Per Ria, Nausicaa, Angie e Calipso.

 


Il collegio

parte VII

di Greta


Mark seguì Brian nella sua stanza. Non sapeva neanche perché lo stesse facendo, visto che i suoi rapporti con il vicino erano tutto fuorché amichevoli.

“Puoi sederti lì” gli disse il compagno, indicando l’unica poltrona e dirigendosi verso il bollitore.

Mark ignorò il suggerimento, avvicinandosi invece alla finestra e appoggiandosi, come sempre, con le spalle contro il vetro.

“Allora? Cos’hai di così urgente da dirmi?” sibilò spazientito.

L’altro continuò a preparare le tazze, apparentemente come se non avesse udito la domanda, poi, quando il bollitore cominciò a fischiare, aprì il barattolo di tè e versò l’acqua nelle tazze.

Gliene porse una, sedendosi sulla poltrona e scaldandosi le mani intorno alla bevanda bollente, poi sollevò lo sguardo su di lui, fissandolo negli occhi:

“Mi sembri piuttosto teso…” osservò, appena prima di avvicinare la tazza alla bocca.

“Sono semplicemente annoiato, e non mi piace perdere tempo” nel pronunciare queste parole, Mark assunse il suo tono più tagliente.

“Sicuramente ti tieni sempre impegnato, di questo ho prove certe. L’unica cosa che ti manca è la considerazione per gli altri” gli ribatté Brian, con una punta di ironia.

Lui appoggiò la tazza sul davanzale della finestra, staccandosi mollemente dal muro e avvicinandosi alla porta:

“Credevo che volessi dirmi qualcosa, evidentemente non è così. Ci si vede, Eastley”.

Aveva appena poggiato la mano sulla maniglia, quando fu fermato dalla voce tranquilla di Brian:

“Cosa intendi fare con Alexander?”

Non si voltò, allontanò solamente le dita dalla porta.

“Cosa intendi dire?” chiese tra i denti.

Come osava quel rozzo campagnolo intromettersi nella sua vita privata?

“Ti ho già detto che le pareti sono sottili”.

“Mi stai stancando” si voltò lentamente verso il compagno “Non credo che le mie questioni personali ti riguardino”.

Brian sostenne il suo sguardo senza battere ciglio, continuando a rigirarsi la tazza tra le mani. Poi si alzò lentamente, appoggiò il tè sul tavolino basso, e gli si avvicinò.

Mark continuò a guardarlo fisso negli occhi, sfidandolo.

Quando Brian gli si fermò davanti, lui accennò un sorriso di scherno, con l’intenzione di deridere quell’atteggiamento da adulto che l’altro sembrava vestire con tanta naturalezza.

Uno schiaffo secco sulla guancia, senza preavviso, un ceffone come quelli che si danno ai bambini che si nascondono con testardaggine dietro l’arroganza.

Mark era stato colto così di sorpresa che per un istante non riuscì a reagire.

Per un istante.

Era una buona occasione, e non solo per vendicare l’offesa, ma anche per scaricare la tensione che aveva accumulato negli ultimi due giorni.

Si picchiarono fino ad essere entrambi senza fiato, piegati in due dai colpi dritti allo stomaco, barcollanti e ansimanti. Mark dovette lasciarsi scivolare lungo la parete, incapace di reggersi ancora sulle gambe. Non perse però d’occhio l’avversario, che tentava faticosamente di raggiungere la poltrona:

“Non ti arrendi mai, eh?” gli sibilò tra i denti, cercando di respirare più lentamente.

Brian accennò un sorriso, nonostante le labbra spaccate:

“Con te sembra non ci sia altro modo di ragionare” replicò, buttando la testa all’indietro e passandosi le dita sul viso.

“E il tuo rimedio è tipicamente oxfordiano… Ma già, tu sembri capitato qui per caso!”

In effetti era una cosa che aveva pensato dalla prima volta che si erano visti: Brian Eastley era completamente diverso dagli altri ragazzi dell’Università.

“Lo accetto come un complimento”.

Sì, era sicuramente un tipo particolare, ed era proprio strano che non riuscisse a trovarlo antipatico, nonostante fosse una dei  pochi a non avergli mai mostrato né il rispetto, né il timore che era solito pretendere da tutte le persone che incontrava.

Tentò di rialzarsi in piedi, ma nella lotta aveva sbattuto una gamba contro lo spigolo della scrivania, e la parte colpita continuava a dolergli.

Strinse i denti, nascondendo una smorfia di dolore: era incredibile vedere Brian raccogliere di nuovo la sua tazza di tè come se niente fosse accaduto.

Rimasero qualche istante in silenzio, poi il compagno ripeté l’ultima domanda:

“Cosa intendi fare con Alexander?”

A Mark venne da ridere: il tipo era testardo! E poi, perché tanta curiosità?

“Sei il suo angelo custode?” replicò freddamente.

Brian scosse la testa lentamente, poi ricambiò stancamente il suo sguardo:

“Non mi piace la gente che non si preoccupa dei sentimenti altrui, soprattutto di quelli di persone come Alexander, che sembrano forti ma non lo sono” spiegò calmo.

“Alexander è forte, e comunque non credo proprio che tu sappia di cosa stai parlando”.

Quella conversazione lo stava stancando, forse proprio perché faceva riemergere tutti i suoi sensi di colpa. Certo che sapeva di non essersi comportato bene con il compagno, però cosa c’entrava l’intromissione di una persona che entrambi conoscevano a malapena? E poi quello cosa credeva di aver capito? Certo parlava perché non sapeva che i patti con Alexander erano stati chiari sin dall’inizio.

“Non c’è che dire, sei proprio il bastardo che descrivono…” si sentì ribattere “Ambizioso fino al punto di passare sopra a chiunque pur di tutelare i tuoi interessi. A cosa ti serviva Stoddard?”

Lo stava provocando, solo questo. Voleva costringerlo a parlare, e quindi gli si rivolgeva in quel modo, sicuro, vista la situazione, di non rischiare un altro scontro fisico. Se solo non avesse avuto quel dolore alla gamba!

Appoggiò la nuca al muro, poi inspirò profondamente:

“Ok, cosa vuoi sapere… cosa intendo fare con Alexander? Beh, non c’è niente che io debba ancora fare. Siamo stati amici per un po’…” distolse lo sguardo, insomma, un po’ lo imbarazzava toccare l’argomento con una persona praticamente estranea… maledette pareti! “…ci siamo divertiti, poi, così come è cominciata, è finita” concluse, riportando gli occhi in quelli di Brian.

“E sei passato a qualcun altro…”.

Lo sguardo di Mark si indurì, diventando di ghiaccio:

“Non osare aggiungere una parola” il suo tono lasciava trasparire in modo più che chiaro che la minaccia che vi si leggeva non sarebbe rimasta a livello di parole.

Vide il compagno sollevare la testa di scatto. Era evidente che non si aspettasse una reazione simile. Lo sguardo in quegli occhi verdi era ora vivo e curioso.

