Venerdì.
Hanamichi si avviò a scuola cercando in qualche modo di prepararsi allo
strazio di un’altra giornata.
Unico pensiero confortante, venerdì.
Era venerdì, e poco, ancora poco, mancava alla domenica pomeriggio…
La borsa di libri pesava, e pesava pure la sacca con il cambio per gli
allenamenti. Tutto quel peso lo faceva sentire reale, dannatamente reale.
Troppo, si disse, mentre di nuovo concentrava il pensiero su domenica.
Quel sabato inoltre non avrebbe avuto i consueti allenamenti supplementari
(pesanti, per chi non è sicuro che quello che fa sia realizzare un sogno
vero…) e avrebbe potuto girare un po’ a cercare materiale vario per
domenica. Nel più assoluto anonimato, ovviamente.
Non faceva che nascondersi: nascondere i momenti no, nascondere i
sentimenti reali, nascondere le sue passioni, l’interesse per certe
lezioni…tutto per essere esattamente nella media, in fondo nient’altro che
un innocuo ragazzaccio un po’ maleducato e anche un po’ tonto…compagni e
professori non si preoccupavano nemmeno che lui li sentisse o no, quando
lo prendevano in giro o lo denigravano…
Viveva ormai da tempo in questa sorta di apnea, tra l’ansia di una
madre rigida e fredda come solo chi ha perso la voglia di vivere può
essere e la scuola, dove lo sforzo principale era non solo non sentire, ma
addirittura non percepire alcunché.
Dopo le lezione, al solito, allenamenti: solo un piccolo respiro si
concesse, posando il borsone sulla panca, prima di tornare in apnea…
"Perché poi dovrei essere sempre reale?"
Una distrazione imperdonabile, l’aver dato voce a un pensiero che
spesso ronzava nella sua testa rossa. Imperdonabile, visto che qualcuno
aveva sentito…
"Reale che? Do’hao. Sbrigati"
Era rimasto un po’ scosso, Rukawa, dalle parole del rosso. Perché
domandarsi una cosa simile? Simile, tra l’altro, a domande che lui stesso
non riusciva a ignorare, quando, solo si concentrava sul canestro dietro
casa, e continuamente si obbligava a inseguire quel che aveva deciso
essere il suo sogno. Perché non uscire con una di quelle ragazze, no non
quelle sfacciate del suo fan club, con una di quelle che lo osservavano di
sottecchi, magari senza avvicinarsi dall’altro capo dell’aula, o con uno
di quei ragazzi così carini che da un po’ provavano a invitarlo a giocare
a street basket con loro? Perché rifiutare sempre una pizza con quelli
della squadra, una merenda di quelle preparate da sua madre, una birra
davanti alla tv con suo padre? Tutto era consacrato al sogno, e a quello
soltanto. A volte si permetteva di sospettare che esistesse un "resto" che
non l’avrebbe aspettato ancora a lungo…
Ma non era da Sakuragi tutto questo rimuginare, probabilmente stava
ripetendo una frase sentita chi sa dove senza la più pallida idea di cosa
volesse dire. Già.
Scossa la chioma nera, come a conferma del suo ultimo pensiero, Rukawa
si diresse in palestra.
Fine degli allenamenti, e la domenica sempre più vicina. Sopportò
secondo il solito copione le ultime battute mentre faceva la doccia. Tra
sé, contava le gocce che gli scivolavano dai capelli e pensava che ormai
non si meritava più tutti quegli insulti: certo non era Jordan, ma non era
più un peso per la squadra, non faceva quasi mai falli e…beh, stava
diventando bravo, insomma…e allora? Va bene gli scherzi, però…
In fondo lui stesso non era davvero in grado di difendersi: si
arrabbiava in modo ridicolo e in verità non rispondeva mai agli insulti
con convinzione. E, accidenti, era evidente…
Ma ad ogni goccia d’acqua bollente che dai capelli scivolava sul collo
e la schiena doloranti per la fatica, portandosi via un po’ di stanchezza
e di schiuma, la domenica si avvicinava.
Sorrise. Non avrebbe risposto, non avrebbe picchiato nessuno, non
seriamente. Non era importante. Importante era solo il vero Hanamichi,
quello che viveva di domenica pomeriggio. Quello che era considerato un
leader, magnifico e carismatico, quello gentile e forte, ma soprattutto
quello amato e circondato di amici sinceri e disponibili.
