Diary parte IV di Katsushika
21 GIUGNO
Una piccola jeep rossa col tettuccio nero di tela, sembra quasi un giocattolo. Si ferma ed il tizio al posto di guida si volta nella mia direzione. Adesso i neon della bacheca alle mie spalle lo illuminano completamente ed io posso vederlo in faccia. Sicuramente ha meno di trent’anni, la frangia scomposta con qualche ciocca che resta artisticamente in piedi, i capelli scuri di media lunghezza che scendono scalati ad incorniciare il viso ed il collo e lì si fermano. I lineamenti sono regolari, quasi eleganti, ma decisi al contempo e,malgrado qualche piccola ruga scavata dalla stanchezza, gli occhi sono limpidi e franchi, l’espressione oserei quasi dire amichevole. Restiamo fermi, ognuno al proprio posto, a fissarci e mi ritrovo a pensare che forse non è come sembra: in fondo non mi ha fatto nessun cenno, si è semplicemente limitato a parcheggiare davanti al mio posto, niente di più. Indossa una semplice t-shirt nera a maniche lunghe , della giusta misura, che suggerisce ed insieme esalta irresistibilmente la linea squadrata delle spalle, il torace ampio, le linee armoniose delle braccia, che le maniche rimboccate scoprono appena. E’ sicuro : è qui per caso, magari ha solo sbagliato l’uscita della highway e si è ritrovato a vagare per queste strade………..non sta cercando nessuno, non sta cercando me. Infatti eccolo che accenna a parlare, sporgendosi nella mia direzione. Io mi avvicino, pronto ad indicargli la giusta direzione per tornare a casa, ma con sorpresa vedo che si limita ad aprire la portiera e a tornarsene sul suo sedile. A questo punto non so se ringraziare la mia buona stella o se rifiutare…non ha senso che lui voglia pagare, non ne può aver bisogno, a meno che voglia qualcosa che il suo o la sua fidanzata di turno non sia disposta a dargli! Automaticamente calcolo che non può essere più alto di me che di una decina di centimetri e di conseguenza anche i chili di differenza non devono essere molti. Posso gestire la cosa. Salgo, snocciolo veloce, in un solo fiato, le mie condizioni e aspetto, fissando un punto imprecisato del cruscotto…adesso non riesco più a guardarlo in faccia. La sua voce mi arriva calda ed avvolgente come un abbraccio , il tono un po’ alto, come di un ragazzino entusiasta “Il mio appartamento è dalle parti di Santa Monica, andiamo lì?” “Ok” rispondo piatto, ma quella frase mi fa muovere qualcosa dentro, mi fa venire in mente un primo appuntamento e devo impormi di non sorridere e di non pensare. Devo stare allerta , fidarsi vuol dire rischiare, dovrei averlo imparato da un pezzo. L’aria calda turbina nell’abitacolo, mentre prendiamo velocità, è bello correre incontro al mare a quest’ora, mentre la notte finisce. Penso che vedrò sorgere il sole dalle onde, penso che è da tanto tempo che non me ne vado a vedere l’oceano ; sembra assurdo, ma Hollywood Blv è così lontano da tutto questo come lo potrebbe essere la mia vecchia casa del Nevada, fra i neon, nel deserto! Arriviamo sulla Palisades road che è già chiaro, una luce pulita scolpisce i profili delle case , delle palme, è così chiaro che hai quasi l’impressione di respirare meglio, come se ti avessero tolto un peso dal petto; o forse è solo la stanchezza, le innaturali ore di veglia, che mi fanno sentire leggero e quasi euforico. Si ferma sulla 4a strada , davanti ad uno stabile basso, vecchio certo, ma più che dignitoso. “Vieni” ed è una domanda gentile, quasi una promessa. L’appartamento è piccolo, pochi mobili, colori chiari, solo una camicia, riviste e cd, stanno a dimostrare che è abitato. “Ecco questa è casa mia…ah, io mi chiamo Paul! Vuoi bere qualcosa?” poco ci manca che mi porge pure la mano, il suo tono educato mi fa quasi scappar da ridere. E’ tutto così incongruo, da sembrare irreale, come se fossimo in una seat-com o qualcosa di simile. “Miki! Una birra va benissimo!” e finisce che lascio filtrare un mezzo sorriso. Vicino al frigo, le stappa e prendiamo a bere , poggiati al piano di lavoro. Sento i suoi occhi addosso, mi giro e lui si riconcentra sulla birra. Guardo la bocca e la sua gola accogliere il liquido fresco. La testa all’indietro per prendere le ultime sorsate e quanto finisce le labbra sembrano più scure e lucide…le vorrei sulle mie, le vorrei addosso. Mi obbligo a pensare ai soldi che non mi ha ancora dato, a che cosa vorrà in cambio, ma non basta a sgonfiare l’erezione che già mi tende i jeans. Istintivamente la maschero con la maglia, come se fosse inopportuna, inappropriata, come se non fossimo lì per uno scopo preciso. Abbassa la testa e sono sicuro di aver intravisto un sorriso mentre si avvia verso l’altra stanza. Lo seguo nella sua camera, appena oscurata dalle tende pesanti, in una fresca penombra a cui la vista si adatta velocemente. Mi