Per Ria, Nausicaa, Angie e Calipso.
Il collegio parte
VII
di Greta
Mark seguì Brian nella
sua stanza. Non sapeva neanche perché lo stesse facendo, visto che i suoi
rapporti con il vicino erano tutto fuorché amichevoli.
“Puoi sederti lì” gli
disse il compagno, indicando l’unica poltrona e dirigendosi verso il
bollitore.
Mark ignorò il
suggerimento, avvicinandosi invece alla finestra e appoggiandosi, come
sempre, con le spalle contro il vetro.
“Allora? Cos’hai di così
urgente da dirmi?” sibilò spazientito.
L’altro continuò a
preparare le tazze, apparentemente come se non avesse udito la domanda, poi,
quando il bollitore cominciò a fischiare, aprì il barattolo di tè e versò
l’acqua nelle tazze.
Gliene porse una,
sedendosi sulla poltrona e scaldandosi le mani intorno alla bevanda
bollente, poi sollevò lo sguardo su di lui, fissandolo negli occhi:
“Mi sembri piuttosto
teso…” osservò, appena prima di avvicinare la tazza alla bocca.
“Sono semplicemente
annoiato, e non mi piace perdere tempo” nel pronunciare queste parole, Mark
assunse il suo tono più tagliente.
“Sicuramente ti tieni
sempre impegnato, di questo ho prove certe. L’unica cosa che ti manca è la
considerazione per gli altri” gli ribatté Brian, con una punta di ironia.
Lui appoggiò la tazza sul
davanzale della finestra, staccandosi mollemente dal muro e avvicinandosi
alla porta:
“Credevo che volessi
dirmi qualcosa, evidentemente non è così. Ci si vede, Eastley”.
Aveva appena poggiato la
mano sulla maniglia, quando fu fermato dalla voce tranquilla di Brian:
“Cosa intendi fare con
Alexander?”
Non si voltò, allontanò
solamente le dita dalla porta.
“Cosa intendi dire?”
chiese tra i denti.
Come osava quel rozzo
campagnolo intromettersi nella sua vita privata?
“Ti ho già detto che le
pareti sono sottili”.
“Mi stai stancando” si
voltò lentamente verso il compagno “Non credo che le mie questioni personali
ti riguardino”.
Brian sostenne il suo
sguardo senza battere ciglio, continuando a rigirarsi la tazza tra le mani.
Poi si alzò lentamente, appoggiò il tè sul tavolino basso, e gli si
avvicinò.
Mark continuò a guardarlo
fisso negli occhi, sfidandolo.
Quando Brian gli si fermò
davanti, lui accennò un sorriso di scherno, con l’intenzione di deridere
quell’atteggiamento da adulto che l’altro sembrava vestire con tanta
naturalezza.
Uno schiaffo secco sulla
guancia, senza preavviso, un ceffone come quelli che si danno ai bambini che
si nascondono con testardaggine dietro l’arroganza.
Mark era stato colto così
di sorpresa che per un istante non riuscì a reagire.
Per un istante.
Era una buona occasione,
e non solo per vendicare l’offesa, ma anche per scaricare la tensione che
aveva accumulato negli ultimi due giorni.
Si picchiarono fino ad
essere entrambi senza fiato, piegati in due dai colpi dritti allo stomaco,
barcollanti e ansimanti. Mark dovette lasciarsi scivolare lungo la parete,
incapace di reggersi ancora sulle gambe. Non perse però d’occhio
l’avversario, che tentava faticosamente di raggiungere la poltrona:
“Non ti arrendi mai, eh?”
gli sibilò tra i denti, cercando di respirare più lentamente.
Brian accennò un sorriso,
nonostante le labbra spaccate:
“Con te sembra non ci sia
altro modo di ragionare” replicò, buttando la testa all’indietro e
passandosi le dita sul viso.
“E il tuo rimedio è
tipicamente oxfordiano… Ma già, tu sembri capitato qui per caso!”
In effetti era una cosa
che aveva pensato dalla prima volta che si erano visti: Brian Eastley era
completamente diverso dagli altri ragazzi dell’Università.
“Lo accetto come un
complimento”.
Sì, era sicuramente un
tipo particolare, ed era proprio strano che non riuscisse a trovarlo
antipatico, nonostante fosse una dei pochi a non avergli mai mostrato né il
rispetto, né il timore che era solito pretendere da tutte le persone che
incontrava.
Tentò di rialzarsi in
piedi, ma nella lotta aveva sbattuto una gamba contro lo spigolo della
scrivania, e la parte colpita continuava a dolergli.
Strinse i denti,
nascondendo una smorfia di dolore: era incredibile vedere Brian raccogliere
di nuovo la sua tazza di tè come se niente fosse accaduto.
Rimasero qualche istante
in silenzio, poi il compagno ripeté l’ultima domanda:
“Cosa intendi fare con
Alexander?”
A Mark venne da ridere:
il tipo era testardo! E poi, perché tanta curiosità?
“Sei il suo angelo
custode?” replicò freddamente.
Brian scosse la testa
lentamente, poi ricambiò stancamente il suo sguardo:
“Non mi piace la gente
che non si preoccupa dei sentimenti altrui, soprattutto di quelli di persone
come Alexander, che sembrano forti ma non lo sono” spiegò calmo.
“Alexander è
forte, e comunque non credo proprio che tu sappia di cosa stai parlando”.
Quella conversazione lo
stava stancando, forse proprio perché faceva riemergere tutti i suoi sensi
di colpa. Certo che sapeva di non essersi comportato bene con il compagno,
però cosa c’entrava l’intromissione di una persona che entrambi conoscevano
a malapena? E poi quello cosa credeva di aver capito? Certo parlava perché
non sapeva che i patti con Alexander erano stati chiari sin dall’inizio.
“Non c’è che dire, sei
proprio il bastardo che descrivono…” si sentì ribattere “Ambizioso fino al
punto di passare sopra a chiunque pur di tutelare i tuoi interessi. A cosa
ti serviva Stoddard?”
Lo stava provocando, solo
questo. Voleva costringerlo a parlare, e quindi gli si rivolgeva in quel
modo, sicuro, vista la situazione, di non rischiare un altro scontro fisico.
Se solo non avesse avuto quel dolore alla gamba!
Appoggiò la nuca al muro,
poi inspirò profondamente:
“Ok, cosa vuoi sapere…
cosa intendo fare con Alexander? Beh, non c’è niente che io debba ancora
fare. Siamo stati amici per un po’…” distolse lo sguardo, insomma, un po’ lo
imbarazzava toccare l’argomento con una persona praticamente estranea…
maledette pareti! “…ci siamo divertiti, poi, così come è cominciata, è
finita” concluse, riportando gli occhi in quelli di Brian.
“E sei passato a qualcun
altro…”.
Lo sguardo di Mark si
indurì, diventando di ghiaccio:
“Non osare aggiungere una
parola” il suo tono lasciava trasparire in modo più che chiaro che la
minaccia che vi si leggeva non sarebbe rimasta a livello di parole.
Vide il compagno
sollevare la testa di scatto. Era evidente che non si aspettasse una
reazione simile. Lo sguardo in quegli occhi verdi era ora vivo e curioso.