Ironia: non conoscevano neppure il suo vero nome, ma lo amavano, gli
volevano bene davvero. E finalmente l’apnea era sospesa fino alla
mezzanotte, e poteva respirare, fare scorta dell’aria che gli sarebbe
servita per tutti i giorni di solitudine, durante la settimana.
Aveva pensato a volte di immaginarsi tutto, che quegli amici della
domenica non fossero altro che maschere vuote, come le persone conosciute
in chat: confidenti amichevoli, ma per sempre estranei.
Aveva pensato che non doveva più andare al tempio Harajuku, ma farsi
degli amici "reali", e che non poteva pensare di vivere solo per la
domenica pomeriggio.
Aveva pensato di parlarne con qualcuno, e alla fine ne aveva parlato
proprio a loro: appoggiato al parapetto della stazione guardava i treni
mentre parlava, e non si era accorto da subito degli sguardi di
comprensione e gentilezza degli altri alle sue spalle, e aveva concluso la
piccola tirata contro se stesso vergognandosi da morire. E poi…poi aveva
scoperto di avere degli amici veri: si era trovato circondato di sorrisi e
parole di conforto, e aveva scoperto in loro le stesse incertezze.
Alcuni si conoscevano anche nella vita reale, altri no, alcuni
meditavano di rivelare il proprio nome, e altri non ancora. Avevano
chiesto a lui, e avevano accettato il suo silenzio, con la promessa che un
giorno anche lui sarebbe stato anche un "amico reale".
Forse non erano reali, ma di certo erano veri. Amici veri.
Era domenica, finalmente, e al suono di "Dive to blue" Hanamichi
preparò la borsa, molto più pesante di quella della settimana, anche se,
in effetti, molto più leggera.
Salutò la madre assicurandole che, come ogni domenica, sarebbe andato
al campo di basket nel centro sportivo vicino alla stazione di Harajuku a
Tokyo, a giocare un po’ con i suoi amici… La signora Sakuragi si stupiva
ogni volta che il figlio facesse tutta quella strada per giocare con degli
amici, e sorrise tra sé pensando che forse aveva trovato la sua strada…o
una ragazza, e si vergognava a confidarlo alla sua mamma.
Era domenica, purtroppo, e al suono di "Dive to blue" Rukawa tentava
invano di tenere gli occhi aperti: sua madre l’aveva costretto ad andare
con lei al tempio Harajuku per chissà quale commissione…dei parenti, gli
sembrava di ricordare, ma in mezzo alla musica sparata a tutto volume
aveva capito poco.
Si guardò intorno assonnato, ma poi spalancò gli occhi: usciti dalla
stazione si erano trovati circondati da una folla multicolore di
personaggi dei manga incarnati e sosia dei più disparati cantanti…c’erano
perfino due gruppi abbigliati e pettinati come i membri degli Arc-en-Ciel,
che stava ascoltando per tenersi sveglio…una ragazza abbigliata di un
lungo abito nero pieno di merletti e truccata con una specie di lacrima
nera che le scendeva da un occhio si avvicinò a fargli un inchino… Kaede
passò oltre in tutta fretta..in verità era un po’ spaventato da quegli
strani individui…si avvicinò alla sagoma familiare e rassicurante della
madre quando per poco non si buttò a terra distrutto dal panico: stava
parlando con quelle…ma che erano? Lunghi vestiti neri o tutine aderenti
dello stesso colore, lunghe ciglia e lunghissimi capelli biondi o
bianchi…massì, di che fumetto erano…
E SUA MADRE STAVA PARLANDO CON DEI PERSONAGGI USCITI DIRETTAMENTE DA
"CAPITAN HARLOCK"?!?!?!?!?
"Kaede, vieni qua, guarda come sono belle!!! Ragazze, siete bravissime,
come avete fatto per cucire queste tutine?Ma partecipate anche alle gare?
Kaede!!!"
Sua madre era patita di costumi e simili…d’altra parte aveva lavorato
come costumista per svariate coproduzioni USA-Giappone, bhe, in verità era
proprio una fissata.
Ma ora in mezzo alle "aliene" era comparso un altro personaggio, non
prima di esser stato salutato e abbracciato da…più o meno da tutti i
ragazzi nel giro di un km!!!Lo chiamavano tutti Hide, ma a lui e a sua
madre si presentò in un altro modo…
Uffa, il treno aveva fatto ritardo e ci aveva messo due ore a
cambiarsi, i bagni alla stazione erano tutti pieni…
Finalmente Hanamichi era di nuovo Hide, il suo vero se stesso…aveva
scelto quel "nome d’arte" non solo perché gli piacevano gli X-Japan, ma
soprattutto perché, in Inglese, "to hide" significava nascondersi. Gli
sembrava giusto che il suo vero io, quello che di domenica portava con se
sul treno, nel borsone, avesse quel nome: perché era sempre diligentemente
nascosto, e perché emergeva solo nel momento in cui, per gli altri, lui si
nascondeva di più, travestendosi per somigliare a qualcun altro.