“Prova ad intrometterti o a parlarne e ti giuro che ti uccido” ribadì, gli occhi fiammeggianti di rabbia.

Brian continuò a guardarlo per un po’, poi sorrise:

“Sono contento di quello che mi dici. Forse non sei lo stronzo smidollato che credevo. Sei capace di tenere a una persona…”.

Mark si sollevò, puntando solo sulla forza di volontà:

“Non me ne frega un cazzo della tua approvazione”.

L’altro sorrise scuotendo la testa, poi, mentre lui apriva la porta, gli ribadì:

“Lascia stare Alexander, non trattarlo con quella falsa condiscendenza che hai mostrato oggi. Non dargli false speranze. Se non te ne fossi accorto, sta soffrendo come un cane… anche se il perché rimane per me un mistero” terminò poi con espressione pensosa.

Ci fu un momento di silenzio, prima che Mark replicasse sarcastico:

“Stagli lontano anche tu, allora, non mi sembra il caso che si imbatta in due stronzi, uno dopo l’altro!”.

Uscendo dalla stanza, non poté trattenere un sorriso: possibile che…

 

La conversazione aveva riservato delle sorprese.

Mentre Mark si buttava sul letto, ancora vestito, non poté evitare che un leggero sorriso gli aleggiasse sul volto: non sapeva ancora come, ma il caro Brian poteva rivelarsi la panacea dei suoi problemi.

Voltandosi su un fianco e guardando il cielo scuro fuori della finestra, si rese conto che in realtà, a pensarci bene, non è che avesse molto da stare allegro: con Richard, nonostante quello che era accaduto, non si poteva certo dire che avessero raggiunto un accordo, e poi c’era Alexander… le parole di Brian gli risuonavano ancora nelle orecchie. Non era uno stupido, si era accorto anche lui dell’attaccamento che l’altro ragazzo aveva sviluppato nei suoi confronti, e, nonostante avesse cercato in ogni modo di ignorare la cosa, sapeva bene che era un sentimento profondo.

Però… se davvero il vicino di stanza nascondeva sotto quella sua aria da arbitro in terra del bene e del male (De André) dei sentimenti più personali per il gattino, forse da un male sarebbe potuto nascere un bene.

La stanza era completamente avvolta dalla notte, il cielo stellato e lo spicchio di luna crescente che sbucava dalle nuvole lasciavano però distinguere i contorni degli oggetti nella stanza.

Il suo sguardo si fermò sui guanti e sul frustino ancora poggiati sul tavolo.

Chiuse gli occhi, era dolce e penoso ricordare quei momenti della notte precedente, era come se ogni successo andasse sempre di pari passo con la paura di perdere il terreno guadagnato. E poi c’erano le parole con cui Richard lo aveva lasciato, quell’esortazione a prendere tempo, a cercare di superare il passato.

Lui non aveva un passato da superare, questo era solo un problema di Richard.

Si sollevò, lasciando scivolare le gambe oltre la sponda del letto, si cambiò e poi lasciò la stanza.

Di lui si era sempre detto che era una persona d’azione.

Non era mai stato in quella zona del comprensorio universitario. Se possibile, gli edifici erano ancora più antichi di quelli dell’aula magna e della biblioteca. Sorrise, con le fontane nascoste dall’edera e quasi completamente coperte di licheni, gli sembrava quasi di essere giunto nel paese delle fate…

Spinse il pesante portone di legno, e cominciò a salire le scale.

L’unica cosa che sapeva era che quello era l’edificio che cercava, nessun altro riferimento. Non erano in molti, però, i ragazzi alloggiati nel padiglione Thornton: in genere una politica dell’università era riunire tutti gli studenti negli edifici più moderni, ma qualcuno, dietro richiesta esplicita, poteva ottenere l’alloggio in quella che era considerata la costruzione più tranquilla e fuori mano dell’intera struttura.

Sentì delle voci nel corridoio del secondo piano…

“…grazie, Stoddard, te lo riporterò domani, dopo il compito. Non so dove diavolo sia finito il mio”.

Mark sorrise, qualcosa gli diceva che aveva raggiunto il proprio obiettivo.

Si affacciò cercando di non farsi vedere. I capelli di Richard brillavano anche sotto la luce flebile delle lampade che illuminavano il corridoio. Sembrava che avesse prestato un libro ad un compagno, e che presto sarebbe rimasto solo visto che l’altro stava mostrando, con un certo buongusto, l’intenzione di andarsene.

Cominciò a seguirlo, senza nascondersi ma rimanendo ad una certa distanza. Lo vide entrare nella stanza in fondo al corridoio, e accendere la luce. Appena prima che Richard chiudesse la porta, si appoggiò allo stipite, pronto ad esibire il proprio sorriso più ironico e divertito e a godersi la confusione e il leggero rossore improvvisamente dipinti sul viso del suo piccolo lord.

“Posso entrare?” chiese poi gentilmente.

Approfittando dell’attimo di incertezza dell’altro, avanzò deciso, portandosi al centro della stanza.

Non era molto diversa dalla sua, forse era un po’ più piccola, però aveva il soffitto alto e una enorme vetrata che copriva quasi interamente una parete.

Continuò a guardarsi intorno, senza prestare attenzione al fatto che Richard fosse rimasto immobile con la mano sulla maniglia. Dovettero passare ancora parecchi secondi prima che udisse il leggero rumore della porta che finalmente veniva chiusa.

“Cosa ci fai qui, Mark!”

Sorrise: finalmente le petit prince si era ripreso.

Si voltò lentamente, senza avvicinarglisi.

“Mi andava di chiacchierare un po’, e poi è tutta la giornata che non ci vediamo” replicò, senza lasciarsi intimorire dal tono poco amichevole del compagno.

“Non credevo avessimo qualcosa da dirci… non ancora”.

Mark non riuscì a trattenere un sorriso, era strano come gli fosse molto più semplice sorridere, adesso.

“Scusami ma mi preoccupi…”.

Sentì su di sé lo sguardo interrogativo di Richard, ma non si scompose:

“Siamo insieme da appena un giorno e già non parliamo più? Pensavo che succedesse solo dopo cinquanta anni di convivenza…”.

Si accorse benissimo che lo sbuffo ricevuto in risposta aveva il puro scopo di nascondere un accenno di sorriso. Però sembrava una tassa: per avvicinarsi a Richard, doveva sempre superare delle barriere.

Lo vide avvicinarsi alla grande finestra, e ne studiò ogni movimento. Per un istante temette anche il terzo tè del pomeriggio, ma fortunatamente sembrava che almeno quel pericolo fosse scongiurato: l’altro rimaneva infatti ad osservare il buio cortile interno della costruzione senza parlare.

La luce flebile della lampada sulla scrivania allungava le loro ombre sulle pareti, ma rendeva ancora visibili i particolari della stanza. Improvvisamente Mark cominciò a cercare qualcosa con lo sguardo.

