Per Ria, Nausicaa, Angie e Calipso.
Il collegio parte
IX
di Greta
Dormì tutta la mattina.
Poco dopo mezzogiorno
passò il medico, e poi gli fu portato un pranzo leggero, un vassoio pieno di
quelle cose insipide, se non addirittura disgustose, che la gente ritiene
indispensabile somministrare alle persone che stanno male, come se non
stessero soffrendo già abbastanza per la propria malattia. Aveva quasi
terminato di mangiare quando sentì dei colpi leggeri contro la porta: fece
appena in tempo a sollevare la testa che si ritrovò Richard nella stanza.
“Cosa ha detto il
dottore?”
Con un po’ di ottimismo,
Mark avrebbe potuto affermare che il suo piccolo principe sembrava
preoccupato…
Allontanò il vassoio,
riappoggiandosi sui cuscini:
“Sembra che il pericolo
di morte sia scampato… ma non ne è ancora certo” rispose, chiudendo gli
occhi e sospirando rumorosamente.
Il compagno rimase
qualche istante in silenzio, continuando a guardarlo:
“Vedo che sei di
buonumore” notò asciutto, avvicinandosi.
Lui sorrise, poi gli
afferrò una mano trascinandolo sul letto:
“E’ una semplice
influenza, febbre alta, mal di testa, indolenzimenti vari. Una stupida
malattia di stagione”.
L’altro annuì, poi
allungò le dita per allontanargli i capelli caduti davanti agli occhi.
“Fai bene a preoccuparti”
riprese lui, accennando poi un sorriso malizioso “Credo di essermi ammalato
l’altra sera, quando non mi hai aperto la porta”.
“E’ la giusta punizione
per il tuo voler influenzare la vita degli altri” gli ribatté Richard,
circondandogli poi il collo con le braccia e appoggiandogli la fronte contro
la spalla.
Mark lo strinse forte a
sé, contento che finalmente il piccolo principe cominciasse a prendere
l’iniziativa, cosa che implicava l’accettazione completa del legame che li
univa.
“Non penso che una
sciocca malattia basterà per impedirmi di portare a compimento la mia
missione” sottolineò, provando un certo gusto nel fare alterare il compagno.
Richard si allontanò,
scuotendo la testa:
“Non ti arrendi mai, eh?
Non vorrei essere in Brian…”.
Rimasero insieme ancora
per qualche minuto, poi, Stoddard si alzò in piedi: la pausa era terminata,
e doveva tornare alle lezioni. Prima di lasciare la stanza, però, promise di
ripassare in serata.
Era buio da un bel po’, e
Mark era ormai stanco di rimuginare i propri pensieri, quando sentì di nuovo
bussare contro la porta. Si sollevò a sedere, sistemandosi i cuscini dietro
la schiena per sostenersi. Era sicuro che Richard sarebbe arrivato dopo
cena… evidentemente doveva essere riuscito a liberarsi prima. Una smorfia
soddisfatta gli si disegnò sul viso: provava una certa soddisfazione nel
vedere l’altro cedergli terreno ogni giorno di più.
Quando la porta si aprì,
però, ad entrare non fu la persona che si attendeva…
“Ho sentito che stavi
male, e ho pensato che probabilmente ti stavi annoiando, tutto solo”.
Le parole erano state
accompagnate da un sorriso, ma non era bastato a mascherare l’espressione
tesa del volto e gli occhi stanchi del ragazzo appena entrato.
“E’ una semplice
influenza. Niente di cui preoccuparsi. Non dovevi disturbarti”.
Era stato freddo,
freddissimo, eppure soffriva nel vedere quel viso smunto e la disperazione
nello sguardo di Alexander.
“Già…” replicò il
compagno, distogliendo gli occhi e portandoli sulla lampada accesa sul
piccolo comodino.
Mark inspirò
profondamente, lasciando poi andare il respiro in piccoli sbuffi. Era una
situazione difficile.
Alexander gli si
avvicinò, sedendosi sulla sponda del letto:
“Non sono venuto per
disturbarti. E’ solo che ultimamente parliamo poco, e quando lo facciamo…”.
Lui scosse la testa, e lo
interruppe afferrandogli la mano tremante:
“Mi dispiace che non
abbia funzionato. Sicuramente troverai presto qualcuno più degno di me…”
mormorò piano, sentendosi un verme per la banalità di ciò che stava dicendo.
Lo sguardo ferito di
Alexander si fissò nel suo:
“Non sono venuto a
pietire nulla, solo a vedere come stavi” si fermò per un istante, poi
riprese con voce più concitata: “Non devi rimproverarti nulla, le cose sono
state chiare sin dall’inizio. E io sono perfettamente in grado di
sopravvivere a questo e altro: credo che tu ti consideri troppo importante”.
Aveva parlato con foga,
ma senza guardarlo: Mark annuì, facendo finta di credere a ciò che gli era
stato detto, e invece si sentiva terribilmente colpevole… dove diavolo era
quel demente di Brian quando si aveva bisogno di lui?! Possibile che non si
fosse ancora reso conto di quando potesse essere importante stare vicino ad
Alexander in quel momento?
“Bene, è ora che vada.
Devo ancora preparare la versione di latino per domani. Riguardati”.
Il ragazzo si allontanò
con passo incerto, e a Mark sembrò di sentire un leggero singhiozzo… ma
forse era stato solo uno scherzo dovuto alla stanchezza.
Non appena fu nuovamente
solo, si ributtò sui cuscini. Per qualche istante non riuscì a cancellare
dalla mente l’immagine di Alexander, ma come al solito non gli ci volle
molto per sostituirla con quella di qualcun altro… si sporse verso il
comodino: la lettura di qualche pagina del manuale di Economia era quello
che gli ci voleva per liberarsi dal peso improvviso di quella situazione.
Si svegliò al tocco
gentile di una mano sulla sua fronte. Quando aprì gli occhi, sorrise
istintivamente.
Richard lo stava
guardando, la testa leggermente inclinata di lato.
“Ciao” disse cercando di
sollevarsi.
“Ciao” gli rispose il
compagno, ricambiando il sorriso.
Rimasero a guardarsi
fisso negli occhi per qualche istante, poi Stoddard voltò il viso verso la
finestra:
“Ti senti meglio? Mi
sembra che la febbre sia scesa…”.
Mark non gli rispose, gli
afferrò la mano accarezzandogli piano le dita sottili.
L’attenzione dell’altro
si focalizzò nuovamente sul suo viso:
“E’ successo qualcosa?
Sei strano…” gli chiese.
“Prima è passato
Alexander… hai ragione: non mi sono comportato bene con lui”.
Seguì il movimento deciso
con cui Richard si sollevò dal letto per portarsi davanti alla grande
vetrata, volgendogli le spalle.
“No, non ti sei
comportato bene”.
Mark sapeva benissimo che
quello che c’era stato fra lui ed Alexander non era stato una cosa gradevole
per Richard: in qualche modo lo aveva tradito, anche se tecnicamente non
stavano insieme, e poi lo aveva fatto con il cugino, con qualcuno troppo
vicino per non poterla considerare una offesa ancora peggiore.
Eppure nel compagno
rimaneva il senso di giustizia che gli faceva vedere chiaramente che
Alexander era stata l’unica vittima di tutta quella situazione. E anche
questo doveva fargli male.
“Mi hai preso in giro,
quando dicevo di volerlo fare avvicinare a Brian, ma rimane l’unica cosa che
io possa fare per aiutarlo…” si interruppe per qualche secondo “…e per
sentirmi meno in colpa. Avevi ragione anche per questo” ammise alla fine.
La pioggia cominciò a
battere insistente ed improvvisa contro i vetri, mentre in lontananza si
vedevano dei lampi squarciare il cielo.
“A cena sono stato al
tavolo con Brian…”.
Un lampo illuminò la
stanza, delineando perfettamente il profilo della persona incorniciata dalla
finestra.
