NOTE: i personaggi sono nostri! Idrio e Pirecrate sono di Kalahari e Pherio e Astre di Dhely. In compenso, però, non ci guadagnamo nulla da nessuno di loro!



Di odio e di amore

di Dhely e Kalahari

Parte 4/?


Un sole accecante, una piana tutt'intorno distorta dal calore ossessionante, degli occhi infiammati da granelli di sabbia che costantemente volavano sotto le palpebre e che ricacciava via. Bruciore ancora peggiore. Acqua . . acqua. ... o anche fango...qualcosa....per lavarli...
Solo assieme a se stesso e al niente Idrio stava in quella grandissima valle scorgendola all'orizzonte perdersi tra dune che, sinuose ed insidiose, disegnavano i confini di Urano su Gea. Non c'era una vita, un sentiero, ma solo un infinito oceano di sabbia ed aveva paura. Paura di non riuscire ad uscire, paura di morire lì paura di...
Il cuore tremò e la volta celeste privata di nuvole sembrò divenire più intensa e più siderale nel suo grigio. Mosse un passo avanti nella speranza che muovendosi potesse trovare 'qualcosa', fosse anche stato un miraggio, ma il piede sprofondò nel mare argentato come se fosse stata melma che lo risucchiava verso il Tartaro; cercò un appiglio cui aggrapparsi ma non ve n'erano perchè le sue mani incontravano solo l'aria e sabbia, sabbia e ancora
sabbia, che gli scivolava via dalle dita paralizzate sotto gli spietati abbattersi delle lame lucenti di un Febo artemideo: freddo e gelido come un pianeta vuoto, come un animo che più non vuole vivere
Sabbia, sabbia e ancora sabbia....fino al petto fino al collo e le braccia che ancora disperatamente cercavano, gli occhi pieni di lacrime di disperazione e sangue di dolore per quei granelli così piccoli eppure nel loro insieme così mortali, la bocca urlando in un latrare silenzioso. Quando le dita incontrarono qualcosa.
No, fu una frustata di spine che gli si conficcarono tra i polsi ed il gomito e nuova accecante agonia
Poi quando la morte sembrò abbraccialo niente più sabbia che secca la pelle, ma solo una stanza, vuota e questa volta un rumore. Idrio rimase immobile cercando di comprendere quale bestia emettesse quel suono e per istinto -non aveva mai visto un serpente in tutta la sua vita- la riconobbe come nel ricordo da un incubo.
Ed era lì, illuminato da un fascio funereo di luce, dalle squame più scure della sofferenza più buia e lucide di sangue, gli occhi dorati, la testa appiattita ma al culmine di un rigonfiarsi ai lati della forma sinuosa di se stesso. Le fauci chiuse dal sottile passaggio la lingua si insinuava uscendo e sibilava.
D'un tratto si drizzò e la pelle di Idrio si ricoprì di un gelido sudore.
Scattò in avanti ma le braccia erano come bloccate...!
Aprì gli occhi ansando, coperto gelido sudore e stava piangendo . . come una cascata di un fiume troppo pieno. Voleva tornare a casa, non voleva più stare in quello che poteva essere il regno dei Mani sulla terra o portale
alle profonde cavità di Dite.
Pirecrate . .
Rivide ancora una volta quella pelle bronzea squarciarsi sotto le sferzate veloci, che lui neanche riusciva a vedere e che non tollerò nei suoi occhi; aveva girato il capo ma era come se ogni colpo lo sentisse 'katà tiùmon'.
Pirecrate . .
Perchè gli veniva in mente sempre quel nome? Cos'era che tanto lo faceva sentire vicino a una persona che non aveva mai visto, a uno Spartano, a uno che non aveva mai preso in mano un pò di argilla e l'aveva corteggiata modellandola in un vaso o con pazienza avesse messo una corda nuova ad un'arpa, sotto un sole gentile che imbiancava l'acropolis rendendola regno di marmoreo candore, con sulla pelle i raggi che filtravano attraverso i sottili rami di un ulivo, dono d'Atena dagli occhi celesti?
E che non aveva mai sentito l'aria gentile carezzargli i capelli, come fa con le chiome degli splendidi cavalli dai manti lucenti e muove i manti bianchi delle sacerdotesse?
Cosa . .
Si portò una mano davanti al viso, scostando le gocce gelide e cercando di cacciare via anche la preoccupazione per quel ragazzo, poco più grande di lui, che aveva lasciato sanguinante una piazza e *nessuno* aveva fatto niente per medicarlo.
Pirecrate era solo . . forse era questo ciò che li accomunava.
Idrio cantava, Pirecrate danzava.