“Prova ad intrometterti o
a parlarne e ti giuro che ti uccido” ribadì, gli occhi fiammeggianti di
rabbia.
Brian continuò a
guardarlo per un po’, poi sorrise:
“Sono contento di quello
che mi dici. Forse non sei lo stronzo smidollato che credevo. Sei capace di
tenere a una persona…”.
Mark si sollevò, puntando
solo sulla forza di volontà:
“Non me ne frega un cazzo
della tua approvazione”.
L’altro sorrise scuotendo
la testa, poi, mentre lui apriva la porta, gli ribadì:
“Lascia stare Alexander,
non trattarlo con quella falsa condiscendenza che hai mostrato oggi. Non
dargli false speranze. Se non te ne fossi accorto, sta soffrendo come un
cane… anche se il perché rimane per me un mistero” terminò poi con
espressione pensosa.
Ci fu un momento di
silenzio, prima che Mark replicasse sarcastico:
“Stagli lontano anche tu,
allora, non mi sembra il caso che si imbatta in due stronzi, uno dopo
l’altro!”.
Uscendo dalla stanza, non
poté trattenere un sorriso: possibile che…
La conversazione aveva
riservato delle sorprese.
Mentre Mark si buttava
sul letto, ancora vestito, non poté evitare che un leggero sorriso gli
aleggiasse sul volto: non sapeva ancora come, ma il caro Brian poteva
rivelarsi la panacea dei suoi problemi.
Voltandosi su un fianco e
guardando il cielo scuro fuori della finestra, si rese conto che in realtà,
a pensarci bene, non è che avesse molto da stare allegro: con Richard,
nonostante quello che era accaduto, non si poteva certo dire che avessero
raggiunto un accordo, e poi c’era Alexander… le parole di Brian gli
risuonavano ancora nelle orecchie. Non era uno stupido, si era accorto anche
lui dell’attaccamento che l’altro ragazzo aveva sviluppato nei suoi
confronti, e, nonostante avesse cercato in ogni modo di ignorare la cosa,
sapeva bene che era un sentimento profondo.
Però… se davvero il
vicino di stanza nascondeva sotto quella sua aria da arbitro in terra del
bene e del male (De André) dei sentimenti più personali per il gattino,
forse da un male sarebbe potuto nascere un bene.
La stanza era
completamente avvolta dalla notte, il cielo stellato e lo spicchio di luna
crescente che sbucava dalle nuvole lasciavano però distinguere i contorni
degli oggetti nella stanza.
Il suo sguardo si fermò
sui guanti e sul frustino ancora poggiati sul tavolo.
Chiuse gli occhi, era
dolce e penoso ricordare quei momenti della notte precedente, era come se
ogni successo andasse sempre di pari passo con la paura di perdere il
terreno guadagnato. E poi c’erano le parole con cui Richard lo aveva
lasciato, quell’esortazione a prendere tempo, a cercare di superare il
passato.
Lui non aveva un passato
da superare, questo era solo un problema di Richard.
Si sollevò, lasciando
scivolare le gambe oltre la sponda del letto, si cambiò e poi lasciò la
stanza.
Di lui si era sempre
detto che era una persona d’azione.
Non era mai stato in
quella zona del comprensorio universitario. Se possibile, gli edifici erano
ancora più antichi di quelli dell’aula magna e della biblioteca. Sorrise,
con le fontane nascoste dall’edera e quasi completamente coperte di licheni,
gli sembrava quasi di essere giunto nel paese delle fate…
Spinse il pesante portone
di legno, e cominciò a salire le scale.
L’unica cosa che sapeva
era che quello era l’edificio che cercava, nessun altro riferimento. Non
erano in molti, però, i ragazzi alloggiati nel padiglione Thornton: in
genere una politica dell’università era riunire tutti gli studenti negli
edifici più moderni, ma qualcuno, dietro richiesta esplicita, poteva
ottenere l’alloggio in quella che era considerata la costruzione più
tranquilla e fuori mano dell’intera struttura.
Sentì delle voci nel
corridoio del secondo piano…
“…grazie, Stoddard, te lo
riporterò domani, dopo il compito. Non so dove diavolo sia finito il mio”.
Mark sorrise, qualcosa
gli diceva che aveva raggiunto il proprio obiettivo.
Si affacciò cercando di
non farsi vedere. I capelli di Richard brillavano anche sotto la luce
flebile delle lampade che illuminavano il corridoio. Sembrava che avesse
prestato un libro ad un compagno, e che presto sarebbe rimasto solo visto
che l’altro stava mostrando, con un certo buongusto, l’intenzione di
andarsene.
Cominciò a seguirlo,
senza nascondersi ma rimanendo ad una certa distanza. Lo vide entrare nella
stanza in fondo al corridoio, e accendere la luce. Appena prima che Richard
chiudesse la porta, si appoggiò allo stipite, pronto ad esibire il proprio
sorriso più ironico e divertito e a godersi la confusione e il leggero
rossore improvvisamente dipinti sul viso del suo piccolo lord.
“Posso entrare?” chiese
poi gentilmente.
Approfittando dell’attimo
di incertezza dell’altro, avanzò deciso, portandosi al centro della stanza.
Non era molto diversa
dalla sua, forse era un po’ più piccola, però aveva il soffitto alto e una
enorme vetrata che copriva quasi interamente una parete.
Continuò a guardarsi
intorno, senza prestare attenzione al fatto che Richard fosse rimasto
immobile con la mano sulla maniglia. Dovettero passare ancora parecchi
secondi prima che udisse il leggero rumore della porta che finalmente veniva
chiusa.
“Cosa ci fai qui, Mark!”
Sorrise: finalmente le
petit prince si era ripreso.
Si voltò lentamente,
senza avvicinarglisi.
“Mi andava di
chiacchierare un po’, e poi è tutta la giornata che non ci vediamo” replicò,
senza lasciarsi intimorire dal tono poco amichevole del compagno.
“Non credevo avessimo
qualcosa da dirci… non ancora”.
Mark non riuscì a
trattenere un sorriso, era strano come gli fosse molto più semplice
sorridere, adesso.
“Scusami ma mi
preoccupi…”.
Sentì su di sé lo sguardo
interrogativo di Richard, ma non si scompose:
“Siamo insieme da appena
un giorno e già non parliamo più? Pensavo che succedesse solo dopo cinquanta
anni di convivenza…”.
Si accorse benissimo che
lo sbuffo ricevuto in risposta aveva il puro scopo di nascondere un accenno
di sorriso. Però sembrava una tassa: per avvicinarsi a Richard, doveva
sempre superare delle barriere.
Lo vide avvicinarsi alla
grande finestra, e ne studiò ogni movimento. Per un istante temette anche il
terzo tè del pomeriggio, ma fortunatamente sembrava che almeno quel pericolo
fosse scongiurato: l’altro rimaneva infatti ad osservare il buio cortile
interno della costruzione senza parlare.
La luce flebile della
lampada sulla scrivania allungava le loro ombre sulle pareti, ma rendeva
ancora visibili i particolari della stanza. Improvvisamente Mark cominciò a
cercare qualcosa con lo sguardo.