Mark rimase in silenzio,
aspettando il seguito.
Richard si voltò verso di
lui:
“E’ una persona in gamba,
lo stimo molto; e lo ammiro, per il fatto di non essere marcio fino al
midollo come la maggior parte di noi. Non voglio che debba soffrire per i
nostri squilibri personali, per il nostro desiderio di alleggerirci la
coscienza. Se vogliamo provare qualcosa, lo dobbiamo fare con la massima
attenzione, e forse non sarebbe giusto neanche così” disse lentamente,
fissandolo negli occhi.
Mark si sollevò a sedere:
“Il nostro sarà solo un
tentativo: non è mia intenzione ergermi né a giudice né a Dio” replicò con
la stessa calma, e con voce serissima.
Richard annuì:
“Allora vediamo cosa
possiamo fare”.
Alexander non stava
attraversando un buon periodo: gli era sembrato di stare per conquistare
qualcosa, un punto fermo, qualcuno che potesse stargli sempre vicino, e
invece si era visto svanire tutto tra le dita.
All’inizio era cominciato
come un gioco: aveva notato gli sguardi che Mark lanciava a Richard, e aveva
pensato che quella potesse essere una buona opportunità sia per divertirsi
un po’, sia per prendersi una specie di rivincita sul cugino perfetto. Sì,
una rivincita, perché sviare l’interesse di Mark avrebbe implicitamente
significato che Richard, nonostante l’ammirazione che suscitava ovunque, non
era capace di conservare l’affetto di nessuno, sarebbe stata la prova che il
cugino non era altro che una statua algida e frigida, destinata a vivere in
solitudine, su un piedistallo che lo elevava ma gli faceva anche da barriera
contro qualsiasi passione ‘umana’.
Il problema era che poi
lui si era innamorato di quel bastardo, che all’attrazione iniziale,
principalmente fisica, alla sfida, si era sostituito un sentimento ben più
profondo. E così aveva vissuto la loro breve storia nella paura, sentendosi
troppo esposto, troppo poco padrone di sé. E tutte le sue ansie erano state
puntualmente confermate quella mattina che Mark non l’aveva fatto entrare
nella sua stanza. Lì Alexander era dovuto tornare sulla terra, e
l’atterraggio era stato disastroso.
Aveva osservato i due
insieme, al refettorio, in aula, nella palestra di scherma, e aveva capito
che le cose erano cambiate, che l’algido cugino si era sciolto, rivelando
tendenze insospettabili fino ad allora, e che finalmente un po’ di calore e
umanità erano entrati in lui.
E così si era ritrovato
solo, ancora legato a quel sentimento impossibile, abbarbicato ai ricordi
delle carezze che si erano scambiati con Mark, deciso a non guardare né al
futuro, né al presente.
E ci era ricaduto, era
tornato nella sua stanza, in quella stanza da letto a cui erano legati
momenti indimenticabili, e si era umiliato, arrivando al punto di offrire
lui stesso la giustificazione per il comportamento superficiale di quel
bastardo.
Sorrise scuotendo la
testa, poi si versò un altro bicchiere di sherry… già, il liquore ‘delle
signore’, ma lui odiava l’alcool, e solo la dolcezza di quell’intruglio
riusciva a farglielo inghiottire. Aveva bisogno di rilassarsi, di
abbandonarsi ad un oblio privo di pensieri molesti.
Eppure sembrava non
servire, sembrava che quelle immagini fossero più vivide che mai, che i
ricordi si affastellassero nel suo cervello senza lasciargli tregua.
Bevve ancora,
divertendosi a pronunciare nella mente un brindisi per ogni bicchiere che
vuotava… a Mark, a Richard, ai due insieme, ai propri genitori, alla sua
fortuna in amore, a quell’università che gli impediva di scappare via da
tutto questo…
Aprì la seconda
bottiglia, ridendo senza controllo, per poi diventare serissimo, arrivando
ad abbandonarsi a qualche lacrima silenziosa. Gli veniva da vomitare, quella
roba dolciastra era nauseabonda, aveva la bocca secca, le mucose asciutte e
brucianti. Nello stomaco gli sembrava che si fosse annidato il padiglione
più caldo dell’inferno, e quell’odore… quell’odore sembrava che gli si fosse
appiccicato alla pelle.
Appoggiò la bottiglia
sulla scrivania, le mani, che da qualche giorno gli tremavano per la
stanchezza, per la mancanza di sonno e cibo, adesso oscillavano
paurosamente, senza controllo.
Si alzò in piedi con un
balzo, finendo un istante dopo in ginocchio sul pavimento, tenendosi strette
le braccia intorno allo stomaco per evitare di vomitare. Eppure gli sembrava
di stare meglio, i disegni sbiaditi del tappeto gli sembravano vividi, vivi,
la testa, che appena poco prima gli era sembrata pesantissima, adesso era
leggera, libera… si sentiva tranquillo, felice.
Forse aveva esagerato,
era stato troppo pessimista! Mark aveva solo avuto bisogno di un momento di
riflessione, non lo aveva proprio respinto… e poi, quanto contava quel
borghesuccio nella sua vita, nella vita di uno Stoddard-West? Gli aveva
concesso un onore, ad essergli amico per qualche settimana… sì, era proprio
così, e adesso se lo era gettato dietro le spalle, facendolo consolare da
quell’altro fallito. Sorrise: il cuginetto si era solo beccato i suoi
avanzi.
Ecco, adesso era tutto
chiaro, nitido, perfetto! Sorrise, doveva solo mettere al corrente gli altri
delle sue conclusioni. Sì, così tutto sarebbe andato a posto… niente dubbi,
niente errori.
Si alzò, appoggiandosi al
bracciolo della poltrona, le gambe sembravano ondeggiare, mentre la stanza
si stava rivelando improvvisamente storta, con le pareti che stranamente si
chiudevano sopra la sua testa.
Alexander chiuse gli
occhi, inghiottendo due volte a vuoto. Poi guardò nuovamente in direzione
della porta… era di nuovo tutto a posto, tutto fermo.
Barcollando raggiunse la
maniglia, poi, sostenendosi con le mani alla parete del corridoio, avanzò
verso la camera di Mark.
Già, avrebbe cominciato a
fare chiarezza partendo da lui.
Il corridoio gli sembrò
incredibilmente lungo, però alla fine riuscì a raggiungere la sua meta. Un
sorriso gli si disegnò sul viso: ecco, adesso avrebbe fatto chiarezza, e
tutti avrebbero capito che lui aveva la risposta per tutto quello che era
accaduto.
Bussò leggermente, ma non
sentì nessuna risposta, bussò di nuovo, senza accorgersi che stava
picchiando sul muro invece che sulla porta di legno.
Ok, Mark faceva finta di
non esserci… che ore erano? L’ultima volta che aveva guardato l’orologio era
più o meno mezzanotte, gli veniva da ridere a pensare che il fior fiore
della gioventù inglese andava a letto con le galline!! Ma ovviamente quei
ragazzi erano tutti incapaci di vivere, la loro massima aspirazione era
vincere le gare di canottaggio, oppure passare una serata al club in
Arlington Road… atteggiò la bocca ad una smorfia di disgusto: vita sana,
otto ore di sonno, i pilastri della società inglese… bleah!
Girò la maniglia ed entrò
nella stanza buia. Quasi quasi poteva fargli uno scherzo! Accostò piano la
porta dietro di sé, poi camminò il più silenziosamente possibile verso il
letto addossato alla parete opposta… sogghignò: il grande Mark Grant avrebbe
fatto un salto fino al soffitto!
