NOTE: i personaggi sono nostri! Idrio e Pirecrate sono di Kalahari e Pherio e Astre di Dhely. In compenso, però, non ci guadagnamo nulla da nessuno di loro!



Di odio e di amore

di Dhely e Kalahari

Parte 3/?


In quella giornata, la dea Artemide Kourotrophos abbassava i suoi cerulei occhi e li puntava su una città in particolare, una città che a lei sola donava una devozione esclusiva. In Sparta il suo tempio non era elegante e imponente come quello di Efeso, centro nevralgico del suo culto. Le colonne non svettavano così bianche ed eleganti, le are non erano così soffocate da doni, il timpano non era tanto decorato eppure lì, più che in qualsiasi altro luogo, la dea si saziava di sangue e onore e rigore. Era in Sparta, infatti, che il suo epiteto di educatrice di giovani aveva più senso e gli spartani erano orgogliosi di questo.
Più di duecento persone assistevano, ragazzi, padri, fratelli, parenti, mentori, perfino qualche donna discretamente a distanza, erano lì a presenziare a quella cerimonia sacra, a quella dimostrazione di forza e coraggio, di fronte alle are pesanti, stretti in una piazza, un luogo solitamente piacevole, in cui quotidianamente era semplice intravedervi ragazzi stesi a godersi la frescura di un riposo dopo un duro allenamento, o piccoli capannelli di uomini che discutevano. Una zona della città amata e frequentata chiamata colloquialmente 'la Pista'.
Era semplicemente uno spiazzo, stretto e lungo, circondato dagli alberi dal tronco spesso e scuro, aperto su un tempio disadorno, ampio e pesante. La statua della dea in armi fissava tutti loro, dall'alto del suo piedistallo, con il sole che, scintillante, rendeva la pietra fulgida nel pomeriggio così come lo era sotto la luce diretta della luna. La Sacra Cacciatrice, immobile e silente, veniva a esigere il suo scotto di sangue e dolore da coloro che, i migliori, potevano soddisfarla meglio.
Di fronte a lei gli alberi, alti e frondosi, frusciavano lentamente nell'aria pesante per l'aspettativa e il timore. Al più imponente di quei tronchi era assicurata una sbarra, alla quale i ragazzi si avvicinavano in silenzio, afferrandola con una preghiera sulle labbra mentre due compagni si inginocchiavano accanto alle radici, due amici che avrebbero soccorso colui che veniva sottoposto alla prova quando avesse rischiato di crollare nella polvere, indegno e sconfitto dal dolore.
Era una cimento in cui, in qualunque momento, il fustigato poteva far terminare il supplizio semplicemente lasciando la presa e cadendo in avanti, cosa che spesso accadeva, quando il ragazzo non era abbastanza forte per sopportare il dolore. Nel corso degli anni si era tramutata in una sfida quasi assurda: le frustate venivano contate, e maggiore onore andava a colui che sopportava in maggior numero quelle staffilate pesanti e cadenzate che calavano sulla schiena con uno schiocco secco; rami di betulla giovane, flessuosa venivano scelti appositamente e offerti alla dea la notte precedente. Poi, purificati dal contatto con la sacra ara, venivano schiantati sulle schiene e sulle spalle nude dei ragazzi più forti che venivano scelti appositamente, offrendo loro il grande onore di mostrare direttamente agli dei la tempra del proprio spirito.
Pherio prese un profondo respiro avvolgendo i palmi e le dita intorno alla sbarra resa calda dal contatto con altre mani. Sentì i due istruttori, alle sue spalle, mettersi in posizione. Altri due ragazzi, Dianece alla sua destra e Teriandro alla sinistra erano inginocchiati e lo guardavano, preoccupati, ma lui si limitò a sorridere tranquillizzante mentre l'occhio sinistro era sfiorato dai capelli che, lunghi e lisci, come se fossero stati una cascata d'oro fuso scintillante sotto quel sole a picco, gli scivolavano in avanti appoggiandosi su una spalla per poi cadergli sul petto. Poco dopo che Apollo era salito sul suo carro lucente per reiniziare un nuovo giorno, Astre, alzandosi prima del solito, come Atena meticolosa davanti ad una tela, con un sottile pettine d'avorio, raffinatezza che con sè aveva portato lasciando la sua terra, glieli aveva pettinati a lungo. Non c'erano state parole fra loro, non ce n'era alcun bisogno, Pherio sapeva bene cosa Astre avrebbe voluto dirgli, dell'assurdità di quella prova, dell'inutilità di quel dolore. E Astre conosceva altrettanto bene la risposta di Pherio: onorare le tradizioni.
