Diary

parte II

di Katsushika


16 MAGGIO

 

Diablo bianca, tirata a lucido, il rombo basso e potente del motore che è quasi musica…………di auto così da queste parti non se ne vedono spesso. Rallenta e si ferma ed io dopo i primi cinque secondi di stupore, tipo Cenerentola al ballo ………..  realizzo chi sarà il mio “principe azzurro “di stasera : Patrick. Le feste di Patrick , ne ho sentito parlare tante volte dagli altri ragazzi, quando si ritrovano per mangiare o in qualche bar. Non mi piace mischiarmi con loro, non partecipo mai alle loro conversazioni, ma ascolto e memorizzo: nomi , posti……Party memorabili, a quanto sembra: una cinquantina di invitati, coca  ed alcool a fiumi, e tutto quello che vuoi per sballarti, ottima musica, c’è anche da mangiare……..nessuno sa esattamente dove e che cosa succeda, ma si dice che  Patrick sia generoso e che, con una delle sue serate, guadagni quanto in un paio di settimane o più, e a me tanto basta.

Entro in macchina e mi investe il buon odore dei sedili in pelle , chiarissimi e morbidi, ed un profumo fresco e raffinato, il suo. Me lo immagino addosso e non riesco a trattenere un sospiro

così butto lì un “Gran bella macchina!”, mentre mi allaccio le cinture di sicurezza.

Lui non si è voltato a guardarmi, né si è presentato, ma sa benissimo che non ce n’è bisogno, so il suo nome e so cosa succederà e sarà qualcosa di grande, me lo sento addosso, in questo formicolio sotto la pelle e nel cervello, i muscoli contratti nell’attesa.

“Ti piacciono i Prodigy ?” e senza aspettare la risposta preme un tasto che fa’ esplodere le prime note di “Firestarter”, l’impianto è dei migliori ed il boato dei bassi sembra far vibrare l’intero abitacolo, attraversandomi……….. acceleratore, rapida progressione delle marce, il ruggito crescente del motore , a velocità folle puntiamo verso le colline. Mi sporgo dal finestrino a cercare l’insegna, il mio angolo, ma è già sparito, è a miglia di distanza, forse su di un altro pianeta.

El Monte, Pomona …..i cartelli sfrecciano via, troppo veloci per leggerli e più maciniamo chilometri, più il mio cuore aumenta di giri, proprio come questo motore. Due, tre canion, poi d’improvviso rallentiamo bruscamente, strada laterale, molte curve ed ecco, oltre un alto muro in cemento, un parco……lo chiamo così perché è immenso ma in realtà ciò che vedo alla luce dei faretti che spuntano dal terreno , è un ripido costone punteggiato da quelle che sembrano enormi sculture in acciaio, l’erba è rada e qua e là svettano pochi giganteschi cactus dai rami contorti. Percorriamo il viale d’accesso fino ad un grosso edificio, anche lui in cemento, geometrico ed asimmetrico, già si vede la luce esplodere dalle ampie finestre, musica e voci, la scoppiettante cacofonia che indica una festa al sua culmine. La porta d’entrata da’ direttamente su di un ampio salone già fin troppo stipato di gente per riuscire a distinguerne l’arredamento, la situazione è comunque di classe, realizzo, calcolando approsimativamente  il valore in dollari di abiti e scarpe ed orologi, di quanti mi capitano a tiro. Patrick si è volatilizzato, risucchiato dalla folla, io me ne sto’ ancora a fissare gli enormi lampadari, che non sono poi altro che ampi ciuffi di fibre ottiche, quando avverto il calore di una mano sulla spalla. Il tizio che mi sorride è sulla cinquantina, ridicolmente strizzato in un completo blu navy, la cui ottima fattura non riesce però a nascondere l’evidente prominenza del ventre. E’ più gonfio che grasso, come un viscido pitone che si è appena ingozzato e la voce è melliflua quasi in falsetto. Mi dà il benvenuto e mi chiede se voglio da bere, io taglio corto con il solito :” Vodka non aromatizzata, liscia, doppia”. Lui sbatte le palpebre pesanti  quattro, cinque volte, poi si affretta verso il bar. Ho focalizzato il buffet , non troppo affollato e mi ci avvicino. Il tipo torna e mi sporge trionfante la mia ordinazione, un respiro profondo e lo svuoto con due sorsate. “E’ questione di abitudine!” rispondo alla sua faccia preoccupata….. nella destra una flute con dentro un liquido inquietantemente fucsia e con le bollicine, nella sinistra una tartina con più strati di mousse, ha i gusti alimentari di una ragazzina scema!......lo devo sganciare! Così fingo di seguire il tempo della musica ed ondeggiando mi addentro nella massa di corpi che si agita al centro della sala, la attraverso e rivedo Patrick, il completo di lino perfettamente stirato, malgrado il caldo e la calca, al centro di un piccolo capanello di giovani uomini altrettanto impeccabili, in un’oasi di bianchi divani angolari.