Guardò il comodino vicino al letto, ma non distinse altro che un libro di poesie di Keats e due volumetti con ‘Giulio Cesare’ e ‘Re Lear’, accanto ad un blocco per gli appunti.

Passò ad osservare il piano della scrivania: solo fogli e i testi per le lezioni.

Rimaneva l’alto scaffale scuro, pieno di libri ordinatamente impilati.

Non sapeva perché proprio in quel momento gli fosse venuta la necessità di sapere quale posto occupasse quel libro consunto di poesie di Tennyson, ma per lui era come se la sua posizione nella stanza potesse rappresentare la posizione di Paul nei pensieri di Richard.

La notte precedente, quando erano stati insieme, Mark per un breve istante aveva pensato a quel rivale che ancora non sentiva sconfitto. Però non era stato che un momento, la consapevolezza di quello che stava vivendo era troppo prepotente ed inebriante per perdere anche pochi istanti dietro quel pensiero doloroso, quell’unico pensiero che era capace di scatenargli una rabbia sorda, perché non aveva qualcosa di tangibile contro cui scatenarsi. Adesso, però, sentiva il bisogno di un confronto.

Per quanto la lampada non proiettasse luce nell’intera stanza, riconobbe immediatamente la copertina scura, quel dorso segnato da innumerevoli aperture.

Sorrise, sembrava che, in qualche modo, il riposo di quel blocco di carta in mezzo a tanti altri libri rappresentasse anche il riposo del ricordo di Paul.

Avanzò piano, fino a portarsi alle spalle di Richard, a pochi centimetri dalla sua schiena. Guardò lo stesso paesaggio che stava catturando il compagno, quel cortile buio e pieno di ombre, poi lasciò che le mani si posassero su quelle spalle snelle, scosse da un improvviso sussulto.

Fece scivolare le dita sulla schiena dritta, segnandone delicatamente la spina dorsale, poi insinuò le braccia attorno a quel corpo immobile, fino a serrarlo stretto contro il proprio petto.

“Mark…” gli mormorò Richard, un sospiro a metà tra monito e resa.

“Non parlare”.

Non voleva che quel momento venisse interrotto. Sentiva il bisogno di quel corpo contro il proprio, aveva la necessità di stringerselo addosso, di far sì che il loro contatto superasse le parole, le smentisse.

Avvicinò la bocca alla pelle morbida di Richard, gli soffiò delicatamente sul collo, prima di appoggiarvi le labbra, poi risalì fino all’orecchio, sfiorandogli con una carezza il lobo piccolo e delicato.

Accompagnò il movimento di Richard, lasciandolo voltare lentamente senza rompere il contatto, continuò a baciargli il collo, la gola, mentre le mani scendevano a sollevargli la camicia…

“Fermo, Mark!”

“Schhhh…” perché diavolo certe persone sono completamente prive di senso delle situazioni?

Ma il compagno non sembrava della sua stessa idea. Gli appoggiò la testa sulla spalla, replicando:

“Avevi detto di voler parlare”.

Lui si staccò appena, continuando a tenere Richard tra le braccia, sollevando una mano per scansargli una ciocca bionda scesa a coprirgli gli occhi.

“Ti amo” disse semplicemente, abbassandosi poi a baciarlo.

Con astuzia, approfittando del momento di abbandono del compagno, riuscì poi a fare in modo che cadessero sul letto: se in pedana Richard era uno stratega migliore, lui lo sorpassava in abilità in qualsiasi altra situazione.

“Mark!”

Ok, doveva arrendersi e ascoltarlo. Si buttò con la schiena sul materasso, trascinandoselo addosso e facendogli appoggiare la testa sul proprio petto.

“Spero tu abbia un buon motivo per interrompermi…” sibilò, falsamente adirato.

“Prima di tutto, sei stato tu a dire che dovevamo parlare…”

Richard doveva assolutamente smetterla di essere pedante, prima o poi glielo avrebbe detto. Alla lunga poteva rivelarsi un difetto.

“…e comunque eravamo rimasti che ci saremmo presi del tempo per riflettere. Mi sembra che dovessimo ancora risolvere alcune situazioni…”

Mark cominciò a passargli le dita tra i capelli, massaggiandogli la testa in silenzio.

“Sì… dobbiamo parlare… anzi, forse dovresti andare via…” il leggero massaggio stava cominciando a dare i propri effetti “…sì, dovresti proprio andare…”.

A questo punto non poté trattenere un sorriso: quella voce sembrava dire tutt’altro.

Continuò ad accarezzargli i capelli, poi gli lasciò scendere le mani sul petto, cercando di essere delicato.

Ma Richard doveva avere una forza di volontà inesauribile, si scansò infatti da quell’abbraccio, sollevandosi fino ad appoggiare le spalle contro la testata del letto.

“Sto parlando sul serio, Mark” disse, evidentemente infastidito più dal proprio comportamento che da quello del compagno.

Mark si voltò su un fianco, tenendosi la testa con la mano.

“Io non ho fantasmi da sconfiggere” replicò deciso.

Erano questo che si erano rimproverati quella mattina stessa, era questo che rimaneva in sospeso tra loro.

Sapeva che Richard aveva ricevuto una educazione che gli rendeva difficile affrontare argomenti sgradevoli o troppo personali, quindi decise di aiutarlo:

“Con Alexander non mi sono certamente comportato bene, e non vado fiero di quello che ho fatto. Ma è una storia finita, anzi… mai iniziata”.

Lo aveva detto seriamente, continuando a guardare Richard dritto negli occhi.

E aveva detto la verità. Sebbene in fondo la responsabilità di quello che era accaduto fosse comune a lui e a Stoddard, sentiva di essersi comportato peggio, visto che non aveva mai provato alcun sentimento di affetto nei confronti di Alexander, mentre questi in qualche modo aveva agito pensando che fra loro potesse nascere qualcosa di più profondo.

“Perché? Perché hai…” Richard aveva distolto lo sguardo, sembrava vergognarsi per quella domanda.

“Non è stato un periodo facile per me, e lui mi è stato vicino. Ne avevo bisogno…” ogni parola sembrava aggiungere squallore a quello che aveva fatto, eppure per lui non era stato così. In qualche modo Alexander lo aveva aiutato, lo aveva consolato in un momento difficile, e lui questo non poteva dimenticarlo, sebbene non potesse dimenticare neanche di aver sfruttato quella disponibilità a proprio favore, senza rimorsi.

Rimasero entrambi in silenzio, come a pesare, ad assimilare, le parole che ancora galleggiavano nell’aria.

Mark allungò un braccio, fino a sfiorare la guancia di Richard, attirandone lo sguardo su di sé.

Si guardarono a lungo, finché Richard non si rilassò contro i cuscini.

“Non so, Mark, non so se sia giusto quello che stiamo facendo. Non credo che possa portarci alla felicità…”

In quelle parole c’erano stanchezza e tristezza, come se fossero state pronunciate da una persona che aveva già combattuto una battaglia simile, e non ne era uscita vincitrice.

“Io non ho paura dei fantasmi, Richard… e tu?”

