Cremisi
parte VI
di Dicembre
C’era un piccolo balcone, in camera di Nyven, che sporgeva sul lago. Gli intrecci che ne delimitavano il perimetro sembravano rampicanti vivi, nonostante fossero in marmo. La balaustra era sufficientemente larga per sedersi: Nyven scoprì presto che quello era il posto che preferiva in tutto il palazzo. Quanti giorni erano passati dal mercato? Un paio, secondo il ragazzo, ma probabilmente molti di più. Non aveva visto più nessuno, se non qualche piccolo castorino che, di tanto in tanto, gli portava da mangiare. Altrimenti, la maggior parte delle volte, si trovava il cibo già pronto: doveva solo allungare la mano e mangiare. Era troppo stanco per fare altro. Sospirò, più dormiva e più i suoi capelli crescevano. Il padrone lo faceva dormire sempre. Non era annoiato dalla cosa, il torpore che aveva addosso era così profondo che sapeva non avrebbe avuto la forza per fare altro. Inoltre non poteva permettersi di essere annoiato, quando il suo dovere era semplicemente quello di fare ciò che Irìyas gli aveva detto di fare. Forse, semplicemente, si sentiva un po’ solo. Sospirò di nuovo. Aveva le gambe accovacciate e il mento appoggiato alle ginocchia. I suoi capelli gli lambivano le orecchie e si disfacevano al soffio del vento. Probabilmente tra un po’ avrebbe dormito di nuovo. Guardò verso il basso, anche l’acqua del lago era increspata dal vento: pareva che non ci fosse anima viva né lì né fin dove il suo occhio arrivare. Forse non si sentiva solo, forse, semplicemente, si stava adattando a quell’atmosfera di solitudine e pace che circondava quel luogo così poco abitato. E pensare che a poca distanza da lì c’era un mercato traboccante di vita… Gli venne in mente nuovamente la vecchia e le sue parole. Una voce in lui gli diceva che l’avrebbe incontrata nuovamente. Non sapeva dove, né quando, ma l’avrebbe rincontrata e lei gli avrebbe spiegato le sue parole. Sventura… Come può portare sventura qualcuno che non fa niente e non dice niente. Nyven eseguiva solo quello che gli veniva richiesto, la sua volontà era quella del padrone. La sventura viene se chiamata, lui di certo non l’avrebbe fatto. Si chiese anche se il padrone fosse nuovamente venuto a parlargli. Si augurò di no… o forse di sì. La compagnia del padrone lo inquietava, ma ugualmente avrebbe voluto ricordarsi delle cose dette, e non parlare con lui solo nel sonno. Al terzo sospirò, Nyven scese dalla balaustra del balcone, stanco di sé. Non gli era stato impedito di uscire dalla sua camera, era inutile quindi segregarsi volontariamente. Decise di andar a cercare Zir. Nonostante il carattere un po’ scorbutico del coniglio, l’Eclage era quello che gli aveva sempre dato una risposta e che, più di ogni altro, s’era preso cura di lui. Camminò lungo il corridoio, sapeva che era inutile tentare di ricordarsi quale fosse la strada che l’avrebbe riportato da Zir: l’architettura del palazzo era in continuo mutamento. In effetti, non avrebbe saputo neanche dire dove potesse trovarsi Zir. Si diresse dove gli parve più ragionevole dirigersi: scese una scalinata che lo portava ad un enorme anticamera dai soffitti altissimi. C’era una porta a vetri enorme che dava su un patio che Nyven non aveva mai visto – sorrise al pensiero: quante cose non aveva visto di quella casa! – quando un rumore catturò la sua attenzione. Si diresse verso una porta chiusa, di legno. Il rumore si ripeté. Poteva essere il rumore di qualcuno che sistemava delle posate, o forse dei