Già venti ragazzi erano caduti ai piedi del Tempio della dea, durante quella giornata, e altrettanti li avrebbero seguiti prima del termine. Due ragazzi erano già morti, si erano impediti di gemere e di lasciarsi andare, travolti e annichiliti dall'orrore del disonore e tutti avevano assistito senza fiatare a quel sacrificio. Il rituale non venne sospeso per quegli incidenti, non succedeva mai e Pherio non capiva perché avrebbero mai dovuto: era un onore essere scelti, era una responsabilità dorata essere al centro dell'attenzione non solo della polis tutta ma pure del cielo, perché lui era certo che gli dei, seduti sull'Olimpo, ora fossero assisi intenti ad assistere a quella cerimonia, sorridendo soddisfatti per ogni scudisciata che si aggiungeva sulla stessa schiena.
Non era il suo primo anno, quello, sapeva bene cosa attendersi. Dopo dieci frustate la pelle, resa resistente dall'allenamento, iniziava a segnarsi. 
Dopo trenta sbocciavano i primi tagli, a cinquanta il sangue lo si sentiva scorrere rapido colando sempre più copioso sulle gambe. Rari erano quelli che arrivavano a cento. Pherio, l'anno precedente, ne aveva sopportate centosettantatrè. Quest'anno suo zio, il capo della sua famiglia, il forte e  nobile Kakeo, gli aveva detto che, per l'onore di Sparta e dei Panfili, si attendeva che arrivasse almeno a duecento.
Duecento.
Pherio chiuse gli occhi cercando di concentrarsi su qualcos'altro che non fosse il suono secco delle staffilate di legno che gli si abbattevano sulla schiena. Duecento.
Conosceva bene suo zio, e lo sguardo che aveva indossato nel fargli quella richiesta, nell'ordinargli quell'impresa, significava che avrebbe fatto meglio a sopportare, o sarebbe sceso lui stesso, sulla Pista, e l'avrebbe fatto arrivare a duecento a costo di strappargli la pelle di dosso. Novello Tiresia . .
Vide le labbra di Dianece formare, sottovoce, un numero, trentasei. 
Solamente? Pherio strinse quasi spasmodicamente le mani intorno alla sbarra tenendo ritto il capo, tendendo la schiena. Da quella posizione riusciva a vedere solo l'altare della dea, la sua statua e null'altro. Gli schiocchi risuonavano quasi echeggianti contro il frontone decorato appena, sembravano rimbalzare contro quel cielo troppo azzurro, troppo denso e dal colore troppo carico.
Non c'erano altri rumori in tutto il cosmo e lui non riusciva a non sentirli. Non riusciva e questo era male. Era peggio che 'male', era mostrarsi indegno, era essere debole, era piegarsi al dolore, era essere sconfitto da se stesso.
Era peggio che essere battuti da Pirecrate, essere gettati nella polvere da quel focoso arrogante che continuava a considerare la forza e la virtù come qualcosa che si potesse misurare dall'aspetto esteriore. Era peggio che far crollare l'importanza della propria famiglia nella Gerousia per un combattimento alla pari, con un guerriero di valore come lui, per quanto testardo.
Pirecrate . . Pirecrate non era ancora arrivato. Era lui lo sfidante,doveva toccare a lui, ora, avrebbe dovuto esserci lui attaccato a quella dannata sbarra, sotto quel sole ardente che, attraverso le ferite, gli arrivava fino al cuore, graffiandoglielo, arroventandoglielo! Dove diavolo s'era ficcato quel cocciuto? Cosa poteva averlo trattenuto? Era la *loro* sfida, come sempre, come ogni respiro, come ogni attimo della loro vita.
Chi avrebbe sopportato di più? Chi avrebbe resistito? Chi avrebbe vinto? La polis intera se lo chiedeva mentre lo guardava stringere i denti e tacere. 
Sparta tutta si domandava, ogni mattina, se quello sarebbe stato il giorno in cui uno dei due sarebbe finalmente riuscito ad uccidere l'altro o almeno ad umiliarlo ad un punto tale da render vana qualunque possibilità di rivincita. Il sangue del traditore oppure il sangue illegittimo? Chi dei due si sarebbe mostrato meno degno di essere ammesso all'interno della sacra Sparta?
Novantadue.
Deglutì appena. Il sangue lo sentiva scorrere giù dalla schiena, scivolargli sui muscoli, sui glutei, fino ad avvolgergli le gambe. Se avesse avuto la forza di chinare il capo avrebbe forse visto una pozza carminia intorno ai propri piedi? E avrebbe forse riflesso quel cielo vuoto che ora sembrava un enorme occhio senza palpebre? La sacra Gea si stava nutrendo della sua linfa vitale, ora, la madre che si nutriva del figlio.
