Diary parte IX di Katsushika
16 SETTEMBRE La mia personalissima via crucis, il mio purgatorio in terra è durato nove giorni. Me lo ha comunicato Aaron oggi. Io non ricordo l’alternarsi di luce e buio, solo infinite variazioni della mia sofferenza, varie sfumature di dolore sempre lancinante - come se il mio corpo si stesse ribellando, ricambiandomi di tutto ciò che ha dovuto subire in questi anni. Ho pensato più volte di morire, ho sperato più volte che succedesse, ma Aaron era sempre lì, unica ancora a cui aggrapparmi in quella tempesta di spasmi e crisi isteriche. Ad alternarsi, a vegliare con lui, un uomo che Aaron chiamava Doc, ma che tutto sembrava fuorché un medico. Eppure era lui a visitarmi, a controllare i miei parametri vitali e a lasciare, all’occorrenza, pastiglie e fiale da iniettarmi. Oggi mi hanno annunciato che ne sono fuori, che – fisicamente - mi sono liberato in un colpo solo dalle mie tante dipendenze. Per il resto, sarà Aaron la mia medicina. Ha promesso che ci sarà quando avrò paura o mi sentirò solo, contro tutti. Lui sarà con me, per me, da adesso in poi, sempre. Mi ha chiesto se lo accompagnerò senza domandare, se eseguirò i suoi ordini, se mi fiderò di lui, qualsiasi cosa accada. Io non ho saputo rispondergli a parole, perché l’ho scelto così tanto tempo fa che ormai tutto questo è scontato. Mi basta che continui a ripetermi questa bugia, che tutto questo durerà, che si prenderà cura di me ed io lo seguirò ovunque vorrà. L’ho stretto forte, perché sentisse il mio cuore che correva impazzito, sul punto di esplodere e poi l’ho baciato come non avevo mai fatto, con dolcezza e trasporto, quasi in lacrime. C’era tutto me stesso in quel bacio e lui l’ha capito. A guardarlo adesso posso dire che questa forzata reclusione l’ha segnato più di me. Le rughe sottili sono diventate incisioni profonde sul suo viso, gli occhi ora cerchiati e febbrili non hanno però perso la capacità di incantarmi. Adesso le nostre ore sono piene di lunghi silenzi, come se questo fosse l’unico suono in grado di comunicarci vicendevolmente la gioia profonda dello stare insieme, del semplice, istintivo contatto.
“Vieni, usciamo!” Ed Aaron si alza di scatto e si dirige verso la porta senza neppure voltarsi. Adesso, dopo quella immota dentro la stanza, l’aria mi sembra così limpida e pulita. Rovescio la testa, mentre una gioia inspiegabile mi scoppietta dentro, allargo le braccia e fisso il sole, che adesso ha perso la sua aggressività estiva e mi accarezza col suo calore. La luce in questo tardo pomeriggio di settembre mi sembra così morbida, gentile, tanto da far sembrare anche questo malandato parcheggio di motel ed i bassi capannoni dall’altra parte della strada un paesaggio da fiaba. In silenzio ci dirigiamo verso il centro città, poi Aaron ferma la macchina ed accenna ad un’infilata di augusti platani. “Questo posto l’ho scoperto in uno dei miei giri. Facciamo una passeggiata.” L’ha detto senza guardarmi, e senza aspettare una risposta scende e si incammina verso il cancello d’ingresso. Ci inoltriamo nel parco che si sta svuotando, finché non arriviamo sulla riva di uno striminzito laghetto e lui mi fa cenno di sedermi su di una panchina. Fissa immobile l’acqua, mentre io fisso lui, con un senso d’attesa che mi rende sempre più inquieto. Ho la netta sensazione che stia per succedere qualcosa di epocale, uno spartiacque, con un prima ed un dopo. Nel tentativo di non pensare mi guardo intorno, ma è come se non fossi in grado di registrare e discernere forme e colori, così mi volto di nuovo verso Aaron, deciso a spezzare il silenzio. “Sei veramente deciso ad aiutarmi nelle mie… attività? Ti è chiaro cosa comporta?” E mi colpisce il suo tono neutro, come qualcosa di molto freddo all’imbocco dello stomaco. “Ci vorrà un lungo addestramento, lungo e molto impegnativo,” prosegue come se parlasse a se stesso, senza permettermi di ribattere. “Dovrò essere inflessibile, capisci? Lo dovrò essere per il tuo bene. Non ti potrai riposare quando sarai stanco, non potrai rinunciare quando qualcosa non ti riuscirà a dovere. E quando alla fine ti avrò trasmesso tutte le mie competenze e le informazioni necessarie… Beh, allora non sarai più un comune, ignaro cittadino. Tu saprai. A quel punto la tua condizione sarà irreversibile, a quel punto uscirne sarà come tradire.” E la sua voce mi sembra sul punto di spezzarsi, tanto si è riempita di un chiaro senso di rimpianto. “… Ed il tradimento si punisce con la morte, sempre.” E solo su quest’ultima frase i suoi occhi si spostano su di me, ma adesso sono io a non essere più in grado di sostenerlo, quello sguardo. Torno a percorrere la riva di fronte a noi, già incendiata da un rado tappeto di foglie cadute, ed il placido specchio d’acqua mi sembra improvvisamente di un inquietante nero impenetrabile. Mentre ancora l’eco delle parole non accenna a spegnersi, perfino il silenzio che ci circonda comincia a diventare qualcosa di lugubre, foriero di sventura.
