Mentre piove ed è estate

 Dal capitolo 58 del manga, in flash-back, soltanto la certezza che non esistono regole né numeri, non per l’affetto che è, sempre, al di là di ogni cosa.

Pairing? RuYasu, semplicemente.

 


Colori tra le dita

di Fiore


“Non ti perdonerò mai.” Dice.

Senza inflessione, senza rabbia nel tono, solo gli occhi bruciano di rancore e odio.

Mitsui ha appena spaccato la mascella a Yasuda e “non ti perdonerò mai” è tutto quello che lui riesce a dire prima di buttarsi contro quel bastardo.

****

Non credeva di avere un colore. Né credeva di poterli vedere: qualcuno trovò il coraggio per forzare i suoi occhi a guardare senza chiedere parole, ma regalandogliene per riempire i suoi silenzi.

Fin dal primo momento Yasuda trovò un suono per rispondere alla sua immobilità, fu semplicemente: “Ciao,” mentre riapriva la porta dello spogliatoio per farlo entrare, un corpo fragile e occhi allungati e attenti che si fissarono nei suoi. Lui lo superò in silenzio.

La prima cosa che conobbe di lui ebbe un sapore insopportabile, di polvere amara.

Akagi li richiamò: “Avanti! I nuovi arrivati si mettano in riga”.

Già questo fece male: era di nuovo su una linea per essere macellato e catalogato in un libro che odiava, quello dei kohai, con addosso il peso di essere di nuovo una matricola, con la fatica che significava, nonostante tutto, ricominciare e trovare un posto per se stesso. Non si mise perfettamente su quella riga gialla di scherno: non poteva sottrarsi alle regole, ma le odiava, e si accontentava di queste piccole rivoluzioni impercettibili. Alzando lo sguardo lo vide, era dove non avrebbe dovuto, di fronte a lui. “È un senpai...” Fu la sola cosa a cui riuscì a pensare. E fu solo il ricordo.

“Un kohai non deve toccare i senpai.”

 

“Rukawa Kaede,” disse e seguirono il peso, l’altezza, e l’anno. Numeri...

“E poi ci siamo noi,” la stessa voce dolce di quel “ciao”. “Io sono Yasuda Yasuharu, secondo anno.”

E come il nome venne prima dei numeri, Rukawa sentì che non sarebbe stato capace di stravolgere quell’ordine. L’istinto avrebbe vinto, di nuovo. Ma qualcuno gli aveva insegnato a pugni e calci cosa volesse dire rispettare un senpai. Il primo impulso fu di scappare, codardo forse, ma lo avrebbe saputo soltanto lui, come ogni cosa: forse, nei suoi silenzi, era possibile vedere infiniti retroscena, ma era soltanto incapacità a trovare i colori per disegnare quello che sentiva, emozioni certo, violente da non avere risorse sufficienti, ma soprattutto paura.

Odiava le regole eppure il solo mondo con il quale era in grado di rapportarsi, nel quale era certo di non poter essere vinto, era quello di plastica e leggi indelebili, sulle quali non poteva sbagliare, del basket. Yasuda lo sfidò su un campo di cui le sole regole che conosceva erano quelle sbagliate, il lato secco e senza suoni, fatto soltanto di ombre.

Per precipitare in quel mondo fu sufficiente ritrovare le parole di Yasuda, in un istante in cui i tempi giocarono a mettere di fronte la fragilità e la forza.

 

Yasuda parlava fitto con Haruko e lui si avvicinò.

“Dove stai andando, tu?”

“Break.” Rispose ad Ayako che agitava il ventaglio ma in un modo appena intimidito. “Faccio così paura anche a te?” si chiese sedendosi sull’angolo della panca, bevve avido e chiuse gli occhi: era così facile avere a che fare con Ayako. Era così facile avere a che fare con una donna.

Cercò lo sguardo di Yasuda e lui sorrise di quel gesto sussurrato: tutto ciò che Rukawa sentì in quel momento bruciò forte sulla pelle.

“Quindi smetterai di giocare l’anno prossimo?” Haruko si sforzò di proseguire la conversazione, turbata dalla presenza senza suoni di Rukawa.

“Sì... molti di noi qui sperano di continuare a giocare, ma io non sono così stupido da illudermi di riuscirci. Sono una riserva tra le tante soprattutto se davvero... oh, insomma, voglio fare qualcosa che sia solo per me, dove posso sorridere e sentirmi capace.” Lo ascoltava parlare, con quelle pause brevi in cui smorzava un sentimento vicino all’inadeguatezza.

“Ma perché non continuare?” Haruko domandava ma lo sguardo era fisso altrove.