Guardò il comodino vicino
al letto, ma non distinse altro che un libro di poesie di Keats e due
volumetti con ‘Giulio Cesare’ e ‘Re Lear’, accanto ad un blocco per gli
appunti.
Passò ad osservare il
piano della scrivania: solo fogli e i testi per le lezioni.
Rimaneva l’alto scaffale
scuro, pieno di libri ordinatamente impilati.
Non sapeva perché proprio
in quel momento gli fosse venuta la necessità di sapere quale posto
occupasse quel libro consunto di poesie di Tennyson, ma per lui era come se
la sua posizione nella stanza potesse rappresentare la posizione di Paul nei
pensieri di Richard.
La notte precedente,
quando erano stati insieme, Mark per un breve istante aveva pensato a quel
rivale che ancora non sentiva sconfitto. Però non era stato che un momento,
la consapevolezza di quello che stava vivendo era troppo prepotente ed
inebriante per perdere anche pochi istanti dietro quel pensiero doloroso,
quell’unico pensiero che era capace di scatenargli una rabbia sorda, perché
non aveva qualcosa di tangibile contro cui scatenarsi. Adesso, però, sentiva
il bisogno di un confronto.
Per quanto la lampada non
proiettasse luce nell’intera stanza, riconobbe immediatamente la copertina
scura, quel dorso segnato da innumerevoli aperture.
Sorrise, sembrava che, in
qualche modo, il riposo di quel blocco di carta in mezzo a tanti altri libri
rappresentasse anche il riposo del ricordo di Paul.
Avanzò piano, fino a
portarsi alle spalle di Richard, a pochi centimetri dalla sua schiena.
Guardò lo stesso paesaggio che stava catturando il compagno, quel cortile
buio e pieno di ombre, poi lasciò che le mani si posassero su quelle spalle
snelle, scosse da un improvviso sussulto.
Fece scivolare le dita
sulla schiena dritta, segnandone delicatamente la spina dorsale, poi insinuò
le braccia attorno a quel corpo immobile, fino a serrarlo stretto contro il
proprio petto.
“Mark…” gli mormorò
Richard, un sospiro a metà tra monito e resa.
“Non parlare”.
Non voleva che quel
momento venisse interrotto. Sentiva il bisogno di quel corpo contro il
proprio, aveva la necessità di stringerselo addosso, di far sì che il loro
contatto superasse le parole, le smentisse.
Avvicinò la bocca alla
pelle morbida di Richard, gli soffiò delicatamente sul collo, prima di
appoggiarvi le labbra, poi risalì fino all’orecchio, sfiorandogli con una
carezza il lobo piccolo e delicato.
Accompagnò il movimento
di Richard, lasciandolo voltare lentamente senza rompere il contatto,
continuò a baciargli il collo, la gola, mentre le mani scendevano a
sollevargli la camicia…
“Fermo, Mark!”
“Schhhh…” perché diavolo
certe persone sono completamente prive di senso delle situazioni?
Ma il compagno non
sembrava della sua stessa idea. Gli appoggiò la testa sulla spalla,
replicando:
“Avevi detto di voler
parlare”.
Lui si staccò appena,
continuando a tenere Richard tra le braccia, sollevando una mano per
scansargli una ciocca bionda scesa a coprirgli gli occhi.
“Ti amo” disse
semplicemente, abbassandosi poi a baciarlo.
Con astuzia,
approfittando del momento di abbandono del compagno, riuscì poi a fare in
modo che cadessero sul letto: se in pedana Richard era uno stratega
migliore, lui lo sorpassava in abilità in qualsiasi altra situazione.
“Mark!”
Ok, doveva arrendersi e
ascoltarlo. Si buttò con la schiena sul materasso, trascinandoselo addosso e
facendogli appoggiare la testa sul proprio petto.
“Spero tu abbia un buon
motivo per interrompermi…” sibilò, falsamente adirato.
“Prima di tutto, sei
stato tu a dire che dovevamo parlare…”
Richard doveva
assolutamente smetterla di essere pedante, prima o poi glielo avrebbe detto.
Alla lunga poteva rivelarsi un difetto.
“…e comunque eravamo
rimasti che ci saremmo presi del tempo per riflettere. Mi sembra che
dovessimo ancora risolvere alcune situazioni…”
Mark cominciò a passargli
le dita tra i capelli, massaggiandogli la testa in silenzio.
“Sì… dobbiamo parlare…
anzi, forse dovresti andare via…” il leggero massaggio stava cominciando a
dare i propri effetti “…sì, dovresti proprio andare…”.
A questo punto non poté
trattenere un sorriso: quella voce sembrava dire tutt’altro.
Continuò ad accarezzargli
i capelli, poi gli lasciò scendere le mani sul petto, cercando di essere
delicato.
Ma Richard doveva avere
una forza di volontà inesauribile, si scansò infatti da quell’abbraccio,
sollevandosi fino ad appoggiare le spalle contro la testata del letto.
“Sto parlando sul serio,
Mark” disse, evidentemente infastidito più dal proprio comportamento che da
quello del compagno.
Mark si voltò su un
fianco, tenendosi la testa con la mano.
“Io non ho fantasmi da
sconfiggere” replicò deciso.
Erano questo che si erano
rimproverati quella mattina stessa, era questo che rimaneva in sospeso tra
loro.
Sapeva che Richard aveva
ricevuto una educazione che gli rendeva difficile affrontare argomenti
sgradevoli o troppo personali, quindi decise di aiutarlo:
“Con Alexander non mi
sono certamente comportato bene, e non vado fiero di quello che ho fatto. Ma
è una storia finita, anzi… mai iniziata”.
Lo aveva detto
seriamente, continuando a guardare Richard dritto negli occhi.
E aveva detto la verità.
Sebbene in fondo la responsabilità di quello che era accaduto fosse comune a
lui e a Stoddard, sentiva di essersi comportato peggio, visto che non aveva
mai provato alcun sentimento di affetto nei confronti di Alexander, mentre
questi in qualche modo aveva agito pensando che fra loro potesse nascere
qualcosa di più profondo.
“Perché? Perché hai…”
Richard aveva distolto lo sguardo, sembrava vergognarsi per quella domanda.
“Non è stato un periodo
facile per me, e lui mi è stato vicino. Ne avevo bisogno…” ogni parola
sembrava aggiungere squallore a quello che aveva fatto, eppure per lui non
era stato così. In qualche modo Alexander lo aveva aiutato, lo aveva
consolato in un momento difficile, e lui questo non poteva dimenticarlo,
sebbene non potesse dimenticare neanche di aver sfruttato quella
disponibilità a proprio favore, senza rimorsi.
Rimasero entrambi in
silenzio, come a pesare, ad assimilare, le parole che ancora galleggiavano
nell’aria.
Mark allungò un braccio,
fino a sfiorare la guancia di Richard, attirandone lo sguardo su di sé.
Si guardarono a lungo,
finché Richard non si rilassò contro i cuscini.
“Non so, Mark, non so se
sia giusto quello che stiamo facendo. Non credo che possa portarci alla
felicità…”
In quelle parole c’erano
stanchezza e tristezza, come se fossero state pronunciate da una persona che
aveva già combattuto una battaglia simile, e non ne era uscita vincitrice.
“Io non ho paura dei
fantasmi, Richard… e tu?”
