Controindicazioni di Yuu
studio
letterario della personalità e delle CONTROINDICAZIONI sull’educazione
all’infante Testo sperimentale,
maneggiare con cura. Dello scrivente, LA
CONDIZIONE, e del primo oggetto. - Ho trovato una
definizione del Bello, della mia concezione del Bello. È qualcosa di
intenso e di triste, che lascia spazio alla congettura. […] Una magnifica
testa virile […] suggerirà ardori e passioni – bisogni spirituali –
ambizioni tenebrosamente represse – una forza divenuta amarezza per
mancanza d’impiego – tracce, a volte, di una vendicativa freddezza, a
volte, anche – ed è una delle caratteristiche più interessanti della
Bellezza – di mistero, e infine (mi si conceda di confessare a qual punto
sono un moderno in estetica) di infelicità. Non pretendo che la Gioia non
possa accompagnarsi alla Bellezza, ma asserirò che la Gioia è uno dei suoi
più volgari ornamenti, mentre la Malinconia può essere chiamata la sua più
illustre sposa – al punto che non riesco a concepire (il mio cervello è
forse uno specchio stregato?) un tipo di Bellezza che non abbia nulla a che
fare col Dolore. - Baudelaire,
Fusèe Potrei cominciare affermando quanto la mia morale perbenista calorosamente mi suggerisce: che non mi trovo in accordo con ciò che ho citato, al contrario l’amore è gioia e soprattutto bellezza. Purtroppo non è così. Non vedo alcun motivo per cui dovrei salvare la faccia in questo particolare ambito, perciò lascerò che ciascuno pensi ciò che preferisce, riservandomi di considerare una lacrima più affascinante di un incisivo. Ma non è questa la causa prima, per cui ho arbitrariamente deciso di tediarvi. Baudelaire dipinge, a mio avviso in modo eccellente, un ritratto di colui che sarà il mio primo oggetto – poiché di soggetto non si può parlare, a motivo della sua assoluta impossibilità di intervenire nelle mie decisioni di direzione artistica. Purtroppo la qualità media del personale con cui sono costretta a lavorare e piuttosto bassa. Dov’eravamo rimasti? Ah, sì…il fascino del male. Concepite un individuo bello come un angelo e capace di far infiammare anche una pietra, ma, sebbene il dolore risalti splendente da una parte all'altra dei suoi impenetrabili occhi, tenacemente manchevole nel mostrare la seppur minima emozione; immaginatevi che egli, forte nella propria autodistruttiva mancanza di fiducia, sia divorato da un impellente e represso bisogno di redenzione, che lo incateni senza scampo al suo passato. Dunque iniziamo. Mi scuso fin da ora per eventuali incongruenze o sbalzi nel percorso logico, purtroppo la mia patologia mi impedisce di distinguere in modo assoluto la realtà dalle visioni. IL PRIMO OGGETTO Ei fu Genjo Sanzo Hoshi. Il suo grado di importanza a livello sociale e religioso nel mondo cui apparteneva – nello specifico una sorta d’Asia globale, divisa tra antico e moderno - era tale che, se l’occidente e il cattolicesimo vantassero tre Papi, egli sarebbe uno di questi. Un simile prestigio gli era dovuto dal titolo di Sanzo; prescelti destinati a portare con sé e difendere ciascuno dei cinque sutra dell’origine celeste dell’universo, pergamene che riportavano appunto la storia della creazione del mondo – pretendere di conoscerne i nomi è troppo anche per me. I Sanzo erano considerati santi e saggi uomini al di sopra di ogni umana debolezza, forse persino in grado di compiere miracoli. Ora che avete assorbito tutte queste informazioni, capovolgetele. Genjo Sanzo fu invero un uomo assai mediocre, preda di vizi e nevrosi. Posate quei fucili, suvvia, non intendevo sminuirne la personalità. A mente fredda, per un osservatore esterno, egli fu certamente il peggiore esempio che la sua religione abbia mai conosciuto. Sopra ogni altra, la peggiore delle sue attitudini è stata quella di accompagnarsi a demoni di bassa risma, in un periodo peraltro in cui i demoni erano soggetti a perdere coscienza di sé, aggredendo gli esseri umani. Dimenticavo, in questo mondo uomini e demoni convivevano in pace, fino a poco prima del periodo della vita di Sanzo cui si rivolge il nostro interesse – ho sentito così tante volte la storia del Togenkyo che non mi va neppure di scriverla. Perciò, volendo giungere di corsa alla parte interessante dello splendido oggetto in questione, in cui splendido è da attribuirsi in larga misura al suo celestiale aspetto - che pure lo rendeva ancor meno adatto ad essere un monaco -, egli ebbe nei confronti del suo prossimo un atteggiamento degnamente riassunto in questi versi. -
Il mondo non amai, ne m’ama il mondo. Non ho adulato il suo
fetido fiato, non mi sono mai
chinato a idolatrare, non ho imparato
l’arte del sorriso, né strepitando ho mai
adorato un eco; giammai la folla mi ha
potuto dire uno dei suoi: tra
loro, e non dei loro io sono stato; sempre
mi hanno avvolto pensieri che non erano
pensieri uguali ai loro, e
ancora lo potrei - non avessi insozzato
la mia mente, ora piegata alla
sottomissione. - Lord