Ad un passo dalla sponda
del letto, fece un balzo gettandosi sulla persona addormentata sotto le
coperte…
“CHE DIAVOLO… COSA STA
SUCCEDENDO…” la voce assonnata che riemerse dal groviglio di coperte aveva
un timbro stranamente profondo. Ma certo, era normale quando uno era
abbandonato tra le braccia di Morfeo…
La luce sul tavolino
accanto al letto si accese quasi istantaneamente, proprio mentre lui
scoppiava a ridere, incapace di trattenersi più a lungo:
“Mark, si vede proprio
che non hai… senso dell’umorismo!” riuscì a mormorare tra i singulti. Ma la
risata gli morì in gola, quando poté finalmente vedere il viso della persona
che aveva svegliato con così poco riguardo.
Dov’era Mark? Perché
diavolo non era nella sua stanza? Perché diavolo c’era un altro nel suo
letto?
“Alexander… che ci fai
qui?!”
NO! Tutti ma non lui…
tutto ma non quella domanda…
“B-Brian…”.
Stava balbettando, non
c’era altro modo per descrivere quello che stava facendo, e improvvisamente
la stanza cominciò a girare, i rumori arrivarono attutiti come se avessero
attraversato strati e strati di ovatta prima di giungere fino a lui, e
l’ultima cosa che vide, fu la trama colorata della coperta del letto di
Brian Eastley.
Brian chiuse i libri,
massaggiandosi stancamente la fronte. Poi si alzò in piedi, avvicinandosi
alla finestra. Era una delle tante giornate strane di cui era costellato
quell’anno scolastico.
Per un momento ripensò a
ciò che era accaduto quel giorno, allo scontro a cui aveva assistito tra
Mark e Alexander. Serrò i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi… non
sopportava quello che stava accadendo, non sopportava di veder soffrire un
ragazzo debole per l’arroganza del Mark Grant di turno.
Eppure non poteva neanche
dire che Mark gli fosse stato istintivamente antipatico, e la conversazione
che avevano avuto, quella in cui la rabbia dell’altro aveva fatto capire
come fosse in grado di tenere davvero ad una persona, gli aveva anche fatto
sperare che non fosse completamente marcio. Ma poi erano seguite altre
parole, tutte di disprezzo e superiorità nei confronti di un ragazzo che era
stato usato e buttato, proprio come se fosse stato solo una specie di
surrogato, utilizzato per scaldare il letto.
Odiava pensare a quello
che aveva sentito attraverso la parete sottile che divideva le loro stanze,
odiava pensare che…
Scosse la testa, tutti
questi pensieri non lo avrebbero portato da nessuna parte. E poi c’erano
altre questioni su cui doveva concentrarsi tutta la sua attenzione, come la
ricerca che stava portando avanti per il professor Allen, quel lavoro che
poteva rivelarsi la chiave per poter continuare a lavorare nel laboratorio
dell’Università.
Se la pubblicazione
dell’articolo, il mese successivo, avesse suscitato almeno un quinto
dell’attenzione che avrebbe meritato, forse sarebbero arrivati i nuovi
fondi, e finalmente gli studi sulle fonti rinnovabili di energia avrebbero
affiancato, per importanza, quelli di fisica nucleare che ormai dominavano
tutti i laboratori più attrezzati. Ecco, questi erano i temi che dovevano
tenerlo sveglio la notte, che dovevano risucchiare le sue forze, non gli
stupidi drammi pseudo-sentimentali dei suoi compagni di corso.
Per un istante gli si
formò di fronte agli occhi l’immagine del viso smunto di Alexander, ma
subito scosse la testa. Gli sarebbe piaciuto aiutarlo, ma a volte aveva idea
che il ragazzo si stesse quasi compiacendo della situazione in cui si
trovava.
Questo pensiero raffreddò
molta della sua rabbia. Riabbassò per un istante lo sguardo sui fogli sparsi
sulla scrivania: l’indomani avrebbero avuto i risultati di certe misure che
li avevano tenuti impegnati negli ultimi mesi, da questi sarebbero dipese le
scelte per lo sviluppo della ricerca, doveva riposare e cercare di non
lasciarsi distrarre.
Indossò il pigiama e si
infilò sotto le coperte, meglio cercare di recuperare un po’ del sonno
perduto nelle ultime notti… chissà fino a quando il vicino di stanza avrebbe
avuto la compiacenza di non allietarlo più con le sue esibizioni notturne.
Qualcosa di pesante gli
impediva di muoversi, qualcosa lo opprimeva, impedendogli quasi di
respirare… non riusciva a capire cosa stesse succedendo, dove fosse… era
tutto scuro, mentre fino a pochi secondi prima gli sembrava di essere
avvolto dalla luce e dai colori. Probabilmente non furono che poche frazioni
di secondo, eppure il momento di passaggio tra sonno e veglia gli sembrò il
risultato di una lunga battaglia:
“CHE DIAVOLO… COSA STA
SUCCEDENDO…” riuscì a mormorare, ansimando sotto quel peso che
improvvisamente sembrò animarsi su di lui.
Qualcosa di simile ad una
risata spezzata, isterica, gli riempì le orecchie:
“Mark, si vede proprio
che non hai… senso dell’umorismo!”.
Mark?! E poi, poi quella
voce…
“Alexander… che ci fai
qui?!” non riuscì a trattenersi dall’esclamare, finalmente sveglio e
cosciente di quello che gli stava accadendo intorno.
Ci fu un momento di
silenzio, una immobilità assoluta e gelida, come se la consapevolezza di
quella situazione stesse colpendo anche la persona che ancora lo bloccava
contro il materasso.
Un respiro affannoso, poi
una voce esitante, inorridita…
“B-Brian…”.
Non ebbe il tempo di
rispondere nulla, Alexander era crollato su di lui… in un modo molto diverso
da prima. Brian tentò di districarsi dalle coperte in modo da liberare le
braccia e poter scuotere il compagno.
“Ehi… Alexander! Che ti
succede?”
Un odore dolciastro
sembrava appiccicato al ragazzo più giovane, qualcosa che, pur nella sua
scarsa esperienza di alcolici, gli sembrò odore di liquore.
E adesso?
Decise che la cosa
migliore era lasciarlo riposare per qualche minuto. Se lo fece scivolare di
lato, per poi coprirlo con la trapunta, sistemandolo in una posizione
certamente più comoda.
Guardò per qualche
istante il viso pallido di Alexander e i capelli scomposti scesi a coprirgli
gli occhi, e poi le lunghe ciglia chiare e le labbra leggermente dischiuse.
Rimase per alcuni minuti immobile, a studiare le linee di quel viso,
incapace di distogliere lo sguardo. Gli fu necessario un certo sforzo di
volontà per scuotere la testa e tornare a considerare freddamente la
situazione.
L’odore dell’alcol, il
tono con cui aveva pronunciato quelle poche parole e l’improvviso crollo
erano segni inequivocabili di una bella sbornia, niente di più grave:
Stoddard doveva essersi ubriacato e adesso la stanchezza, e forse lo choc,
lo avevano vinto, facendolo addormentare.
Già, si era ubriacato, e
non era difficile capirne il motivo: non era stato nelle intenzioni del
ragazzo entrare in quella stanza, il nome che aveva pronunciato faceva
chiaramente capire chi lo avesse scosso al punto di farlo ridurre in quello
stato. Già, Mark, Mark Grant… sempre lui. Sembrava che per Alexander fosse
diventato una droga. Ma sapeva come l’oggetto di tanta affezione parlava di
lui?
Si ributtò sui cuscini,
incrociando le braccia sotto la testa: quel gran bastardo di Grant aveva
trattato quel ragazzo come se fosse un giocattolo, una prostituta sempre
disponibile. Aveva osato prenderlo in giro con lui, un compagno che
conosceva appena… chissà che cosa avrebbe potuto dire a persone che
conosceva meglio!
Spense la lampada accanto
al letto, girandosi su un fianco. Riusciva appena a distinguere la sagoma
nascosta sotto le coperte, ma poteva sentirne il respiro difficoltoso, e
avvertiva anche il propagarsi del calore di quel corpo, un calore che
sembrava sciogliere le sue certezze.