Era stato difficile porre
quella domanda, perché significava richiamare l’unico fantasma di cui invece
aveva realmente paura.
Osservò il compagno
chiudere gli occhi:
“Per tanto tempo ho
pensato che la mia vita fosse finita. E anche quando mi sono accorto che non
era così, ho cercato di forzarmi a pensarlo…” Richard si interruppe, poi
aprì gli occhi, fissandolo con uno sguardo grave: “Era più facile pensare
che tutto fosse finito per sempre, avrei preferito che fosse così. Invece
sei arrivato tu, con il tuo orgoglio, con la tua arroganza, con la tua
insistenza… Non so cosa sia successo, eppure qualcosa è cambiato: quello che
accadeva intorno a me non sembrava più lontano, non sembrava più riguardare
solo gli altri”.
Mark accennò un sorriso,
non era un ghigno di soddisfazione o di vittoria, ma solo un sorriso dovuto
al sollievo.
“Non ho dimenticato, né
mai dimenticherò quello che ho vissuto… ma appartiene ad un’altra vita, ad
un’altra parte di me stesso”.
Sì, forse era davvero
arrivato il momento per far riposare i fantasmi, per dar loro pace e
continuare a vivere, senza dimenticarli ma senza esserne perseguitati.
Gli sguardi erano ancora
incatenati quando i loro visi si raggiunsero.
Mark si chinò sulla bocca
di Richard, ma nel tentativo di sostenersi per non schiacciare il compagno,
il ginocchio ancora dolorante cedette, costringendolo ad una smorfia di
dolore.
“Che succede… ti fa male
la gamba?”
Quel bastardo di Brian!
Anche questo era colpa sua…
“Non è niente” replicò
cercando di sorridere: il duro Mark non si sarebbe mai lamentato per una
simile inezia. E poi avevano un discorso da portare avanti…
Si sporse di nuovo sul
corpo di Richard, ma l’improvvisa botta del ginocchio del compagno contro il
proprio lo fece crollare di lato.
“Che diavolo fai!” urlò
portandosi le mani intorno al punto colpito.
“Non è niente, vero?” lo
sguardo del ragazzo biondo era furente “Che altro mi stai nascondendo, Grant!”
Mark si sollevò a sedere:
“Quindi non ti stai
preoccupando della mia salute, pensi solo che ne abbia combinata qualche
altra delle mie!”
L’altro scosse la testa,
determinato a non cadere nella sua trappola:
“Ti sei picchiato con
qualcuno. Perché?”
Gli veniva da ridere:
quante volte avevano già affrontato gli stessi argomenti?
“Ancora una volta il
prestigio di Mark Grant è stato messo in discussione? Oppure hai dovuto
definire nuove regole? O c’è qualche dettaglio più importante che non
hai ancora avuto modo di riferirmi…”.
Richard aveva abbassato
la voce, nel pronunciare le ultime parole, e Mark capì che lo aveva fatto
perché pensava che l’ultima rissa riguardasse in qualche modo Alexander.
“Oggi pomeriggio ho
parlato con tuo cugino” cominciò bruscamente. Non sopportava doversi
giustificare.
Notò lo sguardo che il
compagno aveva sollevato aspettando il seguito, e quindi riprese
rapidamente:
“Doveva essere il mio
fantasma, no? Beh, non lo era, comunque ho chiarito la situazione anche con
lui” si interruppe per poi passargli le braccia intorno alla vita,
attirandoselo contro e addossandosi la sua schiena contro il petto.
“Alexander non picchia la
gente” si sentì replicare istantaneamente, mentre il corpo che stringeva
rimaneva rigido in quell’abbraccio forzato.
Scoppiò a ridere:
“Alexander sapeva che
sarebbe finita. Infatti non è stato lui a colpirmi. E’ stato il mio vicino
di stanza” spiegò, rendendosi conto di quanto le sue parole potessero
sembrare sconclusionate.
Raccontò quindi
brevemente cosa era successo, cosa si fossero detti lui e Brian Eastley.
“Ma stai parlando
dell’assistente del professor Allen?” fu la replica incredula di Richard.
“Sì, del grande genio.
Sembra che sia molto preoccupato per Alexander” si interruppe per alcuni
istanti, per poi riprendere pensieroso: “Devo dire che non mi ha trattato
con grande rispetto. Un tipo coraggioso. L’unico che abbia incontrato, oltre
te”.
Richard si rilassò nel
suo abbraccio:
“Lo conosco poco, ma
sembra un ragazzo in gamba, simpatico… leale”.
Mark strinse la presa
intorno al corpo del compagno:
“Ricordati che sei mio”
gli sibilò gelidamente nell’orecchio.
Su certe cose amava
essere chiaro.
“Sei un idiota, Grant!”
fu la replica, pronta ed evidentemente infastidita.
Mark decise di cambiare
argomento, soddisfatto di aver comunque avuto modo di specificare quella che
era una verità che non tollerava fosse messa in discussione.
“Secondo te a cosa è
dovuta la preoccupazione di Brian-il-perfetto per Alexander?” chiese,
cercando di non far trapelare tutta la malizia che stava mettendo in quella
domanda.
L’occhiata di Richard gli
fece però capire che l’allusione era stata perfettamente interpretata.
“Vuoi fare il sensale
solo per cancellare il senso di colpa?” fu la dura risposta.
Sì, forse c’era anche
questo, ma non solo. Si era stupito dell’intromissione di Eastley in una
faccenda così privata: solo un grande coinvolgimento poteva permettere ad un
inglese del loro ceto di venire meno a quella discrezione che era
considerata un valore sacro.
“Può essere” ribatté
freddamente “Comunque ha un atteggiamento strano, protettivo…”.
Rimasero in silenzio,
certo, se fosse stato come Mark aveva suggerito, si poteva pensare di
tentare di aiutare un po’ la situazione.
“Cosa stai facendo?!”
chiese improvvisamente Richard, voltando la testa per guardarlo in viso e,
contemporaneamente, bloccando quella mano che si stava facendo strada sotto
la sua camicia.
Mark scosse la testa,
poi, avvicinando lentamente le labbra a quel collo candido, ribadì con un
ghigno:
“Forse è il caso di
aggiornare le regole: certe domande sono assolutamente inopportune…”.
La luce soffusa che
penetrava dalla grande vetrata lo svegliò dolcemente. Mark aprì gli occhi,
osservando i particolari di quella stanza poco conosciuta, e concluse che
gli piaceva, gli piaceva quell’aria solenne, ma calda che traspariva dai
muri spessi, dal soffitto con le travi a vista, da quel letto grande, alto,
accogliente. Mosse appena la mano, solo per accarezzare dolcemente il corpo
steso accanto al proprio. Sì, era lì, avevano dormito insieme, abbracciati,
e quei momenti prima che il resto della Casa si risvegliasse cominciando a
disturbarli non solo con i rumori, ma anche ribadendo l’ammonimento che
quello che stavano facendo non era accettabile, erano preziosi, unici.
Richard dormiva ancora,
la testa appoggiata sulla sua spalla, la fronte a premere contro il suo
collo. Ecco, stare così, per sempre. Mark chiuse gli occhi, respirando piano
il profumo di quella pelle chiara e morbida, quasi a voler centellinare
l’emozione che quella vicinanza gli trasmetteva.