"Basta" sussurrò a denti stretti. Si alzò e subito trovò la sacca in cui aveva messo la sua cetra: doveva andare a suonare . . aveva il bisogno di cantare fino a che la voce non si sarebbe persa troppo debole tra i cri-cri dei grilli nascosti tra l'erba.
Uscì da una finestra; non era forte come uno Spartano ma in agilità non aveva niente da invidiare a nessuno. Troppe volte aveva corso da bambino tra gli alberi sacri ad Atena rincorrendo farfalline gialle e bianche, per poi dissetarsi alle piccole fonti che le rocce donavano nella loro generosità e in cui vivevano bellissime ninfe di fiume . .
Piano, sotto la falce di Artemide e gli occhi della notte, senza far rumore, camminò, sopra le erbe gialle dal sole avorine ora sotto la bellissima dea, intorno all'unica città senza mura in tutta l'Ellade che non fossero il coraggio e le spade dei suoi Spartiati. Per poter stare tranquillo doveva andare lontano, fino a dove l'orecchio più fine non avrebbe potuto udire le note risuonare nell'aria . .
Incontrò per la sua via l'Eurota, che sotto le stelle silenziose, tra le rocce del letto gorgogliava passando placidamente e lo seguì rasentandone il corso fino a che le poche lucerne di Sparta potevano farla sembrare quasi una città come le altre.
Solo quando i piedi si fermarono in un piccolo spiazzo, circondato da un semicerchio di erbe alte che frusciavano con l'andare del vento, si accorse di aver corso quell'ultimo pezzo: aveva un po' di fiatone. Si guardò intorno vedendo stelle sopra di lui e campagna aperta intorno, l'Eurota in quel punto scorreva sereno ma dai leggeri rumori che udiva poteva intuire che più giù il percorso sarebbe divenuto più scosceso, forse articolandosi.
Tirò un sospiro e poi respirò l'aria più fresca che il fiume gli donava.
In quel momento l' Atene grandiosa e la gloriosa Sparta scomparvero del tutto dalla sua mente e si mise seduto su una roccia grande, grigia e tiepida, contro cui l'acqua scivolava dividendosi e producendo una schiumetta leggera.
Con i polpastrelli sfiorò le corde della cetra ed esse si svegliarono lanciando suoni limpidi e chiari nell'universo.
Idrio chinò leggermente il capo di lato, socchiuse gli occhi verdi come smeraldi, e sorrise.

Un qualcosa di dolce sfiorò la sua pelle, facendolo rabbrividire. Il corpo gli sembrava insensibile a qualsiasi cosa eppure . . eppure qualcosa lo toccò, come una goccia che cade sulla superficie perfettamente immobile di uno specchio d'acqua: così piccola eppure . .
Pirecrate aprì gli occhi, li chiuse, poi li riaprì e il mondo attorno a lui si presentò come un ammasso di parvenze appannate: fu come un fortissimo colpo al cervello. Stava per riaddormentarsi quando di nuovo lo stesso brivido lo scosse, ma non era un qualcosa che gli veniva da dentro . .
Con lo sguardo della mente cercò le sue mani e le mosse, piano; qualche osso scrocchiò. Quando la coscienza riprese un po' il dominio della consapevolezza appannata, scattò a sedere, ma un qualcosa di lancinante lo costrinse a ricadere nell'acqua bassa.
Guardò i puntini sullo sfondo scurissimo del cielo e diede un paio di respiri profondi, poi abbassò le palpebre senza chiuderle e mise il viso sotto l'acqua, lo rialzò, stando un attimo fermo per lasciare che il liquido gli scivolasse lungo il viso. In seguito scosse violentemente la testa, come un cucciolo di leone che si è bagnato e si libera dall'acqua in eccesso; alcune ciocche corvine rimasero sulla fronte e le scansò con una mano rimettendosi a sedere e cercando di uscire istintivamente dallo stato confusionale. Con le mani, uniche cose oltre al volto che sembravano riuscire a percepire ancora qualcosa, si toccò prima le spalla, poi il petto e le gambe; riaprì gli occhi e vide il proprio torace coperto di bende.
Ma cosa. .?
La testa gli fece male . . ricordare era uno sforzo troppo grande ma . . riuscì giusto ad avere di fronte lo sguardo freddo e indifferente di Kakeo, un cammino impossibilmente faticoso e . . le proprie mani che tentavano una fasciatura provvisoria.
Il fiume, era lì che era andato.
L'acqua scorreva placida e le rocce riscaldate dal suo corpo avevano delle piccole scie di sangue che si scivolavano nell'Eurota; si sentiva debole ma in un modo o in un altro doveva riuscire a tornare a Sparta.
E avrebbe sopportato tutte le ingiurie che gli avrebbero detto, gli sguardi che avrebbe sentito bruciare sulla schiena non appena si sarebbe voltato un attimo . .