Oggi era capitan Harlock…tutto era partito dalle ragazze, che avevano
trovato quelle benedette parrucche e avevano deciso che ci sarebbe voluto
anche un capitano. E tu hai il fisico adatto, capitan Harlock è un figo!
Gli avevano detto così, lui era un po’ arrossito e infine aveva accettato.
Ora era pronto: i vestiti di pelle nera, aderenti ma non troppo, con i
risvolti rossi dei polsini e quello ampio del collo della giacca che
lasciava intravedere una catena, il teschio bianco sul petto, gli stivali
alti e la spada al fianco. Aveva lasciato perdere il mantello, non
trovando la stoffa adatta, ma un po’ ora se ne pentiva.
I capelli tinti appena di una tonalità chiara di castano ricadevano
morbidamente su un occhio, lasciando scoperta la cicatrice disegnata con
cura.
Perfetto.
Si avvicinò ai suoi amici, ma non fu possibile coglierli di sorpresa,
dato che, fatti due passi, si trovò immerso tra saluti, abbracci e
quant’altro, che senglalarono subito la sua presenza.
Ad essere colto di sorpresa, però, fu lui stesso…che cavolo ci faceva
Rukawa lì?
Rimase qualche minuto in più a salutare varie persone, poi vide la
signora dagli occhi azzurri e sentì i complimenti rivolti alle sue
amiche.
Forse non c’era pericolo.
Si avvicinò al gruppetto rivolgendo un piccolo inchino alla signora e
al compagno, che non poteva riconoscerlo, per poi salutare calorosamente
le amiche.
"Hide! Ciao, sei bellissimo!"
"Ragazze, siete splendide anche voi, Mimi avevi ragione sulle
parrucche, sono perfette…Piacere, signora, sono il capitano Harlock
dell’astronave Arcadia" disse poi rivolgendo un sorriso accattivante a
quella che doveva essere la madre di Rukawa.
"Piacere, ragazzo, complimenti anche a te per il costume, e come sei
fortunato, circondato da tutte queste belle aliene!!!Come ti chiami"
"Mi scusi, ma noi cosplayer non diciamo mai i nostri veri nomi, noi lo
chiamiamo Hide…e poi…magari avesse qualche preferenza per noi!"e con una
risatina Mimi, che aveva risposto per lui vedendolo in difficoltà, scappò
via a farsi fotografare da un turista, facendogli poi un grazioso
inchino.
Kaede, intanto, era rimasto fulminato: aveva visto il ragazzo avanzare
sicuro ed elegante, recitare la parte come se davvero fosse il personaggio
che interpretava, l’aveva sentito negare risposte con uno sguardo dolce ma
deciso, visto respirare sotto quell’indumento che lo fasciava con eleganza
indecente…e infine l’aveva guardato, davvero, negli occhi. E non c’era
ormai altro da fare che descrivere fatti già avvenuti: era incantato da
quella creatura, avrebbe voluto solo avvicinare il viso al suo e sentirne
il respiro, per essere certo che fosse reale. Poi…beh, non si sarebbe
accontentato del respiro, sulle sue labbra…
Cotta?
Già.
Si annotò mentalmente il luogo e l’ora, per tornarci.
Sul treno di ritorno sua madre era entusiasta: arrivò perfino a fargli
una confidenza, raccontandogli che quando cuciva o sceglieva costumi per i
film, spesso si chiudeva da qualche parte con i copioni, e imparava a
memoria le scene in cui comparivano i personaggi con i vestiti più belli,
per poi provarle davanti allo specchio indossando di nascosto i costumi, e
diventava un’avvocato di successo con completo di Chanel e tacchi alti, o
una misteriosa dama con un kimono particolarmente elaborato, o una
guerriera cinese dalle vesti trasparenti sollevate dal vento…
Kaede ascoltava, poi espresse il suo dubbio.
"Sono rimasto affascinato da tutti quei costumi, ma io non lo farei
mai."