Si girò lentamente, in
modo da poter abbracciare meglio il suo compagno.
Probabilmente uno dei
problemi di Richard era il voler sempre valutare le conseguenze, senza mai
pensare che esse non dovessero necessariamente essere le peggiori possibili.
Mark sorrise debolmente tra sé, già immaginava la reazione quando, una volta
svegliato, Richard si sarebbe reso conto della situazione e avrebbe
cominciato a enumerare i mille motivi che dovevano rendere quella notte
insieme non ripetibile, perché troppo pericolosa per entrambi.
Si chinò a baciargli la
fronte, scostandogli i morbidi capelli biondi che ricadevano a coprire gli
occhi del suo piccolo principe, poi scese con la bocca sulla gola, sul
collo, risalendo ad accarezzargli l’orecchio delicato, continuando
contemporaneamente a stringere forte quel corpo che cominciava a
risvegliarsi.
Allontanò per un istante
il viso, deciso ad osservare l’istante in cui Richard avrebbe aperto gli
occhi.
“Buongiorno…” mormorò
piano, quando vide lo sguardo liquido del compagno far capolino tra le
ciglia castane.
Non aspettò una risposta,
abbassandosi a coprire le labbra appena socchiuse. Combatté la morsa del
compagno sulle proprie spalle, il tentativo di venire allontanato, e alla
fine sentì quel corpo arrendersi tra le sue braccia, abbandonarsi nella sua
stretta.
Quando si separarono,
Mark continuò a giocare con le ciocche bionde del compagno, avvolgendosele
intorno alle dita.
“Che ore sono?” gli
chiese Richard, accoccolandosi di nuovo contro di lui.
“Le sette e un quarto”
rispose, chiudendo gli occhi in attesa della reazione. E infatti…
Il compagno si sollevò
immediatamente a sedere sul letto, arrossendo nell’accorgersi che nella foga
le lenzuola li avevano lasciati scoperti, e recuperando in fretta la coperta
per riavvolgersela intorno al corpo.
“Mark! Come diavolo ti è
venuto in mente di rimanere qui?! Ti rendi conto che tra pochi minuti il
corridoio sarà pieno di gente?” si era interrotto un istante per riprendere
fiato, poi gli aveva sibilato, furente “E togliti quel sorriso ebete dalla
faccia!”
Lui si limitò a passargli
le braccia intorno alla vita, riattirandoselo contro:
“Cinque minuti ed esco,
nessuno mi vedrà” mormorò, cominciando a mordicchiargli il collo.
Richard si lasciò
catturare da quelle sensazioni irresistibili per qualche momento, poi si
ritrasse di nuovo:
“Vestiti. E’ tardi”
ribadì deciso, distogliendo lo sguardo.
Mark si sollevò,
baciandolo rapidamente sulla guancia e sorridendogli:
“Non devi essere così
teso. Tutto andrà bene” ed era chiaro che non si stava riferendo solo al
ritorno nella propria camerata.
Si vestì in fretta, si
ravviò rapidamente i capelli, poi si voltò di nuovo verso il compagno,
seduto sul letto:
“Io credo che molti dei
nostri dubbi debbano aver trovato una risposta, stanotte...” si avvicinò al
letto, allungando una mano per sfiorare il volto di Richard “…quindi mi
aspetto che finalmente tu abbia accettato il fatto che sei diventato
proprietà personale di Mark Grant”.
Stava sorridendo, ma il
messaggio doveva essere chiaro, e, nonostante il sopracciglio alzato e il
sorrisetto di sufficienza disegnato sul volto di Richard, sapeva che anche
lui aveva afferrato il concetto.
Si allontanò, trattenendo
finché poté quelle dita sottili tra le proprie. Era sicuro che il giorno in
cui non si sarebbero dovuti incontrare così furtivamente non era lontano.
Tornato nel proprio
edificio, Mark si unì ai compagni nelle attività di pulizia mattutina.
Proprio mentre, ormai vestito, si stava frizionando i capelli bagnati con
l’asciugamano, si accorse che il lavandino accanto al suo era occupato da
Alexander.
Cercò di osservarlo dallo
specchio comune: l’aspetto stanco, l’aria seria, forse anche assente, gli
fecero capire immediatamente che qualcosa non andava.
Chissà perché, si era
sempre detto che Alexander non fosse tipo da sentimenti seri, aveva sempre
pensato che così come aveva conosciuto lui, casuale vicino ad una festa
piena di sconosciuti, nello stesso modo lo avrebbe rimpiazzato con qualcun
altro. Gli era sembrato che la loro ‘relazione’ non fosse stata altro che un
gioco, invece improvvisamente tutto quanto aveva acquistato una prospettiva
diversa.
E ora si sentiva in colpa
per la felicità che aveva conquistato, come se, in qualche modo, l’avesse
raggiunta sulla pelle di Alexander.
Per un istante pensò di
invitarlo a fare colazione insieme, ma era davvero il caso? Non poteva certo
agire in modo tale da complicare le cose appena appianate con Richard…
“Cos’hai, Grant: non
pensavo che non riuscissi più a staccarmi gli occhi di dosso…”
Le parole improvvise lo
fecero sussultare leggermente. Si riprese in un istante, nascondendosi
dietro un sorriso neutrale:
“Scusami, stavo pensando
ad altro” mormorò lentamente.
Lo sguardo di Alexander
lo trafisse:
“Non ne dubitavo”.
Stava quasi per cadere
nella domanda più patetica, quel ‘come stai?’ che gli avrebbe certamente
fatto meritare un pugno in un occhio, quando si accorse che Brian Eastley
stava terminando di vestirsi poco più in là.
“Ehi, c’è anche Brian il
‘duro&puro’!” esclamò con un tono a metà strada tra l’indispettito e il
sollevato, in un certo senso ansioso di introdurre un elemento nuovo nella
conversazione.
Alexander si voltò
leggermente verso il punto in cui era concentrato lo sguardo di Mark.
“Ciao Brian” mormorò
tranquillamente, rispondendo al cenno di saluto che il ragazzo gli aveva
appena rivolto.
Eastley si avvicinò
sorridendo, la solita sicurezza a permeare ogni suo movimento.
Nel momento in cui il suo
sguardo incontrò quello di Mark, quest’ultimo si accorse del lampo di
avvertimento che l’altro aveva la ferma intenzione di trasmettergli.
Tutto sommato Richard non
aveva avuto torto… sarebbe stata una sfida anche fare il sensale di
matrimoni.
Decisero di andare a fare
colazione insieme. Mark non poteva avere obiezioni, visto che la presenza
contemporanea di Brian e Alexander avrebbe reso evidente il perché della
propria partecipazione.
Si sedettero al solito
tavolo discosto, vicino alla finestra.
La conversazione stentava
a cominciare, Alexander sembrava preso dai propri pensieri, e sorrideva e
parlava solo quando era sollecitato a farlo. Mark, dopo aver fatto qualche
osservazione sul tè e sui corsi che doveva seguire quella mattina, aveva
sperato che Brian prendesse in mano la situazione, e invece quest’ultimo si
era limitato a poche parole, anche lui apparentemente perso dietro a
pensieri che non coinvolgevano minimamente i compagni di tavolo.