Era stato difficile porre quella domanda, perché significava richiamare l’unico fantasma di cui invece aveva realmente paura.

Osservò il compagno chiudere gli occhi:

“Per tanto tempo ho pensato che la mia vita fosse finita. E anche quando mi sono accorto che non era così, ho cercato di forzarmi a pensarlo…” Richard si interruppe, poi aprì gli occhi, fissandolo con uno sguardo grave: “Era più facile pensare che tutto fosse finito per sempre, avrei preferito che fosse così. Invece sei arrivato tu, con il tuo orgoglio, con la tua arroganza, con la tua insistenza… Non so cosa sia successo, eppure qualcosa è cambiato: quello che accadeva intorno a me non sembrava più lontano, non sembrava più riguardare solo gli altri”.

Mark accennò un sorriso, non era un ghigno di soddisfazione o di vittoria, ma solo un sorriso dovuto al sollievo.

“Non ho dimenticato, né mai dimenticherò quello che ho vissuto… ma appartiene ad un’altra vita, ad un’altra parte di me stesso”.

Sì, forse era davvero arrivato il momento per far riposare i fantasmi, per dar loro pace e continuare a vivere, senza dimenticarli ma senza esserne perseguitati.

Gli sguardi erano ancora incatenati quando i loro visi si raggiunsero.

Mark si chinò sulla bocca di Richard, ma nel tentativo di sostenersi per non schiacciare il compagno, il ginocchio ancora dolorante cedette, costringendolo ad una smorfia di dolore.

“Che succede… ti fa male la gamba?”

Quel bastardo di Brian! Anche questo era colpa sua…

“Non è niente” replicò cercando di sorridere: il duro Mark non si sarebbe mai lamentato per una simile inezia. E poi avevano un discorso da portare avanti…

Si sporse di nuovo sul corpo di Richard, ma l’improvvisa botta del ginocchio del compagno contro il proprio lo fece crollare di lato.

“Che diavolo fai!” urlò portandosi le mani intorno al punto colpito.

“Non è niente, vero?” lo sguardo del ragazzo biondo era furente “Che altro mi stai nascondendo, Grant!”

Mark si sollevò a sedere:

“Quindi non ti stai preoccupando della mia salute, pensi solo che ne abbia combinata qualche altra delle mie!”

L’altro scosse la testa, determinato a non cadere nella sua trappola:

“Ti sei picchiato con qualcuno. Perché?”

Gli veniva da ridere: quante volte avevano già affrontato gli stessi argomenti?

“Ancora una volta il prestigio di Mark Grant è stato messo in discussione? Oppure hai dovuto definire nuove regole? O c’è qualche dettaglio più importante che non hai ancora avuto modo di riferirmi…”.

Richard aveva abbassato la voce, nel pronunciare le ultime parole, e Mark capì che lo aveva fatto perché pensava che l’ultima rissa riguardasse in qualche modo Alexander.

“Oggi pomeriggio ho parlato con tuo cugino” cominciò bruscamente. Non sopportava doversi giustificare.

Notò lo sguardo che il compagno aveva sollevato aspettando il seguito, e quindi riprese rapidamente:

“Doveva essere il mio fantasma, no? Beh, non lo era, comunque ho chiarito la situazione anche con lui” si interruppe per poi passargli le braccia intorno alla vita, attirandoselo contro e addossandosi la sua schiena contro il petto.

“Alexander non picchia la gente” si sentì replicare istantaneamente, mentre il corpo che stringeva rimaneva rigido in quell’abbraccio forzato.

Scoppiò a ridere:

“Alexander sapeva che sarebbe finita. Infatti non è stato lui a colpirmi. E’ stato il mio vicino di stanza” spiegò, rendendosi conto di quanto le sue parole potessero sembrare sconclusionate.

Raccontò quindi brevemente cosa era successo, cosa si fossero detti lui e Brian Eastley.

“Ma stai parlando dell’assistente del professor Allen?” fu la replica incredula di Richard.

“Sì, del grande genio. Sembra che sia molto preoccupato per Alexander” si interruppe per alcuni istanti, per poi riprendere pensieroso: “Devo dire che non mi ha trattato con grande rispetto. Un tipo coraggioso. L’unico che abbia incontrato, oltre te”.

Richard si rilassò nel suo abbraccio:

“Lo conosco poco, ma sembra un ragazzo in gamba, simpatico… leale”.

Mark strinse la presa intorno al corpo del compagno:

“Ricordati che sei mio” gli sibilò gelidamente nell’orecchio.

Su certe cose amava essere chiaro.

“Sei un idiota, Grant!” fu la replica, pronta ed evidentemente infastidita.

Mark decise di cambiare argomento, soddisfatto di aver comunque avuto modo di specificare quella che era una verità che non tollerava fosse messa in discussione.

“Secondo te a cosa è dovuta la preoccupazione di Brian-il-perfetto per Alexander?” chiese, cercando di non far trapelare tutta la malizia che stava mettendo in quella domanda.

L’occhiata di Richard gli fece però capire che l’allusione era stata perfettamente interpretata.

“Vuoi fare il sensale solo per cancellare il senso di colpa?” fu la dura risposta.

Sì, forse c’era anche questo, ma non solo. Si era stupito dell’intromissione di Eastley in una faccenda così privata: solo un grande coinvolgimento poteva permettere ad un inglese del loro ceto di venire meno a quella discrezione che era considerata un valore sacro.

“Può essere” ribatté freddamente “Comunque ha un atteggiamento strano, protettivo…”.

Rimasero in silenzio, certo, se fosse stato come Mark aveva suggerito, si poteva pensare di tentare di aiutare un po’ la situazione.

 “Cosa stai facendo?!” chiese improvvisamente Richard, voltando la testa per guardarlo in viso e, contemporaneamente, bloccando quella mano che si stava facendo strada sotto la sua camicia.

Mark scosse la testa, poi, avvicinando lentamente le labbra a quel collo candido, ribadì con un ghigno:

“Forse è il caso di aggiornare le regole: certe domande sono assolutamente inopportune…”.

 

La luce soffusa che penetrava dalla grande vetrata lo svegliò dolcemente. Mark aprì gli occhi, osservando i particolari di quella stanza poco conosciuta, e concluse che gli piaceva, gli piaceva quell’aria solenne, ma calda che traspariva dai muri spessi, dal soffitto con le travi a vista, da quel letto grande, alto, accogliente. Mosse appena la mano, solo per accarezzare dolcemente il corpo steso accanto al proprio. Sì, era lì, avevano dormito insieme, abbracciati, e quei momenti prima che il resto della Casa si risvegliasse cominciando a disturbarli non solo con i rumori, ma anche ribadendo l’ammonimento che quello che stavano facendo non era accettabile, erano preziosi, unici.

Richard dormiva ancora, la testa appoggiata sulla sua spalla, la fronte a premere contro il suo collo. Ecco, stare così, per sempre. Mark chiuse gli occhi, respirando piano il profumo di quella pelle chiara e morbida, quasi a voler centellinare l’emozione che quella vicinanza gli trasmetteva.

