Il motivo per cui è nata Cremisi è difficile da trovare in poche parole. Un po’, probabilmente, perché ho sempre voluto scrivere un racconto fantasy, un po’ perché ho sempre voluto scrivere un racconto con ruoli molto netti. Un po’, perché il fantasy e i ruoli sono importanti, ma alla fine conta di più più l’ispirazione. E io l’ho seguita.

Come tutti i racconti che ho scritto e che scrivo, la trama è già ben delineata, scritta per punti sul mio taccuino. Non ci sarà la possibilità che “non sappia più cosa scrivere” o che interrompa la narrazione di punto in bianco. So quant’è brutto leggere un racconto che non si concluderà mai e, se credete alla mia parola, questo di certo non sarà la fine di Cremisi (ho finito racconti ben più lunghi ‘^_^).

Se avete voglia di scrivermi commenti, opinioni, critiche o altro, sul sito c’è la mia mail.

Buona lettura ^_^/




 


 

 

Cremisi

 

Capitolo I

 

di Dicembre

 



 

Il sole era allo zenit e bruciava la terra, arida ed esausta. Tutt’intorno al villaggio, il deserto era l’unico padrone: per quante miglia a Nord e a Sud, Nyven non avrebbe saputo dirlo. Le case che erano sorte intorno a quell’unica strada che collegava Droà – la città del sud – con Epsèda – la città dell’est – erano per la maggior parte dell’anno disabitate. Erano terre troppo inospitali perché chiunque potesse pensare di fermarcisi. Solo in quel periodo dell’anno, solo durante la tratta degli schiavi, il villaggio si ripopolava. Gli schiavi che venivano venduti al Crocevia erano della miglior specie: forti e tenaci nel lavoro, domati e sottomessi nell’indole.

 

Nella strada principale era già stato montato il palco dove gli schiavisti avrebbero esposto la loro merce: molte delle persone venute apposta per affari si erano già radunate e aspettavano che il mercato aprisse.

Nyven guardò da sotto il palco gli acquirenti, per la maggior parte umani, alcuni di loro provenienti da luoghi molto lontani. Fissò per un po’ un gruppo in particolare: avevano il corpo e le mani coperti da molti strati di tessuto - la faccia persino - da un velo sottile che lasciava solo intravedere gli occhi. Nyven non ne aveva mai visti di così chiari, di un azzurro terso. Gli avevano raccontato che esistevano degli uomini con la pelle chiara e gli occhi azzurri, ma lui non li aveva mai visti. La sua pelle ormai era bruciata da anni e anni passati sotto il sole di Droà e i suoi occhi erano color dell’ambra. Si chiese se chi aveva gli occhi azzurri vedesse il mondo in maniera diversa, magari per loro il cielo era più blu e la terra meno inospitale.

 

Sentì le catene ai polsi tirare.

“Muoviti, ragazzo, tocca a noi” L’uomo che aveva parlato, Tocua, era il suo nuovo padrone. Continuò a tirarlo per le catene, nonostante Nyven stesse camminando, rischiando di fargli perdere più volte l’equilibrio. Questo gli sarebbe costato per lo meno venti frustrate e un giorni di digiuno, perché avrebbe sporcato i vestiti appositamente tenuti da parte per la tratta. E Nyven non si poteva permettere di saltare nessun pasto, né di ricevere ulteriori frustate. Sospirò, da tempo ormai non osava più guardarsi quella trama fitta di cicatrici che gli ricopriva la pelle del dorso. Il suo vecchio padrone si divertita a frustare i suoi schiavi ogni qual volta che perdeva al gioco.

E il suo vecchio padrone non era certo un buon giocatore.

Proprio a causa del gioco sconsiderato del suo padrone, Nyven era stato ceduto a Tocua: il mercante era di passaggio a Droà e s’era fermato nella taverna, dove il vecchio era ormai ubriaco e aveva terminato tutti i soldi portati con sé. Era stato sfidato, altezzosamente, da chi non sa riconoscere di non essere un buon giocatore, e aveva vinto. Il vecchio s’era visto costretto a pagare pegno con il suo miglior ragazzo, altrimenti avrebbe rischiato di passare qualche mese nelle segrete di Droà e magari di non uscirne vivo.