Byron, Childe Harold, III, 113 Dunque, forse è il caso di ricordare che non di sua volontà egli era divenuto ciò che era. Genjo Sanzo non ebbe madre, né padre, se intendiamo colui che avendolo generato avrebbe dovuto crescerlo. Ebbe Komyo Sanzo; costui gli fu riservato da Destino e Natura, concordi nel volerlo mantenere in vita. Tuttavia quello che fu suo padre e il suo Maestro morì in un giorno d’ostile pioggia, rivelando infine tutto il suo egoismo. Gli aveva sempre insegnato che la regola più importante era non avere legami e lo aveva infine distinto con il chakra rosso di coloro che sono prescelti. Morì e lo fece per lui. Lasciandolo solo, con la pioggia a ricordargli che aveva fallito. Aveva fallito in entrambi i propositi. Aveva ucciso il suo Maestro e non aveva importanza che fossero stati dei demoni a colpire, lui non era stato in grado di difenderlo. Per questo motivo l’imperturbabile Genjo Sanzo Hoshi portava con sé per difendersi l’arma che avrebbe più facilmente potuto puntarsi alla testa. Ma come spiegare gli ultimi due versi? No, non sono un caso e nemmeno “l’entrambi” di qualche riga sopra. Si può dire che Genjo Sanzo in effetti fallì su tutta la linea. Ovvio, la visione utopistica del non avere legami propagandata dal suo venerabile Maestro, se interpretata letteralmente, era per un essere umano persino più irrealizzabile dei miei propositi di conquista e dominio del mondo. Qui sta peraltro il nostro principale motivo di analisi: le conseguenze di un’educazione dialettica assolutamente incompatibile con la naturale inclinazione alla socialità. Proprio così, Sanzo dovette cedere, piegando, non senza tentativi di rivolta, la propria mente ad accettare la sottomissione al cuore. Mai osò oltre la mente. Fu così che, per non infrangere gli insegnamenti del Maestro e riuscire a convivere con le proprie pulsioni umane, fu capace di frustrarli entrambi. IL SECONDO OGGETTO Egli non aveva memoria. Aveva subito cinquecento anni di dolorosa prigionia per un crimine di cui gli era stato cancellato ogni ricordo – probabilmente una delle condanne più stupide mai viste. Possedette soltanto se stesso ed un nome che gli era stato donato da un’ombra senza volto; quel nome fu Son Goku. In verità affermare che egli possedesse se stesso è azzardato. È forse più corretto considerare che l’unico scopo della sua vita, nonché tutti gli interessi che in essa avrebbe potuto avere, s’incarnarono in una sola figura; quella del suo salvatore, colui che lo liberò dalla prigionia, riportandolo alla luce dopo cinquecento anni di tenebre. L’uomo dalle sembianze divine che gli tese la mano prendendolo con sé e riportandolo alla vita, stette a Goku come il Sole sta alla terra e con il Sole Goku lo identificava. L’uomo che non faceva altro che chiamarlo stupido e picchiarlo o sparagli qualsiasi cosa dicesse, persino quando lui desiderava soltanto essere gentile o consolarlo nei giorni di pioggia; colui che è facilmente identificabile come Genjo Sanzo Hoshi. Stupido non era l’aggettivo più adatto a definire Goku. Non era certo un modello di comportamento da seguire, ma cinquecento anni di buia prigionia trasformerebbero chiunque in un mostro di depressione ed asocialità, mentre lui continuava ad essere un ragazzino pieno di vitalità e amore per la vita e questo bastava a renderlo incredibile. No, stupido non era decisamente un aggettivo adatto. - Che ne dici di deficiente?! - Sì, deficiente va meglio. Dal latino deficere: mancare in qualcosa, Goku mancava in conoscenza, questo può bastare a definirlo stupido? Mancava in conoscenza del mondo, mancava della memoria delle tragedie che lo avevano condotto alla pena e per questo peccava di fiducia. E per uno come Genjo Sanzo, che aveva la presunzione di conoscere i segreti del mondo e non si fidava neppure di se stesso, un simile comportamento era sufficiente a definirlo molto stupido. Con questo estratto, frutto della mia ricerca letteraria, presenterò l’essenza della “stupida scimmia”, di cui fa parte integrante una considerazione su colui che è il suo mondo personale. -
Scommetto che ha ciò che certa gente […] chiama una coscienza, una specie
di nevralgia, dicono – peggiore del mal di denti. Be’, io non lo so cosa
sia, ma prego il Signore che non me la faccia venire. Dannazione, val
proprio la pena nascere nel mondo, non fosse altro che per addormentarsi.
Dannazione, è tutto strano, se ci si pensa. Ma questo va contro i miei
principi. Non pensare, è il mio undicesimo comandamento, e quando puoi
dormi il dodicesimo. Una risata è la più
saggia e più facile risposta a tutto ciò che è strano. Non so quello che può
succedere, ma sia quel che sia, gli andrò incontro ridendo. Impazzire è contro la
mia religione. - Melville,
Moby Dick E di impazzire era la sua
più grande paura, ma non si trattava di una semplice pazzia, bensì di una
totale perdita di controllo del suo corpo; era questo che temeva. Temeva il
risveglio della bestia arcana che dormiva dentro di lui. Del mondo, LA VENTURA, e
del secondo oggetto. - Egli era una
creatura quale la gente domestica e temperata vede soltanto nei suoi sogni e
per di più oscuramente, ma i cui simili trascorrono di tanto in tanto fra
le immutabili comunità dell’Asia […]: quegli isolati, immemoriali e
inalterabili paesi, che anche in questi tempi moderni conservan tanto,
ancora, della spettrale antichità delle generazioni primitive della terra,
quando la memoria del primo uomo era ancora un ricordo distinto, e tutti gli
uomini, suoi discendenti, non sapendo donde quello fosse venuto, si
guardavano l’un l’altro come veri fantasmi e chiedevano al sole e alla
luna perché erano stati creati e a che scopo; quando, sebbene, come dice il
Genesi, gli angeli si unissero davvero alle figlie degli uomini, anche i
demoni, aggiungono i rabbini non canonici, si permisero amori terreni. - Melville,
