Per Ria, Nausicaa, Angie e Calipso.

Tanti super affettuosi auguri di Buon Natale.

 


Il collegio

parte VI

di Greta


Mark aveva trascorso quelle tre settimane in uno strano stato di inquietudine. Quel biglietto cosa stava a significare? Doveva essere una sfida? Una dimostrazione? Oppure una mano tesa?

Dopo tutto ciò che era successo, non poteva certo dire di avere voglia di tornare ad Heaven’s Gate. Aveva detto a Richard di crescere, e questa era stata la sua risposta, un invito alla sua festa di compleanno.

Ma aveva capito che non era questo che cercava? Che non gli importava nulla di una stupida serata con tutti i rampolli dell’aristocrazia del glorioso Impero di Sua Maestà Britannica?

Sentì dei colpi leggeri contro la porta. Sapeva bene chi fosse, quei colpi sapevano di casa, di amore, di calore…

“Entra, mamma…” disse deciso.

La madre entrò nella sua stanza, esitante come sempre quando si trattava di irrompere nel regno del figlio.

“Mark… volevo dirti che stasera a cena Beth preparerà il roastbeef, il tuo piatto preferito…” cominciò titubante.

“Come tutti i giovedì, mamma…” notò lui, sorridendo. Era proprio tipico di sua madre affrontare i problemi partendo da molto lontano.

“Hai ragione…”

Gli dispiaceva un po’ averla subito messa in imbarazzo: sua madre era l’unica persona a cui poteva rivolgersi quando aveva dei problemi. Una donna riservata, timida, che era entrata a malincuore nell’upper class londinese, ma che nonostante questo era stata in grado di fare la propria figura, di brillare per la carriera del marito, per il futuro del figlio.

Le si avvicinò, e dovette resistere alla tentazione di abbracciarla stretta.

“Cosa volevi chiedermi, mamma? Non credo tu sia venuta per il roastbeef…”

Lei sorrise, sollevando una mano per allontanargli dagli occhi una ciocca di capelli liberatasi dell’effetto della pomata.

“Mi sembri solo… volevo sapere se andava tutto bene” riuscì finalmente ad ammettere.

“Sai bene che non sono mai stato un tipo molto socievole… sono preso da altre cose, da progetti più importanti…” le rispose lui, mantenendo il sorriso.

“Lo so, ma mi sembri… ecco, un po’ abbattuto, non hai la solita carica che ti spinge a non stare mai fermo, a combattere ogni istante” si fermò un istante per calmare il respiro affannoso “Conosco la tua ambizione, e ne sono fiera, ma in questi giorni mi sembri strano… pensieroso… posso fare qualcosa per aiutarti?”

Mark si avvicinò nuovamente alla finestra. Era assolutamente impossibile nascondere qualcosa alla madre, ma non poteva certamente dirle quello che stava passando:

“Va tutto bene, è quel vuoto che si sente quando si sa che si è terminato un cammino che ormai si conosceva e ci si trova davanti una strada che sembra piena di curve insidiose. Penso sia una sensazione normale. Presto tornerò quello di sempre, non dubitare”.

Aveva parlato con tranquillità, le pause fatte al momento giusto, il tono di voce espressivo e sofferto come quello di un grande attore.

La madre lo guardò dritto negli occhi, un sorriso dolce che era la copia onesta di quello che faceva bella e falsa mostra di sé sul viso del figlio:

“Ti capisco, Mark, ma sono sicura che te la caverai benissimo anche ad Oxford. Siamo sempre stati orgogliosi di te…”

Quando la porta fu di nuovo chiusa, il ragazzo si sedette sul davanzale della finestra.

Orgogliosi di lui, sempre. E lo sarebbero stati anche se avessero saputo? No, nonostante l’amore che provavano per lui, non avrebbero potuto, nessun genitore avrebbe potuto esserlo.

 

Il sabato successivo ci sarebbe stata la festa di Richard, e lui non aveva mandato neanche un biglietto, nessuna conferma, nessuna scusa. Un silenzio completo, e il motivo era semplice: non aveva potuto scrivere nulla, perché ancora non sapeva cosa fare.

Quella situazione stava cominciando a irritarlo, ogni volta che gli sembrava di essere vicino alla realizzazione del suo sogno, succedeva qualcosa che lo ricacciava lontano, che lo faceva sentire poco più che un estraneo per il compagno. Una altalena continua di emozioni che lui non aveva più voglia di sopportare, a cui doveva arrivare a mettere un punto.