Chiuse gli occhi,
cercando di calmare il proprio respiro e quel turbinio di pensieri che gli
stava riempiendo la testa: Alexander era solo un compagno in difficoltà, i
cui errori di quella notte fortunatamente non avevano avuto conseguenze, e,
anzi, forse gli avevano anche risparmiato l’ennesima umiliazione da parte
dell’ex ‘amico’… adesso si sarebbe potuto riposare, riprendere un po’ di
forza, e il giorno successivo, se avesse avuto anche un po’ di fortuna, non
si sarebbe neanche ricordato nulla…
Si voltò sull’altro
fianco, fissando senza vederle le poche stelle che illuminavano il cielo
scuro, attraverso i vetri della finestra. Il giorno dopo ci sarebbero stati
i risultati delle misure, e questa era l’unica cosa che doveva occupare i
suoi pensieri.
Gli sembrava che qualcuno
lo stesse prendendo a martellate sulle tempie, provò a tapparsi le orecchie
per contrastare il rumore metallico che gli rimbombava nella testa… ecco,
doveva essere quello il rumore delle bombe durante la guerra, continue, una
dopo l’altra… avrebbe voluto urlare di smetterla, ma anche la bocca, arida e
infuocata, rifiutava di fare quello che lui le comandava, e poi c’era quello
strano sapore, dolciastro e disgustoso, che gli riempiva le narici
facendogli venire voglia di vomitare…
All’ennesimo colpo,
Alexander aprì gli occhi.
Li chiuse e riaprì più
volte… non riusciva a capire dove fosse, cosa stesse succedendo.
Dalla finestra entrava
una luce grigia, buia, quella delle prime ore di un mattino di brutto tempo,
e quei colpi continuavano a rimbombargli nella testa. Chiuse di nuovo gli
occhi, cercando di non lasciarsi travolgere dalla sensazione di essere
aggredito da luci, suoni, odori…
Dovette aspettare qualche
minuto per comprendere che era la grandine che rimbalzava sul tetto
dell’edificio a fare tutto quel frastuono, a fargli venire voglia di gridare
per il dolore diffuso in tutto il corpo. Poteva sentire ogni muscolo, ogni
singolo osso protestare per il dolore. Provò a muovere le gambe, e non poté
trattenere una smorfia di dolore al formicolio dovuto al cambiamento di
posizione dopo la lunga inattività. Si riaccoccolò nella posizione
originale, adesso i colpi sembravano meno rumorosi, forse alla grandine si
era sostituita la pioggia.
Eppure c’era qualcosa che
non tornava… c’era qualcosa di… sbagliato, in quella situazione. Tentò di
riaprire gli occhi, preparandosi mentalmente all’attacco di quella luce
lattiginosa e fastidiosa, e per la prima volta si guardò intorno…
No, non era possibile!
Non poteva essere… la porta, la libreria, la scrivania, le stampe alle
pareti… quella non era la sua stanza, quella non era una stanza in cui fosse
mai entrato! Cosa diavolo aveva combinato la sera prima?
Non restava che fare
l’ultimo sforzo, voltarsi e capire ‘dove’ fosse… a chi appartenesse il
calore che sentiva accanto a sé. Era inutile illudersi che fosse Mark,
quella non era la sua stanza, c’era stato un numero sufficiente di volte per
averne l’assoluta certezza, e allora…
Si liberò dalla coperta,
sollevandosi su un gomito, e quello che vide fu…
“Ti sei svegliato,
finalmente!”
No… non era possibile!
Cosa… cosa ci faceva nel letto di… di BRIAN??!!
Il viso del compagno era
tranquillo, rassicurante, come se non trovasse alcun motivo per il suo
sguardo esterrefatto. Però, guardando bene, quegli occhi verdi nascondevano
qualcosa, dietro l’espressione serena, un qualcosa che tradiva una certa
incertezza su cosa aspettarsi da lui.
Possibile che tra loro
fosse successo… qualcosa, quella notte? Possibile che fosse riuscito a
rovinare anche il rapporto con l’unico compagno di cui aveva sempre cercato
l’ammirazione e la stima?
Abbassò lo sguardo,
guardandosi le mani strette intorno alle lenzuola, e solo allora si accorse
di essere completamente vestito, camicia, maglione, pantaloni… tutto,
neanche un bottone fuori posto. Questo avrebbe dovuto fargli emettere un
sospiro di sollievo, eppure qualcosa gli si strinse ancora di più nello
stomaco alla constatazione di non potersi nascondere neanche dietro un finto
disprezzo e una condivisione di colpe. L’altro non lo aveva toccato,
probabilmente non aveva voluto neanche sporcarsi le mani con uno come lui, e
lo aveva accolto nella sua stanza probabilmente solo per pietà, per non
farlo continuare a strisciare, ubriaco e molesto, in qualche corridoio… o
magari proprio davanti alla porta di Mark.
Si sentì avvampare al
pensiero di quanto dovesse essersi umiliato la notte precedente.
Fece scivolare le gambe
oltre la sponda del letto, desiderando scappare da quella situazione il
prima possibile, neanche una vaga idea per una battuta in grado di
alleggerire l’atmosfera, assolutamente niente… solo vergogna e umiliazione.
Sentì una presa ferrea
serrargli il polso. Si voltò di scatto, istintivamente, nonostante il
bruciore agli occhi e il desiderio di non dover più incontrare Brian Eastley
in tutta la sua vita.
“Non te ne andare,
Alexander…” la voce aveva quel timbro caldo e profondo che aveva sempre
avuto l’effetto di fargli trattenere il respiro “…non è successo nulla di
cui tu, od io, ci si debba vergognare. Hai avuto bisogno di aiuto, e io sono
stato… felice, sì, davvero felice di dartelo. Non c’è altro. Imbarazzo,
vergogna e orgoglio sono assolutamente fuori luogo. Sono sicuro che, se mai
dovessi trovarmi nella tua stessa situazione, cosa molto probabile se il
professor Allen non mi vede arrivare entro cinque minuti, tu ti
comporteresti nello stesso modo” si interruppe per qualche secondo, poi
concluse “Fra amici si usa così”.
Alexander sollevò lo
sguardo su quel viso sorridente, cercando di leggere la sincerità delle
parole di Brian nei suoi occhi. Li fissò a lungo prima di rilassarsi e
annuire, restituendogli il sorriso.
Era strano, era sicuro
che sarebbe uscito da quella stanza umiliato, senza più un briciolo di
dignità, e invece sembrava che avesse conquistato un amico, qualcuno che non
lo avrebbe abbandonato.
Appoggiò la schiena
contro i cuscini, ripiegando le gambe sotto le coperte:
“Mi sono reso molto
ridicolo, ieri sera?” chiese, avvampando di nuovo.
Brian scoppiò a ridere,
poi rispose, scuotendo la testa:
“No, mi hai solo quasi
fatto prendere un infarto! Però è stata la dimostrazione che ho un cuore
forte”.
Quella frase, uscita
quasi per caso, li lasciò per un momento senza parole, come se, per motivi
diversi, entrambi vi riconoscessero un significato più intimo.
“Ero ubriaco… temo di
essermi lasciato prendere un po’ la mano, ieri sera” si giustificò Alexander,
il primo a riprendersi da quel momento di imbarazzo.
“Capita a tutti” gli
ribadì l’altro, voltandosi a guardare l’orologio.
Anche lui voltò la testa
nella stessa direzione:
“Forse è il caso che
cominci a prepararti. Mi hai aiutato… non vorrei che adesso dovessi anche
avere dei problemi a causa mia”.
Eppure gli dispiaceva che
Brian dovesse andare via. Dopo parecchi giorni in cui si era sentito
annegare nella tristezza e nella disperazione, questo scambio di battute era
stato inaspettatamente rilassante.
Lo guardò uscire dal
letto, coprire il pigiama con la veste da camera scura… ne seguiva ogni
movimento, quasi volesse ricordare ogni istante, come se stesse cercando, in
quelle immagini, qualcosa che faticava a riconoscere.
