Diary

parte VI

di Katsushika


11 LUGLIO

L’aria fredda mi avvolge molto meglio di quanto faccia la salvietta che prima di uscire dal bagno mi sono stretto intorno ai fianchi, chissà poi perchè. La mia pelle riscaldata dalla doccia, ancora umida per il vapore che saturava il piccolo ambiente, reagisce al getto del condizionatore con una scarica di piccoli e piacevoli brividi.

La possibilità di una doccia e di svuotare a volontà il frigo-bar mi rendono sempre molto gentile e loquace con il tizio di turno, specie se è come questo. Frettoloso e goffo nella richiesta e nell’esecuzione, dopo mi ha rovesciato addosso tutti i suoi problemi: recriminazioni e rancori, indietro a risalire fino ai suo genitori ed ai compagni di scuola, ed io ho dovuto mettermi di impegno per restare sveglio e far segno con la testa, ogni volta che smetteva di parlare. Alla fine è restato fermo per un po’ col fiatone, molto più soddisfatto per il suo monologo che per il mio cazzo.

C’è di buono che, con tipi così, se li lasci sfogare e poi butti lì una frase ad effetto sulla tua “drammatica situazione” si commuovono sul serio e ci scappa un consistente extra su quanto pattuito.

A sostenere la mia pazienza c’è soprattutto la voglia di non essere ributtato nella fornace di questa città, che anche in piena notte non riesce a smaltire il calore e lo smog accumulati nella giornata.

Appena scendo dall’auto e ritorno al mio nuovo posto, lo vedo arrivare. Mi ricordo di lui perché è stato il primo che ho incontrato dopo - dopo il casino all’hotel.

Niente di speciale, tranne che, a parte l’età, è decisamente meglio della media dei miei abituali clienti. Niente di strano nella faccenda, non una parola di più, non una di meno, ha pagato il giusto per quel che ha chiesto ed io ho fatto la mia parte, punto.

Quel che mi è rimasto in testa è che, per la prima volta da quando sono su queste strade, è stato come se non fossi lì. Come se i boliviani avessero ammazzato anche me ed io, sospeso a mezz’aria, me ne stessi a guardare indifferente quel corpo che si muoveva sopra e sotto di lui, gesti e rumori che non mi appartenevano più.

La mente vuota, assente, ho lasciato che tutto andasse come in automatico.

E dopo lui è successo, ancora ed ancora, con tutti gli altri, sessantenni imbolsiti e stanchi o curatissimi professionisti scesi dalle colline, in cerca di emozioni forti.

Non più il fremito quando l’attesa finisce e qualcuno s’avvicina, non più quell’entusiasmante sensazione di potere, quando t’accorgi di avere il controllo del loro corpo e, per brevi momenti, della loro mente.

Questa è già la seconda volta che l’incontro da quando sono arrivato in città, da una settimana precisa, sette giorni che non mi sono serviti a trovare un rimpiazzo a C.J.

Tutti hanno gonfiato il prezzo e tagliato pesantemente la roba, col risultato che sono praticamente al verde adesso, stordito e  stanco, stanco da morirne.

Non m’ero dato da fare in quei giorni, avevo tirato il fiato, tanto avrei riscosso quanto mi aveva promesso, ma quando me ne sono andato da quella stramaledetta stanza, ho subito realizzato che da C.J. non ci potevo tornare, a riscuotere, se davvero volevo restare vivo.

Ho preso un pullman qualsiasi, la notte stessa, giusto il tempo di recuperare le mie cose dalla casa sulla Franklin.

Fra tutti i posti pidocchiosi elencati sul quel tabellone sbiadito, ecco che mi ritrovo a Sacramento, ma niente è cambiato realmente, anche i tizi che nelle auto passano lenti su Sutterviller Road hanno le stesse facce, là come qua.

Tranne lui, lui che adesso so che si chiama Aaron, e che è stato il mio “benvenuto” in città. Perché tutte le volte che l’ho guardato in faccia, stasera, aveva quella strana espressione attenta, che non c’entrava niente con la voglia di me, con quello che stavamo facendo. Era strano avere quegli occhi addosso, perché sembrava che mi guardassero davvero, cioè non qualche parte del mio corpo, e neanche la faccia. Sembrava che volesse vedere che cosa c’è dentro alla mia testa, al mio cuore.

Quanto odio sentirmi così sfasato e debole, chissà che c’era in quella fottuta bustina… finisce che parto con questi ragionamenti del cazzo, divento malinconico e romantico. Ma è solo stanchezza, se dormo magari poi va meglio.

In macchina, mentre mi riporta indietro, non resisto; mi allungo un po’ sul sedile e chiudo gli occhi.

Li riapro e la prima cosa che noto è che c’è silenzio, le macchine sono lontane e fanno un lieve fruscio, tipo risacca del mare. Non siamo al motel e neanche al parco, al mio posto. Questo mi fa svegliare del tutto, mi siedo, col cuore in gola e lo guardo.