Mi ha visto e mi fa segno di raggiungerli…..”E’ il mio momento!” mi ripeto, mentre driblo non so’ quanta gente per arrivare alla mia meta nel più breve tempo possibile. Le tempie mi pulsano e quasi trattengo il respiro, come per non disturbarli, loro così perfetti negli abiti su misura, mentre impassibili, misurano la sala con rapide occhiate, come se non ci fosse nessuno intorno a loro, separati dal resto della folla rumorosa dal potere e dalla ricchezza che trasudano.

Avrei dovuto capire , che quel brivido freddo, era un segnale d’allarme, il sesto senso che mi ha permesso di sopravvivere , più o meno illeso, a tutti questi anni , per strada.

“Le scale, portano al piano superiore, terza porta a desta!” dice accennando leggermente col capo, così che io possa individuarle oltre i crocchi di invitati.

“OK” rispondo, nel modo più convinto che so………è Patrick e non posso chiedere spiegazioni, anche se vorrei, non posso chiedere quanto mi pagherà, anche se vorrei, è un altro livello e non posso correre il rischio di rovinare tutto con una parola di troppo, ho la fortuna di trovami lì, devo muovermi con cautela se voglio fare mie tutte le possibilità che quest’invito comporta. Non posso fare altro che ubbidire.

La porta è pesante, ma silenziosa, pareti bianche e mobili ultramoderni in legno scuro, quasi nero. Adesso che sono dentro i rumori che dal salone salivano e rimbombavano nello spoglio corridoio, non ci sono più. E’ tutto immobile ed io me ne resto in sospeso, lo stomaco contratto, ad ascoltare il suono del mio respiro un po’ troppo veloce.

La porta si apre ed io scatto in piedi. Lo riconosco, era del gruppo di Patrick, l’avevo notato bisbigliare qualcosa al suo orecchio, prima che mi accennasse di avvicinarmi. Chiude la porta alle sue spalle e mi chiede se mi chiamo Miki, annuisco, lui si limita a frugarmi con lo sguardo per parecchi secondi, poi accenna un sorriso. Evidentemente quello che vede gli piace. Mentre si avvicina, resto fermo in mezzo alla stanza, a metà strada tra letto e porta, perché non voglio precludermi una delle alternative, meglio stare sulla difensiva.

Fermo a pochi passi da me, posso sentire chiaramente il suo profumo raffinato, ammirare la pelle compatta e ben curata, i capelli di media lunghezza, mossi, ma disciplinati da un taglio sapiente: tutto in lui parla di benessere e stile, nell’insieme un gran bel panorama!

“Quanti anni hai, Miki?”

“24” ma già so che cosa si aspetta di sentire, cosa vuole, è un gioco a cui ho già giocato, tante e tante volte………….

“Questo è quello che c’è scritto sui miei documenti…..” aggiungo con un tono tranquillo, quasi noncurante ed accenno un sorriso, e so che funzionerà, come sempre in questi casi.

La frase è bastata a mandarlo su di giri e la cosa è palese.

