Diary

parte V

di Katsushika


2 LUGLIO

Le radio da giorni sbraitano che un’ondata di caldo senza precedenti si è abbattuta sul paese e che le temperature nel Distretto di L.A. aumenteranno ancora di qualche grado. Gli incendi si moltiplicano sulle colline e sembra quasi di sentirne l’odore o di vederne i bagliori, di notte. Ma forse è solo perché anche alla tv non si parla d’altro. In realtà gli stessi allarmi sono stati lanciati l’anno scorso e quello prima ancora, ma come non credere agli speakers?

La caligine che satura il cielo rende il sole di luglio niente più che un alone bianco, e per le strade svuotate dalla canicola pare di camminare su morbida ed appiccicosa gommapiuma che attutisce ogni rumore, i tacchi che affondano e segnano l’asfalto che si sta sciogliendo piano piano.

Ci sto mettendo una vita a percorrere questi pochi isolati, un po’ per l’afa, puzzolente di gas di scarico e rifiuti, un po’ perché non so davvero cosa racconterò a C.J. quanto scoprirà che non posso far fronte al mio debito.

Lui mi procura ciò che gli chiedo, ma in cambio esige il suo prezzo e non ammette ritardi.

Certo potrei non presentarmi all’incontro, ma è sicuro che poi mi manderebbe a cercare; dovrei cambiare ancora una volta città, ma per che cosa? Un altro angolo ed un altro C.J. sono già lì ad aspettarmi.

Magari è in luna buona e riesco a convincerlo a darmi ancora tempo.

Punire me per educare gli altri… ma non è questo che mi spaventa, quanto perdere la mia sola fonte d’approvvigionamento.

C’è stato un tempo in cui ero convinto di poter smettere davvero.

I modi bruschi dei poliziotti ed il rapido processo mi avevano convinto del fatto che come scassinatore di piccoli negozi non valevo un granché e, presentato come alternativa al riformatorio, quel centro di disintossicazione era sembrato un buon posto dove sistemarmi per un po’.

Né io né i medici potevano immaginare che avrei seriamente rischiato di lasciarci le penne, in fondo era il trattamento standard. Ma iniziare così presto e con quelle quantità aveva finito per danneggiare il cuore, e pure il fegato non era messo bene.

I dottori erano comunque riusciti a farmi recuperare in pochi mesi ed avevo pure preso il diploma; a quello ci tenevo ed avevo passato giorni e notti sui libri, a recuperare gli anni persi, a prepararmi per i test.

Erano quasi riusciti a convincermi che sarei potuto riuscire in qualsiasi cosa se solo mi ci mettevo, e deve essere stata per questa convinzione che, due giorni dopo essere tornato in circolazione, riuscii a farmi prendere da Lars, come aiuto nella sua officina. Le moto mi erano sempre piaciute, nei minimarket non mancavo mai di razziare le riviste del settore e ne conoscevo abbastanza bene la meccanica da esser riuscito a farmene qualcuna, ovviamente non mia.

Customerizzare Harley o usarne il telaio per costruire da zero un chopper era un sogno che s’avverava, ero capace di passarci la notte pur di rifinire una cromatura o elaborare una migliore carburazione.

Lars non era certo un capo che si lanciava in complimenti, ma si capiva che era soddisfatto, mi affidava anche i lavori più delicati ed in fondo lo erano un po’ tutti, visto l’aspetto dei clienti. Spesso si presentavano a notte fonda, coi segni di giorni e giorni di asfalto addosso, con i giubbotti di pelle ancora incrostati di polvere messicana.

Io dormivo nel soppalco, tra gli scatoloni coi pezzi di ricambio, mi lasciavo chiudere dentro volentieri; meno stavo in giro più era difficile che mi rimettessi nei casini. Ero quasi sempre “pulito”.

Quasi.

Ma gli otto mesi più belli della mia vita finirono una mattina, il tempo che impiegò Lars a svegliarmi, recuperare un paio di moto, qualche scatola e filare, prima che la polizia facesse irruzione. Io consegnai le moto dove mi disse ed accettai la mazzetta di banconote che definì “buonuscita”.

Ebbi così la conferma di aver lavorato onestamente per un ricettatore di moto e ricambi rubati, che vantava clienti, nessuno escluso, con la fedina penale ancora più lunga della sua.