Dove poteva essere Pirecrate? Poteva forse essergli successo qualcosa? Un incidente che gli avrebbe tolto per sempre la possibilità di mostrarsi nettamente superiore a colui che, unico in tutta Sparta, poteva dargli realmente del filo da torcere?
Centoquindici.
Iniziava a girargli al testa. Faceva caldo, un caldo terribile, bruciante, che gli ardeva la gola, eppure i muscoli erano iniettati di gelo come se il suo corpo fosse divorato dalla febbre. Sentiva il sudore colargli sulla fronte, finirgli negli occhi. Non avrebbe potuto guardarsi intorno neppure se avesse voluto, ormai.
Ma in effetti non era un cruccio, non aveva nulla da guardare. Non aveva nessuno da guardare.
Pirecrate non c'era, e poi non doveva certo preoccuparsi di controllare le sue mosse, non doveva assicurarsi contro i suoi assalti improvvisi, ora. 
Neppure quel folle scalmanato avrebbe mai pensato di utilizzare una cerimonia sacra come pretesto per attaccar briga.
Suo zio, l'anziano Kakeo Panfilio, era fra le file della Gerousia, gli  Anziani della patria, schierati a semicerchio, immobili e silenziosi spettatori immancabili di quello spettacolo nel quale non avrebbero mai potuto intervenire se non per qualche gravissimo motivo.
Aspasia era probabile stesse già facendosi forza per assistere senza essere ulteriormente turbata dal segno del suo cedimento. Lei . . la sorella che non aveva mai avuto, la cugina che sua madre aveva cresciuto in nome e ricordo di quel fratello defunto al fianco di suo marito nel difendere la Patria, l'unica donna a cui andava il suo affetto. .
E Astre . .
Centotrentotto.
Astre non era un pensiero da avere, non ora che la betulla mordeva la carne. 
Non ora che la pelle era ridotta a un unico strappo, non ora che i muscoli stavano venendo intaccati, non ora che il suo sangue colava così copioso e sentiva il suo calore allontanarsi e il suo cuore tremargli in petto e i nervi in fiamme, e la mente sconvolta . .
Eppure sapeva che Astre era lì, presente. Scuotendo il capo, come di solito, quello sguardo incredulo, lievemente sprezzante e le sue labbra piegate in un ghigno amaro di derisione, perché preoccupato non l'aveva mia visto. Non per lui. Non ci sarebbe stato alcun motivo perché Astre fosse stato in ansia per lui . . che razza di pensiero!
Astre era solo . .
Centocinquanta.
Altre cinquanta. Cinquanta come . . come i giri di corsa della palestra che si era meritato quando era stato troppo tenero con uno dei ragazzi che erano stati messi ai suoi ordini. Cinquanta soldati delle truppe d'assalto, le solite otto colonne, si sarebbero disposti in sei file e ne sarebbero avanzati . . si leccò nervosamente le labbra.
Sentiva nella testa la sua voce, la voce di Astre, beffeggiare i loro usi e chiedergli come poteva un ragazzo intelligente sottostare a quelle . . barbarie ma lui aveva e avrebbe avuto sempre e solo un'unica risposta: rispetto delle tradizioni.
Sentì la sua risata, addosso, e la sua voce farsi caustica e il suo sorriso aprirsi e quegli occhi illuminarsi maliziosi e quel corpo avvicinarsi, premergli contro, strusciarsi leggermente. 'Sarebbe rispettoso se ti baciassi?'
No! Certo che no!
'E allora perché non volevi staccarti da me, quella sera? Perché non fai altro che desiderarmi?'
No!
'Sempre. Tu mi desideri sempre.'
No, certo che no. C'era un errore. Lui non capiva . . e la sua risata che era peggio che quelle staffilate sulla schiena.
'Ma perché ti agiti tanto? Non ti sarai per caso innamorato?!'
Innamorato? Lui? Di uno straniero? Non c'erano neppure da pensarle, certe cose. Quella sera era stato solo un cedimento, una debolezza. Anche i più grandi fra i grandi potevano cadere nell'errore, una volta nella loro vita. Non c'era nulla di strano, o di nuovo. Anche Eracle, il loro progenitore divino . .
'Sì . . '
Risate, nuove risate, che Astre non aveva mai riso, ma che Pherio aveva sentito chiaramente dentro di sé. Erano gli dei che ridevano di lui, erano gli dei che lo schernivano: il grande spartano che stava per crollare in ginocchio di fronte a quel figlio di persiani? Era quello il suo onore? Era quello difendere il proprio onore e il nome della propria città? Era quello che doveva mettere a nudo sotto i loro luminosi occhi quella prova: il suo spirito, non i tendini che coprivano la schiena! E lui, Pherio, si dimostrava indegno della loro simpatia in quel modo! 