piatti. Nyven si ricordò che il giorno in cui era stato portato al palazzo, Zir era intento a sistemare alcuni barattoli in una bacheca. Spero di aver trovato la stanza del coniglio. Si affacciò dalla porta, cautamente, in parte curioso e in parte intimorito di chi o cosa – avrebbe potuto trovare in quel luogo. Si guardò intorno: una cucina. C’erano pentole appese ai muri, cucciai e mestoli che pendevano dalla cappa sopra il tavolo al centro della stanza. E c’era Irìyas. Nyven s’immobilizzò. Il mago leggeva qualcosa, sostenendosi la testa con una mano e con l’altra giocando con una ciocca di capelli. Per un istante sembrò una persona qualunque che stava leggendo un libro. Il suo volto era calmo e attento, Nyven si ritrovò a fissarne i lineamenti e a curiosare lungo il collo e i capelli corvini che risaltavano sulla camicia bianca.. Non avesse saputo chi era, Irìyas gli sarebbe parso un poeta intento a rileggere un suo scritto, con le sopracciglia leggermente corrugate e attente, nella cucina di una casa di campagna. La luce giocava col rame delle pentole, colorando l’aria di un colore tenue e morbido. Nyven ringraziò la sorte che l’aveva condotto lì. “Non entri?” la voce di Irìyas non spezzo il silenzio, semplicemente lo accompagnò. Nyven si studì di non sussultare. “Preferisci rimanere lì immobile a fissarmi?” Senza accorgersene Nyven arrossì. “Mi piace” disse il ragazzo in un filo di voce. Gli piaceva rimanere lì a fissarlo? Gli piaceva cosa? Chi? Ma entrò nella cucina, cercando di non far rumore. Irìyas gli indicò uno sgabello vicino a lui. “Volevi mangiare qualcosa?” “No, signore. Mi annoiavo in camera e …” Devi stare attento” sorrise Irìyas “ rischi di perderti” Nyven abbassò gli occhi imbarazzato: “A dire il vero, signore, è da quando vivo qui che mi perdo in continuazione” “L’altra sera m’hai chiamato Irìyas, perché non lo fai più?” c’era pura curiosità nella voce del mago, e Nyven s’irrigidì di colpo. L’aveva sentito piangere, e l’aveva sentito pronunciar il suo nome in quel modo troppo intimo per poterselo permettere. “Scusatemi” “Non scusarti, ti ho chiesto io di chiamarmi per nome” “Ma…” “La giornata al mercato dev’essere stata molto complicata per te…” Nyven si lasciò ingannare da quel tono pieno di comprensione. Non avrebbe dovuto e lo sapeva, perché un padrone non è mai comprensivo senza un motivo. Ma Irìyas, in quella luce di rame, coi suoi occhi verdi mai visti prima era troppo seducente perché Nyven non ci credesse. “Lo è stata.” sospirò “A dire il vero non è la prima volta che vengo accusato di qualcosa che non ho fatto o che non capisco. Ma quella donna… La Bianca…” Scosse la testa alla ricerca delle parole “Imparerai che la Bianca dice spesso cose che non hanno senso alle orecchie di chi ascolta” “La rivedrò ancora?” Irìyas sorrise e non rispose. Indicò il cesto al centro del tavolo. “Prendine una” e lui stesso mangiò una delle sferette color ambra che lo riempivano. “Che cosa sono?” “Acini di uva d’oro”. Nyven ne prese in mano uno, guardandolo “E’ trasparente” “Mettilo in bocca” Nyven obbedì. Il succo era dolcissimo e fortemente alcolico. Irìyas scoppiò a ridere alla smorfia di stupore e felicità del ragazzo. “E’ buonissima” “Mangiala pure” Nyven non se lo fece ripetere due volte. “Posso chiedervi una cosa, signore?” “Di nuovo, l’hai appena fatto. Chiedimi pure quello che vuoi” Nyven si mise una mano fra i capelli, leggermente a disagio per la sua goffaggine. “Chi è Gyonnareth?” “Perché me lo chiedi?”