Moby Dick Questa è la miglior definizione di Goku e della sua provenienza che potessi trovare. Intendevo far risaltare come, di fronte ad un simile mandatario dell’istinto naturale e primordiale, qualunque tipo di controllo prettamente artificiale della mente umana sia destinato a cadere senza riserve. Il mondo di cui un simile essere richiama la memoria fisica, - non i ricordi mentali, ma quelli innati nel genere umano -, rinasce nel profondo di coloro che possono entrarvi in contatto. Risorge dentro di loro il desiderio di un tempo in cui l’amore non si concedeva catene e distinzioni. Tempo che gli uomini presenti – categoria cui Sanzo non difetta - hanno in orrore, a causa di una libertà che temono sopra ogni cosa, poiché si sentono persi senza qualcosa su cui poggiare la propria esistenza. La vera essenza di un insegnamento come quello di Komyo Sanzo dovrebbe essere ricercata in una perdita di quei vincoli sociali e morali che imprigionano ciascun uomo in una rete di convenzioni inesistenti. Non a caso Goku è un demone, ma è anche l’essere eretico, il figlio della terra; simbolo della Natura inarrestabile e incapace di sottoporsi alle regole dell’uomo. Della di lui condotta,
L’EFFETTO Ed ora l’ingrato compito di entrare nella psiche di questi inadeguati oggetti. Indubitabile è che un’azione ha sempre una sua conseguenza su coloro verso i quali si rivolge. Altrettanto ovvio è che la Natura sia in grado di amare e di farlo con più impeto di qualunque altro ente. Dunque il modo di agire di Genjo Sanzo Hoshi oscillava su un filo sottile e tagliente, capace di ferire mortalmente se stesso e il suo prossimo. La nostra attenzione si focalizzerà su un periodo particolare, in cui questo innaturale stato d’esistenza era giunto al punto di massima estensione: quello che precede la rottura. L’istanza
taciuta del I oggetto - La sua è la
perversione di una volontà che vuole l’oggetto, ma non la via che vi
conduce e insieme desidera e sbarra la strada al suo desiderio. - Agamben
(riferendosi alla ”tristitia” dell’uomo medievale) I suoi pensieri più intimi, quella parte di sé che ancora non era riuscito ad uccidere e si dibatteva nel miasma velenoso dei suoi ricordi, incoraggiavano sempre più la frequenza delle sue emicranie e forzavano con tale impeto la sua inclinazione al malumore da esasperare la sua inveterata determinazione a seppellirsi quando pioveva. In poche parole non sapeva più dove nascondersi, né come, né da chi. Voleva rifuggire i suoi compagni, ma non sopportava di restare solo con se stesso. Avrebbe preferito la morte piuttosto che scoprire che uno soltanto di loro aveva notato l’acuirsi del suo stato di sconforto, ma una voce, quella voce, gli ripeteva che aveva bisogno di un appoggio. Così, mentre si ostinava a comandare la propria mente nello stesso modo in cui controllava ogni altra cosa, - con poca pazienza e molta risolutezza -, l’emicrania tornava puntuale e inevitabile. La sua voce interiore, ultimo baluardo della resistenza del suo cuore malato, interamente rivolto alla persona cui il venerabile Genjo Sanzo Hoshi meno avrebbe voluto rivolgersi, recitava un ritornello basso e morbido, simile a questo: -
Nascondimi da me. Colma queste orbite con occhi, perché i miei non
sono miei. Nascondimi
completamente, perché non sono nulla così morto nella vita per tanto tempo. Sii un’ala e ripara
il mio vero io dal desiderio di
essere un pesce preso
all’amo. Il verme del vino sembra dolce e rende cieco il mio io. E nascondi anche il mio cuore perché altrimenti
anche quello finirò per divorare.
- S.
Rice, Cannibal Pregava e pregava, per essere salvata, la sua coscienza, con voce stanca e vaga invocava qualcuno che non avrebbe mai potuto sentirla. E ogni giorno perdeva un altro po’ di sé. - Ma come? - si domandava sfinita, mentre la ragione tentava senza sosta di abbatterla, - io ho sentito la sua voce, allora perché lui non sente la mia? -. E un altro piccolo pezzo di fiducia cedeva al nemico. Lottavano così le due parti del suo essere senza posa, ma una diventava sempre più forte e priva di aspettative, mentre l’altra sempre più debole e bisognosa di fiducia. Dello scrivente. LA
RIVELAZIONE, e del fato. Quello che il suo cuore certo non poteva sapere, fu che non era il solo a soffrire per l’egoistico comportamento della sua parte razionale. La piccola scimmia di giorno in giorno conosceva qualcosa in più del mondo e smarriva una parte di quell’infantile convinzione che il suo Maestro l’avesse in qualche modo a cuore. Cominciava a dubitare di quello di cui ancora voleva auto-convincersi, ma di cui scopriva di non avere alcuna prova. La sua deficienza si stava spegnendo sempre più a causa del suo rimuginare ed osservare, ma si ostinava a mostrarsi com’era stato, perché aveva bisogno di credere e non poteva trovare altro modo di farlo, se non quello di fingere che non vi fosse alcun problema. No, non lo faceva perché voleva nascondere il suo cambiamento agli altri, ma perché era l’unico modo che conosceva per nasconderlo a se stesso. Aveva imparato dal Sole l’arte di mostrarsi splendente, dissimulando le nubi che l’affliggevano. Su esempio del proprio mentore: non poteva servirsi dell’esitazione, della riflessione ed ancor meno del dialogo e mai, mai si sarebbe sognato di poter attuare quest’ultimo proprio con lui. Ma, benché gli occhi del monaco non appartenessero più a Kouryu e questi non potesse vedere oltre il suo giornale e la sua presunzione, l’attento Cho Hakkai non era uomo di vedute ristrette e non faticò ad accorgersi che in entrambi qualcosa andava storto. Proprio poiché era uomo accorto si guardò bene dal parlarne con lo spietato demone d’indole e si indirizzò piuttosto verso il ben più trattabile demone di nascita. Si presentò da lui lontano da orecchi indiscreti, nella stanza della locanda in cui alloggiavano, portando con sé un vassoio di dolci, che avrebbe forse facilitato la conversazione. Entrò, posando il vassoio sulla scrivania e scorrendo oltre la finestra i mansueti occhi