Quando Brian tornò a
prendere i libri, dopo essersi lavato e vestito, Alexander si stava per
riaddormentare, il corpo ancora indolenzito e la testa pesante, oltretutto
adesso c’erano anche nuovi pensieri ad agitarlo, pensieri che non riusciva a
mettere in ordine.
Chiuse gli occhi quando
sentì i suoi colpi leggeri contro la porta e poi la maniglia abbassarsi, in
qualche modo stava cercando di evitare quelle sensazioni, quel senso di
calore, di pace che lo avevano avvolto forse per la prima volta nella sua
vita.
Non aprì gli occhi
neanche quando sentì Brian sedersi sulla sponda del letto, accanto a lui.
Cercò, anzi, di mantenere il respiro regolare, nonostante si sentisse
accelerare i battiti del cuore, e bruciare tutto il corpo.
“Riposati ancora un po’,
nessuno ne ha più diritto di te…” lo sentì mormorare. Poi quelle dita forti
gli accarezzarono la testa con delicatezza, la stessa che doveva usare
quando maneggiava gli strumenti delicatissimi del laboratorio di fisica, e
poi gli allontanarono alcune ciocche dalla fronte.
Stava quasi per aprire
gli occhi e cedere all’impulso, che aveva combattuto per tutta la mattina,
di passargli le braccia sottili attorno al collo, quando sentì qualcosa di
morbido sfiorargli appena le labbra, nel bacio più casto, e nello stesso più
emozionante, che avesse mai ricevuto.
Eppure la paura di
rompere quella magia lo spinse a rimanere immobile, a continuare a fingersi
addormentato.
Poco dopo sentì la porta
aprirsi e poi chiudersi di nuovo con delicatezza.
Continuò a tenere gli
occhi serrati, mentre la pioggia aveva smesso di cadere, e i primi raggi di
un sole ancora nascosto dalle nuvole si apprestavano a illuminare quel
giorno nato sotto il peggiore degli auspici.
“Non hai sentito delle
voci, nella stanza accanto?”
Mark era voltato su un
fianco, e con le dita accarezzava il braccio nudo di Richard, appoggiato
sopra la coperta.
“Ma sì… c’è qualcuno
nella stanza con Mister-tutto-d’un-pezzo! Chissà che le cose non siano
andate avanti anche senza il nostro intervento” continuò, cercando di
risvegliare l’interesse del compagno.
“Io non ho sentito
niente, e comunque… quello che succede nella stanza accanto non è affar
nostro - gli ribatté Richard, fermandogli la mano, avvolgendola tra le
proprie per tastargli rapidamente il polso -Mi sembra che tu stia molto
meglio di ieri sera…” notò, cambiando argomento.
Mark gli sorrise,
lasciandosi accarezzare le dita, ma subito riprese il discorso interrotto:
“Comunque sono sicuro di
aver sentito qualcosa. Non insisto solo perché sei tu… quel tipo si
meriterebbe una lezione” aggiunse poi sottovoce… ma forse non era il caso di
riferire la conversazione avuta con Eastley sulla sottigliezza delle pareti
della scuola.
Per non essere costretto
a rovinare una mattinata così promettente con argomenti sgradevoli, decise
poi di eliminare qualsiasi possibilità di continuare la conversazione,
sporgendosi sul compagno e cominciando a baciargli il collo.
“Fermati! Dobbiamo
alzarci…”
Richard continuava a
mostrarsi refrattario ad accettare il fatto di non essere più padrone della
propria vita, di essere completamente abbandonato nelle sue mani… il suo
spirito indipendente continuava ad emergere nelle situazioni più impreviste,
ma forse era dovuto ad un proprio errore: i sentimenti che provava per il
petit prince lo avevano fatto un po’ rammollire, e invece al suo compagno
doveva essere sempre chiaro chi fosse a prendere le decisioni tra loro, la
parte ‘forte’…
Certo, pensare a Richard
come ad una persona debole era impossibile, aveva un carattere determinato,
idee chiare su quello che desiderava diventare, e non a livello di fama e
carriera, come era per lui, ma a livello di ‘persona’, e poi quell’aura di
elegante fragilità che faceva desiderare di stargli vicino, di proteggerlo,
lo faceva anche sembrare irraggiungibile, come una statua classica dalla
perfezione inimitabile.
Gli rotolò addosso,
bloccandogli i polsi contro il materasso, poi si fermò, fissandolo negli
occhi:
“Abbiamo ancora tempo…”
mormorò, liberando una mano, e portandogliela sotto il mento “…e non credo
che tu voglia farmi arrabbiare: ricordati che sono io che detto le regole!”
Lo aveva detto
sorridendo, ma la nota decisa nella sua voce doveva avvertire Richard che
stava parlando seriamente.
Il compagno, però, voltò
immediatamente la testa dall’altra parte, chiudendo gli occhi e stringendo i
pugni.
Appena Mark gli lasciò i
polsi, Richard si tirò a sedere, appoggiandosi i gomiti sulle ginocchia, e
chinando la testa in modo che i capelli gli scendessero a coprire gli occhi.
Improvvisamente lui si
sentì a disagio, qualcosa sembrava essere andato storto. Si allungò verso la
schiena di Stoddard, passandogli le braccia intorno alla vita e
appoggiandogli la fronte sulla pelle nuda:
“Cosa ti succede?” chiese
senza riuscire a nascondere una nota di impazienza.
Richard non rispose
subito, rimase per qualche istante nella stessa posizione, come se stesse
valutando le parole da usare:
“A volte ho paura, Mark…
paura di quello che ci sta accadendo, di quello che ti sto permettendo” non
sollevò gli occhi “A volte mi sembra di essere un trofeo, niente più di
questo. Non è una sensazione piacevole…”.
Perché tutto doveva
essere così fragile tra loro? Perché una semplice parola doveva far
riemergere dubbi e paure? Cos’è che ancora non avevano risolto?
Mark si scansò da quel
corpo caldo, appoggiandosi con la schiena contro la spalliera del letto:
“Sono fatto così, Richard,
speravo che tu avessi accettato il mio carattere…” allungò una mano verso le
sigarette appoggiate sul comodino, infilandosene una tra le labbra
“…desidero che le cose siano chiare, e sono geloso e possessivo verso ciò
che considero mio. Non è mancanza di rispetto o di riconoscimento per la
forza degli altri… la tua, in particolare, ma ho bisogno di sentirti ‘mio’”.
Per una volta il compagno
non lo rimproverò per la sua abitudine di fumare, per una volta non ribadì
di non essere un ragazzino bisognoso di protezione… si limitò a scuotere la
testa.
E questo poteva essere
molto più grave.
Mark inspirò un’altra
boccata di fumo, continuando a fissare la nuca di Richard, appena coperta
dai capelli scomposti.
Per un istante pensò di
allungare la mano e passare le dita tra quei fili sottili, ma fu solo un
impulso momentaneo, in gioco c’era qualcosa di diverso. Ormai sapeva che fra
loro esisteva qualcosa di forte, un sentimento reciproco, importante, che
però si sfrangiava contro ostacoli che affioravano improvvisi.
Osservò il compagno
alzarsi in piedi ed avvicinarsi alla sedia su cui erano appoggiati i suoi
vestiti:
“E’ ora che mi prepari,
non vorrei che qualcuno si domandasse dove sia finito” lo sentì mormorare,
mentre si infilava rapidamente i pantaloni e la camicia.
Lui non gli rispose,
rimase immobile, con la sigaretta tra le labbra. Non aveva voglia né di un
muro contro muro, e neanche di cedere, sapendo che comunque il problema non
si sarebbe risolto. Era vero che il suo atteggiamento poteva risultare poco
simpatico per il compagno, questa sua abitudine di dominare gli altri, di
considerarsi al di sopra di tutto, ma era la sua natura. Amava Richard, non
aveva paura ad ammetterlo, ma proprio per questo voleva che il loro rapporto
avesse basi solide.