Si sedette davanti allo scrittoio e tirò fuori la carta da lettere. Era giunto il momento di comunicare agli Stoddard-West la sua decisione.

Pochi minuti dopo rilesse il breve messaggio in cui adduceva impegni improrogabili a ragione della propria impossibilità a partecipare alla serata di festeggiamenti.

Mark guardò ancora una volta il biglietto su cui aveva vergato quella risposta secca e fredda. Ora non doveva fare altro che infilarlo nella busta e spedirlo, assolutamente nient’altro…

Eppure perché non riusciva a decidersi? Lui, che si era sempre considerato una persona sicura, d’azione… intimorito da un foglio di carta?

Afferrò di nuovo la penna, e scrisse per qualche istante ancora.

 Senza neanche guardarla, appoggiò la busta insieme alle altre che aspettavano che passasse il ragazzo del servizio postale, nel vassoio dell’atrio.

Non aveva intenzione di perdere ancora tempo con quella storia. Si cambiò rapidamente e raggiunse le scuderie.

 

“Mark… Mark!”

Già era impegnato in quell’impresa allucinante, non ci mancava altro che la madre a reclamare la sua attenzione.

“Entra!” riuscì a dire, sbuffando mentre le dita litigavano con il bottone del colletto.

La porta di aprì silenziosamente, e invece di cominciare ad investire il figlio con le solite chiacchiere affettuose, la donna rimase ferma ad ammirare quel ragazzo così bello e intelligente che improvvisamente aveva preso il posto del bambino imbronciato e scostante che girava per casa fino a quelli che sembravano solo pochi attimi prima.

Mark si girò, facendo una smorfia tra il disgustato e il vergognoso, cosa che gli accadeva solo con la madre:

“Sono ridicolo, eh?”

La donna non rispose nulla, non ci riuscì. Scosse solo lentamente la testa, sorridendo.

“Mi sa che mi stai prendendo in giro…” continuò lui, scherzando un po’ come era solito fare quando si ritrovavano in queste situazioni ‘familiari’, quando lei era di nuovo e completamente solo la sua mamma.

Lei scosse ancora la testa, gli occhi inaspettatamente lucidi:

“Sei bellissimo, Mark, sarai il ragazzo più ammirato…”.

Anche lui sorrise:

“Gelosa? Comunque non piangere, altrimenti tutto il lavoro di ore andrà distrutto e in teatro chiederanno a papà se tu sia sua nonna!” la stuzzicò.

Improvvisamente lei sembrò tornare con i piedi per terra:

“Il collegio ti ha fatto male… indisponente e irriverente, ecco come sei diventato! E poi non ci sono volute tutte queste ore per il restauro… tua madre è ancora giovane!”

Lui sorrise senza rispondere, poi le si avvicinò e l’abbracciò: sua madre rimaneva l’unica persona con cui far cadere la propria maschera, la persona che avrebbe fatto di tutto per difenderlo, per proteggerlo, qualsiasi scelta avesse fatto.

Si ritrovarono con il padre ai piedi delle scale. Sul volto del famoso avvocato si dipinse un sorriso soddisfatto: la sua famiglia, la moglie, che lo aveva aiutato e lo aveva reso felice in tutti quegli anni, e suo figlio, il loro orgoglio, il ragazzo che avrebbe continuato il suo cammino per lasciare una impronta nel mondo.

Prese il braccio della moglie, e fece un cenno di assenso al figlio, il segno della sua approvazione. Si avviarono al portone, poi i genitori salirono su una macchina, mentre Mark entrò nella limousine con autista che aspettava nel piazzale.

 

Il percorso non era stato lungo, ma lui non aveva fatto caso al panorama, al tragitto… era preso dai suoi pensieri, dai dubbi per quello che aveva scelto, dal timore di aver sbagliato.

Gli sembrava di ricadere sempre in quelle sabbie mobili, di non riuscire a liberarsi…

Il percorso dall’ampio cancello all’ingresso della villa era illuminato da fiaccole accese, e parecchie automobili erano già parcheggiate ai lati della strada… limousine, Rolls Royce, tutti quei simboli di ricchezza che venivano dati per scontati, che non si poteva non avere, ma di cui bisognava parlare con nonchalance, con freddezza, come se fosse un aspetto scomodo e fastidioso della propria vita, quasi una vergogna che però non si evitava mai di ostentare.