Si girò lentamente, in modo da poter abbracciare meglio il suo compagno.

Probabilmente uno dei problemi di Richard era il voler sempre valutare le conseguenze, senza mai pensare che esse non dovessero necessariamente essere le peggiori possibili. Mark sorrise debolmente tra sé, già immaginava la reazione quando, una volta svegliato, Richard si sarebbe reso conto della situazione e avrebbe cominciato a enumerare i mille motivi che dovevano rendere quella notte insieme non ripetibile, perché troppo pericolosa per entrambi.

Si chinò a baciargli la fronte, scostandogli i morbidi capelli biondi che ricadevano a coprire gli occhi del suo piccolo principe, poi scese con la bocca sulla gola, sul collo, risalendo ad accarezzargli l’orecchio delicato, continuando contemporaneamente a stringere forte quel corpo che cominciava a risvegliarsi.

Allontanò per un istante il viso, deciso ad osservare l’istante in cui Richard avrebbe aperto gli occhi.

“Buongiorno…” mormorò piano, quando vide lo sguardo liquido del compagno far capolino tra le ciglia castane.

Non aspettò una risposta, abbassandosi a coprire le labbra appena socchiuse. Combatté la morsa del compagno sulle proprie spalle, il tentativo di venire allontanato, e alla fine sentì quel corpo arrendersi tra le sue braccia, abbandonarsi nella sua stretta.

Quando si separarono, Mark continuò a giocare con le ciocche bionde del compagno, avvolgendosele intorno alle dita.

“Che ore sono?” gli chiese Richard, accoccolandosi di nuovo contro di lui.

“Le sette e un quarto” rispose, chiudendo gli occhi in attesa della reazione. E infatti…

Il compagno si sollevò immediatamente a sedere sul letto, arrossendo nell’accorgersi che nella foga le lenzuola li avevano lasciati scoperti, e recuperando in fretta la coperta per riavvolgersela intorno al corpo.

“Mark! Come diavolo ti è venuto in mente di rimanere qui?! Ti rendi conto che tra pochi minuti il corridoio sarà pieno di gente?” si era interrotto un istante per riprendere fiato, poi gli aveva sibilato, furente “E togliti quel sorriso ebete dalla faccia!”

Lui si limitò a passargli le braccia intorno alla vita, riattirandoselo contro:

“Cinque minuti ed esco, nessuno mi vedrà” mormorò, cominciando a mordicchiargli il collo.

Richard si lasciò catturare da quelle sensazioni irresistibili per qualche momento, poi si ritrasse di nuovo:

“Vestiti. E’ tardi” ribadì deciso, distogliendo lo sguardo.

Mark si sollevò, baciandolo rapidamente sulla guancia e sorridendogli:

“Non devi essere così teso. Tutto andrà bene” ed era chiaro che non si stava riferendo solo al ritorno nella propria camerata.

Si vestì in fretta, si ravviò rapidamente i capelli, poi si voltò di nuovo verso il compagno, seduto sul letto:

“Io credo che molti dei nostri dubbi debbano aver trovato una risposta, stanotte...” si avvicinò al letto, allungando una mano per sfiorare il volto di Richard “…quindi mi aspetto che finalmente tu abbia accettato il fatto che sei diventato proprietà personale di Mark Grant”.

Stava sorridendo, ma il messaggio doveva essere chiaro, e, nonostante il sopracciglio alzato e il sorrisetto di sufficienza disegnato sul volto di Richard, sapeva che anche lui aveva afferrato il concetto.

Si allontanò, trattenendo finché poté quelle dita sottili tra le proprie. Era sicuro che il giorno in cui non si sarebbero dovuti incontrare così furtivamente non era lontano.

 

Tornato nel proprio edificio, Mark si unì ai compagni nelle attività di pulizia mattutina. Proprio mentre, ormai vestito, si stava frizionando i capelli bagnati con l’asciugamano, si accorse che il lavandino accanto al suo era occupato da Alexander.

Cercò di osservarlo dallo specchio comune: l’aspetto stanco, l’aria seria, forse anche assente, gli fecero capire immediatamente che qualcosa non andava.

Chissà perché, si era sempre detto che Alexander non fosse tipo da sentimenti seri, aveva sempre pensato che così come aveva conosciuto lui, casuale vicino ad una festa piena di sconosciuti, nello stesso modo lo avrebbe rimpiazzato con qualcun altro. Gli era sembrato che la loro ‘relazione’ non fosse stata altro che un gioco, invece improvvisamente tutto quanto aveva acquistato una prospettiva diversa.

E ora si sentiva in colpa per la felicità che aveva conquistato, come se, in qualche modo, l’avesse raggiunta sulla pelle di Alexander.

Per un istante pensò di invitarlo a fare colazione insieme, ma era davvero il caso? Non poteva certo agire in modo tale da complicare le cose appena appianate con Richard…

“Cos’hai, Grant: non pensavo che non riuscissi più a staccarmi gli occhi di dosso…”

Le parole improvvise lo fecero sussultare leggermente. Si riprese in un istante, nascondendosi dietro un sorriso neutrale:

“Scusami, stavo pensando ad altro” mormorò lentamente.

Lo sguardo di Alexander lo trafisse:

“Non ne dubitavo”.

Stava quasi per cadere nella domanda più patetica, quel ‘come stai?’ che gli avrebbe certamente fatto meritare un pugno in un occhio, quando si accorse che Brian Eastley stava terminando di vestirsi poco più in là.

“Ehi, c’è anche Brian il ‘duro&puro’!” esclamò con un tono a metà strada tra l’indispettito e il sollevato, in un certo senso ansioso di introdurre un elemento nuovo nella conversazione.

Alexander si voltò leggermente verso il punto in cui era concentrato lo sguardo di Mark.

“Ciao Brian” mormorò tranquillamente, rispondendo al cenno di saluto che il ragazzo gli aveva appena rivolto.

Eastley si avvicinò sorridendo, la solita sicurezza a permeare ogni suo movimento.

Nel momento in cui il suo sguardo incontrò quello di Mark, quest’ultimo si accorse del lampo di avvertimento che l’altro aveva la ferma intenzione di trasmettergli.

Tutto sommato Richard non aveva avuto torto… sarebbe stata una sfida anche fare il sensale di matrimoni.

Decisero di andare a fare colazione insieme. Mark non poteva avere obiezioni, visto che la presenza contemporanea di Brian e Alexander avrebbe reso evidente il perché della propria partecipazione.

Si sedettero al solito tavolo discosto, vicino alla finestra.

La conversazione stentava a cominciare, Alexander sembrava preso dai propri pensieri, e sorrideva e parlava solo quando era sollecitato a farlo. Mark, dopo aver fatto qualche osservazione sul tè e sui corsi che doveva seguire quella mattina, aveva sperato che Brian prendesse in mano la situazione, e invece quest’ultimo si era limitato a poche parole, anche lui apparentemente perso dietro a pensieri che non coinvolgevano minimamente i compagni di tavolo.