verdi. Restò immobile per qualche istante. “ Goku…c’è forse qualcosa che ti preoccupa? ” Con voce morbida e paziente pose un quesito generico. La scimmia, che si apprestava ad ingozzarsi, si bloccò. Sospirò. Un simile gesto inconsueto rese Hakkai ancor più sicuro sulle proprie intuizioni. “ Ti va di parlarne…? ” Goku si lasciò ricadere sul letto, sollevando gli occhi al cielo. Poi, come avrebbe fatto un bimbo pizzicato dalla madre a fare una marachella, lo guardò con aria colpevole e rassegnata. “ Io… ” mormorò piano “ non so…cosa sarà di me ”. “ Ti riferisci a quando questo viaggio finirà? ” La scimmia annui piano. “ A Cho’an… ” Il demone gentile si interruppe, Goku aveva sollevato la testa di scatto. “ Lo so! ” aveva esclamato esasperato. Hakkai, senza perdere la calma, lo guardò interrogativo. “ Lo so…che il tempio di Cho’an non è un posto per me…però… ” La tristezza che impregnava le sue parole si spense nel silenzio della stanza buia. Il ragazzino aveva riabbassato la testa e si fissava pensieroso i piedi, mentre l’altro preso alla sprovvista, non sapeva più se fosse il caso di limitarsi a rassicurarlo. Un sussurro ruppe la quiete innaturale. “ Sanzo…potrebbe…mandarmi via… ” Scosse violentemente la testa, forse cercando di allontanare un simile pensiero. Hakkai avrebbe voluto rassicurarlo, ma era pienamente consapevole dell’imprevedibilità del carattere del monaco. Non avrebbe voluto mentirgli e perdere la sua fiducia. “ Perché non provi a parlargliene? ” Disse infine con dolcezza. Goku lo guardò come farebbe un prete con qualcuno che bestemmia ad altissima voce durante la sua messa. Alla sola idea, per un istante il suo cuore si era fermato. “ Sarebbe inutile… ” mormorò ancora, riprendendosi. “ Se è così…potresti venire con noi… ” Il fatto che Hakkai non avesse neppure provato a contestare la sua opinione, riguardo le intenzioni di Sanzo, fu sufficiente. Aveva perso ancora un po’ della sua fiducia in sé stesso. Una volta per tutte si era sgretolato quel castello di sabbia nel quale custodiva il segreto inganno di essere importante per colui che l’aveva salvato. Decise comunque di dare ascolto al consiglio, d’altronde era l’unica speranza alla quale poteva ancora attaccarsi. “ Proverò a parlargli… ” esalò, rassegnato, lasciandosi ricadere sul letto. Buttò così al vento quel metodo che aveva adottato per mantenere in vita la sua auto-illusione. Certo, la sua personalità non era cambiata, era sempre quello che affrontava gli scontri col sorriso sulle labbra, quello che non conosceva le mezze misure, che non sottostava a regole di nessun tipo. Ed era così che doveva essere con tutti. Rinunciò infine a pensare. Non faceva per lui, non aveva mai fatto per lui. Avrebbe agito con l’istinto, riconoscendo la sua vera natura. Era troppo stanco e abbattuto per fare altro. -
Essere se stessi è uccidere se stessi. Ma dato che una tale
spiegazione con te forse è
sprecata si può dire che essere se stessi
è perseguire in tutto ciò che era
l’intenzione del Maestro. - Melville,
Moby Dick Forse era l’orecchio di Sanzo quello che avrebbe dovuto essere raggiunto da una simile rivelazione. D’altronde egli non si era mai comportato come avrebbe dovuto fare un tutore che si rispetti e non poteva quindi essere definito Maestro. Note: sulla tenacia della
disperazione della temerarietà A tale disagio era assoggettata la coscienza di Sanzo. Essa rendeva improduttivo qualunque intervento esterno positivo o consolazione che dir si voglia. -
Essa vuole essere se stessa nell’odio contro l’esistenza, essere se
stessa nei termini della sua miseria; essa neppure vuole in ostinazione o
ostinatamente essere se stessa, ma essere se stessa nel rancore […].
Mentre chi dispera per debolezza non vuol sapere niente del conforto che
l’eternità può avere per lui, così anche chi a questo modo è disperato
non ne vuol sapere, ma per un’altra ragione; proprio perché sarebbe
proprio questo conforto che lo annienterebbe – come obiezione contro tutta
l’esistenza. E, per illustrarlo con un’immagine, è come se a uno
scrittore fosse sfuggito un errore e poi egli se ne accorgesse – forse non
era proprio un errore, ma, in un senso molto più alto, un elemento che
interessa essenzialmente tutta la rappresentazione – è come se ora questo
errore si ribellasse contro l’autore e per odio contro di lui gli
impedisse di rettificarlo, dicendogli, con ostinazione pazza: “No, non
voglio essere cancellato, voglio restare come testimonio contro di te, un
testimonio che tu sei uno scrittore mediocre”. - Kierkegaard,
La malattia mortale Così trascorreva le sue giornate, gettando acido sulle proprie ferite. Sordo a qualunque voce che non fosse la propria, o meglio che non fosse quella che la sua voce era stata un tempo. Sordo a qualunque pianto non fosse il pianto di Kouryu, il giorno in cui Kouryu era morto e ne era nato Sanzo. Meditava, meditava e meditava vendetta, ma il suo era un proposito che non sarebbe mai stato compiuto interamente, poiché si rivolgeva proprio contro la sua stessa vita. Lui non poteva essere felice, neppure contento, lui non poteva rinfrescarsi sotto la pioggia, lui non poteva amare, perché ne sarebbe morto. Genjo Sanzo Hoshi ne sarebbe morto. Così ogni giorno si ripeteva nella sua testa quella voce, la sua voce, e lo accusava, perché non doveva scordare la sua colpa, non poteva permetterselo. Non poteva permettersi di perdere lo scopo della sua vita, della sua penitenza. Avvertenze:
tenere al di fuori dalla portata dei bambini, può dare dipendenza Lui l’aveva capito sin dal primo istante, perché, come ho già detto, non era affatto stupido. Aveva capito che usciva da una prigione oscura per entrare in una lucente. Aveva capito che non avrebbe mai potuto separarsi dalla luce, dopo averla conosciuta, ma la sua dipendenza era qualcosa di più di quella che può avere una pianta per il Sole. In verità senza il Sole come la pianta sarebbe morto senza pensarci, sarebbe morto e basta, un po’ alla volta, ma lui era diverso. Aveva qualcosa in più di una pianta: possedeva la capacità di spostarsi per seguire il Sole, anche la notte. Come poteva la pianta vivere un’intera notte senza il Sole? Lui non ci sarebbe riuscito, per questo lo seguiva. Per questo la sua dipendenza quasi lo soffocava, lo inaridiva poco a poco, perché a stare troppo vicini al Sole ci si brucia e si diventa ciechi. E qui sta il nodo della questione. Lui non era stupido, ma cieco, perciò si faceva scottare dal calore sterile, senza notare le ombre che danzavano sulla superficie incandescente. Perché ogni sole ha le sue macchie. Così, ignaro, a mente sgombra e senza speranze, si apprestava a salire la ripida scala che lo separava dal cielo. Lui non ci pensava di certo, ma se, per quanto raro sia il fenomeno, avesse potuto incontrare un’eclissi? -
Stava qui in questo momento; sto nella sua aria – ma sono solo. […]
…proviamo l’uscio. Come? Né serratura né chiavistello né sbarra,
eppure non si può aprire. Dev’essere l’incantesimo, mi ha detto di star
qui…Sst! Lassù, odo l’avorio. Oh, padrone, padrone! Sono triste, se mi
camminate sopra. Ma qui resterò […]. - Melville,
Moby Dick Stabilità, fissità, immobilità, tutto poteva trasmettere la sua esile figura, incurvata di fronte a quell’uscio scuro, meno che questo, eppure stava là come un statua di sale battuta dal vento. Piangeva. Perché aveva già la sua risposta e la domanda quella proprio non riusciva a trovarla. Appassito come un fiore, stava là. Frugava nella sua memoria per cercare il coraggio, che fino a qualche ora prima, ne era certo, era un cardine della sua mente, anzi lo era sempre stato fino a quel momento. Annaspava per ritrovare la speranza e la volontà. Suggerimenti di pedagogia Frattanto l’alcool scorreva leggero e bruciante nella gola del “disperato temerario”. Il respiro si diffondeva muto nell’aria, appesantendo l’oscurità vischiosa della camera. Nel letto si trovava solo il bianco, mentre l’ombra del Sole si stagliava nel cielo scuro oltre la finestra. Non dormiva, la sua mente non poteva certo concedergli il riposo, proprio ora che veniva la parte più difficoltosa del lavoro: quando la mancanza artiglia le viscere e la malinconia si trasforma in silenzio ed il rimorso in rimpianto, rimpianto di ciò che non si ha più o non si ha avuto mai. - La mancanza di cosa? - si domandava il suo cuore sanguinante, - Oramai ho dimenticato cosa significa avere -. Eppure era là, sveglio, lucido, con i nervi in tensione. Era come un messaggero di cattivo presagio appollaiato sul ramo di un albero rinsecchito. Riempiva i polmoni di fumo e si mozzava il fiato per nascondersi che si costringeva a stare in fondo all’abisso e che se solo avesse voluto avrebbe potuto ritrovare l’aria di cui aveva bisogno. -
Scoprire se stessi è un atteggiamento passivo, in quanto il sé esiste già.
Occorrono solo tempo ed attenzione. - Auden,
La mano del tintore Sarebbe bastato un braccio, che si fosse allungato oltre la superficie dell’acqua, per mostragli che sì, stava affogando, ma premeva ostinato la testa poco più in là del bagnasciuga. Sarebbe bastata una mano a fargli vedere che l’aria era vicina e l’acqua limpida. Nondimeno le sue due parti, con tutta la caparbietà di cui era capace, continuavano a combattersi e chi può sapere se il cuore avrebbe avuto la forza di afferrare quella mano o l’avrebbe scambiata per un miraggio. Un miraggio, una visione a cui arrendersi, poiché non è reale, od opporsi, per non eccedere in autolesionismo, per non dover affrontare la durezza del risveglio. Forse arrendersi, per un istante, concedersi alla carezza. Non era questo che avrebbe dovuto insegnare al suo unico discepolo, no, non la debolezza. Ma era una visione, un miraggio desiderato, l’aria. - Solo una boccata, solo una boccata di sogno, un attimo solo, prima del risveglio -. Prometteva di arrendersi l’indomani, spergiurava, il cuore, pur di averne soltanto uno soffio. Ecco l’improbabile, ecco l’impensabile: l’eclissi, totale e incondizionata. Si mosse il corpo, piegandosi alla preghiera, si mossero le braccia e le mani e posarono ciò che era ormai diventato un impedimento alla loro mobilità. Si mosse il collo e si mossero gli occhi, abbracciarono la visione e le sue dita si allungarono a sfiorare la superficie dell’acqua, si allungarono a sfiorare la mano, che si trovava al di là dell’offuscamento, e oltre quella c’era un braccio e oltre il braccio una spalla e oltre la spalla un collo e oltre il collo c’era Lui. Il fumo non lo illudeva più di essere la causa della sua apnea, il buio non lo nascondeva. All’improvviso i polmoni si rianimarono, ricominciarono a pretendere con foga, il cuore prese a battere come sotto tremendo sforzo, l’aria gli mancava, doveva respirare, doveva o sarebbe morto. Le dita scoprirono la nuca e vi fecero presa e si mosse la testa verso di Lui e la bocca e la bocca e la bocca. Per un attimo si perse in un’oscurità altra, sconosciuta, ma dolce. Subito dopo: respirava. Respirava a pieni polmoni, come se non l’avesse mai fatto prima, e molto di più, respirava un altro respiro. Lo sentiva riversarsi nelle sue arterie, partendo dal petto, arrivare in ogni punto di sé, fin nel più lontano e trascurabile, lo sentiva