E tutto per colpa di quel vecchio maledetto che non voleva lasciargli la vita in pace: lasciarsi bandire da Sparta significava avere chiuso. Non aveva idea neanche di come vivesse la gente su nelle altre città! Mai se n' era interessato: nonostante fosse difficile, a volte tanto davvero, passare i propri giorni a Sparta, quella lì la sua casa, era lì che voleva vivere . .  La terra non avrebbe odorato di terra in un'altro posto, il cielo non avrebbe avuto il colore del cielo in un'altra città, il fuoco e l'acqua non avrebbero avuto l'aggressività e la meravigliosità che avevano, se non fossero stati a Sparta, come lo stesso sudore non avrebbe avuto lo stesso sapore tra le labbra.
La schiena gli faceva un male terribile ma non era la prima volta. Toccò con i polpastrelli la spalla destra, dove un taglio tra tanti riusciva ad arrivare e sentì la carne ancora fresca sotto la pelle lacerata, ma il sangue sembrava aver rallentato la sua corsa.
Sarebbe stata solo un'altra cicatrice.
Si stava per alzare quando sentì di nuovo un qualcosa che lo accarezzava. 
Si voltò intorno ma oltre una parete di erbe scure ed alte non vide nessuno, sentì soltanto. .
Organon. . qualcuno stava suonando uno strumento, un organon. .
Non aveva mai udito altro strumento musicale oltre ai flauti che durante le marce venivano suonati per dare il passo alle truppe e, di sicuro, non avevano quella melodia, quell'armonicità così flebile e delicata.
Veniva da oltre la barriera di piante. Chi era? Si mise sulle ginocchia e camminò a carponi cercando di non scivolare tra le rocce piccole, messe l'una sull'altra dal fiume che scorre e rese umide dall'acqua. E la febbre ancora alta, e il dolore alla testa, il martellare continuo, rendevano le sue braccia tremanti e la vista poco affidabile. Quando infine riuscì a scansare il muro d'erba quella voce aveva appena finito di narrare la morte immediata d'Achille per un dardo dell'arco infallibile del Phebo saettatore . .
Quelle mani eleganti e precisissime si fermarono, il giovane si portò via con l'ultimo vibrare di cetra un'ultima nota vocale lasciando che, mentre Artemide nella sue femminile vanità dal cielo nell'acqua si specchia, essa raggiungesse tutte le cose.
Pirecrate non mosse un muscolo, allarmato da qualunque presenza, dio, spirito o mortale, fosse quella che davanti ai suoi occhi stanchi e deboli si parava: le stelle brillavano come silenti applausi, le acque per lunghi minuti più non sembrarono scrosciare con la stessa intensità, nonostante avesse finito di cantare, come se tutta la natura stesse aspettando che riprendesse, persa senza fiato davanti a tanto prodigio.
Era Orfeo . . gli vide gli occhi chiarissimi risplendere di etera azzurrina luce sotto le bianche carezze d'Artemide cacciatrice, i capelli scuri e troppo corti -per uno Spartano- ricadere sopra quel viso delicato, andando anche a raggiungere le labbra e allora una mano lasciava lo strumento per scansare quella sottilissima ciocca e lasciarla tornare a giocare con l'aria; la pelle era troppo chiara, troppo poco temprata dal sole e le spalle armoniose con il corpo sottile, le gambe ripiegate sotto di esso, troppo esili per uno che da mane a sera impugni spada scudo e lancia.
Poteva essere solo che un dio . .
Senza fare rumore alcuno uscì fuori dal suo 'nascondiglio' mostrandosi alla piena luce della falce; l'acqua scorrendo incontrò le sue caviglie e come se avesse lanciato un'esclamazione Idrio si scosse dal suo sognare ad occhi aperti per fissare chi si avvicinava nella chiara notte. Nonostante quei passi fossero leggermente instabili e alcune bende gli coprivano il petto non potè non riconoscere l'animale furente che sin dal primo giorno del suo arrivo aveva visto: fiero ed orgoglioso nonostante tutto, testardo, coraggioso. .
Idrio non si scompose, continuando a tenere gli occhi fissi sull'essere che a sua volta gli passava l'animo con uno sguardo tagliente, si limitò a rilassare le braccia lasciando che la cetra riposasse sulle sue gambe.
"Kaire." la sua voce dolce e calda fu accompagnata dal fiume; Pirecrate si fermò spiazzato da un saluto, che solo i mortali proferiscono, ma si riprese immediatamente e rispose "Kaire.", la sua voce coprendo il leggero brusio delle acque.
Artemide, dall'alto di ciò che Atlantide regge senza riposo, vide i due giovani continuare a guardarsi l'uno con una paura e timore nel cuore ma sorriso scolpito sul viso, l'altro con confusione nell'animo ma sguardo fermo e lucido.