Tocua non era interessato a Nyven di per sé, come mercante di schiavi raramente si teneva qualcuno al suo servizio. Ma il ragazzo era bello e sicuramente avrebbe reso molto bene al Crocevia dove, se non per le sue braccia, avrebbe potuto essere venduto per il suo corpo.

E poi c’erano quei capelli…

I capelli del ragazzo erano davvero straordinari: neri corvini e lunghi fino alla vita, erano lucidi e brillanti come quelli di una ninfa, seppure Nyven non potesse certo né lavarseli né tanto meno oliarseli di frequente. Non sarebbero passati inosservati. L’unico dettaglio che Tocua non era riuscito a cambiare, erano le ciocche rosso carminio che inevitabilmente risaltavano, fra quella chioma nera. Aveva tentato di tingerle con del succo Alis, ma i capelli non si erano tinti, rimanendo del loro rosso acceso.

Tocua aveva rinunciato quasi subito, non voleva sprecare troppo denaro per delle tinture che non erano efficaci, inoltre – probabilmente – quella stranezza sarebbe piaciuta a qualcuno.

Nyven sarebbe di certo valso un buon prezzo.

Salirono sul palco in cinque. Nyven non conosceva bene gli altri, né sapeva come fossero finiti lì, ma non gli importava più di tanto. Preferiva non conoscere nessuno, non fare amicizia. Sarebbe stato venduto, non li avrebbe mai più rivisti. A cosa avrebbe giovato conoscerli? A nulla, questo il ragazzo l’aveva scoperto in tenera età.

Le catene ai polsi e ai piedi non gli permettevano grandi movimenti, ma non erano dolorose. Il cerchio al collo, invece, quello sì era pesante da sorreggere e, insieme al sudore, macerava la pelle sottostante. Entro sera, Nyven sapeva che avrebbe sanguinato e sperò che il suo nuovo padrone non lo punisse per essersi causato dei tagli freschi, prima dell’arrivo nella sua casa.

Nyven si chiese quali fra gli ormai tantissimi commercianti di fronte al palco l’avrebbero comprato. Forse gli uomini dagli occhi azzurri? O forse quelli laggiù, con le sciabole incrociate sulla schiena? O forse quegli altri, sicuramente abitanti di Droà, che non smettevano di fissarlo?

Tocua, intanto, faceva il suo dovere da grande oratore. A sentir lui, tutti e cinque i ragazzi erano i miglior schiavi che il Crocevia avesse mai visto: forti, sottomessi, ubbidienti e capaci. Fece loro aprire la bocca, per mostrare che tutti loro avevano denti e gengive sane – questo avrebbe alzato il prezzo perché molti schiavi avevano la bocca marcia. Da semplici infezioni, a gangrena che ne inficiava la capacità di parola, ne alterava i lineamenti del viso e spesso li uccideva.

Uno schiavo malato sono solo soldi buttati.

Colpì poi, uno ad uno gli schiavi nello sterno con un pugno, per dimostrare che non avessero malattie respiratorie, anche queste causa di gravi perdite da parte dei padroni.

Tocua stava procedendo all’esposizione delle mani e di come queste fossero abituate al lavoro, quando d’un tratto si fermo.

Nyven guardò stupito il proprio padrone, ma poi si accorse che il silenzio era calato in tutta la piazza. Solo i vento, che sollevava sabbia e polvere, continuava imperterrito a soffiare sul terreno

Poi un rumore di zoccoli e solo dopo qualche istante, Nyven vide chiaramente avvicinarsi un cavallo enorme e nero, montato da un cavaliere ammantato dello stesso colore. La bestia e il cavaliere erano così imponenti da sovrastare il palco.

Tocua guardò il nuovo venuto:

“Posso fare qualcosa per voi?”

Se il mercante fosse intimorito, Nyven non poteva dirlo: la sua voce e il suo aspetto risultarono perfettamente saldi. Il ragazzo capì che cosa avesse generato tutta la fortuna di cui Tocua si vantava spesso.

Il viso del cavaliere era completamente coperto dall’ombra del suo cappuccio, ma Nyven ebbe l’impressione che stesse scrutando attentamente tutti loro, finché non alzò il braccio e lo indicò.

La tunica che lo copriva cadde leggermente dal suo braccio e lo scoprì, rivelando al posto delle dita dei lunghi artigli bianchi.