muoversi, lo sentiva animarlo. Era ossigeno, ma come l’edera, si ramificava, cresceva ed al centro diventava sempre più grande e si stringeva intorno al cuore e lo abbracciava fin troppo forte. Si sentiva vivo. Fece finta di non accorgersene, ma qualcosa di molto simile a ciò che doveva essere la causa della felicità dilagava in lui, per sua fortuna la memoria di sensazioni abbastanza positive era latente in lui, così poté fingere di essere solo soddisfatto e perseverare nella scoperta della visione. Ciò che desiderava era farla sua. Il desiderio più forte, che mai si fosse generato dentro lui, prendeva vigore, prendeva controllo su ogni sua cellula, la sua stessa pelle chiedeva di poter respirare come la bocca. Voleva appropriarsene. Il Sole uscito dall’abisso splendeva come non mai, ardeva e ardeva con sempre maggiore intensità; avvampava il fuoco dove entrava in contatto con la purezza dell’aria. Nulla mitigava più il suo ardore, tanto che l’abisso si prosciugava sotto di lui, evaporava, l’acqua si ritirava dalla battigia lasciando sabbia chiara e sottile; la sabbia impaccata del tempo immoto e immemore, sulla quale affondavano fossilizzate e inalterabili e abbandonate le impronte di Komyo Sanzo, si asciugava a poco a poco dove la sfiorava l’aria agitata, che a sua volta si faceva sempre più torrida. Si seccavano le pozze di ristagno e la sabbia asciutta e di nuovo leggera riempiva poco alla volta le crepe del terreno e ricordi, pensieri e incubi come pesci smarriti boccheggiavo sulla superficie scoperta. Il rumore dolce ed intenso delle onde si accompagnava al soffio caldo della brezza, spezzando a brevi intervalli quel silenzio sacro che accompagna la resurrezione delle divinità e l’alba dei nuovi giorni; il cielo era illuminato dalla luna, il letto non più bianco, il respiro non più muto. La visione era nitida, completa, nuda davanti a lui, sotto di lui, intorno a lui. Era sua, gli apparteneva e la prese. La prese e la prese e la prese e si perse. Il Sole era imploso. -
Ma trasformarsi significa mutare in una direzione piuttosto che in
un’altra, la meta può essere sconosciuta, ma il movimento è impossibile
senza un’ipotesi su dove essa si trovi. - Auden,
La mano del tintore “ Sa…Sanzo… ”, una voce lo svegliò dall’incubo di essersi ritrovato, di essersi rivelato per quello che era dentro di lui. Sentiva di essersi perso riscoprendosi, di dover recuperare l’unico Genjo Sanzo Hoshi che poteva riconoscere. I primi raggi di un sole altro tinteggiavano la stanza, le lenzuola immacolate e la sua pelle pallida su di esse; pallida e vera, senza tessuto, scoperta, senza difesa, sulla quale le cicatrici spiccavano come fendenti crudeli sulla sabbia candida. Doveva aver bevuto troppo, fino a spogliarsi e dimenticarlo. Per un istante fu infastidito dall’idea che Goku potesse vedere quel suo corpo martirizzato, quasi che attraverso di esso fosse possibile scorgere la sua perversione, la sua verità, la sua debolezza, la sua mostruosità, ma riprese coscienza di sé e senza mostrare emozione volse il capo verso il centro della stanza. “ Cosa ci fai qui? Chi ti ha dato il permesso di entrare? ” Le parole strisciarono sulla superficie dell’abisso freddo fino all’ospite pericoloso, strisciarono e scattarono come un cobra, colpendo scandite e pesanti come colpi di machete. Lo sguardo di Goku si fece insolitamente spento, reagendo a qualcosa tanto previsto e scontato quanto doloroso. Sanzo se ne accorse, ma come poteva intervenire? Faceva quanto era in suo potere per non invischiare quella purezza nel suo auto-indotto circolo di penitenza. “ Ultimamente sei strano, scimmia. Cos’è? Hai deciso di crescere finalmente? ” L’altro se ne stava in piedi, immobile, vestito come il giorno precedente, sgualcito, sciupato, con la faccia di qualcuno che non ha chiuso occhio, di qualcuno che ha affrontato la sua personale penitenza, ma il monaco cieco non poteva vedere che il veleno era entrato in circolo e lo infettava senza misericordia, non poteva accorgersi di averlo già trascinato nella sua spirale oscura, non poteva accettarlo, oppresso com’era dal silenzio innaturale, che lo faceva sentire ancora più nudo. Improvviso arrivò il senso di soffocamento, il bisogno di respirare. Si accese una sigaretta e si lasciò soffocare e rabbonire dal fumo. “ Se non hai niente da dirmi, puoi anche andartene ” sancì nel tentativo di salvarsi da quello sguardo. Silenzio, immobilità, istanti infinti ristagnavano, assistendo allo spettacolo del fumo bianco che si liberava, infilandosi nello spiraglio della finestra socchiusa per poter fuggire lontano. Infine, stremato dall’attesa, il monaco si alzò e dando le spalle cominciò a rivestirsi, ignorando la vuota scultura. Ad ogni indumento aumentava l’insofferenza, finché non arrivò al limite, impugnò la sua shoreiju e con un gesto rapido la puntò contro Goku. “ Ho detto: fuori di qui! ” tuonò. Partì un colpo. Sfiorò a sinistra la testa del ragazzo immobile, avvolto nel gelo. Il proiettile si conficcò nel muro e oltre gli occhi furenti del colpevole, ricadde il silenzio. “ Che ne sarà di me? ” la voce atona ruppe l’incanto penoso. “ Dove andrò…dopo? ” “ Affari tuoi, non sono la tua balia ” fu la secca risposta “ Ora vattene ”. -
Non c’è nulla che più imbastardisca e renda schiavo lo spirito, che
fargli sentire una sola opinione o credenza o modo di vivere […] il
Maestro deve insegnare all’allievo a non assentire a cosa alcuna solo per
l’autorità di chi la dice – che è da bestie – ma a esaminare tutto
con la ragione, tutto proponendogli alla scelta; e se scegliere non sa, che
dubiti almeno! - P.