"Non smettete di suonare . . Orfeo" sussurrò Pirecrate cadendo sulle ginocchia tra le rocce vicine a quella più grande da cui Idrio lo osservò, curioso di sapere quale fosse il motivo che spingesse uno Spartano a chiedere della musica e leggermente divertito ma onorato del fatto che l'avesse scambiato per Orfeo.
Ma, invece di ripoggiare le dita sulle corde, mise lo strumento su una roccia vicina e si avvicinò al ragazzo addossatosi alla pietra. Lo toccò leggermente, lo sfiorò, quasi . .
"Ti aiuto, - gli disse prendendo le bende che si erano allentate e cercando di stringerle  - ma dobbiamo tornare nella tua città."
Pirecrate osservò quella forma chinata su di lui e fece per cacciarla ma le braccia non obbedivano ai suoi comandi e poi . . nessuno prima d'ora lo aveva mai fatto ed era una sensazione strana. Quel semidio disse qualcosa, o almeno così gli sembrò, ma tutto ciò che riusciva a sentire era il dolore nella testa e il bruciore nella gola e sotto la pelle . . quello provò a farlo alzare facendogli perdere contatto con la pietra, unica cosa ferma oltre a quella gentil presa.
"No!" sussurrò e cercò di far focalizzare lo sguardo per avere contorni più nitidi di quella creatura divina che lo stava aiutando: perchè gli uomini non aiutano . . questo lo sapeva anche troppo bene. . nessuno allunga una mano quando cadi nel fango e alla fine ti convinci che non hai bisogno che nessuno lo faccia e impari ad essere 'forte'. Ma è soltanto un'illusione, un orgoglio vano perchè alla fine tu hai bisogno però non puoi e vuoi chiedere . .
Quel tenero tepore che lo aveva avvolto si staccò da lui e rimase ad ascoltare il disturbante scrosciare dell'acqua . . che la Terza parca stesse per tagliare il suo filo? Che dovesse morire così ed Ares o Apollo o Zeus gli avessero mandato uno dei loro figli . .
Idrio tornò di corsa vicino a Pirecrate che aveva iniziato a mormorare cose nel delirio, con sè aveva la piccola ciotola che Astre usava per medicare, regalatagli il giorno prima e che per fortunata volontà di Zeus aveva nascosto nella sacca dove teneva anche la cetra.
"Eccomi . . Pirecrate?- si inginocchiò vicino alla roccia con la preoccupazione nel cuore - Pirecrate?"
"Che vuoi?" rispose bruscamente aprendo gli occhi per un attimo e poi richiudendoli.
La Luna creava strane ombre su quel viso. Troppo intense da poterle fissare . .
"Stai fermo." e poggiò i polpastrelli, appiccicosi di quella strana sostanza chiarissima, sopra la spalla scoperta del ragazzo ferito.
Pirecrate sobbalzò lanciando un urlo
"Kai nè Dìa (per Zeus)!!! Che stai facendo?!" Idrio si ritrasse come se lo avesse colpito fisicamente . .
"Ti sto medicando! -cielo, se gli avessero detto che si sarebbe ritrovato a dover medicare uno Spartano bisbetico ed ingrato non ci avrebbe mai creduto!- Dovresti essere un po' più riconoscente!" disse con le mani ancora instropicciate di quella crema che profumava di margherita, indispettito.
"Nessuno te lo ha chiesto!" rispose in tono secco Pirecrate girandosi ed avvicinandoglisi.
"Oltre che ad usare la spada avrebbero dovuto insegnarti cosa sono le buone maniere!" affermò Idrio guardando fissi quegli occhi irati.
"La mia paideia (educazione) è irreprensibile." affermò Pirecrate diminuendo ancora la distanza tra i loro due visi ed Idrio si scostò un poco in indietro, ma lo Spartano lo afferrò facendo cadere entrambi dalla pietra e schizzare in aria piccole e grandi gocce d'acqua.
"Che ti prende? -  chiese Idrio, riprendendosi e trovandosi a disagio per l'aderenza dei loro corpi, in contrasto tra l'acqua tiepida della notte che gli arrivava quasi alle orecchie e il bollore del corpo di Pirecrate - Pirecrate alzati!" cercò i suoi occhi, tenendo le braccia distese per non doverlo impastrocchiare. Se non fosse stato per quella specie di fanghiglia sulla mani lo avrebbe scansato lui.
Forse.
"Ma parli sempre, tu?" gli domandò lasciando che le iridi blu indugiassero sugli occhi brillanti di colui che non sapeva essere il giovane Atenise ed Idrio trattenne il fiato nel vedere da così vicino la bellezza di quei lineamenti.