Nyven sentì Tocua imprecare sottovoce e si spaventò. Se l’essere stato scelto da quell’uomo misterioso non l’aveva particolarmente turbato, il sentir Tocua perdere il suo sangue freddo sì. Un padrone valeva l’altro, bestie o umani, non faceva alcuna differenza. Ma Tocua non aveva mai perso la sua compostezza di fronte a nessuno…

Il cavaliere slacciò una borsa dal dorso del cavallo e la lanciò sul palco. Con l’urto i legacci si sciolsero e le monete – almeno mille  Auri – si sparpagliarono ovunque.

Alla vista di tutti quei soldi, la piazza fu pervasa di un brusio: nessuno schiavo vale quella cifra.

Tocua non poteva credere ai propri occhi e s’affrettò a liberare il collo di Nyven.

“E’ vostro” disse semplicemente, tradendo con la voce, tutta la paura e lo stupore che quel cavaliere ed il suo gesto avevano generato. Prese poi la Pergamena di Proprietà e vi appose la propria firma, per certificare che Nyven fosse stato venduto e non rubato. Il cavaliere afferrò il contratto, poi subito dopo il ragazzo e, come se fosse stata una piuma, lo sollevò dal palco e lo depose sul proprio cavallo. Non disse nulla, ma diede un buffetto al cavallo, che partì al galoppo.

 

Nyven sapeva che non avrebbe dovuto fare domande: se il suo padrone voleva che lui sapesse qualcosa gliel’avrebbe detto lui stesso, altrimenti non doveva saperla. Perciò si limitò ad aggrapparsi alla tunica nera del cavaliere e a chiudere gli occhi.

Cavalcarono tre giorni e tre notti senza sosta e senz’acqua. La temperatura diminuiva gradualmente, ma Nyven era così disidratato che, il pomeriggio del terzo giorno, non ce la fece più a rimanere aggrappato e sul dorso del cavallo.

L’urto con la terra non gli fece particolarmente male, voleva solo bere.

Poi svenne del tutto.

 

 

Riprese i sensi molto dopo, senza capire dove si trovasse. La vista era offuscata e i muscoli così intorpiditi da non riuscire a muoversi. Cercò di dire qualcosa, ma non riuscì a schiudere le labbra ed ebbe la sensazione di avere la lingua grossa e spessa, forse gonfia. Immobile anch’essa.

C’era del movimento intorno a lui, rumore di vetro sbattuto qua e là, passi affrettati: che si trovasse in una taverna? No, c’era troppo silenzio. Forse nella cucina di qualcuno. Il nuovo padrone si sarebbe di certo infuriato con lui, che non riusciva a muoversi. Riprovò, ma rimase immobile.

Riuscì però a distinguere chiaramente due voci.

“L’hai quasi portato qui morto! Irìyas ti avrebbe fatto la pelle!”

“Pensa alla tua di pelle, coniglio! E’ da troppo tempo che mi stai attorno e ancora respiri. Dovresti essermene grato”

L’altro borbottò qualcosa che Nyven non capì.

“Non è colpa mia se gli umani sono così deboli…”

“Ti avevo avvertito. Non te l’avessi detto… ma mi ero raccomandato! E poi, non sarà la prima volta che incontri degli umani!”

“E mi auguro sia l’ultima. Puzzano, sono incredibilmente fragili e certamente stupidi. Chi vanta un minimo d’intelligenza non si farebbe mai mettere quelle catene al collo e alle braccia”

Nyven girò leggermente il viso per vedere chi stava parlando. Riusciva a vedere solo uno dei due interlocutori, ma quando lo scorse del tutto si augurò di essere in un sogno, mentre ancora cavalcava dietro il nuovo padrone. Gli artigli bianchi alle sue zampe erano però l’evidenza che non stava sognando. Era la bestia che l’aveva prelevato dal Crocevia: un Lapdinare.

Erano creature di cui aveva solo sentito parlare e che certamente non calcavano il suolo di Droà. Avevano le sembianze di lupi, col pelo folto e scuro e gli occhi rossi che sembravano trasudare sangue. Camminavano eretti sulle zampe posteriori e usavano quelle anteriori come gli umani usano le braccia, ma all’occorrenza potevano mettersi a quattro zampe per correre così veloce da far nascere la leggenda che nessun occhio umano abbia mai potuto scorgere un Lapdinare correre. La loro forza fisica era nota in tutto il regno, lei stessa oggetto di numerosissime leggende. Nessuno poteva competere con loro, qualunque esercito avrebbe pregato per avere un Lapdinare fra le sue fila, ma i lupi non vengono mai sottomessi.