Un passo ancora e sento un lieve odore d’alcool nel suo alito.

“E dunque?” incalza, a voce bassa , in una specie di sospiro.

“18 tra due mesi!” taglio corto e sono già stufo di questa commedia, inclino la testa e mi concentro sulla parete alle sue spalle, non voglio guardarlo negli occhi, non voglio vedere l’azzurro scomparire ingoiato dalle pupille che si dilatano per l’eccitazione e per qualche sostanza che ha assunto.

La mano sinistra nella tasca dietro dei jeans, la destra lungo il fianco, sto fermo mentre abbassa la cerniera del mio giubbotto. Ancora quella sensazione di freddo nella schiena, come se una mano gelida l’avesse percorsa, non è un buon segno! Ma oggi ho la mia camicia portafortuna, nera e stretta, tutto andrà per il verso giusto. Adesso gli chiedo che vuole, ho voglia di concludere in fretta ed uscire da qui, ma lui mi batte sul tempo e mi dice di spogliarmi.

Ho appena il tempo di sbottonarmi la camicia, che , di peso, mi spinge sul letto. Io striscio all’indietro per allungarmici bene  e mi ricordo di scalzarmi gli stivali, che non ci sono lenzuola, ma il materasso sottile è immacolato, nuovo e non voglio far la figura di sporcarlo.

In ginocchio sopra di me, con un unico strattone abbassa giubbotto e camicia, scoprendomi le spalle ed il petto. Si ferma a guardare.

“Non ne avevi mai visti?” e lui non risponde ma continua a fissare i due piccoli cerchietti  di metallo scuro che trafiggono i miei capezzoli “……non così ? Non su di un ragazzo?” proseguo guardandolo dritto in faccia. Non riesco a decifrare la sua espressione ma attacco con la solita storia.

“Sai, è una zona molto particolare, piena di terminazioni nervose, come un interruttore per il piacere……..acceso, spento” e mentre lo dico, inizio a giocherellare con l’anellino del sinistro, a passarci sopra  i polpastrelli  “ ma, se buchi nel punto giusto, puoi inceppare l’interruttore……..su acceso” i suoi occhi fissi sulla mia mano,  si socchiudono appena quando comincio a strizzarlo e torcerlo lentamente.

Vederlo così ipnotizzato, mi sta eccitando, la mia voce è più rauca e bassa quando continuo “Tu non hai idea di cosa sono state le prime settimane. Erano turgidi e doloranti come se qualcuno li stesse mordicchiando, in continuazione” guardo e vedo che respira più veloce….e anch’io “rischiavo un’erezione solo a mettermi e togliermi una maglietta……..per il solo sfioramento.” e resto un attimo in silenzio, mi mordo il labbro e lo fisso. Ho già vinto, è come un vulcano sul punto di esplodere, ma io voglio di più, anche se le esplosioni sono sempre pericolose.

Mi inarco lievemente sotto il mio stesso tocco, poi mi rilasso e riprendo “Ma anche adesso, dopo tanto tempo, sono comunque uno dei miei punti più sensibili….quasi quanto la mia lingua”  ci passo sopra due dita, che da lì faccio scendere, pigramente, lungo il petto, fino a lucidare l’areola  contratta, per poi percorrere i muscoli tesi dell’addome ed chiudere  ,ostentatamente, la mano sui miei attributi “………o quanto la punta del mio ucc…”

I miei occhi incrociano quelli di Patrick, elegantemente appoggiato allo stipite della porta, che si gode, chissà da quanto, la scena.

“Leonard, carissimo…….ho pensato che non fosse giusto tu godessi tutto da solo di questa…... meraviglia!” il tono è tra l’ironico e il divertito,  ma lo sguardo che fa scorrere su di me, non promette nulla di buono. Il tizio sopra di me, Leonard appunto, scambia con lui una rapida occhiata poi alza impercettibilmente le spalle e si scosta. A quel punto il nostro comune ospite apre la porta ed così adesso loro sono in quattro. La faccenda si sta facendo parecchio complicata ed io vorrei proprio essere da un’altra parte!

“Patrick, anche questa volta devo complimentarmi con te! I tuoi gusti sono, come sempre,  inappuntabili!” gli si rivolge uno dei due nuovi arrivati, dopo una rapida occhiata in direzione del letto.

“Perfettamente d’accordo con te,  Edward! Splendido, davvero……..perfetto!” incalza l’altro, che invece, da quando è entrato,  continua a fissarmi ; i suoi occhi troppo chiari e fermi, contrastano con l’atteggiamento e la voce di uno chiaramente sopra le righe e mi mettono i brividi.

Il padrone di casa ed i suoi ospiti, a vederli così vicini, stessi vestiti, stessi capelli, si assomigliano in modo inquietante, come variazioni di uno stesso tema.

Io me ne resto immobile, mi sento stranamente calmo, ed in fondo che dovrei fare? Andarmene adesso, rinunciando ai soldi e facendo incazzare Patrick, non è un’idea da prendere neanche in considerazione!

Grazie a dio, sono lucido, in corpo ho solo la vodka di prima e di roba, solo lo stretto indispensabile, la solita, non modica quantità, che mi serve ogni giorno per alzarmi e scendere in strada. Tutto quello che mi hanno offerto, da quando sono qui, ho pensato bene di accettarlo e di mettermelo in tasca, per i giorni di magra.

Mi riscuoto dai miei ragionamenti, con la coda dell’occhio ho percepito un movimento. Leonard si è spostato alle mie spalle e sta  cercando di sfilarmi giubbotto e camicia, ma anche con la mia collaborazione ci mette un po’ a liberarmi dal groviglio degli indumenti. Poi comincia a toccarmi le braccia e le spalle, sono carezze rudi, sgraziate, ma le sue mani sono calde e mi aiutano a rilassarmi un po’. Appoggiandomi a lui, mi tiro a sedere sul letto, senza staccare gli occhi dagli altri tre. Patrick non si è mosso dalla porta, ci resta puntellato con aria rilassata ed una strana luce negli occhi che , a pensarsi bene, mi ricorda quella di un grosso felino, che studia la sua preda, ormai senza scampo. Gli altri hanno buttato le giacche su di una sedia e, a carponi, ci stanno raggiungendo sul letto. Io continuo a fissarli, mentre si avvicinano, mentre avanzando iniziano a far serpeggiare le loro mani sui miei jeans. Un gemito mi si strozza in gola, Leonard ha fatto scivolare le sue dita sul mio petto ed ha preso a giocare col piercing, come mi ha visto fare poco fa’. Mi appoggia l’altra mano sulla fronte, fa leva con forza, obbligandomi a reclinare la testa. Subito sento un respiro sulla mia gola scoperta e poi la calda, ruvida sensazione di una lingua affamata che la percorre, baciandola e mordendola piano. Dita forti prendono a torturare l’altro capezzolo, strappandomi un sospiro roco. Cerco di puntare le mani, di farmi spazio, nel groviglio di corpi, ma Leonard mi blocca veloce le spalle con una stretta volutamente dolorosa e mi convince a desistere. Non mi resta che starmene così, come in croce, braccai e gambe allargate sul materasso mentre torcendo il collo, cerco di controllare i movimenti dei tizi sopra di me.

Non riesco a vederli in viso. Sono chini, intenti a fissare diverse parti del mio corpo, e l’immagine che mi balena in mente è quella degli avvoltoi, le steste spelacchiate, immerse nella carcassa che stanno dilaniando. Al pensiero, ogni singolo muscolo si contrae, per qualche interminabile secondo, ma subito riprendo il controllo e inizio a ripetermi che non devo avere paura, non in questo momento, perché come quando si è davanti ad un branco ringhiante, sarebbe davvero la cosa più pericolosa da farsi.

Mi impongo di non pensare, di concentrarmi sulla mia carne, su quello che la pelle mi trasmette.

Quello che si chiama Edward è sceso, dal collo, a lappare clavicole e sterno, e continua, inesorabile, a strattonare ritmicamente i piccoli anellini che mi trafiggono, da cui si irradiano piccole scariche elettriche, dolore e piacere mescolati, che non fanno che amplificarsi a vicenda. Questo semplice gesto ha, da solo, il potere di farmi perdere la testa, sento l’eccitazione montare dentro di me come una marea ed io l’accolgo, chiudo gli occhi e lascio libero sfogo ai gemiti che mi gorgogliano in gola.

Mani e bocche continuano a percorrermi, sento il peso dei corpi, il calore dei loro respiri ormai rapidi quanto il mio. Quando riapro gli occhi mi ritrovo completamente steso sul materasso e loro tre si bloccano a ricambiare il mio sguardo. Un’ inebriante esaltazione mi travolge, il desiderio trabocca dai loro occhi, dalle loro mani, dalle loro patte, ed al centro di questo vortice ci sono io. Sono io il perno intorno a cui ruota il piacere che mi stanno dando e che vorranno anche per se.

Faccio fatica a respirare, la stanza mi sembra asfittica e molto, molto calda ed il mio sesso, duro come non mai, pulsa dolorosamente ancora imprigionato nei pantaloni. Ma mi basta rialzare gli occhi da lui per posarli sul tizio senza nome, per ottenerne subito la liberazione. All’unisono sono di nuovo su di me, a perlustrare, succhiare, stimolare, come se io non fossi altro che una grande, perfetta bambola di carne.

Sono tante le cose che non avrei voluto fare, che ho giurato a me stesso non avrei mai fatto, ma le situazioni e le necessità, mi hanno fatto scendere a patti così tante volte. Sarà solo una nuova, piccola cicatrice, solo un’altra visione ad affollare i miei incubi, un altro brutto ricordo da scacciare con la buona medicina che mi vende C.J.

Una spiacevole sensazione di oppressione mi richiama alla realtà. Il tizio senza nome è a cavalcioni delle mie spalle e con tutto il suo peso mi blocca i movimenti e mi impedisce quasi di respirare. Nell’ordine mi trovo a fissare la sua erezione che svetta sulla mia faccia e poi i suoi occhi ancora qui sgranati e vitrei di prima. Non parla, ma mi afferra violentemente per i capelli e strattonandomi mi obbliga a prenderglielo in bocca. Cerco di adeguarmi, respirando affannosamente col naso, il polsi sono bloccati nella stretta delle mani di Leonard………..chissà perché sono sicuro siano le sue?...........ed il peso di un altro corpo mi blocca le gambe.

Appena finito, si scosta, io cerco di prender fiato, di sputare quello che non ho ingoiato ed in tanto provo a divincolarmi dalla presa degli altri due.

Le gambe sono libere, ma Leonard mi blocca ancora le mani. Tiro, più e più volte, finche sento cedere la presa a riesco a sfilane una. E’ questione di un momento, il braccio ancora imprigionato viene torto ed il dolore mi obbliga a seguire il movimento che gli viene imposto. Leonard sta cercando di farmi mettere a faccia in giù e di riagguantare il braccio che gli è sfuggito.

Scalcio per evitare che Edward mi blocchi le caviglie e sento il panico crescermi dentro.

Qualcosa di morbido e freddo mi si stringe intorno al polso, con un grugnito soddisfatto Leonard dà

un altro strattone ed il laccio si chiude, facendomi sobbalzare per la sorpresa ed il dolore.