Lui come se niente fosse si sta fumando una sigaretta, è ormai quasi al filtro, un’ultima boccata, poi la butta dal finestrino e finalmente mi degna della sua attenzione.

Io sono parecchio su di giri, talmente arrabbiato che non riesco a parlare. Lo fisso e lui se ne esce con: “Ti eri addormentato, così ho preferito aspettare che ti svegliassi,” il tono calmo di chi dice un’ ovvietà.

Alla sola idea di essermi lasciato scarrozzare chissà dove e di tutte le probabilità che ho avuto di finire nel notiziario del mattino, come uno dei tanti cadaveri senza nome né storia, mi smonta pure l’incazzatura.

Quel che è certo è che mi viene da rimpiangere C.J.

Con i suoi, di rifornimenti, mai e poi mai, sarebbe successa una cosa simile. Per un attimo penso che forse avrei fatto meglio a restarmene a Los Angeles.

La mano sulla mia spalla, si sporge e mi chiede se è tutto ok, se ho fame, se voglio che mi riporti indietro. Io sono ancora troppo agitato per starlo ad ascoltare e gli rispondo con un incerto “Si”.

Riparte ed io mi rilasso solo quando vedo la massa scura del parco che si avvicina.

Quello che voglio adesso è solo rimediare un passaggio fino al capannone abbandonato, che ho scovato sulla 24a, ed andarmene a dormire sul serio.

 

 

16 LUGLIO

Dodici giorni e le cose qui proprio non vanno. Più passano i giorni, meno clienti si vedono. Dovrei prendere un altro pullman, magari per Las Vegas, ma il problema è che adesso mi mancano i soldi pure per quello.

Quando mi sono alzato, qualche ora fa, posso giurarci che c’era ancora il sole, eppure adesso eccomi qui rannicchiato su me stesso a tremare. Ho preso di tutto ma continuo a stare così.

La strada deserta, ed anche gli alberi dietro di me oltre la recinzione del parco, si sfocano e prendono ad ondeggiare leggermente mentre io continuo a sfregarmi braccia e gambe senza riuscire a scacciare questi lunghi brividi di freddo.

Ho perso la cognizione del tempo, ma certo sono ore che me ne sto fermo a fissare l’asfalto sbrecciato di questo marciapiede. E a peggiorare le cose c’è quella scena, che mi torna alla mente, ancora ed ancora: il corpo che cade di lato, sul letto, come al rallentatore. Se ne salta fuori ogni volta che non ho niente a cui pensare, oppure mentre dormo e allora spesso c’è la simpatica variante, il corpo che mi finisce addosso, gli occhi sbarrati nei miei, ed io non riesco a spostarlo, allora grido e grido, finché mi sveglio.

Non voglio starmene qui da solo con questa immagine negli occhi, ho voglia di urlare, ho voglia di sbattere forte contro questa cancellata, fino a farmi male, tutto pur di farla sparire dalla mia testa.

L’auto non l'ho neppure sentita arrivare, me ne accorgo solo adesso che si è fermata, e che l'assoluto nulla in cui galleggio è stato spezzato da un  solo, deciso colpo di clacson.

Mai in vita mia ho voluto così tanto che succedesse, che qualcuno arrivasse a portarmi via.

Fingendo un equilibrio che non ho, mi avvicino. E' ancora Aaron, e se fosse un momento diverso da

questo la cosa non mi piacerebbe affatto. Incontri così frequenti hanno sempre portato guai, ci sono già passato. Ed anche il fatto che mi chieda l'intera notte non è per niente un buon segno; dico sempre di no, ma al momento le mie regole e tutto il mio personale universo-mondo, sono totalmente sottosopra, per cui mi limito a sparare la cifra più alta che mi viene in mente.

Qui non ci voglio restare, così mi preparo allo sgradevole rito della trattativa, ma lui risponde con

un piatto "ok", e fa scattare la serratura della portiera.

Questo maledetto freddo m'è rimasto appiccicato addosso e così adesso lotto per non tremare, e cerco pure di non guardarlo in faccia. Non è stupido e capirebbe come sto. Non voglio rovinare tutto, né correre rischi maggiori di quelli che ho già deciso di prendermi.

C'è questa assurda sensazione di fluttuare, come se il cervello, leggero, volesse volarsene via.

Io sono certamente altrove, è solo il mio corpo che si libera dei vestiti e lo raggiunge sul letto, che si

rannicchia in mezzo alle sue gambe, piegato sotto le sue mani che dettano il ritmo voluto.

Pure questa nausea che si espande e mi stringe stomaco e gola, mentre le ultime contrazioni lo svuotano, è un qualcosa di assurdamente remoto; la registro ma è come se non mi riguardasse.

Dieci minuti buoni di immobilità assoluta, poi si sporge su di me, infila la mano calda fra la mia

guancia ed il cuscino e con decisione mi obbliga a girare la faccia verso di lui. Sento che mi fissa,

ancora una volta quel suo sguardo che scava, ed io mi impegno per non incrociarlo.