“Perché avete detto che l’importante per voi è catturarlo e…” “Lo ricordo perché la Gyo è il suffisso per…” Irìyas lo interruppe: “Conosci molto bene la lingua ufficiale” “Ricordo di aver letto un libro a riguardo, a Droà. E quindi ho capito bene. Volete catturare…” “Esatto” Lo interruppe di nuovo e sorrise, enigmatico. Gyonnareth, un drago. A quella nuova certezza, Nyven fermò la mano a metà strada fra il cestino d’uva e la sua bocca, impietrito. Non capiva né sapeva tante cose. Ma catturare un drago non solo era estremamente pericoloso e probabilmente impossibile, era anche blasfemo. Irìyas rise di questa sua reazione “Vi prendete gioco di me?” “Non dovrei?” Nyven si rese conto che il tono di Irìyas era leggermente cambiato alle sue orecchie, che i suoi sensi si ottundevano. “Sono piuttosto alcolici gli acini che stai mangiando…” Nyven annuì, ma mangiò ancora un paio d’acini: erano troppo buoni per smettere. “Voi volete catturare un drago…” si accorse che c’era ammirazione in quelle parole. In effetti, nessuno poteva vantare fra i suoi trofei la testa di un drago. “Un drago si cattura solo se si uccide…” “Sei ingenuo, Nyven. Sei così ingenuo da suscitare tenerezza” Il ragazzo arrossì, abbassando gli occhi. Aveva le guance in fiamme, aveva davvero bevuto troppo. “E’ che vorrei capire…” “Capire cosa?” “Capire questo posto e capire voi.” Doveva fermarsi, quello era il suo padrone, ma l’alcol gli aveva sciolto la lingua “Sono stato comprato e venduto molte volte, ho conosciuto padroni diversi, alcuni mi hanno insegnato il loro mestiere, altri mi hanno fatto rimpiangere i padroni precedenti ma…” si passò la lingua sulle labbra per umettarsele, aveva la gola riarsa. Continuò a mangiare l’uva. “io vorrei capivi. Ci sono così tante cose che vorrei chiedervi e sapere. Mi limito a guardare, ma sembra non essere sufficiente” “Sapere non è compito tuo” “Lo so” lo sapeva davvero, e non voleva che il mago lo fraintendesse, ma lì con lui avrebbe dato qualunque cosa per un solo dei pensieri del mago. “Vorrei sapere quello che pensi” si sentì dire prima di riuscire a fermarsi. I fumi dell’alcol gli avevano completamente annebbiato la capacità di giudizio. Chiuse le palpebre appesantite, Irìyas si sarebbe sicuramente arrabbiato. Invece non sentì nulla, non un grido, non una percossa. Riaprì gli occhi ed incontrò quelli verdi del mago. Illeggibili. “Scusatemi, io…”si mise in piedi per scappare dalla stanza. Straparlava. “Non dovrei assolutamente parlare in questo stato. Perdonatemi…” fece un passo ma vacillò “Non volevo offendervi con la mia stupida curiosità, avete ragione ad essere arrabbiato, a non parlare…” Perché non taceva? Con la voce impastata, le sue parole uscivano come una supplica, supplicava il mago di dire qualcosa. Pochi erano stati i suoi incontri con Irìyas. Pochi giorni prima era scoppiato in lacrime sperando che il mago lo aiutasse, ora non voleva altro che sentire la sua voce che lo rassicurasse dicendogli che la sua audacia non era stata offensiva. Sorrise amaramente della sua stupidità. Barcollò, perdendo l’equilibrio. Non cadde, perché Irìyas lo sostenne. “Sei proprio ingenuo” Lo sollevò da terra prendendolo in braccio e Nyven, per un attimo, non capì quello che succedeva. Poi si ritrovò col viso sulla sua spalla, gli occhi incollati dall’alcol ma un odore nuovo che lo accompagnava fuori dalla cucina. Si strinse al mago per non cadere.
Irìyas lo portò fino in camera sua, adagiandolo sul letto e coprendolo con le coperte pesanti per non fargli soffrire la notte, lontana dal tepore del sud. Gli spostò i capelli dal viso e chiuse poi la porta-finestra del balcone, rimanendo per un attimo a guardare l’acqua del lago colorata dal sole. Ritornò da Nyven e rimase fermo uno, due, istanti che non seppe quantificare. Poi si abbassò, portando le labbra vicino al suo orecchio: “Non voglio ucciderlo” Se ne andò dalla stanza sorridendo.
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