Charron Il ragazzo chinò il capo, come una marionetta cui avessero tagliato un filo, un corpo cui fosse stata rubata l’anima. Scheggiato dal colpo, il diadema cadde in pezzi. Un ghigno amaro e crudele prese a disegnarsi sul volto da bambino. “ Non sbagliare… ” mormorò la voce triste. “ Sparami ora ”. La trasformazione inarrestabile prese possesso del corpo morbido, per riplasmarlo in una perfetta macchina omicida; Goku si contorceva ed emetteva un suono simile al ringhio di una bestia ferita. Come se nulla fosse il monaco terminò di vestirsi e si sedette sul letto a fissarlo. La
mattanza di risposte - Verrò; farò là
monti ove ora è piano; monti d’uomini
estinti e di feriti; farò fiumi di sangue
[…] - Tasso,
Gerusalemme liberata E’ ragionevole che non vi sia nient’altro da aggiungere a questo, poiché è il pensiero della bestia. Niente al di là della violenza della Natura. Colui che ritiene benigna e misericordiosa la Madre Terra o è uno stupido o un codardo. Solo se imprigionata e asservita essa si rende gentile e protettiva, ma una volta liberata la sua energia è tanto creatrice quanto distruttiva e si sa non può esservi rinascita, se non vi è morte. Dunque per quanto si presti senza difficoltà alla collaborazione, una volta catturata, e sia lieta di restare ciò che è divenuta, non appena ritorna libera, priva di riguardo per le mani che l’hanno nutrita e curata, essa elimina ogni cosa che non sia abbastanza resistente da sopravvivere ai suoi continui attacchi; questa è la sua unica, spietata legge. Non sono un’amante del sangue, a dire il vero vederlo mi da un diffuso senso di disagio. Ad ogni modo dovrebbe essere piuttosto semplice immaginare lo svolgimento degli eventi, ponendo la nostra bestia assetata di sangue nella stanza di un “fu” sociopatico e tendente suicida, peraltro rimasto nevrotico, depresso e sconsiderato. Forse proprio a causa delle sue non del tutto superate tendenze al suicidio, Sanzo rimase a lungo immobile, fissando torvo la creatura ringhiante e a dire il vero, come ogni cosa generata dalla Natura, bellissima. Gli occhi ferini erano puntati su di lui, lo scrutavano attenti. La scena era quella di due predatori che si studiano, per capire quale sia il momento migliore per l’attacco e quale il punto più scoperto. Il più aggressivo stava in piedi in posizione d’attacco ed ogni tanto, senza staccare lo sguardo, inclinava di lato il capo, come a voler comunicare che attendeva la prima mossa. Il più posato, o perlomeno che avrebbe dovuto esserlo, se ne stava comodamente seduto sul letto a gambe accavallate, l’espressione riflessiva, e mantenendo sempre il contatto visivo aspirava il fumo di una sigaretta appena accesa. C’era come qualcosa, qualcosa che gli sfuggiva. Frugava tra le impronte fossili del suo maestro, sulle quali da tempo non si sentiva più di camminare come avrebbe dovuto, quelle impronte che erano ritornate in fondo al suo abisso personale, vi frugava cercando di riportare l’ordine che regnava fino alla sera precedente, l’ordine delle sue priorità. Cercò di rimettere in pari le tappe del suo supplizio, ma quella cosa scivolò via. Continuava a sfuggirgli, non riusciva a trovarle un posto. Era la sua regola di vita. Fissò la bestia. Penetrò nei suoi occhi e comprese. La sigaretta bruciò fino al filtro e fu spenta. “ Allora, cos’aspetti? Non sarai mica intimidito da me? ” Così parlò il monaco, con voce bassa e monotona. Parlò e sorrise amaro, stringendo la pistola nella mano sinistra. La creatura lo fissava immobile, ghignando, aspettava una mossa e non un dialogo. Partì un colpo e poi un altro e un altro ancora. -
Le gioie di questa vita non appartengono alla vita stessa, ma nascono dal
nostro terrore di ascendere ad una vita più alta; i tormenti di questa vita
non appartengono ad essa, ma al tormento che ci procuriamo a causa di quel
terrore. - F.
Kafka Aveva sbagliato. Aveva sbagliato tutto. Quello che era stato Goku aveva diritto di vincere, perché la bestia aveva ragione, aveva sempre avuto ragione. Lui stesso aveva stravolto e corrotto l’insegnamento del suo Maestro, trasformandolo in una spietata lotta per la supremazia, per la sopravvivenza, l’aveva mutato nell’ideale della bestia. Era quello l’unico principio che aveva sempre seguito. Un principio che non apparteneva al suo Maestro, ma a lui. Era stato prigioniero solo di se stesso, tutto quello che credeva d’aver portato avanti per amore del suo Maestro, era stato mosso da presunzione. Aveva fallito due volte: seguendo con tutte le forze e la convinzione la strada sbagliata e perdendosi a metà via, prima ancora di sapere che stava sbagliando. Con ancora due colpi in canna, poteva ucciderlo, ma non riusciva a non domandarsi chi tra loro meritasse di vivere. A cosa teneva di più? Alla vita o a Goku? Il suo cuore muto aveva ripreso a pulsare, a farsi sentire, urlava, urlava, urlava per farsi sentire. Erano così vicini, erano stati così vicini. Implorava di essere ascoltato, ma non emetteva suono. Eppure, se nemmeno Goku lo sentiva, come avrebbe potuto ascoltarlo la bestia? Erano così vicini, quanto lo erano stati, poteva sentire il suo respiro. Poteva sentire forte il desiderio di respirare attraverso di Lui. Soffocò un gemito di dolore, mordendosi il labbro; un rivolo di sangue lo imporporò. Il ventre gli era stato squarciato. Mostratevi! Servi dell’ostinazione La bestia si bloccò, quasi delle catene invisibili l’avessero serrata in una morsa. Troneggiava sopra l’uomo, con una mano ne serrava il collo scoperto, mentre a mezz’aria risplendevano gli artigli lucenti, pronti a trafiggere la propria vittima come pugnali. Immobile fissava i suoi occhi come se non capisse, come se dentro di essi avesse riconosciuto qualcosa di spaventoso. Erano occhi carichi d’ombra, ma totalmente privi d’ostilità e di timore, non v’era traccia di inganno, solo fiera accettazione e una pungente lacrima di tenerezza; non nascondevano, non odiavano, non supplicavano. Era chiaro che il monaco non avrebbe cercato di lottare ulteriormente. Quegli ultimi due colpi non sarebbero mai stati esplosi. Altrettanto certo era che non avrebbe tentato di scappare o di chiedere pietà. -
Bieca, o Morte, minacci? E in atto orrenda, l’adunca falce a me
brandisci innante? Vibrala, su: me non
vedrai tremante pregarti mai. - V.