"Pherio! - il sussurro di Teriandro riuscì appena a raggiungerlo - Lasciati andare! Apri quelle dannate mani! Muoviti! Non ce la farai ancora per tanto . . "
Dianece contava.
Centottantanove.
Come aveva potuto? Gliel'aveva detto. Era innamorato di Astre, uno straniero . . un *persiano* e gliel'aveva detto! Il colmo dell'assurdità! Aveva parlato . . in una notte oscura, il vento bollente dell'estate che bruciava i pensieri, i falò lontani che punteggiavano la piana indicando la posizione dei compagni partiti per una campagna. La campagna da cui, lui con il suo plotone, era appena tornato. Era sveglio per portare a termine un qualche compito per i suoi superiori ma non ricordava con chiarezza certi particolari. Altro era fisso e ben chiaro nella sua mente.
Le stelle che bruciavano in cielo. E i fuochi che punteggiavano la terra come a tentare di soffocare in quel modo la gelosia che provava nel sapersi sempre spenta e scura. Ed era tutto arso intorno a lui, e dentro. 
Soprattutto dentro, il suo cuore spazzato da troppe tensioni, troppi timori, troppi pensieri confusi e forti e ardenti. Astre era al suo fianco, la sua mano che sfiorò la sua, la gelida sensazione che gli ondeggiò sulla spina dorsale, il suo insolito silenzio . .
Centonovantasei.
'. . ho paura . . '
Centonovantasette.
'Di cosa Pherio? Mi hai detto che la campagna è andata bene. Cos'è successo?'
Centonovantotto.
"Pherio! Lasciati andare!"
Centonovantanove.
'Astre? Mi sono innamorato.'
Duecento.
'Di te.'
Pherio lasciò la sbarra, crollando sul proprio sangue, sulla polvere. 
L'oblio ebbe pietà di lui.
Kakeo, seduto proprio nella parte centrarle di quel semicerchio, non mosse un singolo muscolo, né del corpo, né del viso e sembrava circondato da aria piena d'elettricità tanto da parere rialzato rispetto agli altri.
Una voce, il geros della famiglia degli Ilei, tuonò possente rimbalzando contro oggetti, fronde e persone, in tutto lo spiazzo. L'unico suono oltre le staffilate contro la schiena chiara del Panfilo da quando il fustigatore aveva iniziato il rito sacro . .
"Solo una persona è riuscita mai, in tutta la nostra storia, sin dai tempi di Eracle, a donare ad Artemide più di duecento colpi" e il suo sguardo si rivolse verso il nobile Kakeo, che ancora portava sulla pelle della schiena i segni delle duecentoquaranta sferzate.
"Non gradisco lodi non meritevoli, Ileo: mio nipote è debole, mio nipote non è stato in grado di sopportare più di duecento colpi e l'unico modo per onorare la famiglia è, avendone rispetto, emulare gli antenati. - intanto i compagni avevano portato via Pherio ed Astre nell'ombra li aveva seguiti, rasentando la via parallela con passo veloce a quella che gli altri avevano preso, unguenti nascosti dentro una borsa di pelle di capra - Chi non riesce ad onorare la famiglia non merita d'essere detto cittadino di Sparta." 
"Ma l'avversario non si è presentato! - riprese l'Ileo guardando tutti i presenti che continuavano a trattenere il respiro - Dove è il valente Pirecrate? - chiese ma al suo richiamo nessuna risposta venne - Dobbiamo considerarlo sconfitto per abbandono?" ed esserlo significava aver chiuso con Sparta, per sempre. La rinuncia ad una battaglia che ancora doveva iniziare era quasi peggio di una fuga: per quest'ultima la pena era la morte per mano di un parente che conosceva differenza tra cose onorevoli e cose non, mentre per la rinuncia a sfida non iniziata la morte non bastava. 
Peggio della morte per uno Spartano era o il disonore o . . l'esilio. 
Tutti si guardavano intorno cercando la persona al centro dei pensieri di tutti. Nella folla immobile c'era anche Idrio, che non aveva sopportato la vista di quell'atrocità e aveva distolto lo sguardo, grave anche di quel silenzio opprimente che pendeva tutto intorno alla città. Sperava con tutto il cuore che Pirecrate rinunciasse a quel rituale degno di barbari, non...
"Sono qui." una voce profonda ruppe la silente aria riecheggiando e tutti gli occhi si rivolsero verso l'ingresso alla piazza; le gole si serrarono e le nocche di tutte le mani si imbiancarono dalla tensione. Persino il vento sembrò arrestarsi per qualche secondo di fronte a quella presenza giovane eppur forte.