Inutile dire che di altre attività legali non ne riuscii a trovare. In compenso, pochi giorni dopo, conobbi C.J.

 

Sono di fronte alla casa, la prima vedetta mi ha già inquadrato e riconosciuto, salgo piano le scale, provo un discorso che so non essere convincente, ancora una rampa, ultimo controllo e sono dentro.

Eccolo arrivare, passo fluido, testa alta, da vero leader, mi sorride e lo fa sul serio, nessuna contrarietà, nessuna minaccia, è contento di vedermi.

“Miki, finalmente!” mi si piazza davanti, mi squadra, poi si avvia verso il divano e mi fa segno di seguirlo.

“Scusa, avrei dovuto passare l’altro giorno, ma…” con la mano mi intima di tacere, io ubbidisco e trattengo il respiro, mentalmente mi preparo al peggio.

“Nessun problema, rilassati, ti devo parlare.” E non smette di sorridere, la cosa non riesce a tranquillizzarmi, però.

“Ci conosciamo da parecchio, vero?” e adesso riesco distintamente a sentire le mie stesse pulsazioni: terribilmente accelerate, mi rimbombano nelle orecchie.

“Abbiamo sempre fatto buoni affari insieme?” ma non aspetta la mia risposta e prosegue:

“Io adesso sono qui a proporti un ottimo affare!”

Apro bocca ma non mi esce che un sibilante sospiro.

“Che tu sia il migliore è risaputo…” e davvero adesso non ci capisco più niente anzi mi era sempre stato chiaro che non ne volesse saper nulla di come mi procuravo i soldi per le dosi e che anzi la cosa lo schifasse non poco.

“Cos’hai in mente C.J.?” sbotto esasperato da questo preambolo, troppo lungo per i miei nervi già tesi allo spasimo.

“Ecco… semplicemente che tu dovrai tener compagnia ad una persona di mia conoscenza ed in cambio avrai un rifornimento. Sì, tutto un rifornimento per te, se accetti!” poi tace e aspetta, fissandomi viscido, come un serpente che già assapora il topo che sta per ingoiare.

“Ok, per me sta bene, dimmi solo dove e quando.” La cosa mi puzza di fregatura, ma d’altra parte riconosco che oggi me la sono cavata con poco.

“Sai è una persona molto importante, con cui faccio affari e penso gradirà molto il mio… omaggio” calca sull’ultima parola e mi scruta dalla testa ai piedi, questa volta con in faccia la sua solita odiosissima smorfia sadicamente divertita, da vero psicopatico, quale in effetti è, a dar retta a certe voci. Ed in fondo se è arrivato così in alto l’avrà fatto certamente arrampicandosi su un bel po’ di cadaveri.

Non lo dice apertamente, ma so di essere uno dei suoi migliori clienti, uno dei pochi che serve ancora direttamente. In cambio qualche piccolo favore gliel’ho fatto in questi anni, e non si è mai scomposto per le mie improvvise sparizioni, forse perché sapeva perfettamente che sarei tornato.

L.A., il boulevard e C.J.

E’ vero alla fine torno sempre.

 

3 LUGLIO

Quarantacinque minuti dopo mezzanotte, secondo le indicazioni di C.J. sono davanti alla camera, busso e dico il mio nome; la porta si apre quel tanto che basta per farmi entrare.

La luce è stata regolata al minimo, ma è gialla e calda e dà ancora più risalto ai mobili in stile: dorature e damaschi, una specie di Luigi XVI  rivisto e corretto.

Il mio ospite è sui cinquanta, poco più basso di me, naso largo, occhi piccoli e troppo vicini su di una faccia piatta e squadrata, la forma esasperata dai capelli tagliati corti, in stile quasi militare. In gioventù forse è stato un pugile, si spiegherebbero i tratti schiacciati e la mole che, malgrado il peso degli anni, trasmette una sensazione di potenza; sotto il grasso ci devono essere muscoli ancora ben funzionanti.

“Mi manda C.J.”, e lascio lo sguardo vagare per la camera che è poi una junior suite, con divano, poltrone e tavolino a fronteggiare il letto enorme, la testata in seta trapuntata incorniciata da elaborati intarsi.