Nyven si chiese chi osasse parlare con quel tono ad un Lapdinare senza la minima preoccupazione di venire sbranato, per aver detto una parola di troppo.

Esisteva, quindi, qualcuno più potente e forte di un lupo?

Quando il ragazzo riuscì a vedere chi era la persona che parlava con quel tono ad un Lapdinare, sussultò per la sorpresa e questo avvertì i due che s’era svegliato.

“Per la Dea Terra, meno male s’è svegliato”

Il Lapdinare scrutò Nyven coi suoi occhi rossi: “Ce ne hai messo di tempo!” Poi gli diede le spalle. “Vado nella foresta, qui non servo più e non voglio perdere ulteriore tempo a discutere con un coniglio grasso”

Il lupo scomparve dalla stanza. Solo lo sventolio della tenda indicò a Nyven che era uscito dalla porta.

“Non è grasso” puntualizzò il coniglio guardando Nyven “E’ pelo” concluse poi massaggiandosi la pancia.

Un coniglio. Un Eclage per essere precisi. Alto probabilmente meno di lui, coi baffi e la peluria bianca intorno alla bocca, profonde rughe intorno agli occhi e degli occhialini da vista tondi sul naso rosa che continuava a muovere infastidito, come se gli facesse prurito.

Un Eclage paffuto e vecchio che parlava con quel tono ad un Lapdinare?

“Smettila di guardarmi come se avessi visto un fantasma! Non aver mai visto un Eclage non ti dà l’autorizzazione a guardarmi così, bamboccio di Droà. Non pensare che, siccome sono solo un coniglio, non possa tenere testa anche a te, perché ti sistemo io” disse agitando la zampa in direzione di Nyven “Così come sistemo quell’ arrogante di Mamim”

“Mamim?” Nyven aveva la gola così secca da avere dolore nel pronunciare le parole.

“Mamim, sì, il Lapdinare. Il lupo!” gli rispose l’Eclage come se stesse parlando con uno stupido. “Ma ora sbrigati perché il tuo nuovo padrone ti vuole incontrare”

Non era l’Eclage il suo nuovo padrone, dunque.

Non potevano essere fatte domande, né si poteva alzare lo sguardo, ma la curiosità di Nyven per quel posto era così intensa che indugiò a lungo con lo sguardo su quella stanza e sul coniglio di fronte a lui. Gli sarebbe costato qualche frustata, probabilmente, ma come poteva non guardare? Solo un attimo, poi abbassò lo sguardo, il buonsenso prevalse.

L’Eclage annuì, compiaciuto, ma non disse nulla, semplicemente lo aiutò ad alzarsi.

Solo una volta seduto, Nyven si rese conto di essere stato completamente rasato. Forse il suo nuovo padrone lo preferiva senza capelli, o forse erano troppo sporchi per essere presentati al suo cospetto

“Zir”

Il ragazzo non capì e guardò l’Eclage aggrottando la fronte.

“Zir” ripetè il coniglio infastidito “Mi chiamo Zir. Cosa vuoi fare, chiamarmi Eclage per tutta la vita? Vuoi che io ti chiami Umano per sempre? Non è mica piacevole sai?” L’Eclage agitò le zampe indispettito “Io ti chiamo Nyven tu mi chiami Zir, è facile no?”

“Sìsì” il ragazzo si affrettò a rispondere “Molto facile signore!”

“Niente signore, solo Zir. Il tuo signore ti sta aspettando, e non sarà certo contento se lo faremo attendere. Non è proprio l’uomo più paziente del regno”

Il coniglio gli fece cenno di seguirlo e Nyven  cercò di stare al passo. Le gambe erano ancora troppo intorpidite per correre, ma voleva evitare di dare un buon pretesto al proprio padrone per arrabbiarsi. Zir l’aveva chiamato uomo, quindi probabilmente il suo nuovo padrone era un umano. E questo rasserenò l’animo del ragazzo: troppe bestie ignote per volere che anche il nuovo padrone fosse una di loro. Gli umani lui li conosceva bene, non l’avrebbe colto impreparato. Sapeva come erano fatti, come parlavano e li capiva. In un certo senso, conosceva il suo padrone meglio di quanto conoscesse l’Eclage o il Lapdinare.

Servire qualcuno che si conosce rende la vita molto più semplice.