Pirecrate osservava da lontano l'altare, niente altro, stante, coi piedi ben piantati per terra, gli occhi lontani e poi iniziò a dirigersi verso gli alberi con passo spedito e sicuro, illuminato dai raggi del sole pomeridiano; Idrio lo guardò con orrore e istintivamente si mosse per correre e cercare di fermarlo, per urlargli a pieni polmoni che non poteva sopportare una cosa simile, ma Aristide, al suo fianco gli prese il braccio e lo costrinse a rimanere seduto, stringendoglielo forte e sussurrandogli in un orecchio 'Fermo, ateniese'.
"Pirecrate dei Dimani, sai benissimo quali sono le nostre regole dal tempo di Licurgo." il capofamiglia degli Ilei disse, come Ade si rivolge alle anime dannate negli antri profondi di Dite, dove freddo e caldo non hanno più significato ma sono un'eterna tortura per le anime che non hanno avuto rispetto per gli dei.
Tutti gli sguardi, tutti i pensieri, Pirecrate, anche se non li vedeva o non poteva scorgerli, li sentiva come un peso insopportabile sulle spalle, ma il vero macigno che gli schiacciava il cuore a terra era un altro. 
"Non ho intenzione di trasgredire le leggi e chiedo perdono per il mio comportamento." affermò con decisione arrivando davanti al semicerchio a capo abbassato.
"Non hai fatto onore alla tua onorevole famiglia, Pirecrate!" aggiunse un altro anziano, pieno di cicatrici per tutte le battaglia da cui era uscito vincitore e valoroso; il significato reale era evidente: 'come tuo padre . . 
'. Ma Pirecrate non poteva ribattere, solo mordersi la lingua, quando si trattava di un superiore.
"Lo so. Quante frustate ha sopportato Pherio per la dea?" chiese, cercando di tenere le ginocchia ferme. Nonostante il bagno al fiume gli avesse dato un po' di refrigerio, grazie alle acque fresche, il calore della febbre era tornato più intenso che mai; faticava a tenere la voce regolare per non far percepire l'affanno. La ferita che gli aveva fatto Pherio gli stava bruciando . . ma in nessun caso si sarebbe arreso o avrebbe rinunciato, quindi non indugiò sul suo dolore e sulla sua instabilità fisica.
"Duecento. - il numero lo colpì come una folgore di Zeus, lasciandolo interdetto - Adesso va', dimostra con la tua volontà che possiedi coraggio!" 
Pirecrate, conscio di essere solo come non mai, si avviò con ferrea volontà nel luogo stabilito.
Poggiò le mani sopra l'asta, felice d'avere un appoggio su cui contare, e non si stupì che l'unico ad essere inginocchiato vicino a lui era il compagno che saggiamente quel giorno gli aveva consigliato di curare la ferita. Questo lo guardò mentre si metteva in posizione e gli sussurrò, quasi lasciando che le parole si fermassero alla barriera della labbra. . 
"Hai la febbre. - e la prima sferzata fu data. - Uno." iniziò a contare, inginocchiato davanti al suo dio.
"Non è una questione che ti riguardi. - sospirò Pirecrate con negli occhi d'azzurro scurissimo lingue di fuoco - A me ci penso io!"
"Due." il ragazzo poteva palesemente vedere la pelle bruna dell'altro in piedi piena di rossori e riusciva a sentirne il bollore nonostante non ne fosse a contatto.
Aristide, vedendo la reazione del piccolo Idrio alla scena, mentre la pelle di Pirecrate cominciava a squarciarsi, mise una mano sui suoi occhi. Il ragazzo non reagì ma si appoggiò al petto dell'uomo più anziano, mentre lacrime senza gemiti iniziavano a bagnare quella mano gentile. 
"Perchè?" singhiozzò pianissimo.
"Da sempre è così." disse quell'altro, non staccando per un attimo gli occhi dalla scena.
"E' assurdo!" non poteva concepire una cosa simile: erano tutti dei pazzi, erano folli . . era assurdo . .
"E' così." sentenziò Aristide, mentre il cuore gli ebbe un tremito nel vedere Pirecrate non cedere di fronte allo strazio delle frustate; sapeva che non stava bene fisicamente: mentre si trovava tra i campi vicino alla città lo aveva visto scendere di corsa e con passi irregolari la strada verso il fiume, lontano dagli occhi di tutti, e si teneva il fianco con una mano mentre si muoveva veloce come un ghepardo. 
Aristide sospirò socchiudendo le palpebre: era perfettamente cosciente del fatto che Pirecrate, se avesse continuato con la sua caparbietà, in quelle condizioni non avrebbe lasciato vivo l'ombra di quell'albero.
