Diary

parte VIII

di Katsushika


27 LUGLIO

Non volevo più scrivere di Aaron.

Non volevo che finisse in queste pagine, perché non c’entra niente con tutto il resto, non ce lo volevo confondere. 

Sono rimasto con lui in questi giorni. La mattina la passavo nella sua auto, il pomeriggio lo lasciavo ai suoi impegni, ma con l’accordo di ritrovarci al parco, cenare e passare la notte insieme.

Non ho mai fatto domande anche se, più di una volta, mi è stato evidente, che eravamo impegnati in veri e propri pedinamenti. Così come non ho potuto non notare le telefonate e gli incontri, che si svolgevano nei posti più improbabili.

Me ne sono stato zitto anche quella volta che d’improvviso mi ha intimato di scendere dalla macchina, mentre lenti percorrevamo una delle tante traverse di Capitol Avenue, nei pressi del fiume.

Semplicemente ha urlato di scendere e di ripercorrere la strada, nella direzione da cui eravamo venuti, il più in fretta che potevo. Ho ubbidito senza un fiato, ma mentre sentivo stridere le ruote dell’auto che a tutta velocità voltava l’angolo ho cominciato ad aver paura per lui; un’inspiegabile senso d’oppressione che avevo avvertito in auto per tutta la mattina mi è poi rimasto addosso e si è dissolto solo quando ci siamo ritrovati insieme, a notte fatta.

E’sempre stato evidente che non gli andava di parlare delle sue strane attività, ma quella sera, nel buio della stanza, mentre si sistemava sul fianco per prendere sonno, semplicemente ha affermato che ciò che fa è importante, che coinvolge molte persone e che, qualsiasi cosa accada, è giusto che io sappia che noi siamo i buoni della situazione.

Una verità pesante, sussurrata con tutta calma, come quando si vuole essere sicuri che chi ascolta comprenda ogni singola parola ed assimili ben bene il concetto.

Il suono della sua voce mi è rimasto nelle orecchie, come un’ eco. Quella voce profonda, come quella dei bravi attori di teatro, priva di accenti per merito dei buoni studi o forse, semplicemente, perché come me non è mai restato abbastanza tempo in un posto per assimilarne almeno la cadenza.

Mille altri dubbi ed interrogativi si sono affacciati nella mia testa, con i pensieri a girare sempre intorno a quella frase, ma sapevo che era inutile chiedere, e ad ogni buon conto qualsiasi cosa fosse saltata fuori sul suo conto, lui al momento era l’unico posto dove volessi stare.

Poi, questa mattina, ha aspettato che facessi la doccia e che fossi vestito per andare a colazione, per parlarmi.

Io era dal risveglio che mi sentivo strano, agitato, come se una minaccia mi pesasse sulla testa, senza che io riuscissi a capire cos’era.

Avevamo fatto sesso, e non lo facevamo mai di mattina. C’era un’urgenza nei sui gesti, in tutto il suo corpo, quasi una rabbia che sapeva di disperazione, che non c’era stata mai.

A sentirlo, a vederlo così, anch’io avevo finito per sprofondare in quell’emozione tragica e definitiva, lasciandomi travolgere da quel furore che poi mi aveva lasciato dolorante ed attonito.

“Mi sposto a Saint Louis, per lavoro… Parto oggi.” Butta fuori in un fiato.

L’uomo seduto sul letto, solchi profondi ad attraversare il viso contratto, spalle spioventi, svuotato della la sua vitalità, per la prima volta mi appare in tutta la sua età.

Soffro e farei di tutto pur di sollevarlo dall’amarezza che lo schiaccia. Voglio il suo bene, voglio poterlo ammirare nella fierezza di sempre.

Le mie ferite le curerò poi, ma non posso sopportare di trovarmi davanti alla sua, di sofferenza, e sentirmi impotente.

Anche se con fatica si rimette in piedi e senza guardarmi prende la via della porta.

L’ha già spalancata quando ritrovo la voce:

“A Saint Louis, contavo d’andarci anch’io! Vienimi a cercare!”

Un istante di immobilità, poi la porta si chiude e mi lascia nel silenzio, nel vuoto claustrofobico di questa stanza.