Eppure quando lo vide con
la mano sulla maniglia, non riuscì a resistere:
“Non sei un trofeo, non
nel senso che tu pensi… ma sei qualcosa di mio, che ho conquistato con
fatica. Si potrebbe dire che sei il mio bene più prezioso. Non posso che
essere geloso di te, non posso nascondere quanto tu mi sia indispensabile”.
Il suo piccolo principe
si voltò lentamente verso di lui, forzando un sorriso, ma con lo sguardo
carico di tristezza:
“Lo so, ma per me è
difficile accettare di essere considerato una proprietà”.
Si ritrovò solo, steso
sul letto a pensare: come sempre cominciò a chiedersi quanto, nel proprio
comportamento e in quello di Richard, fosse conseguenza delle esperienze
passate, quanto la propria gelosia fosse figlia del sapere di non essere
stato il primo amore del compagno, quanta paura ci fosse nell’altro dovuta
al sentimento forte che aveva provato per Paul Anderson e all’essersi
ritrovato abbandonato.
Schiacciò il mozzicone
nel posacenere.
La cosa triste era che
sapeva che un atteggiamento del genere avrebbe solo danneggiato il loro
rapporto, invece di rafforzarlo. Ma sapeva anche che il desiderio di
controllare quello che stava accadendo tra loro, di guidare il loro rapporto
era qualcosa che faceva parte della sua natura. Non gli era mai piaciuto
lasciare, o solo condividere, il controllo delle cose che gli accadevano.
Si alzò in piedi,
avvicinandosi alla finestra: dopo la notte di pioggia, il sole brillava nel
cielo azzurro chiaro… sarebbe stata una giornata serena.
Si vestì rapidamente,
animato da una nuova energia, quella che gli era sempre data da una nuova
sfida, e infatti anche questa lo sarebbe stata, sarebbe riuscito a forzarsi,
ad avere fiducia in un’altra persona. Quel libro era sepolto in un angolo
remoto della libreria di Richard, adesso doveva essere lui ad accantonare il
ricordo di Anderson, doveva essere lui a riconoscere che non era la
possessività il modo per legare a sé il compagno, di dimostrarsi forte e
sempre presente, per vincere il confronto con l’uomo che aveva scelto di
arrendersi e fuggire alle prime difficoltà, l’uomo che, pensando di agire
con altruismo, aveva solo abbandonato il compagno in una sofferenza e una
solitudine che lo avevano quasi ucciso.
L’idea di mostrarsi
diverso, migliore di Paul, era qualcosa di umano, che non poteva evitare di
avere, ma non doveva essere centrale, il sentimento che Richard aveva
finalmente accettato doveva vivere indipendentemente dalle esperienze
passate.
In ogni caso… lui sarebbe
sempre stato presente per il suo piccolo principe.
Aveva raggiunto
rapidamente la propria stanza, desiderando immergersi nell’acqua calda di
una vasca per rilassarsi e riflettere.
Perché si era rivoltato
in quel modo? Perché aveva reagito in maniera tanto brusca? Sapeva che Mark
gli voleva bene, in qualche modo sentire sulla pelle quella possessività non
gli era mai dispiaciuto, però c’era qualcosa in lui che si ribellava,
qualcosa che gli impediva di accettare di essere trattato come una
conquista. Era l’orgoglio, forse, oppure il fatto che non avrebbe mai più
messo la sua vita nelle mani di un’altra persona… era sempre stato forte,
consapevole di quelli che erano i propri ideali, la propria visione del
mondo, e pretendeva che questo fosse riconosciuto.
Sorrise, Mark era una
persona completamente diversa, ambiziosa e decisa, abituata a influenzare le
cose che gli accadevano, non ad analizzarle dall’esterno, e così stava
facendo anche con il loro rapporto, e lui lo ammirava per questo, ma aveva
bisogno di sentire quello che era nato tra loro come qualcosa di più
equilibrato: era questo che lo spronava a dare il meglio sulla pedana, a non
cedere mai, ad essere il migliore nello studio, per quanto in ambiti
diversi, odiava pensare di essere succube di qualcuno.
Qualsiasi cosa fosse
successa, lui non si sarebbe più trovato a strisciare per terra, incapace di
reagire e capire come ci fosse arrivato.
Per un istante ripensò al
volto sorridente di Paul, e ancora una volta qualcosa gli si torse nello
stomaco.
Una cosa doveva rimanere
ferma: la disperazione che aveva vissuto in quei giorni non l’avrebbe
vissuta mai più. Ed era questo che l’aveva portato a respingere le parole di
Mark, il pensiero che, senza accorgersene, stava ricadendo nella trappola di
abbandonare tutto se stesso nelle mani di un’altra persona. Il sentimento
che provava per Mark si era rivelato incredibilmente forte: lui era stato
restio, all’inizio, ma poi non era riuscito a reprimere la gelosia, a
perdonarlo per ogni mossa sbagliata che aveva fatto, e quella mattina aveva
avuto il terrore che l’amore, perché questo era, che provava per il compagno
gli togliesse ogni desiderio di autonomia, ogni forza nel cercare di
reggersi in piedi da solo. Era facile abbandonarsi alla volontà di Mark,
cedergli qualsiasi controllo, lo aveva fatto più volte, ma doveva
combattere, contrastare questa tentazione, altrimenti non ci sarebbe stata
che altra sofferenza, e lui era stanco di soffrire, lo aveva fatto troppo a
lungo.
Raccolse i libri e le
relazioni preparate per il professore di Inglese.
Aprendo la porta si
augurò che l’alchimia che si era creata tra loro riuscisse a trovare una
soluzione anche a questa difficoltà.
Uscì dalla propria stanza
di nuovo in ordine, i capelli a posto e la divisa perfetta, come sempre, poi
si avviò verso il refettorio.
Si accorse subito che
Mark non era ancora arrivato. Si diresse comunque verso il tavolo che erano
soliti occupare, quello più nascosto, vicino alla finestra.
Aveva appena cominciato a
versarsi il tè, quando gli si avvicinò Brian Eastley.
Mentre gli sorrideva,
invitandolo a sedersi, non poté non ripensare alla conversazione della sera
precedente, quando lui e Mark si erano ritrovati d’accordo nel provare ad
aiutare Brian e Alexander ad avvicinarsi. Sapeva bene, e infatti lo aveva
rimarcato più volte, che da parte di Mark c’era anche un desiderio di
alleggerirsi la coscienza per quello che era accaduto con Alexander, mentre
da parte propria, invece, c’era un po’ di vergogna perché, in qualche modo,
sarebbe stato contento se il cugino avesse trovato una propria strada.
Sapeva che Alexander non costituiva una minaccia, ma nello stesso tempo il
pensiero che la sua attenzione fosse attirata da un’altra persona non poteva
che farlo sentire più tranquillo.
Brian era incredibilmente
sorridente e… distratto, quella mattina.
Richard si accorse che
era la prima volta che vedeva il compagno così sbadato da bere il tè con una
quantità spropositata di zucchero, come se i numerosi viaggi del cucchiaino
colmo fossero stati appena registrati dal suo cervello, e poi quei silenzi
improvvisi ad interrompere frasi lasciate a metà.
Per un momento si chiese
se Brian si sentisse bene, poi notò la cartellina con la tesina di fisica:
“Come va con il professor
Allen? Averci a che fare tutto il giorno deve essere impegnativo…” provò a
buttare lì.
L’altro recuperò uno
sguardo attento, gettando un occhio sui fogli appoggiati accanto al braccio:
“Oggi abbiamo i risultati
di alcune misure importanti” rispose, improvvisamente serio “Se tutto va
bene, può essere il primo passo per impiantare una ricerca stabile. Sono
fiducioso, e lo è anche il professore, ma in queste cose non si sa mai. I
fattori che possono intervenire sono tantissimi, a volte è difficile capire
cosa può portare ad un risultato invece che ad un altro, se però dovessero
arrivare i fondi…”.