è di fronte, l’esitazione di un secondo poi annulla lo spazio che ci separa. Le mani aperte sul mio petto, uno sguardo interrogativo poi il calore della sua bocca. Mi faccio ancora più contro, le sue mani e le mie a frugare, a cercare la pelle sotto i vestiti. E’ buono il suo sapore, appena confuso a quello della birra, è buono il suo odore, il calore che mi trasmette anche attraverso gli abiti. Qualcosa mi urla di staccarmi, che poi sarà peggio, ma non mi va di ascoltare. E’ un regalo che faccio a me stesso, tanto a novembre nessuno me ne farà, è un lusso che mi voglio concedere, un premio per tutto quello che è successo e che ancora mi deve capitare, per tutti quelli prima di lui e dopo di lui, che non saranno come lui. E’ tutto così naturale : istinto, la semplice legge del desiderio a guidarci. E poi è soltanto pelle da segnare, sudore, bocche che si cercano senza sosta, carne in cui affondare, con cui fondersi, in cui annullarsi, senza più remore. Mi sveglio che c’è ancora il sole. Non riesco a capire dove sono, tutto è confuso: il mio cervello è come uno stagno, in cui vaghi, piccoli pensieri galleggiano senza che io riesca ad afferrarli. Un rumore, un movimento mi fanno trasalire, realizzo che qualcuno dorme al mio fianco. Il sonno è un momento tutto mio, in cui non posso difendermi, troppo intimo per condividerlo con uno sconosciuto, poi all’improvviso le immagini si fanno chiare nella mia testa: Paul che sorride, Paul che geme e gode; una presenza calda e silenziosa, che sembra esser riuscita a tener lontani i miei soliti, numerosi incubi. Mi perdo nel ricordo dei tanti fotogrammi del nostro incontro, resto beato a guardarlo…ma più passano i minuti, più un senso di oppressione si fa strada , ad affannarmi il respiro: cosa dire, cosa fare, quando aprirà gli occhi. Non può funzionare, non ha mia funzionato. Dopo un po’ a prevalere è la noia, o forse soltanto le mie cattive abitudini. Finisce che faccio qualcosa, esagero, mi ubriaco, sballo, una litigata furiosa ed io mi ritrovo in strada spesso con solo quello che indosso. E’ sempre andata così. Perché questa volta dovrebbe essere diverso. L’unica soluzione è lasciarlo così, i tratti distesi, perfetto ed inconsapevole. Mi ci vuole un coraggio che non ho ed allora cerco il giubbotto e trovo ciò che mi serve ad affrontare ogni giornata, anche questa. Mi vesto in fretta, ma non riesco a staccargli gi occhi di dosso ed un po’ mi sento in colpa, ad andar via in questo modo, a non restare a vegliare il suo riposo : sono sicuro che lui lo farebbe. Si rigira piano, nel groviglio delle lenzuola, apre gli occhi, se li strofina e mi fissa. Io mi blocco, finchè la sua bella bocca si allarga ed il sorriso sembra illuminare lui, la stanza e pure me! “Miki…” il tono basso e morbido, quasi una sensuale carezza ed io non riesco a fermare i miei passi che portano nella sua direzione. “Ho da fare……”dico senza convinzione, evitando i suoi occhi. “Prima mangiamo qualcosa. Anch’io lavoro stasera. Ti do un passaggio. OK?” . Qualcuno è mai riuscito a dirgli di no? Non credo, e così muovo la testa in un gesto d’assenso, anche se so che non è altro che puro autolesionismo. Una doccia velocissima, vestiti puliti, identici a quelli di prima e mi propone allegro un posticino economico, vicino alla spiaggia dove ingozzarsi di granchio. Al tavolo mi racconta di lui, che doveva ereditare l’allevamento del padre, ma che un giorno, contro tutto e tutti se ne è partito, verso il mare, che riempiva i suoi sogni, sin da bambino. Adesso fa il barman , in un locale elegante, al confine del mio quartiere, di quel cono d’ombra che risucchia tutti i disperati, gli irregolari di L.A. Riempie i minuti riferendo di tutte le assurde situazioni, che ha dovuto gestire, qua e là per i locali dove ha lavorato , da quando è arrivato in città. E’ bravo a descrivere i posti e le persone e ridiamo tanto, tra un boccone e l’altro. E mentre racconta , ogni tanto abbassa la voce e dice qualcosa di carino su di me, discreti complimenti. Maledico il sole, che scende rapidissimo, vorrei davvero che questo tramonto non finisse, che non finisse questa cena, ma la cameriera ha fretta di portarci il conto, ed anche lui adesso ha fretta, mentre guarda preoccupato, per la prima volta, l’orologio. Fuori dal locale gli dico una bugia, perché non voglio tornarmene al mio posto, non con lui. Adesso siamo in silenzio, un po’ imbarazzati, io mi caccio le mani in tasca, perché , per come sono sottosopra, cercherei ancora un contatto, un abbraccio magari. Lui allunga la mano a sfiorare veloce il mio braccio “Allora ci si vede…” sembra voler dire altro, ma si infila in macchina e parte. Io resto fermo a guardarlo sparire nel traffico e non posso reprime un sospiro…un sospiro di sollievo.
|