Appena terminato, si divisero senza troppi indugi.

Primo tentativo, primo fallimento!

Aveva sempre fatto bene a tenere i compagni di corso a debita distanza, ecco cosa succedeva a cercare di aiutarli. Si era ritrovato a fare la figura del fesso, con quel Brian che sicuramente aveva capito benissimo cosa stava cercando di fare, e quindi gli aveva appositamente sabotato il piano!

Peggio per lui, tanto era sicuro che quella specie di statua di sale si fosse appena perso una bella occasione… e poi chissà quanto era stato involontario quell’urto violento della sedia del compagno contro il suo ginocchio ancora dolorante!

Mentre si dirigeva verso la propria aula, Richard lo affiancò, uscendo dalla biblioteca. Camminarono insieme in silenzio, ma ad un certo punto si accorse che Stoddard stava cercando, senza riuscirci, di nascondere un sorriso. Quando lo guardò truce, l’altro gli replicò:

“Un’idea fantastica, ed un successo straordinario… non credevo che ci saresti riuscito in così poco tempo. Ma è vero: mai sottovalutare Mark Grant!”

“Stai zitto, bastardo!” ribatté pronto, accentuando il tono di lesa maestà.

Richard scosse la testa divertito, allontanandosi poi per raggiungere la propria aula.

Non ci mancava che il piccolo Lord a prenderlo in giro! Ma ormai era diventata una sfida, e sarebbe riuscito a vincerla, come sempre. Sapeva che bastava una piccola spinta e quei due incapaci avrebbero smesso di fare i ragazzini di due anni. Il problema era solo trovare il modo giusto per dargliela…

 

Durante la lezione di Chimica si ritrovò Brian seduto accanto. Non poté fare a meno di sorridere ironicamente e sollevare un sopracciglio: sapeva benissimo che l’altro aveva colto perfettamente il significato dell’ultima frase che si erano scambiati il giorno precedente, e che l’incontro a tre a colazione non doveva aver fatto altro che confermare i suoi sospetti.

Non si rivolsero una parola finché l’ora non fu terminata. Brian era calmo, tranquillo come sempre, apparentemente inattaccabile, e questo costituiva uno stimolo in più: sarebbe stato ancora più interessante assistere, anzi, provocare, la sua caduta.

Gli si affiancò mentre lasciavano l’aula, guardandosi intorno con disinvoltura e cercando di scorgere l’altra preda.

Vide Alexander avanzare da solo, apparentemente assorto nei propri pensieri ed incurante della gente che gli camminava intorno.

“Andiamo a salutare il piccolo Stoddard… chissà, magari stasera è libero…” aggiunse ammiccante. Quella parte non gli piaceva molto, ma ormai aveva deciso di scuotere l’uomo tutto d’un pezzo.

Brian, cadendo nella trappola, gli rivolse uno sguardo disgustato.

Mark scosse la testa:

“Mi sembrava che avessi capito che era lui che sentivi miagolare nella mia stanza… se vuoi, possiamo giocarci insieme…” aggiunse, con un tono insinuante che disgustava perfino se stesso.

Brian si fermò, afferrandogli l’avambraccio saldamente in modo da bloccarlo e farlo voltare:

“Sei un viscido verme, Grant” per un momento Mark temette che un pugno si sarebbe presto abbattuto sulla sua testa, invece il compagno proseguì, sibilando: “Spero che la persona che ami ti tratterà un giorno nello stesso modo in cui tu tratti Alexander”.

Sorrise, guardando Brian allontanarsi con passo deciso: aveva buttato il seme, presto sarebbe nata una pianta, e, a giudicare dall’espressione sul viso del vicino di stanza, sarebbe stata una pianta resistente come la gramigna.

Si buttò subito l’ira dietro le spalle, scrollando la testa e avviandosi verso il refettorio per il pranzo. Proprio davanti al laboratorio di chimica, intravide Richard, e accelerò il passo per affiancarlo e proseguire il tragitto con lui.

Rimasero in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri.

“Perché questo ghigno soddisfatto?” si sentì chiedere improvvisamente, accorgendosi che il compagno lo stava osservando.

Continuò a sorridere, senza rispondere. Non era il caso di metterlo subito al corrente della situazione, sicuramente le petit prince avrebbe avuto qualcosa da ridire del suo piano, e non avrebbe certamente gradito le frasi che aveva pronunciato appena pochi minuti prima riferendosi ad Alexander…

E infatti, nonostante Richard non sapesse ancora nulla, già stava scuotendo la testa, continuando a camminare in silenzio.

In quel momento, da una delle aule che si affacciavano nel grande atrio, videro Alexander e Brian che confrontavano qualcosa con i quaderni in mano.

Mark sollevò un sopracciglio, in risposta alla lunga occhiata di Richard, poi scosse la testa, continuando a sorridere.

“Non ti illudere…” gli sibilò il compagno. Evidentemente Stoddard non doveva ancora aver superato la storia tra lui e Alexander.

“Io non ho detto niente” replicò, accentuando il proprio ghigno.

“Non mi piace che tratti mio cugino come se fosse una prostituta”.

Mark si voltò verso Richard sorpreso. Non si aspettava che lo spirito di clan degli Stoddard-West fosse così forte, e poi non gli piaceva l’accusa.

“Non lo sto facendo” ribatté a bassa voce “Penso solo che starebbero bene insieme”.

Richard rimase in silenzio finché non raggiunsero la sala da pranzo.

Mentre le inservienti servivano i primi piatti, Mark si ricordò che mancavano due settimane al ponte di ognissanti:

“Tornerai a casa, Richard?” chiese, volgendo lo sguardo sul compagno, apparentemente molto preso dalla contemplazione del busto di Lord Byron.

“I miei genitori sono partiti per l’Egitto. Non ha molto senso che torni ad Heaven’s Gate” non aveva aggiunto la domanda su cosa avesse intenzione di fare lui, ma Mark sapeva che era come se l’avesse fatta.

“Potresti venire a casa mia, oppure potremmo andarcene per qualche giorno a Londra…” stava per aggiungere che sarebbero anche potuti rimanere ad Oxford, visto che comunque non sarebbe rimasto quasi nessuno a disturbarli, ma fu interrotto dalla voce bassa e ferma del compagno:

“Stai spingendo troppo, Mark. Abbiamo detto che avremmo proceduto per gradi”.

Lui sorrise, il piccolo Lord continuava ad avere questo attaccamento per le parole, per gli accordi. Non era ancora chiaro che le regole le avrebbe sempre dettate lui?

“Non ti va di conoscere i miei genitori? Tanto prima o poi il pranzo ufficiale in famiglia ci toccherà…” lo prese in giro, versandosi del vino.

L’occhiata di Richard avrebbe potuto incenerire chiunque, ma su di lui ebbe solo l’effetto di aumentargli il buonumore. Gli piaceva terribilmente provocare quell’istrice pieno di aculei appuntiti.