"Centoventi." continuò il ragazzo dai riccioli neri, vedendo gli occhi di Pirecrate serrarsi in un'evidente smorfia di dolore. Riusciva ad essere magnifico anche nella sofferenza, anzi. . Antinoo non sapeva proprio che espressione avesse quando nessuno stava intorno a lui. 
Pirecrate riaprì gli occhi, respirando a fondo, mentre la schiena era nelle fiamme dell'Oltretomba, ma cercando di prendere la concentrazione necessaria: l'unico modo per sopportare era non pensarci affatto, era cercare di distogliersi dal dolore oppure divenire il dolore stesso fino a che la mente non si fosse annebbiata dallo sforzo e dall'agonia. 
L'anno precedente era arrivato a centosessantanove, ogni colpo dopo i cento peggiore dell'altro, sempre sempre sempre peggio, senza possibilità di respiro fino a che non si riusciva più neanche a distinguere se la frustata era data perpendicolare alla spina dorsale, oppure obliqua partendo dalle spalle: solo un immenso e indistinto bruciore infernale e i muscoli sotto gli spasmi violenti dello schiocco sulla carne viva . . prima di crollare a faccia in giù sul terreno, senza sensi, ancora prima di lasciare la sbarra con le mani.
Ma lui non era come gli altri, lui poteva arrivare dove nessun altro poteva, lui *sentiva* dentro di poterci riuscire ma ogni volta, ogni anno che Artemide lo guardava patire in suo onore quegli strazi, gli occhi rivolti e pesanti su di lui, piccolo uomo davanti agli dei . . cadeva . . cadeva . . 
Duecento . . in quell'istante, mentre forse sentì Antinoo pronunciare centotrentatrè, gli sembrò più lontano che mai . .
Gli venne da piangere per la frustrazione, non dal dolore: era questo tutto quello che contava? Perchè perchè perchè tutto si ripeteva come un cerchio senza fine? Mani sulla sbarra, denti stretti e intenzione, ferrea intenzione, maledizione!, tutta la volontà che aveva, tutti gli allenamenti cui si sottoponeva per poter vincere quella prova davanti agli dei e agli uomini . . NIENTE! Nelle braccia sentì aghi di piante steppose conficcati e poi un torpore sempre maggiore . .
Era solo questo tutto quello che sarebbe riuscito a fare?
Era soltanto il sapore acre dell'umiliazione della sconfitta che lui, Dimano, riusciva a tastare?
Possibile che non sarebbe mai riuscito a levare l'onta dal suo nome? 
'Ma davvero tuo padre ha abbandonato il campo di battaglia?'
Gli altri bambini gli chiedevano sempre con un sorriso di scherno sulle labbra ma tutti impararono presto che fare una cosa simile poteva costare due giorni di infermità su un letto. Minimo.
'Lascialo stare Cleode, è figlio di un traditore!'
Alzò gli occhi alla statua della dea guerriera, bellissima forma della donna immortale in eternità scolpita nel marmo rosato di quelle terre, come se il biancore avesse assorbito il sangue che le lame degli spartani avevano lasciato scorrere, lavandosi, nell'Eurota. Era bella Artemide ma era anche terribile . . esattamente come Sparta. Non erano solo gli occhi dei presenti a giudicarlo, ma quelli di *tutta* Sparta e di tutti gli dei. Cercò le forze per andare avanti anche se ormai non riusciva più a sentire le mani, ma solo i muscoli che urlavano per quell'abbattersi sulla sua schiena di una frusta impietosa.
Solo e soltanto quello . . riuscire a lavare la macchia di disonore, ecco ciò che voleva . . ciò che *doveva*!
La gente camminava per le strade, i compagni si esercitavano con le armi e ogni volta che passava riusciva quasi a sentire i loro pensieri: 'il figlio del traditore . . sarà anche lui come suo padre?'; tutte le volte che vedeva un anziano egli non esitava a guardarlo come Minosse che non aspetta altro che coglierlo in fallo per condannarlo per sempre e viveva nel terrore e nella paura di non fare bene niente o di non fare abbastanza.
I muscoli iniziavano a strapparsi . . ai lati della mente si insinuava come un'Hydra, viscida e subdola, una specie di oscurità, un torpore che . .
NO! Doveva riuscire a lavare l'onta una volte per tutte, avesse dovuto raschiarla via con un sangue e con le proprie carni.
Non sarebbe stato come suo padre, non avrebbe abbandonato una battaglia, MAI. Sedici anni prima, una battaglia presso Atene. .
Lui era l'ultimo Dimano . . oltre a lui non c'era più nessuno della sua gente . .
Mai e poi mai sarebbe stato come suo padre. .