Entrò nell’atrio in cui troneggiava un enorme e scintillante lampadario di cristallo. Si guardò intorno con aria annoiata e poi entrò nella grande sala della festa, pronto a passare sotto le forche caudine della famiglia Stoddard-West.

“Mark Grant… sì, benvenuto a Heaven’s Gate…”

L’alta signora bionda, dalla pelle tesa e finemente truccata, con preziosi gioielli ad arricchirle ogni lembo di pelle visibile, lo accolse con un sorriso tirato della bocca sottile, e uno sguardo gelido nei penetranti occhi azzurri.

Mark fece un leggero inchino. Il gelo di quel benvenuto lo aveva colpito immediatamente, aumentando la sua rabbia, e manifestandosi nel sarcasmo del sorriso e nell’altezzosa gentilezza con cui mormorò:

“E’ un piacere” e poi, guardandosi intorno “La bellezza della vostra casa supera ogni aspettativa”.

Lo divertiva prenderli in giro, lo meritavano.

Il padre gli fece un cenno con il capo, poi, con grande sforzo, facendo cadere le parole dall’alto, spiegò lentamente:

“Sylvie, lui è il figlio dell’avvocato Grant…”

A Mark non sfuggirono il sopracciglio alzato dell’uomo, e la smorfia di scherno della donna.

Che bastardi! Ma del resto, poteva davvero aspettarsi di più?

“L’avvocato Grant?” fece Lady Stoddard-West, come se non riuscisse ad associare quel nome a qualcosa di degno di essere ricordato.

“Sì, l’uomo che ha difeso Sir Gylligham…”

Gli tremavano le mani, sarebbe bastato pochissimo e si sarebbe lasciato andare ad una delle sue battute più velenose, quelle in grado di togliere la pelle a colui al quale erano dirette. Ma quelli, nonostante tutto, erano i genitori di Richard e poi, cosa ancora più importante, non voleva coinvolgere i propri di genitori in uno sciocco scandalo.

Continuò a sorridere, un sorriso di condiscendenza che ovviamente non poté che aumentare il fastidio dell’augusta coppia, ma, fortunatamente, proprio in quel momento si avvicinò Richard.

Ancora non si erano visti, poiché mentre i genitori accoglievano gli ospiti sulla porta, lui si occupava di intrattenersi con le persone che avevano fatto quel lungo tragitto solo per fargli gli auguri.

Mark cercò di mantenere la propria espressione impassibile, ma indubbiamente non poté non ammirare ancora una volta il portamento di Richard, e come il frac stesse su di lui come a nessun altro.

E poi gli rivenne in mente come si erano lasciati, settimane prima.

Mantenne lo stesso sorriso finto, mentre gli porgeva la mano e snocciolava le banalità di rito. Eppure, come sempre, si lasciò prendere di sorpresa dall’atteggiamento inaspettato del compagno: Richard gli aveva proposto di andare a prendere un aperitivo insieme.

Non era normale che, in mezzo a quella folla il cui brusio non si arrestava mai, loro due fossero gli unici in silenzio.

Si voltò a guardare il volto del ragazzo che gli camminava accanto e ne ammirò ancora una volta la perfezione, la bellezza eterea ma non effeminata. Eppure il suo sguardo non fu ricambiato, sembrava che la cosa più a cuore di Richard in quel momento fosse raggiungere il tavolo dove i camerieri servivano da bere.

Presero un ginger ale, qualcosa di leggero, visto che la serata era ancora all’inizio.

Mark ricominciò a guardarsi intorno. Per una volta, se avevano ancora qualcosa da dirsi, sarebbe toccato a Richard fare il primo passo.

La sala era davvero grande. Se la ricordava come l’aveva vista durante le visite precedenti, e non poté non stupirsi degli sforzi che doveva aver richiesto una trasformazione così radicale. Fiori, sedie e divani dove prima facevano bella mostra di sé oggetti d’antiquariato e teche con cimeli familiari.

Anche il grande Rubens, che aveva ammirato ogni volta che avevano attraversato quella sala, era stato spostato, lasciando a ricordo dei suoi rossi una grande decorazione di fiori di campo.

“Pensavo che non saresti venuto…”

La voce di Richard intervenne a turbare i suoi pensieri con quella frase che era stata pronunciata infinite volte, tra loro. Era come se il loro rapporto fosse sempre legato con un filo sottile pronto a spezzarsi, come se fosse incredibile che, nonostante tutto quello che era successo tra loro, avessero ancora la forza, e la volontà, di frequentarsi. Forse qualcun altro avrebbe visto in questo il segno che quello che li univa fosse qualcosa di forte, di indistruttibile, ma Mark non era assolutamente nelle condizioni di lasciarsi consolare da pensieri così inconsistenti.

“Sono stato tentato di non venire, infatti” rispose asciutto.

Richard annuì, incassando la sua risposta sgarbata.

Ma lui non aveva voglia di essere gentile, purtroppo era stanco di tutta la situazione, era stanco di conoscere tante cose del compagno, forse più di chiunque altro, ma di non avere mai il diritto di parlare di quello che provava lui, di poter tentare l’unica cosa che lo avrebbe reso felice. Si sentiva intrappolato in una gabbia che non aveva contribuito a costruire.

Ogni tanto pensava che sarebbe stato più semplice non vedersi più, che si sarebbe potuto innamorare di qualcun altro, di una ragazza ricca che avrebbe fatto la felicità dei genitori, oppure di un ragazzo meno complesso, più affettuoso e arrendevole. E invece… ogni volta che chiudeva gli occhi, c’era un unico viso a sorridergli, un sorriso che era il frutto della sua immaginazione, perché quell’espressione così dolce e gentile Richard non l’aveva mai avuta.

Rimasero in silenzio; le persone che si fermavano a salutare il rampollo e a fargli gli auguri sembravano delle ombre che arrivavano a ravvivare quel loro essere insieme e sempre più distanti allo stesso tempo.

Dopo gli aperitivi, fu servita la cena, nella stanza da pranzo adiacente al salone delle feste. I segnaposti dipinti a mano dovevano aver richiesto tanta cura nel disegno quanta nella scelta della posizione in cui disporli. Persone importanti, persone anziane, politici, parenti, giovani, tutti erano perfettamente mescolati per far sì che le conversazioni si rincorressero lungo il tavolo senza un contrasto, ma fluidamente, quasi che gli invitati più che persone fossero gradazioni di colore di un arcobaleno felice.

Mark trovò facilmente il proprio nome, era bastato non cercare troppo vicino alle estremità della tavola, dominate dalla Sacra Famiglia Stoddard-West e dai loro amici, sempre che questo fosse il termine giusto, più importanti.

Si trovava più o meno a metà. Alla sua sinistra lesse un nome femminile lungo ed esotico, e, quando si accorse che quel nome corrispondeva ad un arzilla signora di ottant’anni, completamente sorda, gli venne da sorridere, pensando alla soddisfazione che doveva aver dato agli Stoddard quella scelta.

Voltò la testa per leggere il segnaposto alla sua destra… sollevò un sopracciglio, effettivamente non si aspettava di avere come vicino di tavola un esemplare del nobile casato. Alexander Stoddard-West, questo era il nome, e dalla disposizione dei posti, non poteva che essere la pecora nera della famiglia.

Forse sarebbe stata una serata interessante…

Antipasti, consommè, timballi, cacciagione, contorni esotici e decorazioni che saziavano anche l’occhio. Non bisognava essere dei geni per capire che in quella casa accorrevano i migliori cuochi dell’impero ad un solo schioccare di dita.

Cercò di decidersi ad affrontare il fagiano arrosto, quando si accorse di essere osservato dal proprio vicino. Sollevò lo sguardo, e vide gli occhi azzurri del compagno fissi nei propri, e poi la bocca allargarsi in un sorriso simpatico:

“La zia ci tiene che i fagiani siano sempre freschi… credo che li cacci personalmente!”.

“Vista la quantità, deve avere buona mira…” replicò Mark, cercando di  mantenere lo stesso tono compunto.

A questo punto, il suo vicino scoppiò a ridere:

“Già, tanti e grandi… ma lei ha un tocco fatale!”

Mark si limitò a sorridere, non poteva certo lasciarsi andare a rivelare le proprie idee con qualcuno che era ancora un perfetto sconosciuto.

Il ragazzo gli porse la mano:

“Alexander Stoddard-West. Alexander, per gli amici…” disse, senza abbandonare quel sorriso da pubblicità di dentifricio.

“Mark…” non riuscì a terminare la propria presentazione, che l’altro lo interruppe:

“Mark Grant, lo so. Il figlio del famoso avvocato”.

Finalmente poté rilassarsi. Per tutta la serata avevano cercato di farlo sentire un paria, e adesso invece c’era qualcuno che sembrava non trattarlo come un appestato.

In realtà le persone sgradevoli erano state solo i genitori di Richard, ma erano bastati e avanzati.

“Eri compagno di Richard alla St George’s, vero?”

Mark annuì. Questo ragazzo lo incuriosiva: aveva una vaga rassomiglianza con il cugino, gli stessi capelli biondi, un po’ mossi, e fissati con la pomata per tentare di domarli, lo stesso colorito chiaro e i lineamenti delicati. Alexander aveva però un’espressione più vivace negli occhi, qualcosa che lo faceva apparire imprevedibile, qualcosa che faceva pensare che fosse molto meno ingenuo ed innocente di Richard. Una sfida da affrontare a viso aperto, forse quello che gli ci voleva.

Continuarono a chiacchierare delle cose più disparate durante tutta la cena, parlarono di polo, di cricket, di viaggi, dell’università: Alexander studiava al Trinity, a Oxford, e desiderava diventare un avvocato… “proprio come tuo padre”, gli aveva detto.

Era facile parlare con lui. Ovviamente era uno snob, forse più di Richard, ma riusciva ad esserlo senza innervosirlo. Forse perché era altezzoso nei confronti di tutti, quelli dei ceti sociali più bassi, quelli del suo stesso stato sociale, i pochi di uno stato sociale superiore. Mark era divertito dal sentirgli dire che non era snob solo con le persone che lo stimolavano intellettualmente. Lo divertiva il sapere che quel ragazzo stava mentendo spudoratamente, perfettamente consapevole che la cosa fosse palese ad entrambi.

Si ritrovarono così impegnati nella conversazione che tutto quello che accadeva loro intorno sembrava stranamente sfumato: la signora che ogni tanto si avvicinava il corno all’orecchio per sentire cosa stessero dicendo, per poi scuotere la testa per l’irresponsabilità e la mancanza di rispetto dimostrata dai due ragazzi, i pezzi grossi, presi dall’enumerazione delle proprie cariche, le dame ingioiellate, che gareggiavano per finta modestia, e poi loro, i padroni di casa, le cui occhiate di disapprovazione ogni tanto raggiungevano quell’isola allegra e felice che contrastava così tanto con la solennità del resto della tavola.

Quando si alzarono in piedi, Alexander propose un bicchiere di cognac vicino al grande camino. Continuarono a parlare di Hugo, di Boudelaire, di Balzac. La cultura francese, foriera di spensieratezza, di libertà, rispetto al rigore inglese…

Non erano altro che chiacchiere da serata in compagnia, niente di profondo, visto che la maggior parte degli argomenti veniva trattata per cenni, senza approfondire nulla, ma mantenendo quella leggerezza che a volte può essere più rilassante di qualsiasi altra cosa.

“Posso unirmi a voi?”

La voce bassa di Richard li raggiunse improvvisa, e un brivido corse lungo la schiena di Mark. Si era accorto perfettamente che durante la serata il compagno aveva rivolto più volte lo sguardo su di loro, uno sguardo interrogativo, a volte quasi inquisitorio, ma non aveva voluto dargli peso. Si sentiva tranquillo, si sentiva bene, non voleva pensare a nulla.

Bevve un altro sorso di cognac, senza rispondere, mentre Alexander rivolgeva qualche battuta di spirito al cugino riguardo al museo naturale in cui si era trasformata Heaven’s Gate con l’arrivo di tutti quei dinosauri. Richard sorrise appena, sembrava non riuscire a distogliere lo sguardo da Mark, sembrava cercare le parole, qualsiasi parola, per poterglisi rivolgere.

Ma Mark continuava a bere e a guardare Alexander.

Dal gruppo vicino, sentirono qualcuno fare a voce alta il nome di Sir Gylligham. Richard si voltò immediatamente per capire cosa stesse succedendo, mentre Mark girò le spalle, continuando ad indossare la solita maschera di superiore indifferenza.

“…si dice che la legge inglese tuteli l’innocente ma sia inflessibile col colpevole! Il caso di Sir Gylligham è l’eccezione che conferma la regola. Un assassino in libertà… propongo un brindisi alla furbizia di un uomo che è la vergogna del proprio paese!”

La voce della persona che aveva pronunciato queste parole era resa incerta dal troppo vino, ciononostante, la maggior parte delle persone levarono il calice per partecipare al brindisi proposto.

Richard si voltò verso Mark, evidentemente a disagio. Neanche stavolta, però, lui gli diede la soddisfazione di un cenno, di una parola.

“Caro Lord Lancaster, non dovete dire così…” si alzò limpida la voce della padrona di casa “…stasera abbiamo ospite il figlio dell’avvocato che ha dimostrato l’innocenza del signore al quale avete brindato, quale migliore occasione di farci mettere al corrente delle prove che hanno permesso di smontare le nostre congetture da investigatori dilettanti?”

Tutte le facce di voltarono nella direzione di Mark, il quale, costretto ad affrontarli, chinò il capo con un sorriso:

“La difesa non deve dimostrare nulla, è l’accusa che deve portare le prove di colpevolezza, fortunatamente il diritto inglese mantiene questo principio da secoli” replicò, mantenendo l’espressione distaccata e altezzosa.

“Ma… caro ragazzo, era evidente la sua colpevolezza! Non mi dite che vostro padre ha davvero creduto che fosse estraneo all’omicidio?! Un impeto di gelosia, giustificabile vista la differenza di età con la moglie…”

“Milady, ne sapete sicuramente più di me, mi sembra, e forse anche della polizia!” sorrise lui, pronto ad approfittare dell’occasione che gli era stata servita: “Neanche Scotland Yard è riuscita a far luce sul caso e voi affermate di sapere, senza ombra di dubbio, chi sia il colpevole? Forse dovreste rivelare le informazioni inedite di cui siete in possesso…” si interruppe per qualche istante, godendosi quel silenzio sorpreso “…comunque uno dei principi alla base del diritto inglese rimane, ribadisco, la presunzione di innocenza: una persona è innocente finché non viene dimostrato il contrario, e ogni persona ha diritto ad una difesa. Ovviamente se volete mettere in discussione anche le leggi di Sua Maestà…” concluse, mantenendo il suo sorrisetto tranquillo.

Il silenzio scese tra le persone nella sala, e ci volle qualche minuto e tutta la maestria dei padroni di casa per recuperare la situazione.

Richard raggiunse i genitori, rispondendo a quell’istinto familiare che porta a fare gruppo quando si è in difficoltà.

Mark riprese a bere, poi prese un altro bicchiere.

Alexander si voltò verso di lui:

“Credo che tu li abbia gettati nel panico. Sono così abituati a dire le cose più estreme senza che nessuno li contraddica, che le tue parole affilate e ironiche hanno fatto crollare il loro mondo come un castello di carte!”

Mark si limitò a sorridere. Quanto aveva sorriso, quella sera? Innumerevoli sorrisi, innumerevoli e falsi, tutti…

Si scusò con un cenno del capo, non gli piaceva neanche l’approvazione di qualcuno che, pur disprezzandolo, era ben contento di vivere nei privilegi di quel mondo.

Con il bicchiere in mano, uscì dalla sala affollata, in cerca di aria fresca, di silenzio.

Una villa di quel genere non poteva non avere il giardino di inverno. Entrò nella serra piena di piante. Dalle pareti di vetro si vedeva il mare, un mare in tempesta, nonostante la giornata quasi estiva. Alcuni vetri erano stati tolti, per fare entrare l’aria fresca.

Inghiottì un altro sorso di quel liquore forte, che gli mandava a fuoco la gola. Se avesse potuto, avrebbe buttato il bicchiere a terra, come i russi. Ma quell’usanza era legata ai brindisi, e lui non aveva nessuno con cui brindare.

Era andato, si era tolto diverse soddisfazioni, e aveva anche conosciuto qualcuno con cui ogni parola non doveva essere pesata, ragionata, scusata…

In mezzo al mare si distingueva la luce del faro. Per un momento chiuse gli occhi, ripensando a quanto aveva sentito vicino Richard, quella volta. E invece… c’era sempre qualcosa che li allontanava, forse quello che si erano rivelati, forse quello che ancora non si erano detti.

Il rumore di passi leggeri, un’ombra a coprire l’unica lampada che rischiarava il corridoio che portava alla serra.

“Mark!”

Non aveva avuto bisogno di sentirne la voce per capire chi fosse.

Non si voltò. Il mare lontano aveva un potere ipnotico su di lui, gli sembrava che fosse l’unica cosa vera di quella serata.

“Mi dispiace…”

“Mi avevi avvertito” rispose gelido, continuando a guardare oltre i vetri.

“Già”.

Rimasero in silenzio, anche Richard cominciò a guardare il mare. Mark poteva vedere il suo volto riflesso nel vetro, eppure non voleva guardarlo. Era un grande errore, era stato un grande errore.

“Ho visto che hai fatto amicizia con Alexander” riprese Stoddard.

Mark stavolta si voltò a guardarlo. Rimase un istante in silenzio, prima di rispondere:

“Sì. Sembra una persona viva, l’unica, stasera” scandì lentamente.

Il compagno non mosse un muscolo. La brezza che entrava dalle finestre aperte gli sollevava i capelli morbidi, gli accarezzava il viso chiaro. Era alto, bello, elegante. Era intelligente, sensibile, coraggioso. Era l’unica persona che gli avesse mai toccato il cuore.

“Alexander è una persona particolare. Sembra diverso dal resto della famiglia, ma ne riassume l’essenza”.

A Mark venne da sorridere. Sarebbe stato bello se il compagno fosse stato geloso, ma invece continuava solo a cercare di imporsi su di lui, come aveva fatto dal primo momento. Sembrava la goccia d’acqua che forgia la roccia: con il suo tono pacato, con i suoi ragionamenti pieni di buon senso riusciva sempre a contrastarlo, a metterlo in difficoltà.

“Sarà, ma visto che ho scoperto che sarà anche lui a Oxford, potrò conoscerlo meglio, in modo da scoprire da solo le pecche del suo carattere. Sai, Richard, in qualche cosa ti somiglia: fisicamente siete molto simili, però lui sembra più ‘socievole’…” replicò, maliziosamente.

Notò il labbro inferiore del compagno fremere di rabbia, lo osservò mentre si portava indietro una ciocca ribelle, e ricambiò il suo sguardo furioso.

Il pugno di Richard partì improvviso e rapido, come sempre. E come sempre Mark si ritrovò a pensare che era stanco di quella situazione.

Si asciugò il sangue che gli usciva dal labbro, poi gli si avvicinò lentamente… con decisione.

Eppure non aveva intenzione di fare a pugni.

Gli afferrò i polsi, stringendoli forte, che se solo avesse usato più forza avrebbe sentito scricchiolare quelle ossa sottili.

“Mark, lasciami!”

Non diede il minimo ascolto a quelle parole. Erano mesi che si comportava da perfetto amico e gentiluomo, nessuno poteva biasimarlo se la parte lo aveva stancato.

Addossò il corpo del ragazzo al muro, fermandogli i polsi all’altezza della testa. Quegli occhi allibiti, quella bocca che gli ordinava di smetterla… come aveva potuto resistere per tutto quel tempo?

Si avvicinò lentamente, chiudendo gli occhi solo all’ultimo istante. Quelle labbra erano morbide, calde, socchiuse per permettere il respiro affannoso dovuto allo scontro improvviso. Le sfiorò prima delicatamente, poi aumentò la pressione. La mancanza di qualsiasi reazione, da parte di Richard, lo eccitò ancora di più. Gli lasciò i polsi, gli strinse un braccio intorno alla vita e l’altro intorno alle spalle, facendosi aderire addosso quel corpo delicato. La sua bocca pretese di più, costringendo il compagno a cedergli, una mano scivolò sotto la giacca del frac, fino a sollevare la camicia che copriva il corpo che sognava da mesi… e poi ci fu quello che non si sarebbe mai aspettato.

Richard socchiuse le labbra, permettendogli di approfondire il bacio, quelle braccia sottili salirono a circondargli il collo, e finalmente fra loro fu tutto perfetto.

Le dita leggere che sentiva tra i capelli lo stavano mandando fuori di testa, non riusciva ad allontanarsi da quella bocca, da quel corpo. Avrebbe voluto tutto, subito… aveva aspettato sin troppo.

Cominciò a baciargli il collo, la gola, mentre con le dita cominciava ad allentargli la cravatta e a sbottonargli la camicia.

E proprio quando sembrava che finalmente tra loro fossero scomparsi incomprensioni e fantasmi, improvvisamente Richard lo bloccò, fermandogli le mani e allontanandosi da lui, lo sguardo ancora liquido, perso…

“Che succede…” gli chiese Mark, la rabbia che ancora non aveva preso il sopravvento sullo stupore.

L’altro scosse la testa, gli occhi bassi, le braccia tese lungo il corpo.

Mark non resistette, lo scosse violentemente per le spalle:

“Che diavolo ti prende?! Non mi sembrava che la cosa ti dispiacesse! Di cosa mi stai punendo?!”

Esasperato per il silenzio prolungato, sbottò definitivamente:

“E non osare nominarlo…”.

Non gli ci era voluto molto, infatti, per capire cosa avesse bloccato Richard. Quell’ombra, quello spettro continuava ad esistere tra loro, pronto a materializzarsi nei momenti meno opportuni.

Stoddard sollevò il viso, lo sguardo fiero e fiammeggiante:

“Tu non sarai mai lui!” sibilò.

Lo schiaffo di Mark partì immediatamente. Un colpo così forte da far girare il volto di Richard:

“Mi hai ricambiato, e adesso ti senti in colpa, è così, vero?” lo guardò con occhi carichi di rabbia “Ti disprezzo, perché sei così ipocrita da pensare che questa forzata fedeltà  possa passare per venerazione”.

Gli afferrò i capelli sulla nuca, costringendolo ad alzare il viso. Quegli occhi erano asciutti, ma l’espressione era sofferente, colpevole… la colpevolezza che il ragazzo doveva sentire verso quel Paul Anderson. Non aveva senso neanche infierire su di lui… eppure il ricordare l’ardore che anche Richard aveva messo nel loro bacio gli faceva pensare che entrambi stavano sprecando l’opportunità di essere felici.

Gli lasciò i capelli, facendolo sbattere contro il muro, poi, senza più guardarlo, gli voltò le spalle e tornò nella sala da ballo.

Si avvicinò al cameriere, e prese un bicchiere di champagne. In pochi secondi aveva ricomposto la maschera che lo proteggeva dagli altri, ma gli sembrava che ogni volta fosse più difficile, che ogni volta il suo cuore diventasse più duro.

Con la coda dell’occhio vide che anche il nobile rampollo era tornato nella sala, la camicia di nuovo al proprio posto e la cravatta sistemata. Rimanevano quei capelli un po’ scomposti, ma soprattutto quello sguardo perso, assente, che si fissava senza capire sulle persone che gli parlavano.

Svuotò la coppa d’un fiato e ne afferrò un’altra. Cercava l’oblio, e quello era un ottimo sistema a portata di mano per trovarlo.

Non si accorse della persona che gli si era affiancata, finché non la sentì parlare:

“Qualche dispiacere da dimenticare?” il tono ilare, leggero, non prevedeva una risposta, tanto più che Alexander Stoddard-West riprese immediatamente: “Cos’è successo al cuginetto? Mi sembra completamente assente…”.

Mark non rispose, apparentemente indifferente alle parole che gli erano state rivolte, e riprese a bere.

Eppure sembrava proprio che quest’altro rampollo non potesse stare senza tormentarlo. Quella mano sottile gli tolse il bicchiere di mano, e lo sguardo iroso che gli rivolse provocò solo un sorriso tranquillo:

“Sediamoci, ho voglia di parlare un po’ con te. Chissà che non sia l’inizio di una grande amicizia…”.

Uscirono nel grande giardino, camminarono in silenzio fino ad un gazebo appartato, coperto di gelsomino, per sedersi su uno dei divanetti.

Lui si lasciò cadere sui cuscini umidi, buttando indietro la testa: l’alcool bevuto cominciava a fare effetto, martellandogli le tempie.

“Perdi tempo con Richard. Lui è tutto d’un pezzo, non riuscirai mai a scuoterlo”.

Mark voltò la testa sorpreso:

“Non capisco di cosa tu stia parlando”.

Ogni parola gli costava uno sforzo insopportabile. L’unica cosa di cui aveva bisogno era il silenzio.

Alexander rise piano:

“Siete due libri aperti, per me. Ma a me interessa di più leggere il tuo…”

Non poté non sorridere. Si trovava indubbiamente di fronte ad una persona che andava al sodo. Scosse la testa lentamente. Non avrebbe mai ammesso niente con quella viperetta insinuante, anche se lo divertiva questo scontro a viso aperto.

Chiuse gli occhi. La cosa che più desiderava era stare solo, magari poter dormire.

La carezza che sentì tra i suoi capelli lo fece sussultare, ma ebbe come effetto solo quello di rendere più marcata la sua smorfia di superiorità.

Eppure quelle dita non si ritiravano. