Delirio

di 8a elevazione

 

Alza la testa, poi la riabbassa.

Gli occhi filtrano i colori verticali, le linee gracili dei contorni che forse neanche esistono.

Alza la testa, poi la riabbassa.

Il vento è leggero, la mia schiena si unisce ad un tronco scuro, sento il tessuto leggero della maglietta tendersi alle estremità mentre le mie dita giocano con qualcosa.

Non lo so, semplicemente. I miei occhi lo stanno osservando.

Alza la testa, poi la riabbassa.

Le sue mani sono venose, certamente grandi, assolute. La capigliatura scomposta e dimenticata sulla pelle. Rilassa solo la parte inferiore del corpo, davanti a me si espande nell’aria, senza movimenti. Qualche parola sussurrata a sé stesso.

-Vorrei non dovermi annoiare così- si volta, è dispiaciuto. La bocca schiusa vuole evidentemente esalare discorsi attendibili, il blocchetto di fogli che finisce all’altezza dei suoi polsi potrebbe restare abbandonato. Così, lui si zittisce ed io sorrido. –Quanto sei ingenuo-

Abbassa la testa.

-Scusa- mi muovo in un segno di diniego.

Afferro con meticolosa attenzione l’angolo del braccio più vicino a me, scorro con le dita per giungere al dorso della mano, sul quale rilascio le mie labbra, dal quale ambisco notare l’arrossire, si irrigidisce ed il suo respiro appesantito è parte integrante di questi secondi.

Lascio. Piano.

Infilo dei suoni nelle mie orecchie tramite auricolari. Lui, con le iridi scure, appoggia un viso, torturato dall’insicurezza sul pallore che si nasconde sotto ai fili scuri, che si intromettono nella mia visuale. Infrange lievemente le mura d’amianto, cerca di inserirsi respirandomi, occludendo ogni possibilità di estraneamento.

Mastica l’ossigeno che mi appartiene.

-Ti da fastidio?-

-Che cosa?-

-…-

-Il fatto che mi fissi?-

-Nh-

-No. Certo che no-

-Allora perché non continui?-

-Non posso guardarti un po’ anch’io?-

-Fa come ti pare- Chiudo l’osservazione stendendo l’altezza del collo, riduco le distanze tra me e la sonnolenza che pende tra le tempie. In continuazione.

Capisco che ha ricominciato.

Passano i minuti, lunghi, sacri nel loro restarmi addosso con il silenzio delle persone religiose, poi un tocco gentile si aggrappa al mio ginocchio ed apro un occhio. Finito.

Guardo. Ecco perché mi osservava. Lo vedo muovere le labbra, ma non sento. Vedendomi premere con lenta urgenza un tasto sull’apparecchio, si affretta a ridere ripetendo.

-Ho detto che sono un bugiardo-

-Forse- Non poso un’occhiata sul suo corpo, studio il tratto preciso e corrispondente a quello che realmente è. Un foglio bianco tagliato da righe d’inchiostro cancellabile e nero. Un piccolo abbozzo della sua testa che si riversa attraverso forme e parole. In un angolo, degli appunti schizzati con la fronte corrugata.

Forse i miei occhi non erano chiusi.

“Questa bellezza non gli si rivelerà con un volto né con mani, né con altro che appartenga al corpo”#

-Questa non è tua- lo ammonisco leggermente. –Vieni più vicino- acceca il suo corpo e si porta a sovrapporsi sulla mia spalla magra, porge il viso a quello che sto guardando. Il suo profilo coincide con il retro del mio collo, l’ossigeno che inspira attraversa i miei capelli, per poi entrare in lui, per inquinarlo col mio tepore.

-Infatti- le pareti della mia testa rabbrividiscono sentendo il timbro basso inchiodarsi alla loro consistenza gelida ed asettica. Lo guardo.

Mi metto in piedi e comincio a camminare, porto i suoi disegni e le sue elucubrazioni, percependo la sua confusione. Direzione, spostamento, forzatura muscolare, mi raggiunge.

Le strade evitano il fradicio della gente che si trasporta, mentre la stagione concede i suoi tiepidi rumori, l’isolamento degli elementi più longevi e la costernazione degli esseri più piccoli che si fanno del male.

-D’estate non c’è nessuno in giro-

-E’ un bene, credimi- La mia risposta gli piace –Vuoi andare in qualche altro posto a…-

-No, va bene così. Torniamo a casa. Ho voglia di fare l’amore-

Annuisco e mi concedo un delirio impercettibilmente irreale, un’irradiazione nella mente che segue i canoni dell’eco e mi lascia intravedere quanto la felicità non esista.