 

30 AGOSTO

Sul pullman sferragliante che attraversava la notte e gli stati, faticavo a restar serio.

Non stavo scappando da niente e da nessuno, e per la prima volta vedevo questa nuova tappa come una meta invitante. Il nome di una banale città come tante mi risuonava nella testa come un sinonimo stesso di felicità, una sfavillante insegna pulsante di neon colorati che diceva: Happy End.

Saranno state le anfe che avevo ricominciato a mescolare al resto, sarà stata pura e semplice adrenalina, ma per più di una settimana ho percorso la 14esima e le strette vie laterali avvolto in un’incessante euforia, convinto che presto ciò che speravo sarebbe accaduto e tutto per me sarebbe cambiato - in meglio.

Poi, col passare dei giorni e delle settimane, la brutale realtà, le urgenze del quotidiano hanno preso la rivincita. Più cercavo appigli, giustificazioni a quel ritardo, più la solita e perfida voce dell’esperienza, ridendo sadicamente, mi ripeteva che quello era stato un addio.

Alla fine le ho creduto, ma ho anche capito che mi fermerò a Saint Louis; lo sento - lo so - adesso che ho schiacciato e ricacciato nel fondo del mio cervello, di me stesso, la piccola, luminosa speranza che lui sarebbe tornato, di nuovo e per sempre.

Puoi dire addio ad una madre e a chi, sostituendosi a lei, ti ha rassicurato medicandoti un ginocchio sbucciato o il segno di uno spintone troppo deciso di un compagno di gioco.

Puoi rassegnarti a perdere l’adolescenza, quel percorso comune fatto di interminabili partite domenicali a softball nel parco cittadino, di balli scolastici impacciati da abiti presi a nolo, di un professore, uno solo - magari neanche molto brillante - che però un giorno dice qualcosa che ti si pianta nel cervello, e tu sai che te lo ricorderai finché campi, che a sessant’anni lo ripeterai ai nipoti, se sarai stato fortunato ad averne - ed insieme a quella perla di saggezza tornerà alla memoria anche il banale dipendente pubblico che con quell’unico momento, da quel giorno, è parte di te.

Gli addii si possono sopportare, lasciare che si stratifichino, che volti, carezze e promesse non mantenute formino una crosta sempre più dura e pesante; ma un giorno scopri che sotto quella spessa corazza tutto s’è consumato fino a svanire, e allora ogni cosa si disfa e crolla.

La novità del giorno è che, mio malgrado, sono lucido e riesco a mettere su carta questi pochi pensieri che, come naufraghi, ancora riaffiorano a fatica nella mia testa.

Delle ultime settimane ho solo brevi flash, immagini nebulose di strade, auto, camere, corpi.

Nessuna faccia, quelle non contano e non me le ricordo più.

Oltre questo, l’assoluto nulla. Ore, giorni sono scivolati via, spariti, ingoiati dal torpore chimico-alcolico che ancora posso permettermi.

La coscienza riaffiora a sprazzi, ed allora mi trovo a domandarmi come sono arrivato in un certo posto o il perchè di un livido, un’abrasione che prima non c’era. Ma ormai l’assenza di risposte non mi spaventa, sono oltre la paura, quell’istinto prezioso che ci fa restare in vita.

Niente più domande, né risposte. Niente più pensieri. Ora il mio solo scopo è avere sempre in tasca di che anestetizzare sensi, mente e cuore.

Tutto è cominciato quella mattina di marzo quando mi sono lasciato alle spalle, fra gli alberi, la sagoma del Brefotrofio di Montgomery? O quando su quello stesso portone, anni prima, avevo salutato fiducioso mia madre, per l’ultima volta? O prima ancora?

Quello che so è che ho corso, sempre più forte, sempre più in fretta, e adesso che il capolinea di questo mio viaggio è vicino, ora che già lo vedo, voglio solo raggiungerlo il più velocemente possibile.

 

2 SETTEMBRE

Il tizio che ho di fronte non mi piace, non riesco a classificarlo, stona con tutto il resto, con le luci fluorescenti delle insegne, con chi entra ed esce dai cinema , bar e videonoleggi che si susseguono per questo tratto della 14esima strada.