“Magari potremmo invitare anche Brian e Alexander…che ne dici?”

Richard si sollevò in piedi, fissandolo con uno sguardo fiammeggiante, mentre lentamente posava il tovagliolo accanto al piatto. Lo stile del suo ceto sociale gli avrebbe sempre impedito di abbandonarsi ad una scenata pubblica, questo Mark lo sapeva, ed era per questo che lo provocava sempre quando si trovavano in un luogo affollato.

Poi il compagno gli voltò le spalle, allontanandosi con passo deciso.

Sollevò un braccio attirando l’attenzione del cameriere:

“Potrebbe portarmi altro vino?” chiese abbandonandosi contro lo schienale.

Voltando lo sguardo soddisfatto verso gli altri tavoli che riempivano la sala, si accorse che qualcuno doveva aver tenuto lo sguardo fisso su tutta la scena che si era appena svolta.

Alexander…

 

Una serata da incubo, Richard lo aveva evitato in ogni modo, con successo tra l’altro, e quando, verso mezzanotte, si era introdotto nell’edificio dove il compagno aveva la propria stanza, si era ritrovato la stanza chiusa a chiave,  e nemmeno mezza risposta alle sue urla sussurrate di aprire quella dannata porta. Non l’aveva presa a spallate solo perché  non voleva creare uno scandalo, ma le petit prince avrebbe pagato per quello!! E tutto per cosa, poi? Solo perché aveva deciso di aiutare due persone, solo perché, per una volta, si era abbandonato ad un atto di generosità. Scosse la testa, sapeva che spesso la freddezza e la durezza del suo atteggiamento avevano causato critiche, paura, a volte anche dolore, e invece ora sembrava che la sua bastardaggine fosse rimpianta addirittura dalla persona a cui teneva di più!

Le lezioni della mattina successiva proseguirono tranquillamente, l’ora di economia politica l’aveva trascorsa nella stessa aula con Brian, ma il tipo lo aveva smaccatamente ignorato, senza nascondersi o allontanarsi, ma evitando di rivolgergli sia la parola che lo sguardo. Sollevò le spalle, sebbene questo sentirsi un appestato durante un tentativo di generosità gli desse fastidio, ormai era troppo coinvolto per tirarsi indietro.

Quando uscirono, fece in modo che Brian fosse nei paraggi mentre lui si avvicinava ad Alexander.

Per un istante gli si strinse qualcosa nello stomaco: il ragazzo era dimagrito, pallido. Gli occhi erano cerchiati, come se dormisse poco, le mani tremavano leggermente.

“Che diavolo ti sta succedendo, Stoddard?!” gli sibilò furente. Possibile che si fosse lasciato andare così? Si rifiutava categoricamente di considerarsi la causa di quel malessere!

L’altro sollevò su di lui uno sguardo apatico:

“Non credo che la cosa ti riguardi, Grant” mormorò con un po’ di fatica. Poi sorrise, un sorriso tirato, stanco “Comunque sto benone. Non ho mai retto bene l’inizio dell’inverno…”.

Mark sentì per un istante il desiderio di abbracciarlo, di stringerlo a sé come potrebbe fare un fratello… come si potrebbe fare con un cucciolo indifeso. Era questa sensazione che gli provocava Alexander, questi sentimenti. Non c’era passione, non c’era amore, ma un calore, un senso di protezione con cui si vuole circondare qualcosa che sembra troppo debole per sopravvivere da sola. Sapeva che spesso il ragazzo agiva come se fosse molto più esperienzato e smaliziato di quanto non fosse in realtà, con lui lo aveva fatto più volte, quella prima sera alla festa di Richard, così come quel pomeriggio nello spogliatoio, ma era solo una forzatura, un qualcosa che sapeva poteva aiutarlo ad avvicinare la persona a cui era interessato, nascondendo la sua dolcezza e la sua ingenuità. E lui non se ne era accorto, ne aveva approfittato, senza volersi fare domande, preferendo attaccarsi all’apparenza.

“Se fossi in te mi farei vedere dal Dottor Scott, probabilmente potrà darti qualche ricostituente…”.

Alexander aveva serrato i pugni e piegato le braccia, come se stesse per urlare:

“Ti ho detto che sto bene. Il fatto che ci siamo divertiti insieme non ti autorizza a comportarti da tutore!” gli sibilò contro, stringendo poi gli occhi, come se volesse allontanare anche solo la sua immagine.

“Ehi, Stoddard! Intendevo solo darti una mano…” provò a replicare, sperando di non scatenare una reazione peggiore.

“Dalla a qualcun altro!”

Mark si appoggiò al muro: che giornata! Era riuscito ad offendere tutte le persone che lo circondavano. Lui, il grande, inattaccabile Mark Grant! E la mattinata non era ancora terminata, c’era ancora tempo per farsi insultare da qualcun  altro… 

“Grant, sei un bastardo!”

Aprì gli occhi, facendo appena in tempo a riconoscere Brian che si allontanava furente.

Appunto.

 

Il pomeriggio lo trascorse in biblioteca.

All’interno di quelle sacre istituzioni che erano i collegi inglesi, ma a dir la verità anche nelle case, la biblioteca esercitava sempre uno strano fascino su di lui, e non solo per i libri. Sembrava il luogo per i pensieri nascosti, per le meditazioni profonde, per lo scambio di confidenze, o anche solo per stare da soli, in silenzio.

Era alle prese con l’ennesima tesina, un confronto tra l’Imperialismo Britannico e quello Tedesco. Non era una delle ricerche più stimolanti che avesse fatto, ma andava bene, sicuramente era più interessante dello studio sulla nascita delle imposte doganali!

Aveva deciso di prendersi un pomeriggio per sé, lontano da tutto quanto. Aveva bisogno di recuperare il proprio spazio, di rifocalizzarsi sulla sua ‘missione’, su quell’obiettivo che fino a poco tempo prima era stato la ragione di ogni sua scelta.

Nonostante tutto quello che era accaduto, non aveva certo dimenticato il suo sogno, e la sua ambizione non era sicuramente diminuita.

Rilesse rapidamente quello che aveva appena scritto: sì, andava bene, anche stavolta avrebbe ricevuto gli sterili complimenti del professore, e magari avrebbe suscitato un po’ di invidia nei compagni, che sembravano finalmente cominciare a riconoscere la sua superiorità.

Appoggiandosi contro lo schienale dell’alta sedia di legno, strinse le mani intorno alla tazza di tè bollente. Faceva freddo, l’inverno era già arrivato, nonostante, a rigor di logica, si fosse ancora in autunno, e come sempre le istituzioni inglesi operavano una politica da paese tropicale, rifiutandosi di ricorrere a qualsiasi forma di riscaldamento centralizzato prima della fine di dicembre.

Si portò la tazza alla bocca, sollevando il viso. Fu allora che si accorse di non essere solo nella grande biblioteca. Ad un tavolo laterale, seminascosto dagli alti separé di legno scuro, riconobbe facilmente la figura atletica di Brian Eastley.