Lui non parla ma mi esamina centimetro per centimetro, come dovesse mandarmi a memoria ed io so esattamente cosa vede.

Stasera mi sento davvero in forma. Con la storia di far fare bella figura a C.J., sono riuscito a concedermi una doccia lunghissima e pure lo shampoo; ci ho marciato, è vero, ma alla fine mi ha dato pure i soldi per dei vestiti nuovi. Me la sono proprio goduta, sono sicuro che in vita sua non gli è mai successo di sganciare dollari fruscianti ad un suo cliente.

Per quanto mi riguarda, mi sono subito fiondato da Alfie, sulla Argyle Avenue; ha un enorme emporio di abiti di seconda mano, dove spesso ho scovato pezzi davvero giusti. Da un po’ avevo messo gli occhi su dei pantaloni in pelle e speravo tanto fossero ancora al loro posto, su uno degli scaffali in fondo al negozio.

Quindi eccomi qui, in grande spolvero, i pantaloni sono aderentissimi ed il contatto con la nappa morbida è una carezza molto sensuale su fianchi, natiche e cosce, che mi fa sentire ancora più sexy. Li ho infilati in un paio di anfibi, usati sì, ma fatti per durare. Inutile aggiungere che ho la mia solita camicia nera e sopra una giacca un po’ lunga, forse di uno smoking, che quel vecchietto in rosa confetto di un Alfie, mi ha praticamente regalato insistendo, non a torto, che “mi stava divinamente!”

“Ti aspettavo,” finalmente sento la sua voce, baritonale ma addolcita da un accento indubbiamente ispanico.

Butto la giacca sulla poltrona più vicina e mi fermo a pochi passi da lui. Comincio a sbottonarmi la camicia, il più lentamente possibile, la notte è lunga e visto che il tipo non è certo di mio gradimento, intendo giocare al risparmio. Lui tranquillo lascia fare e ricambia freddo il mio sguardo, quando lo incrocia. E’ una prova d’orgoglio ed io non voglio uscirne sconfitto, così mi faccio avanti e dopo aver finito coi miei, prendo a slacciare i bottoni del suo costoso pigiama verde. Lo aiuto a liberarsi della giacca, poi finalmente si decide, appoggia le mani sulle mie spalle e le fa scorrere a saggiare i muscoli delle braccia. Intanto il suo sguardo indugia sui piercing per poi scendere lento fino al bordo dei miei pantaloni, basso al limite della decenza. Stesso percorso seguono le mani, ma non ho intenzione di lasciargli spazio, così, strattonando piano il laccio che trattiene ancora il suo pigiama, gli soffio in faccia con tono caldo ma deciso, un “Mettiti giù”.

Guiderò il gioco, ma lo soddisferò al punto da lasciarlo convinto di essere stato lui il padrone, in questo letto.

La sua eccitazione è ben evidente ed io inizio a prendermene cura in tutti i modi che conosco.

Dopo il primo orgasmo lo incalzo ancora, non gli do tregua, ben deciso a portarlo presto al secondo e sempre alle mie condizioni. Tutto procede per il meglio, sto facendo il mio lavoro così bene che non gli è nemmeno passato per la mente di chiedermi quello che io non ho intenzione di dargli.

Di una cosa sono sicuro: so come fare l’amore ad un uomo, ed agli scettici rispondo di pensare alla semplice verità che io so in ogni momento esattamente cosa prova il mio cliente e di cosa ha bisogno per andare oltre, quel tanto che basta a farlo urlare mentre viene, mentre esplode in un unico fiotto, tutto il piacere possibile.

Per un po’ resto a fissare il soffitto, l’orecchio attento al suo respiro che si sta facendo di nuovo regolare, sento i suoi occhi su di me e mi volto. Mi fissa serio nella penombra, io quindi non spreco sorrisi, chiudo gli occhi ed inizio ad accarezzarmi il petto finché le sue mani si sovrappongono alle mie. Le guido ai capezzoli, gli mostro come voglio che sia fatto, poi abbandono le mie sul lenzuolo e mi consegno ai suoi gesti, che esaspereranno la mia erezione.

Esagerare i miei ansiti ha ottenuto l’effetto voluto di rendere frenetiche le sue dita e la sua bocca su di me. Mi libero con movimenti studiati dei pantaloni poi mi ridistendo, dandogli tutto il tempo di frugarmi con gli occhi.