Propone una cifra alta, e dice che è qui per conto di un altro, poi chiede il mio nome ed annuisce soddisfatto.

“Non ti dirò mai no, né basta…” Avevo promesso a qualcuno, tanti anni fa. Semplicemente adesso ho esteso questo bel proponimento a chiunque mi si avvicina, per cui taccio e lo seguo fino ad un motel che già conosco.

L’auto viene parcheggiata diligentemente nel posto riservato, di fronte alla stanza, e quando la luce lattiginosa dei fari illumina la porta scheggiata riesco a leggere il numero: 66.

Scendiamo e il tipo mi precede verso la porta, sbuffando per il caldo e sventolando l’antiquato camiciotto per scollarlo dalla pelle sudata. Ha già bussato discretamente quando riesco ad attirare la sua attenzione. Certi automatismi non si perdono, così prima di decidermi ad entrare, riesco ad intascare la cifra che mi ha offerto.

La stanza è illuminata solo dalla piccola lampadina dell’abatjour sbilenco al lato opposto del letto. E sempre oltre il letto un uomo mi dà le spalle.

Bisbiglia veloce in un cellulare di ultima generazione, ma quando cerco di coglierne la voce questa viene coperta dagli stridori delle ruote in manovra dell’auto su cui sono arrivato, che veloce esce dal parcheggio e si allontana.

La mia mente annebbiata non riesce ad identificarlo, ma registra comunque una sensazione di déjà vu, che si trasforma in agitazione prima, ed in vero e proprio panico subito dopo.

Quando finalmente con un gesto veloce del polso il mio ospite chiude il portatile e si volta a guardarmi, nessun urlo esce dalla mia gola solo perché questa si è completamente serrata appena ho visto il suo viso.

Istintivamente indietreggio, ma avendo attraversato in diagonale parte della stanza, manco la porta. In compenso colpisco e rovescio una delle sedie ed il tavolino coordinato, rischiando di rovinarci sopra io stesso.

Mi appiattisco contro il muro e non riesco a fare altro che scuotere la testa e sbattere gli occhi, per schiarirmi le idee, per convincermi che forse quello che vedo davanti a me non è un’allucinazione.

L’espressione è terribilmente seria mentre mi esamina attento, un solco profondo fra le sopraciglia aggrottate, innumerevoli file di rughe a percorrere la fronte alta, imperiosa.

Veloce gira intorno al letto e si allunga per stringere le mia braccia.

Qualcosa dentro me si rompe, la barriera fra il mondo ed il mio cuore va in pezzi sotto il calore della sua stretta ed io prendo ad urlare, colpirlo, insultarlo, piangendo e tossendo tutto il dolore di questi mesi, di tutti i miei anni.

Aaron non si difende, semplicemente argina pacato il mio sfogo finché stremato ed afono mi arrendo al suo abbraccio.

Alzo la testa ed incontro i suoi occhi che si allargano lievemente, e tutto il suo volto si accende piano di un calore che, sono sicuro, solo io ho avuto il privilegio di  vedere in quei rari momenti in cui si liberava dal peso di essere se stesso, e permetteva così ad impulsi e sentimenti di affiorare.

Quegli occhi scuri, che come tutte le altre volte mi accolgono e scaldano.

E’ come esser rimasti per più di mezz’ora su di un cornicione a ripassare la propria vita, seguendo con lo sguardo lo strapiombo dei piani sottostanti e le auto e i pedoni che là in fondo si muovono frenetici e piccolissimi. Avere poi deciso di fare quel risolutivo, ultimo passo nel vuoto e scoprire di poter volare. In quell’istante, rinunciando a tutto, capire di essere speciali, di possedere un dono prezioso, e librarsi leggeri sulle teste di chi pensavi essere migliore di te.

Come senza peso, senza più coscienza del mio corpo, mi accascio su di lui, che mi sostiene e mi parla piano. Con delicatezza mi aiuta a stendermi sul letto, mi si corica a fianco e mi abbraccia.

Il mio ultimo pensiero è di benedire non il futuro, che forse non vedrò, ma il mio perfetto presente.

Poi arriva il buio a sottrarmi a questa mia felicità.