“Rimarrò nel club di musica, suonare è una cosa molto... viva.” Notò l’inflessione di Yasuda a concludere le frasi con una parola assoluta, da leggere con l’animo, e vide una tinta forte, qualcosa di vicino al verde infinito della vita.

“Mm, mm.” Haruko smise di ascoltare per fissare l’attenzione su Rukawa e lui allontanò il pensiero che quella ragazzina lo stesse guardando, scelse di far ondeggiare le parole appena ascoltate dentro di sé: poteva non esserci nulla di assolutamente nuovo o straordinario in quelle frasi, ma c’era una dolcezza infinita, nel solo suono prendeva contorni un mondo fatto di colori sfumati che avrebbe desiderato conoscere.

 

“Rukawa! Vai anche tu da questa parte?” Yasuda lo raggiunse: sollevando la testa, lo guardò in viso per un istante.

“Un kohai non deve toccare i senpai.” Di nuovo.

“Ho la bici.” Inappellabile, forse.

“Beh... se vai verso la spiaggia potremmo comunque fare un pezzo insieme¼ riesci a portarmi?” Yasuda girò la frase in modo che non occorresse accettare.

“Credo di sì.”

 

Forse Yasuda sentiva male, la canna della bici contro le sue ossa, ogni irregolarità della strada amplificata nelle sue vertebre, ma la sua schiena era così maledettamente vicina che Rukawa pregò perché non se ne stancasse mai. Sarebbe rimasto così, con la testa appoggiata sulla spalla tesa di Yasuda per un tempo indefinito. Il solo contatto concesso.

“È lì,” Yasuda indicò un condominio tra i tanti, in una zona triste di case fatte di molti piani e molte vite. Frenò senza staccare le mani dal manubrio.

“Ti ringrazio.” E scivolò dalla canna fino a sfiorargli il braccio. “Potrei chiederti di nuovo un passaggio, qualche volta.” Concluse Yasuda afferrando le chiavi per sparire oltre il portone. 

“Fallo.” Pensò semplicemente Rukawa.

E tornare a casa insieme, appoggiandosi l’uno nell’altro come fosse un accidente divenne la normalità, la loro normalità.

 

Dopo ogni allenamento Yasuda usciva in silenzio dallo spogliatoio e si fermava ad aspettarlo appoggiato alla raggiera cui legava la bici. Rukawa non avrebbe saputo dire se gli altri si fossero accorti di quella loro amicizia strana, fatta di quel pedalare piano in cui sentiva i battiti amplificati e si illudeva fosse solo la fatica.

Rukawa pedalava verso la casa di Yasuda e poi si sarebbero fermati a parlare, sì, anche lui, in un modo meno vivace e pulsante rispetto a Yasuda, ma anche lui parlava, e imparava.

 

 

“Hai un giardino, tu?” Yasuda non faceva mai domande, si limitava a parlare e a dare a Rukawa uno spazio che lui era libero di riempire o rendere ancora più vuoto, ma quella volta, mentre costeggiavano il parco, gli occhi gli brillarono nel riflesso dell’erba lucida.

“Molto piccolo.” Il viso di Yasuda era molto vicino e Rukawa sentì sulla pelle il suo profumo, una nota di muschio che poteva cogliere soltanto chi gli sfiorava il corpo. Quel pensiero fece male: a volte vedeva Yasuda accanto alla morbidezza orgogliosa di Ayako. Avrebbero potuto essere una coppia.

“Ti va di fermarci due minuti?”

Frenò senza rispondere e seguì con lo sguardo Yasuda mentre si allontanava sorridendo. Lo vide togliersi le scarpe, scalzandole in fretta, un gesto semplice, dal sapore di infanzia. “Che fai?” Lo raggiunse rimanendo seduto sulla bici.

“Sento il verde.” Yasuda guardò verso di lui, con il sole che tagliava la sua espressione appena incerta. “Credo che i colori siano molto dolci a volte. E il verde è quello che preferisco, è un colore che ha odore e suoni... forse tutti abbiamo un colore dentro.”

“Tutti?”

“Sì! Cioè... ci sono persone capaci di averlo...” Yasuda guardò Rukawa, in attesa: trovò un’espressione cupa. “Scusa, sto dicendo un sacco di puttanate¼ picchiami quando parto con questi discorsi tossici, per favore.”

Rukawa avrebbe voluto sorridere, ma diede un colpo al pedale girando intorno a Yasuda. “Andiamo.”

Fu solo quando Yasuda aprì il portone, salutandolo appena con la mano, che Rukawa, sotto il sole sfuocato del tramonto, fece quella domanda che aveva tra i denti da molto prima. “Tu vedi un colore in me?”