Il volto di Pirecrate, circondato da bagnate ma sempre mosse ciocche nere, si avvicinò al suo ma prima che le loro labbra potessero toccarsi Idrio, spaventato da una simile audacia, appoggiò le mani ancora intrise di medicina sulle spalle dello Spartano, che arretrò il viso irrigidendosi in una smorfia di sofferenza: gli occhi si chiusero di scatto e la bocca rimase schiusa senza che sfuggisse neanche un'esclamazione. Idrio avrebbe potuto sgusciare via da quella posizione ma era talmente catturato da quell'espressione dolente che rimase fermo rimirandola come se fosse stata un'espressione di piacere assoluto.
Il piacere di un orgasmo.
Non si accorse subito che il sangue aveva iniziato a corrergli nelle vene come un cavallo lanciato al galoppo in una grande prateria, che i muscoli dell'inguine iniziavano a tendersi come un fanciullo che cerchi di raggiungere una mela su un ramo troppo alto, che le sue braccia sedussero a sè quelle spalle così forti e così ampie eppure tremanti sotto i suoi polpastrelli. 
Si accorse che le loro labbra si erano intrecciate solo quando la testa gli divenne leggera quanto una bolla d'aria nell'acqua.
All'inizio furono entrambi esitanti, tutti e due assaporarono con lentezza l'ingresso alle loro bocche, tastando e succhiando mentre l'aria si riempì oltre che del felice scrosciare dell'Eurota anche dei suoni delle loro labbra unite e dei gemiti che producevano le loro gole, fino a che Idrio rimase senza respiro e per recuperare si staccò un attimo da quella fornace ardente che s'accostò ad un orecchio iniziando a morderlo con la delicatezza di una leonessa che trasporta tra le mascelle fatali un tenero cucciolo. 
"Pirecrate . ." Idrio gemette il suo nome e lo Spartano con uno braccio gli afferrò rudemente la vita e con l'altro, lasciando che tutto il peso di entrambi ricadesse su quell'essere divino, gli prese il retro del capo catturando di nuovo quella labbra morbidissime ma questa volta esplorandole con la lingua per sentire quel dolce sapore e per poter udire ancora una volta il *suo* nome pronunciato in una maniera così soave. 
"Orfeo . ." sussurrò lasciando per un attimo quella pelle fresca per poterlo guardare in quegli occhi così chiari da aver parvenza di spirito, di qualcosa che se non la si tiene stretta può scappare via come un pesce da brillanti scaglie azzurre guizza dalle mani per correre vie di nuovo nella corrente. 
Per questo lo strinse ancora più forte a sè: il sospiro di uno sulle labbra languide dell'altro, petto bendato su torace teso sotto al vestito bianco ma sporco della terra bagnata del torrente, addominali di ferro di Pirecrate su quelli molto meno allenati ma sempre perfetti di Idrio, il bacino forte dello Spartano su quello armonioso dell'Ateniese . .
"Pirecrate . . - ripetè Idrio a bassa voce cercando di respingere le labbra dell'altro sulla pelle sensibilissima del suo collo - Pirecrate basta .."
"Parli troppo . ." gli rispose Pirecrate accarezzando con la lingua il punto in cui una clavicola incontra l'altra.
"Io . . -Idrio riprese fiato- non ho mai dormito con nessuno!" gli disse arrossendo per le parole e per i brividi che le labbra schiuse di Pirecrate sul petto gli stavano offrendo.
"Neanche io." sospirò Pirecrate ignorando l'ennesima fitta di dolore sulla schiena causata dallo spostamento delle mani dell'altro in nuovi punti.
Una volta uno Spartiato molto più grande gli aveva proposto, dopo averlo portato in un'ala deserta del campo di addestramento, di giacere nel talamo assieme a lui quella sera con la promessa di una nota buona davanti agli anziani. Ma lui aveva scosso il capo con forza facendo ondeggiare quei capelli mossi e con occhi pieni di rabbia. Figurarsi se lui avrebbe ricorso ad un simile espediente per ingraziarsi la Gerousìa . . se avesse lasciato ad un porco di toccarlo con le sue luride dita!
'No!' gli aveva risposto secco e si era ribellato quando aveva tentato di mettergli le mani addosso
Cacciò via quei pensieri, sempre più preso dal giovinetto di pelle chiara e morbida, di capelli corti, di due occhi più verdi del mare . .
"Orfeo . ." lo chiamò ancora una volta scostando con una mano calda la veste che dalle ginocchia gli copriva le gambe per accarezzare quella pelle e per poter sentire quella voce gemere piano cantando una melodia che era solo per lui.
Solo per lui.
"No . .non mi chiamo . .Orfeo . ." Idrio ribattè dolcemente e sorridendo. 
"Allora dimmi il tuo nome cosicché lo possa tenere tra le labbra" sussurrò Pirecrate baciando e mordicchiando quella parte di petto che la veste lasciava scoperto.