Appena terminato, si
divisero senza troppi indugi.
Primo tentativo, primo
fallimento!
Aveva sempre fatto bene a
tenere i compagni di corso a debita distanza, ecco cosa succedeva a cercare
di aiutarli. Si era ritrovato a fare la figura del fesso, con quel Brian che
sicuramente aveva capito benissimo cosa stava cercando di fare, e quindi gli
aveva appositamente sabotato il piano!
Peggio per lui, tanto era
sicuro che quella specie di statua di sale si fosse appena perso una bella
occasione… e poi chissà quanto era stato involontario quell’urto violento
della sedia del compagno contro il suo ginocchio ancora dolorante!
Mentre si dirigeva verso
la propria aula, Richard lo affiancò, uscendo dalla biblioteca. Camminarono
insieme in silenzio, ma ad un certo punto si accorse che Stoddard stava
cercando, senza riuscirci, di nascondere un sorriso. Quando lo guardò truce,
l’altro gli replicò:
“Un’idea fantastica, ed
un successo straordinario… non credevo che ci saresti riuscito in così poco
tempo. Ma è vero: mai sottovalutare Mark Grant!”
“Stai zitto, bastardo!”
ribatté pronto, accentuando il tono di lesa maestà.
Richard scosse la testa
divertito, allontanandosi poi per raggiungere la propria aula.
Non ci mancava che il
piccolo Lord a prenderlo in giro! Ma ormai era diventata una sfida, e
sarebbe riuscito a vincerla, come sempre. Sapeva che bastava una piccola
spinta e quei due incapaci avrebbero smesso di fare i ragazzini di due anni.
Il problema era solo trovare il modo giusto per dargliela…
Durante la lezione di
Chimica si ritrovò Brian seduto accanto. Non poté fare a meno di sorridere
ironicamente e sollevare un sopracciglio: sapeva benissimo che l’altro aveva
colto perfettamente il significato dell’ultima frase che si erano scambiati
il giorno precedente, e che l’incontro a tre a colazione non doveva aver
fatto altro che confermare i suoi sospetti.
Non si rivolsero una
parola finché l’ora non fu terminata. Brian era calmo, tranquillo come
sempre, apparentemente inattaccabile, e questo costituiva uno stimolo in
più: sarebbe stato ancora più interessante assistere, anzi, provocare, la
sua caduta.
Gli si affiancò mentre
lasciavano l’aula, guardandosi intorno con disinvoltura e cercando di
scorgere l’altra preda.
Vide Alexander avanzare
da solo, apparentemente assorto nei propri pensieri ed incurante della gente
che gli camminava intorno.
“Andiamo a salutare il
piccolo Stoddard… chissà, magari stasera è libero…” aggiunse ammiccante.
Quella parte non gli piaceva molto, ma ormai aveva deciso di scuotere l’uomo
tutto d’un pezzo.
Brian, cadendo nella
trappola, gli rivolse uno sguardo disgustato.
Mark scosse la testa:
“Mi sembrava che avessi
capito che era lui che sentivi miagolare nella mia stanza… se vuoi, possiamo
giocarci insieme…” aggiunse, con un tono insinuante che disgustava perfino
se stesso.
Brian si fermò,
afferrandogli l’avambraccio saldamente in modo da bloccarlo e farlo voltare:
“Sei un viscido verme,
Grant” per un momento Mark temette che un pugno si sarebbe presto abbattuto
sulla sua testa, invece il compagno proseguì, sibilando: “Spero che la
persona che ami ti tratterà un giorno nello stesso modo in cui tu tratti
Alexander”.
Sorrise, guardando Brian
allontanarsi con passo deciso: aveva buttato il seme, presto sarebbe nata
una pianta, e, a giudicare dall’espressione sul viso del vicino di stanza,
sarebbe stata una pianta resistente come la gramigna.
Si buttò subito l’ira
dietro le spalle, scrollando la testa e avviandosi verso il refettorio per
il pranzo. Proprio davanti al laboratorio di chimica, intravide Richard, e
accelerò il passo per affiancarlo e proseguire il tragitto con lui.
Rimasero in silenzio,
ognuno perso nei propri pensieri.
“Perché questo ghigno
soddisfatto?” si sentì chiedere improvvisamente, accorgendosi che il
compagno lo stava osservando.
Continuò a sorridere,
senza rispondere. Non era il caso di metterlo subito al corrente della
situazione, sicuramente le petit prince avrebbe avuto qualcosa da ridire del
suo piano, e non avrebbe certamente gradito le frasi che aveva pronunciato
appena pochi minuti prima riferendosi ad Alexander…
E infatti, nonostante
Richard non sapesse ancora nulla, già stava scuotendo la testa, continuando
a camminare in silenzio.
In quel momento, da una
delle aule che si affacciavano nel grande atrio, videro Alexander e Brian
che confrontavano qualcosa con i quaderni in mano.
Mark sollevò un
sopracciglio, in risposta alla lunga occhiata di Richard, poi scosse la
testa, continuando a sorridere.
“Non ti illudere…” gli
sibilò il compagno. Evidentemente Stoddard non doveva ancora aver superato
la storia tra lui e Alexander.
“Io non ho detto niente”
replicò, accentuando il proprio ghigno.
“Non mi piace che tratti
mio cugino come se fosse una prostituta”.
Mark si voltò verso
Richard sorpreso. Non si aspettava che lo spirito di clan degli
Stoddard-West fosse così forte, e poi non gli piaceva l’accusa.
“Non lo sto facendo”
ribatté a bassa voce “Penso solo che starebbero bene insieme”.
Richard rimase in
silenzio finché non raggiunsero la sala da pranzo.
Mentre le inservienti
servivano i primi piatti, Mark si ricordò che mancavano due settimane al
ponte di ognissanti:
“Tornerai a casa, Richard?”
chiese, volgendo lo sguardo sul compagno, apparentemente molto preso dalla
contemplazione del busto di Lord Byron.
“I miei genitori sono
partiti per l’Egitto. Non ha molto senso che torni ad Heaven’s Gate” non
aveva aggiunto la domanda su cosa avesse intenzione di fare lui, ma Mark
sapeva che era come se l’avesse fatta.
“Potresti venire a casa
mia, oppure potremmo andarcene per qualche giorno a Londra…” stava per
aggiungere che sarebbero anche potuti rimanere ad Oxford, visto che comunque
non sarebbe rimasto quasi nessuno a disturbarli, ma fu interrotto dalla voce
bassa e ferma del compagno:
“Stai spingendo troppo,
Mark. Abbiamo detto che avremmo proceduto per gradi”.
Lui sorrise, il piccolo
Lord continuava ad avere questo attaccamento per le parole, per gli accordi.
Non era ancora chiaro che le regole le avrebbe sempre dettate lui?
“Non ti va di conoscere i
miei genitori? Tanto prima o poi il pranzo ufficiale in famiglia ci
toccherà…” lo prese in giro, versandosi del vino.
L’occhiata di Richard
avrebbe potuto incenerire chiunque, ma su di lui ebbe solo l’effetto di
aumentargli il buonumore. Gli piaceva terribilmente provocare quell’istrice
pieno di aculei appuntiti.
“Magari potremmo invitare
anche Brian e Alexander…che ne dici?”
Richard si sollevò in
piedi, fissandolo con uno sguardo fiammeggiante, mentre lentamente posava il
tovagliolo accanto al piatto. Lo stile del suo ceto sociale gli avrebbe
sempre impedito di abbandonarsi ad una scenata pubblica, questo Mark lo
sapeva, ed era per questo che lo provocava sempre quando si trovavano in un
luogo affollato.
Poi il compagno gli voltò
le spalle, allontanandosi con passo deciso.
Sollevò un braccio
attirando l’attenzione del cameriere:
“Potrebbe portarmi altro
vino?” chiese abbandonandosi contro lo schienale.
Voltando lo sguardo
soddisfatto verso gli altri tavoli che riempivano la sala, si accorse che
qualcuno doveva aver tenuto lo sguardo fisso su tutta la scena che si era
appena svolta.
Alexander…
Una serata da incubo,
Richard lo aveva evitato in ogni modo, con successo tra l’altro, e quando,
verso mezzanotte, si era introdotto nell’edificio dove il compagno aveva la
propria stanza, si era ritrovato la stanza chiusa a chiave, e nemmeno mezza
risposta alle sue urla sussurrate di aprire quella dannata porta. Non
l’aveva presa a spallate solo perché non voleva creare uno scandalo, ma le
petit prince avrebbe pagato per quello!! E tutto per cosa, poi? Solo perché
aveva deciso di aiutare due persone, solo perché, per una volta, si era
abbandonato ad un atto di generosità. Scosse la testa, sapeva che spesso la
freddezza e la durezza del suo atteggiamento avevano causato critiche,
paura, a volte anche dolore, e invece ora sembrava che la sua bastardaggine
fosse rimpianta addirittura dalla persona a cui teneva di più!
Le lezioni della mattina
successiva proseguirono tranquillamente, l’ora di economia politica l’aveva
trascorsa nella stessa aula con Brian, ma il tipo lo aveva smaccatamente
ignorato, senza nascondersi o allontanarsi, ma evitando di rivolgergli sia
la parola che lo sguardo. Sollevò le spalle, sebbene questo sentirsi un
appestato durante un tentativo di generosità gli desse fastidio, ormai era
troppo coinvolto per tirarsi indietro.
Quando uscirono, fece in
modo che Brian fosse nei paraggi mentre lui si avvicinava ad Alexander.
Per un istante gli si
strinse qualcosa nello stomaco: il ragazzo era dimagrito, pallido. Gli occhi
erano cerchiati, come se dormisse poco, le mani tremavano leggermente.
“Che diavolo ti sta
succedendo, Stoddard?!” gli sibilò furente. Possibile che si fosse lasciato
andare così? Si rifiutava categoricamente di considerarsi la causa di quel
malessere!
L’altro sollevò su di lui
uno sguardo apatico:
“Non credo che la cosa ti
riguardi, Grant” mormorò con un po’ di fatica. Poi sorrise, un sorriso
tirato, stanco “Comunque sto benone. Non ho mai retto bene l’inizio
dell’inverno…”.
Mark sentì per un istante
il desiderio di abbracciarlo, di stringerlo a sé come potrebbe fare un
fratello… come si potrebbe fare con un cucciolo indifeso. Era questa
sensazione che gli provocava Alexander, questi sentimenti. Non c’era
passione, non c’era amore, ma un calore, un senso di protezione con cui si
vuole circondare qualcosa che sembra troppo debole per sopravvivere da sola.
Sapeva che spesso il ragazzo agiva come se fosse molto più esperienzato e
smaliziato di quanto non fosse in realtà, con lui lo aveva fatto più volte,
quella prima sera alla festa di Richard, così come quel pomeriggio nello
spogliatoio, ma era solo una forzatura, un qualcosa che sapeva poteva
aiutarlo ad avvicinare la persona a cui era interessato, nascondendo la sua
dolcezza e la sua ingenuità. E lui non se ne era accorto, ne aveva
approfittato, senza volersi fare domande, preferendo attaccarsi
all’apparenza.
“Se fossi in te mi farei
vedere dal Dottor Scott, probabilmente potrà darti qualche ricostituente…”.
Alexander aveva serrato i
pugni e piegato le braccia, come se stesse per urlare:
“Ti ho detto che sto
bene. Il fatto che ci siamo divertiti insieme non ti autorizza a comportarti
da tutore!” gli sibilò contro, stringendo poi gli occhi, come se volesse
allontanare anche solo la sua immagine.
“Ehi, Stoddard! Intendevo
solo darti una mano…” provò a replicare, sperando di non scatenare una
reazione peggiore.
“Dalla a qualcun altro!”
Mark si appoggiò al muro:
che giornata! Era riuscito ad offendere tutte le persone che lo
circondavano. Lui, il grande, inattaccabile Mark Grant! E la mattinata non
era ancora terminata, c’era ancora tempo per farsi insultare da qualcun
altro…
“Grant, sei un bastardo!”
Aprì gli occhi, facendo
appena in tempo a riconoscere Brian che si allontanava furente.
Appunto.
Il pomeriggio lo
trascorse in biblioteca.
All’interno di quelle
sacre istituzioni che erano i collegi inglesi, ma a dir la verità anche
nelle case, la biblioteca esercitava sempre uno strano fascino su di lui, e
non solo per i libri. Sembrava il luogo per i pensieri nascosti, per le
meditazioni profonde, per lo scambio di confidenze, o anche solo per stare
da soli, in silenzio.
Era alle prese con
l’ennesima tesina, un confronto tra l’Imperialismo Britannico e quello
Tedesco. Non era una delle ricerche più stimolanti che avesse fatto, ma
andava bene, sicuramente era più interessante dello studio sulla nascita
delle imposte doganali!
Aveva deciso di prendersi
un pomeriggio per sé, lontano da tutto quanto. Aveva bisogno di recuperare
il proprio spazio, di rifocalizzarsi sulla sua ‘missione’, su quell’obiettivo
che fino a poco tempo prima era stato la ragione di ogni sua scelta.
Nonostante tutto quello
che era accaduto, non aveva certo dimenticato il suo sogno, e la sua
ambizione non era sicuramente diminuita.
Rilesse rapidamente
quello che aveva appena scritto: sì, andava bene, anche stavolta avrebbe
ricevuto gli sterili complimenti del professore, e magari avrebbe suscitato
un po’ di invidia nei compagni, che sembravano finalmente cominciare a
riconoscere la sua superiorità.
Appoggiandosi contro lo
schienale dell’alta sedia di legno, strinse le mani intorno alla tazza di tè
bollente. Faceva freddo, l’inverno era già arrivato, nonostante, a rigor di
logica, si fosse ancora in autunno, e come sempre le istituzioni inglesi
operavano una politica da paese tropicale, rifiutandosi di ricorrere a
qualsiasi forma di riscaldamento centralizzato prima della fine di dicembre.
Si portò la tazza alla
bocca, sollevando il viso. Fu allora che si accorse di non essere solo nella
grande biblioteca. Ad un tavolo laterale, seminascosto dagli alti separé di
legno scuro, riconobbe facilmente la figura atletica di Brian Eastley.