18 SETTEMBRE Ieri Aaron è tornato da un appuntamento a cui assolutamente non ha voluto che l’accompagnassi, con una grossa busta marrone. Ha detto trattarsi del nostro nuovo incarico ed ha sparso, come suo solito, il contenuto sul letto, cominciando poi ad analizzarlo attentamente. La novità è stata che questa volta anch’io ho potuto avvicinarmi ed esaminare i vari fogli. In realtà ciò che mi sono trovato in mano sono state alcune foto di grosso formato di un palazzo di uffici che non ho saputo riconoscere, davanti al quale si alternano un certo numero di persone, sempre diverse. Gli altri due fogli non sono meno misteriosi: una lista di dieci numeri a dodici cifre ed un insieme di date e luoghi. Il patto è non chiedere e così ho fatto. Mi sono predisposto ad aspettare che Aaron finisse di rigirarsi quei fogli fra le mani, cosa che è successa dopo quasi un’ora. Stamane invece mi ha detto che dobbiamo partire e che prima di farlo devo comprare dei nuovi vestiti e poi andare di nuovo in quel parco con lui. Ha poi aggiunto, con fare serio, che devo smettere di scrivere il mio diario. Non è opportuno, ha precisato - ben sapendo quanto mi faccia incazzare quando usa tono e parole così formali. Mi ha detto che ci potrà essere l’eventualità di dover partire all’improvviso senza passare per l’hotel di turno a recuperare le nostre cose e che ciò che ci lasciamo dietro deve essere anonimo, inutilizzabile da parte dei nostri inseguitori. Ho pagato in contanti per una t-shirt bianca, jeans rigorosamente non di marca, stivali ed un giubbotto usati, poi come mi ha ordinato ho strappato tutte le etichette e adesso il mio precedente ed esiguo guardaroba, camicia nera portafortuna compresa, è sul fondo di un bidone dei rifiuti a qualche isolato dal nostro motel. E’ ormai notte fatta quando arriviamo al parco e solo allora Aaron tira fuori una cassetta blindata, di quelle con la combinazione che si usano nei piccoli negozi e nei bar. Mi dice che è garantita impermeabile ma che per sicurezza l’avvolgeremo ancora in alcuni fogli di spessa plastica da imballo. Ci metto il mio diario e lui ci aggiunge una corposa mazzetta di pezzi da 50 dollari, poi mi chiede di posarci anche tessera sanitaria e documento d’identità. Questa non me l’aspettavo proprio e resto a fissarlo, anche se ho capito benissimo quello che mi ha appena detto. E’solo che scopro di non essere per niente pronto ad un passo simile. Con stizza mi butta addosso un pezzo di plastica con la mia foto, ma con sopra un nome ed una data di nascita diversi, che a vederlo così sembra davvero uscito fresco fresco dall’ufficio anagrafe di Hamilton , contea di Marion, Alabama. Una volta ancora rinunciare al mio nome, come quando i miei aspiranti genitori, pochi giorni dopo il mio arrivo, si affrettavano ad inventare per me assurdi nomignoli, quasi a voler cancellare il più in fretta possibile la mia identità e la mia storia. Ma è troppo tardi per dire qualcosa, per chiedere spiegazioni. Impossibile tirarsi indietro. L’impazienza non è nemmeno più dissimulata e la tensione sembra saturare l’abitacolo di quest’auto, tanto da far quasi scarseggiare l’aria. A fatica deglutisco un paio di volte, poi faccio come dice ed in silenzio lo guardo chiudere la piccola cassetta ed impacchettarla con cura, come promesso. Tutto ciò che sono stato, tutto il mio passato è ora in questa specie di bara metallica che stiamo seppellendo, nascosti fra le ombre di un grande faggio, nel segreto del parco chiuso al pubblico. Prima di riavviare il motore, per confortarmi e aiutarmi a scacciare questa specie di malinconia che mi pesa addosso, mi dice serio che ciò che ho appena fatto è giusto, che il vecchio Miki sarebbe stata un’inutile zavorra nel lungo viaggio che stiamo intraprendendo insieme, che a volte bisogna sapersi liberare del proprio passato per poter vivere appieno il futuro. Certo niente cancellerà i segni sulla mia pelle e le immagini nella mia mente, ma il mio destino mi siede acconto, per cui mi sforzo di sorridere e faccio cenno di partire.
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