"Idrio." esalarono le labbra dell'Ateniese, e Pirecrate tornò a baciargli le spalle quando all'improvviso morse con forza e si sentì un urlo di dolore.

Lo Spartano alzò il capo perforandogli l'anima con due occhi roventi "L'Ateniese?"
chiese a denti stretti, la bocca coperta un po' di sangue, e si ritrasse velocemente da lui come un lupo che scatta indietro dopo aver visto del fuoco.
"Sì . . sono di Atene . ." rispose Idrio mettendosi a sedere e non capendo, mentre con una mano si strinse massaggiando il muscolo ferito da quei denti affilati di predatore.
Gli occhi di Pirecrate si fecero più oscuri del cielo e le labbra si serrarono in un'altra smorfia: di disprezzo. Indietreggiò di un passo continuandolo a fissare e tenendolo inchiodato alla roccia, poi ne fece un altro, più veloce, si girò, dandogli la schiena martoriata, e nonostante tutte le ferite corse via nella notte lasciando lunghe falciate sulla terra brulla. 
Solo quando rimase solo con solo i suoni della notte Idrio si riprese e si alzò urlando all'aria.
"PIRECRATE!!" mentre stava per sopraggiungere l'ora più silenziosa.

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L'incenso purificava l'aria col suo fumo che si alzava nella stanza districandosi in spire, prima dense poi sempre più sottili e sinuose, simili ad una danza propiziatoria per accogliere degnamente il sopraggiungere dell'alba. Il cielo era ancora scuro ma le stelle, lentamente, si stavano spegnendo una ad una e lo zefiro aveva ripreso un poco di vigore.
Astre abbassò lo sguardo su quel corpo prono, la carne esposta, le orribili lacerazioni carminie che, alla debole luce del lume ad olio, parevano ferite inferte dalle unghie di una arpia gracchiante e il respiro lento che sfuggiva dalle labbra simile all'ultimo alito di vita in un morente in preda allo sfinimento che toglie la forza di lamento ma non impedisce al volto di essere contratto in una smorfia.
L'unguento era fresco sulle dita ed Astre si ritrovò a sospirare. Era tempo di cambiare la fasciatura e quella stanza vuota risuonava fastidiosamente per il troppo silenzio, la casa era avvolta nel sonno sembrava che lui solo vegliasse quel bel corpo assopito assieme a quel tacere pesante dell'aria. 
Alla Pista l'orgoglio del nobile Kakeo non era stato soddisfatto: aveva definito ad alta voce suo nipote un debole, indegno della sua stirpe e, anche se seguendo al consuetudine aveva aperto le porte della dimora antica per ospitarlo nel breve periodo della cura, non si era preoccupato di come stesse. Pherio, quando si fosse svegliato, ne sarebbe rimasto crucciato, come era successo l'anno precedente . .
La pelle che ricordava morbida sopra i muscoli tesi era ora un grumo ardente di dolore e sangue, pulsante nell'agonia e lo sarebbe stato fino a che non avesse iniziato a rimarginarsi. Per quanto il suo tocco fosse leggero Astre sapeva bene che neppure l'alito sottile di un bacio di Afrodite avrebbe potuto non causare sofferenza a quel povero corpo martoriato. Ma perché mai bisognava rovinare un tal equilibrio di forme, una simile perfezione di linee e volumi con squallide cicatrici?
Scosse il capo, sospirando, notando una sferzata che, singola, svettava tra le altre e incidendo in profondità la pelle tenera del collo lasciava un profondo segno carminio, che gli correva lungo le vertebre fino all'attaccatura della mandibola. Fortunatamente non gli avevano sfiorato il viso! Astre strinse fra le dita il vaso di unguento corrugando la fronte, perdendo il suo sguardo su quel volto che aveva imparato a conoscere tanto bene. 
Mai nessuno gli si era rifiutato prima d'allora: aveva sempre ottenuto chi desiderava a volte con un semplice sguardo o gesto elegante nell'aria, altre richiedendo esplicitamente, altre dovendo raggirare discorsi che sapeva sin dall'inizio non sarebbero piaciuti a suo padre, ma mai si era trovato di fronte a un 'no' tanto definitivo da intralciare le sue passioni. Lui era sempre stato l'unico a potersi negare, a decidere i giochi e ora questo spartano, questo guerriero. . questo stupido! . . ecco, ora lui lo metteva da parte, sacrificandolo per le proprie convinzioni? Di più: gli aveva confessato di amarlo, non attrazione o desiderio, no, a sentir lui provava amore . . eppure continuava a rifiutarsi! Avrebbe dovuto lasciarlo perdere e fargli rimpiangere il più possibile di essersi comportato in quel modo con lui, fino a che un giorno, uscendo dalla propria stanza, lo avrebbe trovato a dormire accucciato davanti alla porta.