Yasuda tornò verso di lui, sentì la porta richiudersi mentre il cuore batteva nell’anima. “Blu. E tu?”

“Verde.”

“È un bel colore?” ma Rukawa non rispose e finì come tante altre volte, con domande a metà o risposte brevi che non dicevano nulla: Rukawa se ne andava ferito e Yasuda spariva inghiottito nel grigio malinconico del suo condominio.

 

 

“Oggi sei stato molto bravo, vederti giocare¼ è uno spettacolo.” Yasuda era sceso dalla bici e aveva detto questa frase.

“Grazie.” Si dondolava avanti e indietro sulla sella.

“Mm...” Yasuda controllò l’orologio. “È presto, oggi il gori... Akagi è stato clemente. Vuoi salire un attimo? Non credo che mia sorella farà storie...

“Un kohai non deve toccare i senpai.”

“No, ho da fare.” Una sorella non era sufficiente, significava una casa vuota e silenziosa: Rukawa sapeva che lì, trovandosi di fronte a Yasuda, senza il muro invisibile del mondo a separarli, non avrebbe saputo rispettare le regole. Non ne aveva la forza, lo sentiva nello stomaco che si chiudeva per ogni sfiorarsi. Ma sapeva di essere un kohai.

“Oh, scusami. Non ci avevo pensato.”

“A cosa?”

“Beh... che ogni giorno mi faccio scarrozzare e ti costringo ad ascoltarmi... avrai di meglio da fare.”

“No, non ce l’ho,” pensò con tutte le sue forze, e avrebbe voluto avvicinarsi invece di girare la bicicletta verso la strada, avrebbe voluto abbracciarlo senza sentire la resistenza di quanto era stato.

“Un kohai non deve toccare i senpai.”

Proiettava su Yasuda una distanza che gli aveva insegnato il passato, qualcosa che non era in grado di cancellare e gli rendeva impossibile vivere il presente. “Non preoccuparti, non sono molto impegnato.” Gli uscì una voce appena precaria.

“Che fai la sera?”

“Dormo, senpai.”

“Beh... se ti va possiamo uscire qualche volta...

“Sì,” pensò. “Come vuoi,” fu tutto quello che riuscì a rispondere.

“Se non devi vedere la tua ragazza¼

“O tu la tua.”

“Io sto bene qui. E non ho una ragazza... non mi interessa.”

Di nuovo. Di nuovo quel modo di raccontarsi con una breve pausa, appena un sospiro, e poi concludere con una parola o una frase assolute. Era quello che Rukawa amava in lui, la capacità di fargli sentire le cose, di impedirgli di ignorarle: quel giorno vide nelle parole di Yasuda il coraggio di dire la verità, la sua verità. “Nemmeno a me,” disse, lo sguardo basso, arreso, di chi aspettava un gesto violento e offensivo. Ancora una volta sovrapponeva i ricordi al viso semplicemente dolce che gli era di fronte.

“Allora potremmo bere qualcosa domani.” Yasuda era ad un soffio da lui, gli occhi socchiusi per ripararsi dal sole.

“Nessuno vuole uscire con te?”

“Se potessi scegliere con chi uscire... io sceglierei te, Rukawa. Credevo lo avessi capito.” Ma Yasuda non si mosse nel dire queste parole. Sarebbe stato molto semplice per Rukawa afferrare le sue mani e dirgli quell’amore semplice che non chiedeva nulla ma poteva valere la pena, ma credeva non fosse permesso.

“Un kohai non deve toccare i senpai.” Scavata bene nella carne da un pugno e dal sangue, questa frase.

“Devo andare.”

E il sapore gli scese in gola mentre pedalava, bagnato e troppo salato. Piangeva mentre qualcosa di bello scivolava lontano. Irraggiungibile.

 

 

Pioveva. Raggiunse Yasuda alle spalle: guardava in basso e il rumore della pioggia attutì i colpi del cuore.

“Ehi.” Attirò la sua attenzione trovando un sorriso insolitamente forzato. Le gocce che colavano sul viso, i capelli inzuppati: Rukawa lo trovò molto bello. Sporse l’ombrello verso di lui.

“Oggi non è il caso che mi accompagni¼ anzi, non è il caso in generale.”

“Perché?” chiese, la voce spezzata mescolata allo scroscio della pioggia.

“Lo facevo per stare con te... ma non sono stupido. Ho capito.”

“Hai capito... che cosa?”

Yasuda tentò un sorriso. “Che non ti importa di me.” E le lacrime si unirono alla pioggia, ma ebbero un suono differente. “Mi fa male continuare a vederti. Già ha fatto male averti di fianco agli allenamenti.”