Ubbidisce ad un copione che solo io conosco, è in mio potere ed è per questo che, calmo, gli faccio spazio mentre si accoccola in mezzo alle mie gambe. La mano che mi masturba è ruvida e calda, scorre a fondo e tira forte, proprio il rude trattamento che più mi piace. Accolgo le vampate violente, smetto di fingere dando fiato al godimento che mi invade, mentre la testa si svuota e tutto me stesso si riduce a ciò che stringe quella mano forte.

Ancora la sensazione umida della sua bocca sulla pelle mentre mi inarco e cerco di rimandare il finale ormai prossimo.

Ma neanche i miei sonori sbuffi riescono a coprire il rumore della porta che sbatte, spalancata con violenza.

Lo vedo lasciare la presa, voltarsi e cercare di districarsi dal groviglio di gambe. Tre, quattro sibili in sequenza, il tempo di ritrarmi ed il corpo dell’uomo si affloscia sul letto, come un palloncino bucato.

Per un secondo, un minuto, non so dire, io ed i quattro sconosciuti che hanno fatto irruzione nella stanza, ci fissiamo.

Un paio di bestemmie e poi uno dei sicari, voltandosi verso l’unico compagno non armato, esclama in spagnolo che sono un ragazzino e giù altri improperi in direzione del morto.

L’altro sogghigna, poi accenna a me con la testa.

Non voglio morire, non così, non per mano di questi boliviani, colombiani o quel che sono, solo perché mi trovo nel posto sbagliato!

Più che la paura, è la rabbia che mi fa urlare uno sproloquio.

Fisso quello che ho capito essere il capo ed iroso sbraito che non conosco né loro né lui, che non è giusto che mi ammazzino, che non ho colpa d’essere là e che non ho nessun interesse nella faccenda.

La mano alzata, a bloccare il suo stesso ordine, il giovane damerino sudamericano mi studia con interesse, il sopracciglio alzato e quel sorriso beffardo che tanto mi ricorda quello del bastardo che mi ha cacciato in questo guaio.

Poi mi chiede in un buon inglese se davvero non conosco il tizio con cui stavo facendo sesso.

Io pronto ribatto che non so neppure il suo nome, che quello che è successo sono affari che non mi riguardano e per cui non ho alcuna intenzione di rimetterci la pelle.

Risponde, ma è più un riflettere ad alta voce, che per loro sarebbe un grosso problema lasciare testimoni dell’accaduto.

So di giocarmi tutto in una sola frase, prendo fiato, raccolgo le idee in pochi secondi e propongo che sarà come se mi avesse già congedato, come se fossi altrove ignaro di tutto. Senza mezzi termini, nel modo più crudo gli chiarisco cosa sono, perché sono lì e ne traggo la logica conseguenza che nessuno darà valore alle mie parole, non sono un teste credibile!

L’ho pronunciata distintamente quest’ultima frase ed ora galleggia nel silenzio che invade la stanza, come una condanna o un salvacondotto.

Non abbasso gli occhi, voglio sapere, voglio essere cosciente del momento in cui darà il segnale di far fuoco e, malgrado ciò, la sua stentorea risata mi fa sobbalzare. Tutti gli occhi sono su di lui, che in breve si ricompone e mi intima in uno spagnolo velocissimo di vestirmi ed andarmene.

Non mi pongo neanche il problema se ho capito esattamene, raccolgo tutta la mia roba e mi fiondo nel corridoio. Sono già in ascensore quando finisco di rivestirmi, il tempo d’attraversare la hall, di farmi investire dal caldo stagnante ed appiccicoso del luglio losangeleno, e mi ritrovo in ginocchio, piegato da violenti conati.

Intercetto un taxi, ho fretta di andare lontano, do un indirizzo a caso, voglio solo essere altrove.

Respiro a fondo, sferzato dall’aria condizionata al massimo, ma fatico a convincermi di quello che è successo, mi impongo di dimenticare.

E’ tutto così illogico, soprattutto il fatto che io sia ancora vivo.

In questi casi si dice che bisogna ringraziare il cielo, ma io e Lui non andiamo d‘accordo, abbiamo un conto in sospeso e questo non è ancora il saldo.