Anzi ora avrebbe dovuto essere nella sua stanza a dormire tranquillamente su quel letto scomodo e a sognare il talamo morbidissimo e profumato di fiori tropicali di casa sua, lasciando quello Spartano solo perchè tanto a fargli compagnia  avrebbe avuto il suo dannato orgoglio; oppure qualcuno sarebbe giunto prima o poi almeno a lavargli le ferite . . magari uno di quegli sciocchi che gli stavano sempre ai calcagni, fastidioso codazzo di ammiratori.
Astre sospirò per l'ennesima volta, quasi in uno sbuffo, mordendosi un labbro.
Non aveva alcun senso farsi sommergere dalla rabbia per un motivo così insulso perchè l'avrebbe avuto, prima o poi, avrebbe trovato il modo per riuscire a toccare quella pelle non come un medico ma con carezze dell' amante che l'avrebbe fatto gridare . . il grande Pherio che non urlava mai dal dolore, che non gemeva mai neanche dopo duecento colpi impietosi sulla schiena . . gli avrebbe infiammato il cuore e le membra come mai nessuna frustata e i suoi segni sarebbero stati ben più piacevoli da portare che quelle lingue carminie, e le sue mani addosso e la sua voce . . 
Terminò il suo lavoro nel silenzio più totale. Conosceva perfettamente la posizione, la profondità e l'inclinazione di ogni minimo segno inciso sul corpo e non sarebbe stato un problema impararne di nuovi. Sull'unguento steso in abbondanza sulla schiena pose con leggerezza un fine telo di lino umido d'acqua di rose perché la pomata non si seccasse. Un accorgimento da re, come aveva fatto acremente notare Kakeo.
Già, da re.
Astre si pulì le mani immergendole nel catino appoggiato lì accanto e si ritrovò a sorridere, sfinito, alla luce dell'alba che si rifletteva nell'acqua uscita dai bordi del recipiente di rame scintillante, dopo che le sue mani vi si erano pulite; alla purezza di quel sorgere d'Apollo, sempre giovane, che lo trovava insonne. I pallidi raggi sfioravano quel corpo disteso come la carezza di un intimo e, nella luce ancora incerta, quei capelli brillavano come prezioso oro fuso per un gioiello che sarebbe stato perfetto e quei lineamenti duri parevano tremolare di un chiarore strano. Un Febo dormiente sul Parnaso? Le chiazze rosse a macchiargli la schena lo facevano più simile a un qualche sfortunato semidio avvolto in un sudario cremisi. Oppure . . davanti agli occhi ebbe quella cerimonia a cui aveva assistito in Frigia, in onore di Attis, il nome orientale di Adone: il giovane dai capelli intrecciati alla perfezione con anemoni rossi e rose e altri fiori carmini sparsi sul 
suo giaciglio di morte, e il suo sonno incantato, il suo corpo nudo sfiorato solo da quei petali setosi e fragranti. . Socchiuse le palpebre avvicinandosi a lui. La luce s'era fatta meno impalpabile e il volto di Pherio era ritornato quello che conosceva.
Che belle quelle labbra.
Nonostante fossero solitamente tese ad urlare ordini, o a serrare fra i denti il silenzio, erano morbide e dolci. Astre ricordava bene la loro consistenza, il loro calore, il loro profumo . . le sfiorò con un dito, un tocco lieve che gli fece appena tremare il fiato, il bel volto si corrugò un poco, le sopracciglia chiare si arcuarono appena e si distesero subito a sentire il calore di un palmo contro la guancia. Gli donò una carezza lenta e fu infiammato dal desiderio folle di morderle, quelle labbra, di divorarle, di farle proprie.
Quelle labbra pure come gigli selvatici, quanti baci mai avevano donato? 
Da quel che ne sapeva molto pochi. Astre sorrise. Ma quanti aveva udito anelare a un suo sguardo, almeno? Per un suo bacio avrebbero sopportato molto . . eppure Pherio era casto come la Divina Artemide e altrettanto attraente e sensuale nella sua virginità. Non innocente, no, ma indifferente, troppo concentrato su altro per preoccuparsi dei suoi compagni e dei loro desideri. Chissà come riusciva a soddisfare i propri? Appena giunto a Sparta Astre non potuto non notare alcuni sguardi, rapidi come saette, occultati e rari, occhiate amare e piene di speranza, domande silenti mai colte perché inespresse . . era certo che l'oggetto di tanta attenzione non avesse mai ricambiato, anzi che probabilmente non se ne fosse mai accorto. Come in una bella e triste tragedia dove l'eroe si infatua del suo antagonista, quel Pirecrate forte, disperato, folle e sempre sconfitto, che mai presumibilmente s'era domandato perché al suo odio Pherio avesse sempre contrapposto un silente rispetto . . Rispetto per la sua abilità indubitabile, per il suo indomito spirito, per la sua tenacia temeraria. Le belle labbra di Astre si piegarono, amare. Quante scuse Pherio s'era trovato per giustificare a se stesso quegli sguardi? Avrebbe voluto poterglielo chiedere ma a Sparta la sua posizione non era tale da permetterglielo e poi . . poi quella era ormai una storia vecchia, terminata ancor prima di iniziare.