"Centocinquanta." la voce dell'altro era chiara ma le sue orecchie non sentivano, stava scivolando lentamente nell'oblio: la febbre saliva e la perdita di sangue non aiutava . . eppure non aveva intenzione di lasciarsi andare, anche così avrebbe dimostrato di essere valoroso . . anche se così, però, non sarebbe riuscito a battere Pherio.
"Fermali Aristide!" supplicò Idrio, ancora in petto al conducente di carri, a colui che gli aveva fatto un po' da padre quando il suo era morto in una battaglia nei pressi di Atene, sedici anni prima.
"Non posso." sentì sospirare sopra il suo capo.
Il corpo di Pirecrate si tese in un'unica contrazione ma le mani non lasciarono l'asta; i ragazzi si lanciarono occhiate che non avevano bisogno di parole e qualcuna delle loro bocche si tese in una smorfia di tensione. 
"Cederà." qualcuno più scettico disse incrociando le braccia.
"Non cederà." disse qualcun altro sedendosi meglio, cercando una posizione sul terreno più comoda.
"Giochiamoci una colazione, un pranzo e una cena."
"Ci sto!"
Aristide staccò per qualche secondo lo sguardo da Pirecrate per lasciarlo indugiare sulla figura di Kakeo, il quale, come ad aver percepito l'osservazione girò il capo verso di lui. Un attimo e il vento sembrò scontrarsi a metà strada tra i due. Il vecchio conducente di carri fu il primo a distogliere gli occhi, sospirando . .
Kakeo non avrebbe mai potuto comprendere niente di quello che era successo, non avrebbe *voluto* capire.
All'improvviso nel silenzio una voce si alzò più in alto di quanto volano le aquile nel cielo.
"Fermi!" fu proprio Kakeo ad alzarsi, lasciando lentamente il semicerchio degli anziani e percorrendo la piazza, macchiata qui e lì di schizzi e rivoli di sangue. Tutti lo guardarono sorpresi da quella interruzione improvvisa.
Arrivò davanti a Pirecrate, fermandosi prima di sporcarsi i sandali con il sangue di quel figlio d'un cane.
"Cosa credi di fare?" chiese come se fosse stato Zeus, sceso dalle sedi degli immortali per parlare con gli uomini, davanti all'eccelso e antico tempio dorico di Artemide Orthia; la statua della dea, persino lei, sembrò abbassare gli occhi per osservare quello scontro tra Ares e Giove. 
"Che accade, Kakeo?" un anziano chiese dalla sua postazione.
"La prova è sospesa." la voce grave non potè non giungere alle orecchie di Pirecrate, se non proprio come frase, semplicemente come tono . . e *capì*.
"P-perchè?" chiese stringendo con forza il ferro.
"Per quanto ti sforzerai, il nome della tua famiglia resterà sempre macchiato . . è inutile morire per niente." continuò facendo cenno ai due insegnanti che sferzavano di ritirarsi. Il ragazzo ai piedi di Pirecrate aprì le labbra per ribattere ma parole non ebbero il coraggio di uscire fuori dalla bocca.
"Io . . laverò l-l'onta . . non potete impedirmelo . ." continuò Pirecrate tenendosi in piedi grazie alla forza nervosa che gli tendeva i tendini delle braccia, permettendogli di rimanere saldo alla sbarra.
"Posso impedire questo spettacolo pietoso di un indegno che tenta di sopportare la prova dei migliori." e lo disse senza cambiare il tono di voce, perennemente profondo, perennemente grave, perennemente senza riso.
Antinoo, ai piedi di Pirecrate, guardò prima il nobile voltarsi per ad allontanarsi, poi posò gli occhi sull'altro ragazzo: aveva abbassato il capo, gli occhi chiusi stretti e le labbra serrate.
I muscoli delle braccia si rilassarono e le dita iniziarono a scivolare via dal ferro: prima il palmo, poi le prime falangi e. .
Altrettanto inaspettatamente ed improvvisamente ripresero con forza la sbarra. Pirecrate rimise bene i piedi riassicurandoli sul terreno reso fanghiglia dal sangue e girò il capo per quanto gli squarci sulla schiena gli permettevano e si rivolse ai due uomini che avevano il compito di sferzare.
"Continuate, io non mi muovo di qui." questa volta fu una piccola esclamazione a sfuggire dalle labbra degli altri, mentre Antinoo si rivolse piano all'altro, guardando verso l'alto.
"Ma sei impazzito?" gli chiese e vide gli occhi già lucidi di febbre di Pirecrate inumidirsi e una piccola lacrima scivolargli giù confondendosi con le gocce di sudore.
"Voi non potete capire . ." non potevano immaginarlo cosa significasse essere il Dimano Pirecrate. Solitudine . .