"I tuoi occhi sai... mi sono restati in mente fin dalla prima volta. Sono belli, ma sfuggenti. Lontani.

Anche quando ti tocco restano persi, come spenti. Sembrano quelli di un vecchio, qualcuno molto più vecchio di me, occhi che hanno visto un'infinità di cose. Mi chiedo cosa abbia visto tu perchè siano diventati così."

Il tono è calmo, il suo respiro caldo e a quelle ultime parole non riesco ad impedirmi di fissarlo. Ho come l'impressione che sia davvero riuscito a vedermi dentro, scoprendo cosa è successo. E dopo la sorpresa, arriva quasi un senso di sollievo, come se in fondo fosse quello che volevo.

Solo all'ultimo registro che si sta abbassando, col chiaro intento di baciarmi. D'istinto allungo il collo e mi sporgo di lato per scansarlo. Questo tipo di smancerie mi fanno incazzare come una bestia. Me ne esco con una risatina nervosa e la solita frase collaudata: "Hai tutto il resto della mia pelle..." E spero sinceramente che quella che vede sia l'espressione ammiccante che ho in mente, perchè in realtà non ho molta coscienza dei miei muscoli facciali al momento. E le mie parole, le prime pronunciate da che siamo qui, mi arrivano come ovattate, da un'incredibile distanza.

L'unica soluzione è distrarlo, così cerco di scendere con la mano verso il suo inguine, ma lui mi

blocca il braccio e carica su di me il suo intero peso. Ci riprova, ed io a sentimi così inchiodato e

premuto contro il materasso, reagisco. Con le poche forze e lo scarso coordinamento a mia disposizione, riesco comunque a scalzarlo e scivolare via.

Il busto eretto, adesso Aaron troneggia su di me, che continuo a reggere il suo sguardo, mentre la rabbia crescente mi rende un pochino più lucido.

La vedo arrivare, ma non mi muovo di un millimetro, così che il dorso della sua mano colpisce la mia guancia  con tutta la forza che lui ci ha voluto mettere.

Il rumore dell'impatto mi rimbomba nella testa, mentre cerco di rannicchiarmi lontano e tampono il

labbro spaccato. Riapro gli occhi e fisso le sottili strie di sangue che ho pulito.

“In faccia no! Che cazzo ti è preso?” Ma il tono è molto più lamentoso di quanto volessi e finisco per chiudermi ancora di più in questa posizione fetale. Qualsiasi cosa accadrà, la aspetterò così, fermo e zitto. In fondo sarà qualcosa di già successo e quindi di sopportabile.

Aspetto, ma non capita nulla, o meglio, dopo poco sento il fruscio del lenzuolo e del copriletto che ha tirato a coprirmi le spalle ed un sommesso, quasi impercettibile “Scusa”.

La porta del bagno si chiude cigolando alle sue spalle e poco dopo si riapre. Ascolto i rumori senza voltarmi, finché sento la sua voce, profonda e carezzevole come mai prima, mentre sussurra sopra di me: “I soldi li puoi tenere ed anche la stanza. Ti metto qui la chiave”.

Tintinna mentre la lascia cadere sul comodino dalla mia parte, poi percepisco i suoi passi, lunghi e decisi, in direzione della porta.

Penso al rotolo di banconote che è adesso nella tasca dei miei jeans, ma pure a come mi sentivo mentre aspettavo al parco. Così mi decido a sporgermi dal caldo del letto, per fermarlo.

“Resta, ok? Mi spiace per prima.” E la mia voce adesso è chiara, ferma, rispetto alla confusione che ho dentro.

A fatica mi puntello sui gomiti. Poi, senza aspettare risposta, scosto le coperte da me e dal posto vuoto al mio fianco, ma il gesto è troppo veloce e la testa inizia a girarmi, così goffamente annaspo per tenermi su.

Aaron torna sui suoi passi, senza una parola, risistema lenzuolo e copriletto e ci si stende sopra, senza neppure togliersi la giacca.

“Adesso dormi. Io rimango qui.” Il suono è caldo, ma il tono non ammette repliche.

Sono troppo stanco anche per stupirmi, così ubbidiente mi risistemo nel mio bozzolo, pur sapendo che difficilmente, senza aiuti chimici, riuscirò ad addormentarmi.

Il contatto inaspettato mi fa irrigidire; semplicemente ha preso a passare le dita fra i miei capelli.

La cosa non mi entusiasma, ma so bene che non mi posso permettere altri casini. Il tocco è inaspettatamente delicato e non ha nulla di neanche lontanamente sessuale, anzi mi aiuta non poco a rilassarmi.

L’ultimo pensiero confuso è che, da qualche parte, ho letto che un certo tipo di prolungate carezze fa cadere cani e gatti in una specie di ipnosi e poi nel sonno più profondo.

Nel dormiveglia mi ritorna nitido un ricordo di lunghe dita, dalle unghie curate, che spettinano scherzose i miei capelli, sulla nuca sudata per il troppo giocare, ed io ho cinque anni.