso devi riposare."
Il suo sguardo folle scintillò sfiorandogli il viso.
"Sei tu la mia migliore preghiera, Pherio! Tu che porti addosso i
segni della dea! Tu che sei così simile al suo gemello solare! Tu mi
vendicherai!"
"Sì, mamma, sì. - Pherio sorrise appena spingendola gentilmente
verso il giaciglio ordinato che le sue compagne, le altre sacerdotesse,
ogni giorno si premuravano di pulire e riassettare - Adesso devi
dormire."
Lei chinò appena il capo lasciandolo andare dal suo abbraccio. Solo le
loro dita rimasero strettamente allacciate. Era divenuta magra e pallida
più di quanto già non fosse. Il volto segnato era ora teso sotto le
linee distorte della follia, Pherio poteva vedere la mano ghermitrice
della morte essersi protesa su di lei e la sua ombra già le offuscava i
lineamenti. I suoi occhi, già da anni ormai vedevano un altro piano, non
destinato ai mortali, per lei non sarebbe stato un grave distacco ma
Pherio si sentì tremare: quella era l'unica cosa in cui lui non aveva
potere per aiutarla.
Strinse le labbra. Sempre aveva sentito lei chiamarlo 'la mia benedizione',
la risposta della dea a una sua preghiera, ma lui, dentro di sé, si
sentiva più la sua maledizione. Il segno del disonore, la macchia che
l'aveva portata alla follia, così lontana da tutti loro. Suo zio aveva
ragione nell'indicarlo come la sede di tutte le sfortune della loro
famiglia, quello era il modo in cui, la sua venuta, aveva sconvolto la
forte mente della sua meravigliosa madre. Così lontano lei vedeva, ora,
così remoto era il suo vivere, che solo la vista di suo figlio ormai
riusciva a farla ritornare indietro, per sempre più brevi momenti. Ora
Pherio, guardandola, seppe che ben presto neppure per lui si sarebbe più
voltata, neppure per lui avrebbe smesso di contemplare il mondo come lo
vedevano gli dei. E se ne sarebbe andata per sempre, in silenzio e
nascosta al mondo come sempre aveva vissuto.
Si chinò a baciarle il dorso della mano, lei ormai supina nel letto, gli
occhi spalancati e fissi sul soffitto. Quello strano sonno, fratello di
quella strana vita. .
___
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