Se ci riesce è finita. Se non esco da qui, è finita. Respiro forte per schiarirmi le idee, per concentrare le forze. Mi rannicchio, inarcando la schiena , fino a riuscire a puntare i piedi contro il mio aggressore. Poi di botto spingo, con tutte le mie forze. Il risultato è che mi trovo catapultato mezzo fuori dal letto, ma con grande soddisfazione sento un tonfo ed una furente imprecazione arrivare dal lato opposto. Devo essere riuscito a spingerlo per terra, ma non ho tempo di controllare, mi alzo e riesco a spintonare Edward, che mi si è avventato contro. Appena mi rimetto dritto però qualcosa rimbomba contro il mio orecchio destro, la vista mi si annebbia e casco di lato. Scuoto la testa nel tentativo di riprendermi in fretta, mentre un dolore caldo e pulsante mi si allarga piano piano su tutto il lato destro della faccia: quel bastardo del tizio senza nome mi ha centrato con un gran bel manrovescio e adesso mi fissa dall’altro con la solita espressione vacua. Mi tiro su a sedere come meglio posso e da lì gli colpisco il ginocchio, di lato. L’ho visto fare in un film e funziona! Un rantolo strozzato e cade. Recupero i vestiti e punto Patrick che mi separa dalla porta.

Carico a testa bassa, spingo, ignorando i pugni che mi tempestano la schiena, poi gli mollo una ginocchiata, una sola, precisa a centrare le sue palle.

Con tutto il mio peso lo spingo e riesco ad aprire. Sono fuori. Per un attimo la luce forte, la musica e le voci che rimbombano dal piano di sotto a riempire il corridoio mi disorientano. Mi poggio al muro per recuperare l’equilibrio e vestirmi alla meno peggio. Poi prendo a correre fino alle scale, poi giù fra gli ospiti, nessuno cerca di fermarmi ed io rallento e cerco di respirare normalmente, continuando ad avanzare in direzione del portone d’ingresso. Un gruppo di persone sta entrando o forse semplicemente sono ferme lì a chiacchierare. Ne approfitto e sono fuori dalla casa.

Il vento non è sceso, se ne sente chiaramente il rumore, serpeggiare nel canion. Solo allora mi rendo conto di non aver preso gli stivali. L’asfalto è caldo e tagliente sotto i miei piedi scalzi, ma non me ne preoccupo, non ancora. Voglio mettere un po’ di miglia fra me e questo posto. Non mi posso fermare.

Rasento il muro della casa, poi mi sposto, approfittando dei coni d’ombra che le grandi volute d’acciaio illuminate, qua e là nel giardino, creano. I muro di cinta è alto, anche visto da qui ed il portone certamente sorvegliato.

Il cuore a mille, mi ci avvicino, quasi gattonando, per non essere scoperto.

Tutto andrà per il meglio. Ho la mia camicia porta fortuna!

Ed ecco che il cancello elettrico si spalanca a far passare un grosso Hammer nero e cromato. Io corro, come non ho forse mai fatto in tutta la mia vita e riesco a passare.

Non mi fermo mentre seguo la strada che scende verso la città. La posso già vedere, sfavillante di piccole luci tremolanti, avvolta nella sua solita stola di smog marrone e mi sembra quasi bella.

Anche il vento mi sembra quasi bello, mentre mi colpisce, strappandomi quasi il fiato, anche il caldo dell’asfalto mi sembra quasi bello. Mi ci vorrei stendere sopra, farmi avvolgere da questo calore, come una specie di abbraccio, sono così stanco.

Ma non mi posso ancora fermare, potrebbero venire a cercarmi, potrebbero trovarmi. Devo continuare, almeno fino alla strada principale, fino ad incrociare un’auto, cui chiedere un passaggio.

Scendo e finalmente il rumore del traffico, lo sbuffare dei tir, si è fatto vicino. Alzo gli occhi e vedo che è giorno. Le colline e la città sono di un arancione uniforme, i raggi del sole sono infinite scie di luce che attraversano l’aria e mi fanno socchiudere gli occhi. La solita foschia ha avvolto il cielo e il vento si è calmato.

Scavalco il guadrail e mi sistemo sulla piazzola di emergenza, già un autorimorchio si avvicina, rallenta, vorrei urlare, saltare dalla gioia, ho voglia di piangere e di dormire ma resto fermo col braccio alzato, calmo e sorridente. Le lacrime possono aspettare.