Brian si era interrotto
di nuovo, ma questa volta Richard poteva comprenderne bene il motivo. Sapeva
quanto quella ricerca fosse importante, quante aspettative gravassero sulle
spalle del compagno.
Annuì sorridendogli:
“Se posso darti una
mano…” propose. Aveva sempre preferito le materie letterarie, ma sapeva che
a volte in laboratorio è indispensabile anche un semplice aiutante.
Eastley sollevò lo
sguardo su di lui:
“Un giorno approfitterò
di questa tua offerta, ma oggi dovremmo riuscire a farcela da soli” gli
rispose con gentilezza, poi riprese sorridendo:
“So che si è in grande
fermento per il campionato di scherma: ho sentito che sei uno dei nostri
atleti di punta”.
Annuì, cercando di
nascondere un momento di imbarazzo. Nonostante l’abitudine, sin da
piccolissimo, a stare in mezzo alla gente, a saper reagire nel modo più
distaccato e gentile a qualsiasi frase gli venisse rivolta, a volte si
trovava spiazzato quando leggeva l’apprezzamento in persone che godevano
della sua stima.
E forse anche per questo
si sentì un po’ a disagio nell’approfittare immediatamente dello spunto che
gli era stato servito:
“La squadra è molto
forte… credo che tu sappia che anche mio cugino, Alexander, è molto abile…”
disse, portando lo sguardo sul paesaggio esterno, per evitare gli occhi del
compagno.
“Sì. L’ho visto
combattere, una volta. Perse, ma mi colpì il suo modo di tirare” fu la
risposta, pronunciata con voce ferma.
Richard cercò di rimanere
impassibile, in pochi erano in grado di sconfiggere Alexander, e, pur senza
sapere perché, era sicuro che lo scontro a cui aveva assistito Brian dovesse
aver visto impegnati il cugino e Mark.
“Alexander sembra
fragile, invece ha carattere, è una persona su cui contare – per un istante
temette di aver scoperto troppo il proprio gioco, così aggiunse - molti lo
sottovalutano, ma in pedana è agile e intraprendente…”.
Quest’ultima frase gli
era proprio sfuggita di bocca, e non perché stesse pensando all’abilità
schermistica del cugino… no, era a qualcos’altro che stava pensando,
qualcosa che ancora lo faceva star male.
Brian non rispose nulla,
e quando Richard riuscì a riportare lo sguardo su di lui, si accorse che era
perso nei suoi pensieri, lo sguardo fisso sul tè che si stava rapidamente
raffreddando.
Dopo pochi secondi, il
compagno si riscosse, sollevò lo sguardo sul grande orologio appeso in fondo
alla sala, e si sollevò in piedi di scatto:
“Mi dispiace, devo
scappare immediatamente, il professore mi aspetta in laboratorio…” disse,
afferrando i fogli sparsi sul tavolo.
Richard annuì brevemente,
sorridendo e sperando di non aver rovinato le cose con un intervento che,
per l’imbarazzo, era stato piuttosto maldestro.
Una volta solo, i suoi
pensieri tornarono immediatamente a quello che era accaduto poco prima,
nella stanza di Mark… forse avrebbe dovuto trovare il modo di vivere quel
sentimento che li legava con meno tensione. Non gli piaceva che si fossero
lasciati in quel modo, e adesso aveva voglia di vedere il sorriso ironico
sul volto dell’altro, quel sorriso che aveva il potere di metterlo di
buonumore, forse per la sfida che nascondeva, nonostante volesse essere una
smorfia di superiorità.
Imboccò la porta del
refettorio con passo deciso. Quella mattina era davvero importante, e
nonostante quello che era accaduto durante la notte lo avesse distratto,
sapeva che prima di varcare l’ingresso del laboratorio, avrebbe dovuto
recuperare tutta la propria concentrazione, e che l’avrebbe fatto.
Corrugò la fronte, non si
trattava della realizzazione di un sogno, non aveva mai ragionato in questi
termini, si trattava della conclusione di un lavoro portato avanti con
impegno e costanza sin dal primo anno. Un altro avrebbe tremato per la
tensione, di fronte alle risposte che potevano decretare un futuro meno
incerto o un fallimento clamoroso. Aveva molto da perdere, ma non aveva
paura, non avrebbe intrapreso quella strada se non si fosse sentito
abbastanza forte per sopportare anche un insuccesso.
Sorrise tra sé e sé, la
strada della ricerca era costellata di ripartenze. Meglio abituarsi… anche
se sperava di non dover cominciare a farlo già quel giorno!
Sulla porta, si scontrò
con qualcuno che stava facendo in quel momento il proprio ingresso nel
refettorio.
Si voltò verso la persona
che aveva urtato, per porgere le proprie scuse, come un gentiluomo deve
sempre fare, anche quando il torto non è suo, e si accorse in ‘chi’ si era
imbattuto.
Non arrossì, il rossore
di Alexander era più che sufficiente per entrambi, però per un istante
rivisse la sensazione del bacio che aveva appoggiato su quelle labbra
morbide:
“Scusami…” mormorò,
porgendogli spontaneamente una mano… chissà poi il compagno cosa avrebbe
dovuto farsene!
Alexander si risollevò in
piedi, dopo aver raccolto i libri caduti a terra, e portò lo sguardo su di
lui, scuotendo la testa:
“Niente di rotto, e
nessun danno, purtroppo, al libro di Chimica…” per un istante si interruppe,
e Brian ebbe come la sensazione che l’altro temesse di aver fatto una gaffe,
sapendolo un appassionato di tutte le materie scientifiche. Per fargli
capire che non c’era nulla di cui preoccuparsi, gli sorrise immediatamente,
mostrandosi divertito dalle parole sfuggite così naturalmente.
“Stai andando in
laboratorio? Sbrigati o farai tardi…” gli ricordò poi il compagno,
nell’evidente tentativo di riportare il loro rapporto sul binario di
normalità lasciato quella notte.
Brian non ebbe il tempo
di aggiungere nulla, non voleva arrivare in ritardo, e inoltre il loro
incontro gli aveva dato una strana carica. Era sicuro, pur non credendo ai
presagi, che le cose sarebbero andate bene.
Con un saluto veloce, si
precipitò nel corridoio, uscendo dall’edificio e raggiungendo velocemente
l’edificio con i laboratori.
“Temevo quasi che non
sarebbe più arrivato, signor Eastley…” gli fece notare il professor Allen,
estraendo i campioni dal congelatore.
L’antico orologio
dell’edificio principale batté le ore in quel momento, evidenziando anche
all’anziano insegnante che il rimprovero era ingiustificato, eppure Brian
non disse niente. Indossò il camice ed aprì la centrifuga:
Qui si parrà la
tua nobilitate…
Le parole continuavano a
ronzargli nella testa, ma sembravano pronunciate da una bocca sorridente, di
cui poteva ben ricordare il sapore del miele, mentre degli occhi azzurri lo
guardavano con fiducia, con incoraggiamento.
Scosse la testa e allungò
le braccia verso l’alto: no, non avrebbe deluso nessuno. Guardò le provette
che avrebbero misurato il successo della sua ricerca, le sfiorò con
delicatezza, anche loro sembravano amiche, quella mattina…
Alexander entrò nel
refettorio ancora un po’ scosso per l’incontro sulla porta. Si sentiva il
volto bruciare, eppure i pensieri che gli affollavano la testa erano tanti e
privi di qualsiasi ordine… la cosa che continuava a risuonargli nelle
orecchie era la voce dolce di Brian, quella mattina, e poi il tocco morbido
di quelle labbra… era stato un gesto delicato, lo aveva fatto sentire
importante, e non solo qualcuno su cui esercitare istinti animaleschi o
esibire il proprio predominio.