"E perché, ti sembra facciano qualcosa di male? E non dirmi cose tipo
sono pazzi o simili, mi deluderesti." Sapeva di aver risposto bruscamente,
ma il tono freddo di suo figlio l’aveva stupita: possibile che non sapesse
comprendere nemmeno un po’ gli altri? Ma lo sguardo di Kaede, che sembrava
cercare nuove parole, la rassicurò un poco. E infatti dopo qualche
secondo
"non mi sono spiegato, non è che li disprezzo…beh all’inizio quando ho
visto così tanti cosplayer un po’ mi sono preoccupato…ma la verità…" per
lui era così difficile confidarsi…ma doveva buttarlo fuori, stavolta" in
effetti io non o farei mai perché avrei paura di perdere me stesso dentro
un personaggio, e di non essere più io…non so come spiegarmi…"
"Bhe, forse a volte uno che interpreta un personaggio vuole proprio
dimenticarsi un po’ di se, regalarsi una piccola vacanza dell’anima,
oppure, chi lo sa?magari il vero io di qualcuno viene fuori solo da dietro
una maschera di quel tipo, che gli permette di esprimere una passione, o
di dimenticare la timidezza…E poi, Kaede…il tuo io è una cosa che si forma
in ogni azione che fai: in ogni momento non sei più quello di prima, né
quello che sarai tra poco. Il tuo io non è un insieme di caratteristiche
decise a cui devi essere sempre fedele…si può cambiare, abbandonare
interessi e abbracciarne altri, si può dimenticare sogni e scoprirne
altri, si può decidere di sorridere anziché restare indifferenti, o di
fare quello che ti va di fare, anziché quello che pensi di dover fare…ah
ma questo non vuol dire che quando arriviamo eviti di fare i compiti!"
Kaede sbuffò appena contro il finestrino…aveva ragione lei. Rivolto un
mezzo sorriso alla madre si cullò per il resto del viaggio nel pensiero
dell’affascinante capitano per cui si era preso una cotta.
Il mercoledì. Uscita collettiva dello Shohoku, e come ogni mercoledì lo
scopo unico era ubriacarsi abbastanza da non sentire imbarazzo nello stare
con persone che, in fondo, avevano in comune solo il basket liceale.
Hanamichi sbuffò solo nella propria testa…aveva finto così bene di
essersi dimenticato dell’"appuntamento"…e invece, proprio sull’uscita
dagli spogliatoi l’avevano chiamato per ricordargli l’impegno.
Almeno il locale era diverso…il 999 era piuttosto grande, una stanza
dai soffitti alti, stretta e lunga, arredata come l’interno del vagone di
un treno. Chissà se il gestore era un fan di Galaxy Express 999?
Ordinò un cocktail dal nome invitante e dal sapore disgustoso, ma
piacevolmente superalcolico… C’era perfino Rukawa, quella sera, chissà
perché era venuto…
Chissà perché sono venuto qui, si chiedeva il moro sorseggiando
un’aranciata, cercando di ricordare cosa, nel discorso di sua madre,gli
era sembrato così convincente…ora proprio non aveva voglia di scegliere i
rapporti sociali. Voleva avere rapporti sociali solo con il bel capitano
di domenica.
Si trovò accanto Sakuragi prima di rendersene conto, mentre il rossino,
un po’ brillo, caracollava verso un alto sgabello lì accanto quasi volando
per terra mentre tentava di arrampicarcisi sopra. Quando, in effetti,
cadde, Kaede senza dire niente (non si sarebbe comunque sentito, in mezzo
alle risate degli altri) sostenne il compagno e il suo sguardo. Poi,
avvicinato lo sgabello, lo aiutò a sedersi. Strano come, nonostante il
rumore, tutto gli sembrasse così silenzioso. Anche Hanamichi lo era. E,
seduto dritto e composto per non cadere, stranamente gentile dopo la
sorpresa del suo aiuto, aveva assunto un’aria elegante e forte: Kaede non
immaginava che da ubriachi si potesse sembrare così affascinanti…
Qualche birra dopo il rosso ruppe il silenzio.
"Sai"biascicò con la lingua impastata"mi hai dato l’ispirazione"e lo
guardò in modo indecifrabile, le pupille dilatate per l’alcool, o forse
per lo stupore dell’idea.
"Credo che dirò il mio nome, la prossima volta"
"Do’hao, lo so già il tuo nome" Kaede non capiva. Ma non ebbe modo di
saperne di più. Era l’una, e Akagi aveva appena deciso che era ora di
andare a casa.
Quella notte, sognò aliene bionde e pirati spaziali dai capelli
rossi…
Fine parte 1
I vari personaggi protagonisti
e citati non sono miei ma chi di dovere, invece la fic è per Ria: tanti
auguri dear!!! E grazie…^__^
Kiss
Ake