Kakeo si fermò irrigidendo la schiena, lanciò uno sguardo verso un lato della piazza, in un punto un po' discostato e rivide Aristide.
Aristide . . il padre che Pirecrate non avrebbe mai avuto.
"Ti stai ribellando alle leggi, Pirecrate?"
"Le leggi non mi vietano di fare la prova!" rispose a denti stretti, anche se le mani sul ferro ricominciavano a perdere presa per la debolezza e il sudore.
"Ti stai ribellando alla gerarchia?" Kakeo si girò camminando gravemente verso l'ammasso di carne e orgoglio insanguinato, testardo. Come il padre . .
Pirecrate non rispose niente, teneva lo sguardo fisso su quello di Kakeo: non avrebbe ceduto.
"Lascia quel ferro." Kakeo ordinò ed era una cosa gravissima: un anziano non doveva ordinare, a Sparta, per far sì che una cosa fosse eseguita all'istante.
"No."
"Se mi fai ripetere anche tu verrai cacciato da Sparta, come tuo padre." 
Da lontano Aristide sentì, bene, e dovette lasciare Idrio perchè stava iniziando a fargli male. 
"NO! Smettetela di parlare di lui!" Kakeo , sin da quando poteva ricordare, aveva sempre fatto di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote . . ma questo NO!, non poteva farglielo . .
"Pirecrate, lascia quel ferro!" il tono divenne quasi minaccioso; il capofamiglia degli Ilei si alzò ma quello con tante cicatrici lo bloccò. 
"Se la devono vedere tra loro." disse. Era una questione di tutti, ma il vero problema era un odio di famiglia: Kakeo e il padre di Pirecrate erano stati . . intimi fino a quel giorno. . quel giorno in cui Aristide decise di autoesiliarsi invece di buttarsi su una spada per il disonore. 
"Pirecrate: è l'ultimo avvertimento." intimò Kakeo ed Antinoo mosse una mano tramante cercando il piede affondato nella terra mista a sangue di Pirecrate, poi alzò lo sguardo cercando i suoi occhi, ancora fermamente piantati su quelli dell'uomo anziano, come due belve che si squadrano a vicenda, anche se una è in piena consapevolezza di perire. Ma non se ne cura.
Condanna a morte, fu quello che pensarono tutti.
Le braccia di Pirecrate tremarono e con un gesto secco tirò via le mani dall'asta e le braccia gli ricaddero lungo il fianco. Non cadde in ginocchio, passò accanto a Kakeo a testa alta, senza neanche guardarlo e un passo dietro l'altro, lasciando impronte insanguinate sulla terra, raggiunse l'uscita dello spiazzo.
Kakeo rimase in silenzio ma fece un cenno col capo agli altri anziani. Non tornò nel cerchio, mentre tutto intorno ancora tutto taceva, e anche lui si diresse verso l'uscita dello spazio libero, con alle spalle il tempio di Artemide che già iniziava a tingersi del rosso cremisi del tramonto. Più si allontanava dal centro, più la gente ebbe il coraggio per parlare e, quando giunse ben dopo le file degli spartani vide la sagoma di un uomo anziano: Aristide.
"Non credevo che Sparta avesse iniziato a insegnare cosa sia l'umiliazione." disse Aristide non parandoglisi davanti, ma con abbastanza decisione da farlo rallentare. Non aveva perso un centimetro della sua notevole statura.
"Non addossare sugli altri le colpe delle conseguenze che tu stesso, con le tue azioni, hai generato." gli rispose Kakeo, senza guardarlo negli occhi.
"Non mi hai mai chiesto perché."
"Nessuna azione cattiva ha giustificazioni." e iniziò a risalire verso l'acropoli mentre un brusio sempre maggiore era nato dietro le loro spalle. 
"Egoista." sussurrò.
Per qualche minuto rimase immobile guardandola forma di Pirecrate svanire verso vicoli bui delle case quando una voce lo riportò alla realtà . .
"Aristide?" chiese Idrio venendogli vicino.
"Sì, piccolo?" si ricordò quando mentre la battaglia infuriava anni prima, un bambino intorno alle mura della città si era perso. Non c'era nessun altro: quella giovane vita dipendeva da lui . .
"Dove sarà andato Pirecrate?" chiese con gli occhi lucidi.
"Non lo so" per lui una vita valeva più del suo onore . . Pirecrate . . Pirecrate . . non avrebbe mai voluto fargli una cosa simile, quando già la madre era morta dandolo alla luce ma pensava di fare la cosa giusta lasciando che rimanesse a Sparta.
E tutta la rabbia che il giorno del loro arrivo, da un'ombra lontana osservando il duello, aveva visto in quegli occhi, era una sua responsabilità.



 
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