Da quando era rimasto
solo nella stanza di Brian, non aveva fatto altro che interrogarsi sul
significato di quello che era accaduto, ma non per trovare una spiegazione
al comportamento del compagno, o almeno non come cosa principale, quello che
aveva cercato di fare era capire quali fossero i propri sentimenti.
Non erano passate dodici
ore da quando si era ubriacato pensando a Mark, ormai felice con Richard, e
gli era sembrato di essere sepolto sotto un mucchio di macerie… sorrise
amaramente tra sé, il pensiero di quello che era accaduto con Grant aveva
mantenuto certamente il potere di stringergli lo stomaco in una morsa, ma
poi bastava che tornasse con la memoria al comportamento di Brian e un
piccolo sorriso gli si apriva sul volto, e lui non aveva la possibilità di
trattenerlo.
Pensava che una persona
come Eastley non lo avrebbe mai degnato di uno sguardo, uno studente
brillante, un ragazzo già impegnato a costruire il proprio avvenire, un
esempio per tutti… così diverso dal resto dei compagni. E invece quella voce
sommessa, quella carezza delicata erano state rivolte proprio a lui!
Attraversò la sala senza
quasi notare gli altri compagni seduti ai tavoli. Quando si sedette al primo
posto libero, si accorse che al tavolo accanto, quello vicino alla finestra,
il cugino stava terminando la colazione. Rispose con un breve cenno del capo
al suo saluto… la semplice vista del perfetto Richard era bastata a fargli
sentire freddo, a fargli contrarre le dita. Distolse lo sguardo, portandolo
automaticamente sulla sedia vuota di fronte a quella di mister nobiltà… e
sbarrò gli occhi: aveva visto tantissime volte quella borsa di cuoio,
leggermente consunta sui lati.
Le mani gli si strinsero
a pugno: non era possibile! Non era giusto!
Si sollevò in piedi,
lasciando cadere il tovagliolo a terra, ma senza soffermarsi a raccoglierlo.
Non si rese neanche conto come era arrivato a stare in piedi di fronte al
cugino, fissandolo con odio.
A volte gli sembrava che
la sua storia con Richard si potesse riassumere nel a chi ha, sarà dato,
a chi non ha, sarà tolto. L’altro aveva sempre avuto più del necessario,
mentre lui si sentiva come quello a cui viene tolto anche l’unico possesso.
E improvvisamente si rese conto che stavolta non sarebbe rimasto a guardare…
Richard si era voltato
verso di lui, il solito sorriso gentile, ma che a lui sembrava solo falso, i
riccioli biondi che gli scendevano sulla fronte, gli occhi azzurri
leggermente allargati mentre il sottile sopracciglio alzato denotava il
nobile stupore nel vederselo di fronte.
“Ciao, Alexander…”.
Sempre gentile e
leggermente distaccato, sempre calmo e compito. Sempre perfettamente nella
parte.
Alexander portò
inavvertitamente lo sguardo sulla cartella piena di fogli abbandonata sulla
sedia, e Richard doveva aver seguito i suoi occhi, perché gli si era rivolto
con noncuranza:
“E’ la borsa di Brian
Eastley, non mi ero accorto che l’avesse dimenticata…” si era interrotto per
qualche istante, per poi riprendere, come parlando a se stesso “…forse
dovrei riportargliela. Può darsi che ci sia dentro qualcosa che potrebbe
servirgli per le misure di questa mattina…”.
Lui rimase immobile,
cercando di recuperare un minimo di contegno. Anche lui era figlio di quel
mondo, e mai si sarebbe lasciato andare ad una scenata. Il motto ‘nascondere
sempre’ era valido per tutti loro.
Si ricompose, rilassando
i muscoli, e sfoderando un fantasma di sorriso:
“Faresti bene a
raggiungerlo in fretta, credo che per Eastley quella di oggi debba essere
un’occasione importante” si forzò di pronunciare con tranquillità, quando
invece il suo unico desiderio era afferrare il cugino per il colletto e
sbatterlo contro il muro.
Gli voltò le spalle
appena prima di lasciarsi andare a questa tentazione, e attraversò
rapidamente la sala. Non era nelle sue abitudini compiangersi, aveva sempre
vissuto le delusioni con ironia, appropriandosi di quello che non riusciva a
conquistare, e disprezzando quello di cui non riusciva ad appropriarsi, ma
forse ultimamente il fato si era accanito contro di lui, e la somma di
sconfitte cominciava a scalfire la sua corazza di superiorità ed arroganza.
Cosa voleva dire quella
cartella su una sedia? Assolutamente niente, eppure Brian era scappato così
in fretta dalla stanza, quella mattina… sembrava quasi che fosse questione
di vita o di morte raggiungere il laboratorio il prima possibile, e invece…
aveva appuntamento con Richard nel refettorio?
Era stato uno sciocco,
ancora una volta, nel credere che dietro il compagno si nascondesse una
persona speciale. Non lo era, se la sola cosa che sapeva fare era
scodinzolare dietro l’algido bastardo.
Aveva raggiunto l’ala
della biblioteca, l’unico posto poco frequentato a quell’ora della mattina.
Appoggiò la schiena contro il muro della galleria, poi chiuse gli occhi,
lasciandosi scivolare fino a ritrovarsi seduto sul pavimento. Si tenne la
testa fra le mani, cercando di fare ordine nei propri pensieri.
Stentava a recuperare un
equilibrio nel vortice di sensazioni che lo avevano avvolto in quelle ultime
settimane, e al centro di tutto questo troneggiava il viso sorridente e
soddisfatto di Richard. Era strano come spesso avesse ricondotto le proprie
insoddisfazioni all’ingombrante confronto che la famiglia Stoddard-West
aveva sempre fatto tra loro. Non erano mai stati amici, c’erano stati troppi
ostacoli ad impedire il loro avvicinamento, ad alimentare il loro
antagonismo.
Appoggiò la nuca contro
il muro, sollevando il viso fino a farsi ferire gli occhi dalla luce che si
faceva strada tra le persiane della finestra sul muro opposto. Doveva
scuotersi se non voleva che le sensazioni vissute con Brian poco prima gli
scivolassero tra le dita, dopo essere state così forti, così impreviste…
Si risollevò in piedi,
sistemandosi la giacca leggermente fuori posto, e ravviandosi i capelli
dietro le orecchie. Il momento di debolezza era passato, ed era di nuovo
pronto alla battaglia… un po’ gli venne da ridere, chissà come avrebbe
reagito il serio Brian nel sapere quali bellicosi pensieri era stato capace
di scatenare con un semplice tocco di labbra!
Si avviò verso la scala
che lo avrebbe condotto alle aule, quando si
accorse di un rumore di passi proveniente dal corridoio che aveva appena
percorso. Si voltò sorpreso, non erano certamente in molti a fare quel
tragitto per andare a lezione. Eppure quel passo aveva qualcosa di
familiare…
Richard. Sembrava una
persecuzione.
Mentre lo osservava
dirigersi verso di lui, non riuscì a trattenersi, per un attimo, dal cercare
di immaginare come avrebbero preso gli zietti la notizia delle
insospettabili tendenze del pargolo, nonché rampollo, del nobile casato!
Si riscosse non appena il
cugino gli si fermò di fronte, porgendogli la borsa che stringeva tra le
mani:
“Credo che lui sarebbe
più contento se gliela riportassi tu”.
Doveva aver capito male…
cosa diavolo aveva detto?! Eppure quel sorriso leggermente imbarazzato e
divertito, qualcosa che non aveva mai visto sul viso di Richard, era ancora
lì, quasi a volerlo incoraggiare.
“Cosa…” provò ad opporre.
E invece l’altro scosse
semplicemente la testa, continuando a tenere proteso il braccio con la
cartella di cuoio.
E Alexander l’afferrò.
Il collegio Parte
Nona – The End
.
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