Era incredibile, era una persecuzione!

Presto capì che l’altro non doveva essersi accorto della sua presenza. Approfittò quindi dell’occasione per osservarlo un po’.

Sembrava molto preso da quello che stava studiando. Oltre alla pila altissima di libri che aveva ammonticchiato sul banco, c’erano tantissimi fogli sciolti, coperti di scarabocchi.

Si diceva che fosse la giovane promessa della ricerca scientifica inglese, che probabilmente sarebbe rimasto all’università, come collaboratore del professor Allen.

Mark scosse il capo: era bello vedere una persona così dedita allo studio, ma lui non avrebbe mai scambiato le sue ambizioni per qualcosa di così sterile come la ricerca scientifica, qualcosa che non avrebbe mai arricchito o reso famoso chi ci si dedicava. Eppure l’ammirazione era forte… c’era quell’idealismo che lui non aveva mai avuto. Aveva sempre ammesso la propria ambizione, i genitori, i professori, i compagni, tutti sapevano che avrebbe fatto strada, che avrebbe avuto una carriera fulgida. Aveva trattato sempre la cosa cinicamente, con l’aria di dire che la modestia e gli ideali erano cose sterili, e che lui non aveva paura di ammetterlo e di rincorrere qualcosa di più tangibile, senza vergogna. Eppure sapeva che in qualche modo il suo atteggiamento sprezzante era sempre stato una difesa, perché non possedeva quella passione che portava a sacrificare qualsiasi cosa per inseguire un sogno.

E infatti ammirava ed invidiava quel ragazzo così poco convenzionale, così ‘superiore’ a tutte quelle cose che per gli altri studenti sembravano importantissime, essenziali.

Chissà se sarebbe mai riuscito a riconoscere i sentimenti che provava per Alexander, perché Mark era più che convinto che Brian fosse molto preso dal compagno di corso, chissà però se era già arrivato a chiedersi cosa fosse a portarlo ad essere così protettivo con Stoddard, chissà se avesse già dato un nome, se avesse catalogato, così come faceva con gli elementi della tavola periodica, i suoi sentimenti nella giusta casella.

Probabilmente non ancora.

Si alzò in piedi, stropicciandosi gli occhi. Era stanco e aveva bisogno di dormire. I piccioncini dovevano aspettare almeno fino all’indomani per godere ancora del suo aiuto. E poi Richard era andato a Cambridge con il maestro di scherma per prendere accordi per il torneo che si sarebbe disputato il mese successivo, quindi non aveva neanche senso provare a passare nella sua stanza.

Raccolse tutto il materiale e si allontanò in silenzio.

 

Quando si svegliò, la luce pallida che entrava dalla finestra gli fece capire che aveva dormito ininterrottamente dalle sette del pomeriggio precedente.

Evidentemente la vita un po’ movimentata che stava conducendo stava cominciando a dare i propri effetti. Si lavò e si vestì in fretta. Sentiva un desiderio irresistibile di vedere Richard, di abbracciarlo stretto.

Scosse la testa, cercando di negare lo stato di dipendenza che lo legava al compagno, il duro Mark non aveva bisogno di nessuno, in caso era Richard ad avere bisogno della sua protezione!

Quando entrò nel refettorio, lo vide seduto ad un tavolo da solo, intento a riguardare dei fogli sparpagliati vicino alla tazza della colazione.

Gli si sedette di fronte, senza riuscire a nascondere una espressione aggrondata. In qualche modo gli stava rimproverando l’assenza del giorno precedente, quel comportamento freddo, distaccato, che pensava che ormai dovesse essere superato, visto lo stadio a cui era giunto il loro rapporto.

Richard sollevò lo sguardo su di lui, alzando un sopracciglio nel notare la sua espressione accigliata.

“Ho visto i nostri avversari per le gare… credo che porteremo Oxford alla vittoria” gli disse, in quello che a Mark sembrò un tentativo di sondare il suo umore.

Rispose deciso, ricambiando quello sguardo diretto:

“Vieni nella mia stanza”.

Si alzò senza voltarsi indietro, a Richard doveva bastare la sua parola.

Si fermò davanti alla porta, lasciandosi affiancare dal compagno. Quando entrarono, si voltò di scatto, spingendolo con la schiena contro la porta, e lo bloccò appoggiandogli le mani contro il legno duro ai lati del corpo.

“Che ti succede, Mark?”

Sì, c’era preoccupazione in quella voce, non più la freddezza del giorno precedente. Strinse le braccia  intorno alla vita di Richard, addossandoselo contro il petto, poi lo baciò, felice di sentirsi ricambiato.

“Si può sapere cosa…”

Ma il compagno non riuscì a terminare, sorpreso dal fatto che Mark gli avesse appoggiato la testa sulla spalla. Stoddard lo allontanò leggermente, guardandolo dritto negli occhi, poi gli passò il dorso della mano sulla fronte. Lo sguardo gli si incupì: era evidente che Mark non stesse bene. Abbassò il braccio, catturandogli il polso, premendo leggermente per sentirne il battito cardiaco.

“Parlerò io con il Preside. In queste condizioni non puoi certo andare a lezione”.

Mark sollevò lo sguardo, indurendosi:

“Che diavolo stai dicendo?! Io sto benissimo!”

Odiava ammalarsi, sentirsi invalido, e del resto in vita sua era successo raramente. Non era certo il tipo che rimaneva una settimana in un letto per qualche linea di febbre!

“Hai la febbre alta, non te ne sei accorto? Vuoi svenire nell’aula magna dell’Istituto?”

Ma lui non aveva nessuna voglia di cedere. Era solo un po’ stanco, forse aveva solo voglia di un po’ di tranquillità, magari vicino a Richard…

“Ho detto che sto bene!” ribadì.

Il compagno scosse la testa, poi lo trascinò di peso fino al letto.

“Potevi dirmelo. Avevo sottovalutato la tua focosità…” decise allora di prenderlo in giro, cercando di opporre una debole ironia alla spossatezza che gli impediva di contrastare quella presa ferma.

Si ritrovò sotto le coperte, in una penombra artificiale dovuta alle tende tirate.

“Avvertirò anche il medico e il refettorio, più tardi ti porteranno qualcosa per riscaldarti”.

Chiuse gli occhi, abbandonandosi a quella voce seria e determinata. In un certo senso, per una volta gli piaceva che ci fosse qualcuno a preoccuparsi di lui, a sollevarlo dalla solitudine e dall’orgoglio.

Sentì la porta aprirsi, per richiudersi subito dolcemente.

Ecco, ora era di nuovo solo.

Qualcosa pesò sul materasso accanto a lui, facendolo affondare leggermente. Le coperte furono sollevate quel tanto da scoprirgli il viso, e poi sentì delle labbra morbide sulle sue.

“Tornerò appena possibile. Non essere testardo e riposati”.

Mark sorrise. A volte non era male accettare di non essere al cento per cento della forma…

Il collegio - Fine parte ottava.

 




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