Alfieri Tutto ciò non sarebbe bastato a spiegare una simile reazione, eppure la macchina di morte, che avrebbe potuto finirlo in un istante, si era fermata. Non portava più avanti il suo massacro, quasi che avesse scorto in quegli occhi l’ombra del castigo di un dio. L’uomo sorrise, un po’ perplesso un po’ divertito, quindi con tutta calma prese a recitare una preghiera. Posò lieve la destra sulla fronte dell’avversario spaesato e la pergamena sacra, che indossava sopra le spalle, si animò e li avvolse nell’arcano bagliore della forza sacra che racchiudeva. Il diadema d’oro ricomparve, intatto, sul capo di Goku, che svenne tra le braccia del monaco. L’Inerzia
dell’Aorta, che al cervello il sangue porta
Era svenuto e sognava, il piccolo. No, non aveva deciso di crescere, voleva urlarlo a Sanzo. Voleva restare sempre piccolo, anzi voleva diventare ancora più piccolo di com’era stato. Lo desiderava intensamente, per non doversi separare mai da lui. Nonostante il crollo dell’inganno che si era costruito, nonostante ciò che era stato e ciò che non sarebbe mai stato, continuava a desiderarlo. Non aveva importanza se era per buona parte sofferenza quello che lo aspettava, se l’unico ad essere dipendente dall’altro era lui stesso, non aveva importanza se stava desiderando la cosa sbagliata e nemmeno quanto sarebbe stato difficile quel cammino. Come avrebbe fatto a vivere senza? Come avrebbe anche solo potuto concepire una simile idea? Non poteva e basta. Era colpa del petto che gli faceva male e delle lacrime che gli annebbiavano la vista, della gambe che tremavano, delle energie che lo lasciavano, del mondo che d’improvviso gli pareva brutto e spento, della vita che perdeva ogni senso. Ci sarebbe riuscito a stare senza di lui, non era davvero la morte, ma non avrebbe più avuto fame, ne voglia di combattere o anche solo di muoversi. Sarebbe stata una prigione senza confini. Com’è brutto, pensava; dipendere da qualcuno. Finalmente riusciva a capire le parole che sempre ripeteva Sanzo: non avere legami. Il Sole poteva apprezzare il mondo senza bisogno di un altro, mentre lui aveva bisogno del Sole anche solo per vederlo il mondo. La cosa davvero brutta dell’avere bisogno di qualcuno è la mancanza e la più terribile l’abbandono. In fin dei conti capiva. Capiva quanto avrebbe potuto essere semplice leggere l’animo di Sanzo. Se solo avesse osservato meglio, pensato di più. Ora che rischiava di perderlo, poteva dire con certezza di capire alla perfezione il suo pensiero: non avere legami, vivere per se stessi. Allo stesso tempo lo trovava quanto di più lontano dal proprio credo. -
Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione ma anche con il cuore.
- Pascal Era stremato e sognava, non poteva vedere la tragedia consumarsi davanti ai suoi occhi, Non poteva vedere. Il frutto
dell’inibizione Si riflettevano in una pozza rubino, le mani che sfioravano leggere il tessuto per accarezzare la schiena esile, in un abbraccio privo di energia, ma pieno di dolcezza. La sua vita scivolava via a poco a poco, mentre se ne stava seduto sulla sponda del fiume ad osservarla scorrere senza far nulla; non un grido, non un gemito, non una lacrima. La scimmia avrebbe pianto, sofferto ed urlato per lui, ma colui che era la sua voce ed il suo cuore giaceva incosciente tra le sue braccia. Kouryu era stanco, così stanco, di essere prigioniero dell’uomo che era diventato, era stremato all’idea di ricominciare quel gioco perverso che Genjo Sanzo Hoshi si costringeva a chiamare vita. Lasciò che le sue labbra posassero un bacio leggero sui folti capelli castani, che il suo capo si rilassasse su quello di Goku e il suo corpo sentisse appieno la consistenza di quell’abbraccio, il peso dell’altro. Di tutte le morti che aveva immaginato o tentato lungo il suo impacciato e sofferto cammino, questa era senza dubbio la più dolce e la più amara. Aveva sempre pensato di morire in solitudine in un momento di assoluta presunzione, come combattere da solo contro centinaia di demoni, o per scelta con un bel proiettile argenteo conficcato nel cranio. Aveva deciso che si sarebbe concesso il riposo soltanto dopo aver portato a termine la sua vendetta, quando, proprio per mancanza di uno scopo, la sua vita sarebbe divenuta inutile. Tuttavia felice di poter approfittare di un simile lusso, quale morire tenendo tra le braccia e in vita la persona più importante che avesse incontrato dopo il suo Maestro. Su questi pensieri gradualmente la sua mente si offuscava e le palpebre si facevano pesanti, finché il mondo che lo circondava si spense; rimase soltanto il volto di Goku che lo fissava dalla grotta con quell’espressione incredibilmente stupida. -
Resta per doppia strage il petto essangue: fan bellezza e
spavento uguali prove, e nuotano gli Amori in
mezzo al sangue. - M.
Giovannetti Il ragazzo-bestia si riprese più di un’ora dopo. Era disteso a terra in una pozza di sangue, che sapeva non appartenergli, poiché tutto era impregnato dall’odore di Sanzo. Si passò una mano sul diadema, gli occhi ancora serrati, gli mancava il coraggio di aprirli. Quell’odore, l’odore della morte, copriva ogni cosa e null’altro si poteva avvertire; nessun rumore, neanche un fioco respiro. Il corpo non gli obbediva o forse era lui che, col desiderio di restare cieco, non assecondava più il corpo. Non voleva scoprire l’esistenza di un mondo senza Sole. Non poteva averne la prova, preferiva illudersi di stare sbagliando. Tuttavia la sua mano si mosse, scivolò sul sangue già freddo e denso a cercare qualcosa e trovò. Incontrò un ostacolo: il tessuto della veste. “ Io…Io…l’ho fatto di nuovo…? ” Fu in quell’istante che Son Goku perse il suo nome e ritrovò il suo passato.
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