Era incredibile, era una
persecuzione!
Presto capì che l’altro
non doveva essersi accorto della sua presenza. Approfittò quindi
dell’occasione per osservarlo un po’.
Sembrava molto preso da
quello che stava studiando. Oltre alla pila altissima di libri che aveva
ammonticchiato sul banco, c’erano tantissimi fogli sciolti, coperti di
scarabocchi.
Si diceva che fosse la
giovane promessa della ricerca scientifica inglese, che probabilmente
sarebbe rimasto all’università, come collaboratore del professor Allen.
Mark scosse il capo: era
bello vedere una persona così dedita allo studio, ma lui non avrebbe mai
scambiato le sue ambizioni per qualcosa di così sterile come la ricerca
scientifica, qualcosa che non avrebbe mai arricchito o reso famoso chi ci si
dedicava. Eppure l’ammirazione era forte… c’era quell’idealismo che lui non
aveva mai avuto. Aveva sempre ammesso la propria ambizione, i genitori, i
professori, i compagni, tutti sapevano che avrebbe fatto strada, che avrebbe
avuto una carriera fulgida. Aveva trattato sempre la cosa cinicamente, con
l’aria di dire che la modestia e gli ideali erano cose sterili, e che lui
non aveva paura di ammetterlo e di rincorrere qualcosa di più tangibile,
senza vergogna. Eppure sapeva che in qualche modo il suo atteggiamento
sprezzante era sempre stato una difesa, perché non possedeva quella passione
che portava a sacrificare qualsiasi cosa per inseguire un sogno.
E infatti ammirava ed
invidiava quel ragazzo così poco convenzionale, così ‘superiore’ a tutte
quelle cose che per gli altri studenti sembravano importantissime,
essenziali.
Chissà se sarebbe mai
riuscito a riconoscere i sentimenti che provava per Alexander, perché Mark
era più che convinto che Brian fosse molto preso dal compagno di corso,
chissà però se era già arrivato a chiedersi cosa fosse a portarlo ad essere
così protettivo con Stoddard, chissà se avesse già dato un nome, se avesse
catalogato, così come faceva con gli elementi della tavola periodica, i suoi
sentimenti nella giusta casella.
Probabilmente non ancora.
Si alzò in piedi,
stropicciandosi gli occhi. Era stanco e aveva bisogno di dormire. I
piccioncini dovevano aspettare almeno fino all’indomani per godere ancora
del suo aiuto. E poi Richard era andato a Cambridge con il maestro di
scherma per prendere accordi per il torneo che si sarebbe disputato il mese
successivo, quindi non aveva neanche senso provare a passare nella sua
stanza.
Raccolse tutto il
materiale e si allontanò in silenzio.
Quando si svegliò, la
luce pallida che entrava dalla finestra gli fece capire che aveva dormito
ininterrottamente dalle sette del pomeriggio precedente.
Evidentemente la vita un
po’ movimentata che stava conducendo stava cominciando a dare i propri
effetti. Si lavò e si vestì in fretta. Sentiva un desiderio irresistibile di
vedere Richard, di abbracciarlo stretto.
Scosse la testa, cercando
di negare lo stato di dipendenza che lo legava al compagno, il duro Mark non
aveva bisogno di nessuno, in caso era Richard ad avere bisogno della sua
protezione!
Quando entrò nel
refettorio, lo vide seduto ad un tavolo da solo, intento a riguardare dei
fogli sparpagliati vicino alla tazza della colazione.
Gli si sedette di fronte,
senza riuscire a nascondere una espressione aggrondata. In qualche modo gli
stava rimproverando l’assenza del giorno precedente, quel comportamento
freddo, distaccato, che pensava che ormai dovesse essere superato, visto lo
stadio a cui era giunto il loro rapporto.
Richard sollevò lo
sguardo su di lui, alzando un sopracciglio nel notare la sua espressione
accigliata.
“Ho visto i nostri
avversari per le gare… credo che porteremo Oxford alla vittoria” gli disse,
in quello che a Mark sembrò un tentativo di sondare il suo umore.
Rispose deciso,
ricambiando quello sguardo diretto:
“Vieni nella mia stanza”.
Si alzò senza voltarsi
indietro, a Richard doveva bastare la sua parola.
Si fermò davanti alla
porta, lasciandosi affiancare dal compagno. Quando entrarono, si voltò di
scatto, spingendolo con la schiena contro la porta, e lo bloccò
appoggiandogli le mani contro il legno duro ai lati del corpo.
“Che ti succede, Mark?”
Sì, c’era preoccupazione
in quella voce, non più la freddezza del giorno precedente. Strinse le
braccia intorno alla vita di Richard, addossandoselo contro il petto, poi
lo baciò, felice di sentirsi ricambiato.
“Si può sapere cosa…”
Ma il compagno non riuscì
a terminare, sorpreso dal fatto che Mark gli avesse appoggiato la testa
sulla spalla. Stoddard lo allontanò leggermente, guardandolo dritto negli
occhi, poi gli passò il dorso della mano sulla fronte. Lo sguardo gli si
incupì: era evidente che Mark non stesse bene. Abbassò il braccio,
catturandogli il polso, premendo leggermente per sentirne il battito
cardiaco.
“Parlerò io con il
Preside. In queste condizioni non puoi certo andare a lezione”.
Mark sollevò lo sguardo,
indurendosi:
“Che diavolo stai
dicendo?! Io sto benissimo!”
Odiava ammalarsi,
sentirsi invalido, e del resto in vita sua era successo raramente. Non era
certo il tipo che rimaneva una settimana in un letto per qualche linea di
febbre!
“Hai la febbre alta, non
te ne sei accorto? Vuoi svenire nell’aula magna dell’Istituto?”
Ma lui non aveva nessuna
voglia di cedere. Era solo un po’ stanco, forse aveva solo voglia di un po’
di tranquillità, magari vicino a Richard…
“Ho detto che sto bene!”
ribadì.
Il compagno scosse la
testa, poi lo trascinò di peso fino al letto.
“Potevi dirmelo. Avevo
sottovalutato la tua focosità…” decise allora di prenderlo in giro, cercando
di opporre una debole ironia alla spossatezza che gli impediva di
contrastare quella presa ferma.
Si ritrovò sotto le
coperte, in una penombra artificiale dovuta alle tende tirate.
“Avvertirò anche il
medico e il refettorio, più tardi ti porteranno qualcosa per riscaldarti”.
Chiuse gli occhi,
abbandonandosi a quella voce seria e determinata. In un certo senso, per una
volta gli piaceva che ci fosse qualcuno a preoccuparsi di lui, a sollevarlo
dalla solitudine e dall’orgoglio.
Sentì la porta aprirsi,
per richiudersi subito dolcemente.
Ecco, ora era di nuovo
solo.
Qualcosa pesò sul
materasso accanto a lui, facendolo affondare leggermente. Le coperte furono
sollevate quel tanto da scoprirgli il viso, e poi sentì delle labbra morbide
sulle sue.
“Tornerò appena
possibile. Non essere testardo e riposati”.
Mark sorrise. A volte non
era male accettare di non essere al cento per cento della forma…
Il collegio - Fine
parte ottava.
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