Quel volto pallido e tirato si animò piano sotto le sue dita che gli sfioravano leggere i capelli, gli sfuggì un sussurro poi un tremito e gli occhi che si aprivano lentamente. Astre sorrise sotto il suo sguardo.
"Qua . . quante?"
Se l'aspettava.
"Duecento, Pherio."
Lo vide tacere, addolorato. Lui gli si sedette accanto chinandosi lentamente a baciargli le labbra, fredde e immobili. Un brivido percorse la sua schiena.
Solo il silenzio gli rispose.
Astre sorrise a sua volta, tacendo pure lui. Sapeva che Kakeo si sarebbe rifiutato di entrare in quella stanza, non si sarebbe preoccupato di quel suo nipote che non considerava degno di lui e quel bacio sarebbe rimasto fra di loro come un patto silente. Pherio non ne avrebbe mai parlato fingendo che non fosse mai accaduto nulla proprio come quando, con quei suoi occhi chiari come polle che riflettano l'azzurro del cielo, l'aveva visto fra le braccia forti ed orgogliose dell'anziano Kakeo . . 'anziano' . . mai si era reso conto con tanta forza di quanto quello fosse solamente un titolo onorifico. Il suo corpo forte non dimostrava i suoi anni, le cicatrici che lo ricoprivano erano numeroso e antiche, parevano i segni sul tronco d'un albero inciso da tutto ma battuto da niente, il suo spirito e il suo desiderio, poi, erano ardenti e vivaci. Astre aveva urlato, aveva sanguinato per lui, sotto di lui ricevendo in cambio mai un sorriso e rare carezze.
Astre non era pallido come Pherio eppure una notte si era accorto che la mano di Kakeo, appoggiata sul suo ventre glabro, spiccava come fosse stata di pece: il suo corpo più uso ad abiti e alla penombra di un palazzo che non all'addestramento lungo e all'aria aperta degli spartani. L'anziano ne era rimasto turbato e il ragazzo aveva sorriso. 'Pensa come sarebbe posare la tua mano così scura sulla pelle biancha di Pherio!'
Aveva avuto, come risposta, un ringhio basso, il braccio si era ritratto di colpo e poi fu sottomesso dai suoi movimenti bruschi. Lo prese senza alcuna gentilezza, senza attenzione, non una volta sola e facendolo piangere come un bambino, singhiozzante, strizzò da lui solo sangue e lacrime e dolore, senza aggiungere una parola. Solo al termine della notte, buttandolo fuori dal letto, gli aveva passato le braccia intorno alle spalle, da dietro, sussurrandogli nell'orecchio ' Le tue labbra non devono più formare quel nome quando sarai con me.'
Ah, il nobile Kakeo! Nobile . . chiamava indegno suo nipote quando, ne era certo, non passasse notte in cui non sognava di possederlo. Era un uomo virile, in lui il fuoco bruciava alto ed era uso ai ragazzi, chi meglio di Pherio avrebbe potuto riempire i suoi sogni visto che non poteva riempire le sue braccia? 
E quel vero nobile e giovane biondo li aveva visti una notte e aveva udito il sussurro strozzato di Astre, aveva visto e aveva taciuto. Niente domande, niente richieste; il giorno successivo l'aveva trovato identico a quello che era stato, forse solo un poco più scostante. Mai più, da allora, gli aveva sfiorato un solo lembo di pelle: Astre poteva ormai toccarlo solamente quando gli curava ferite, altrimenti gli dedicava solo sguardi e silenzi. 
Era gelosia quella che vedeva bruciargli negli occhi?
Non era mai riuscito a comprendere davvero cosa gli passasse nella mente e di fronte al suo silenzio, all'assenza di una qualche reazione, avrebbe forse dovuto scoraggiarsi. Ma Astre non era solito dichiarare perduta una partita fino a che tutti i pezzi non fossero andati come lui desiderava. 

Dopo essersi infilato fra le braccia di un nobile e non uno di quegli stupidi nel suo paese... si trattava niente meno che di anziano spartano, come poteva essere impossibile conquistare il suo meraviglioso nipote?



'Katà tiumon' = nell'animo/nel cuore



 
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