Rukawa strinse l’ombrello con tutte le sue forze. “Un kohai non deve toccare i senpai...” Disse piano. “Non deve... e se ha sentimenti non deve dirli.”

“Rukawa...” Yasuda si allontanò, lasciando che la pioggia gli entrasse negli occhi, in gola, e il suo profumò sembrò dilatato dall’acqua. “Fai come credi, decidi le regole delle cose, o continua a credere che valgano per tutti. Ma per favore... non mettermi nel tuo cazzo di mondo spento.” La freddezza delle parole si frantumò nel tono ferito.

“Perché hai passato tanto tempo con me?”

Yasuda tornò a fissarlo. “Per i sentimenti, quelli che dici di avere e poi non senti negli altri, non senti in me. Quelli per cui sai che se fai una cosa ti suicidi, ma la fai uguale. Come... come dirti che mi sono innamorato di te.”

Va bene. Non esistono regole. Ma Rukawa ancora non trovò i colori per rispondere con le parole: dove non arrivò la voce, lasciò che fossero le mani e le labbra a raccontare.

Lasciò cadere l’ombrello e mentre il cielo piangeva, sorrise. Yasuda spariva, esile, tra le sue braccia eppure era lui a sentirsi debole, con i nervi contratti in quell’abbraccio. Cercò il coraggio di dire le sue emozioni: “Ho paura,” fu la fine della ricerca.

“Perché sono un senpai?”

“Anche...” Che era paura degli anni, ma anche di ciò che stava iniziando, paura di come sarebbe continuato, di quell’amore di uomini, non glielo disse. E tuttora non ha trovato le parole per raccontare di chi gli fece sanguinare la bocca e il cuore semplicemente per un bacio.

“Perché?”

“Per il rispetto che ti dovrò sempre.”

“Il rispetto è per noi stessi, Kaede. E anche io ho paura, di sentire male, di non esser adatto a te... c’è sempre paura, proprio perché siamo qui, insieme.”

“Tu sai parlare.” E poteva essere una frase qualunque, preconfezionata anche, ma Yasuda lo guardò in faccia e vide la sincerità. “Parla anche per me... se vuoi.”

La bolla dilatata dei loro cuori era esplosa rendendo la paura qualcosa di presente perché loro potessero dimostrare che non esistono regole quando il cuore ti batte tra i denti.

 

Di fronte al portone Yasuda gli sfiorò le labbra: “Oggi non posso chiederti di salire, sono tutti a casa”. Rise e rise anche Rukawa.

“Senpai, domani ti va di fermarti al parco?”

Accennò con la testa e gli diede le spalle. Appena prima che il portone si chiudesse disse solo: “Kaede... non chiamarmi senpai. Mai più”.

Rukawa si guardò tra le dita e ci trovò incollati molti colori, in una macchia blu che gli sembrò soffice. Ora doveva solo imparare ad usarli. Per Yasuda, anche.

 

****

 

Quando Anzai entra in palestra le cose sfumano in un istante e con loro i ricordi e i sentimenti: Mitsui che piange, Miyagi che chiede di nuovo perdono, Sakuragi che ride, Mito che si assume ogni colpa.

Forse, non rimarrà molto di questa giornata nella loro memoria.

Si avvicina a Yasuda, il viso è una pozza di rosso incrostato. “Yasuharu.”

E a sentire questa voce dire il suo nome, un po’ timida, un po’ impaurita, davanti a tutti, Yasuda guarda il sangue sulla fronte di lui e vorrebbe sfiorarlo, ma troppi occhi violerebbero il loro amore ridendone o disprezzandolo e soltanto chiede piano: “Tutto a posto?”

“Sì... tutto a posto.”

L’impulso fortissimo di prendere Rukawa e baciarlo con tutta la forza che gli è rimasta e dirgli “grazie” e anche “ti amo” se possibile.

Vede la mano tesa verso di lui, la afferra e si sente sollevare leggero ed è già pronto a lasciare quelle dita: sentirsi trascinare non è previsto per un amore come il loro.

È un abbraccio assoluto questo di Rukawa. Yasuda si lascia  stringere, in un silenzio strano e poi prende fiato. “Grazie, Kaede...

“Il verde è un colore bellissimo.” Gli dice soltanto. E non lascia la presa.

 

 

Rukawa, Yasuda e tutti i personaggi citati, ad eccezione della sorella di Yasuda sono, naturalmente, ã di Takehiko Inoue.

Il resto¼ il resto è un grazie a chi i colori veri li sa vedere e conosce quel mondo che è oltre i numeri.

Fiore aka Mu



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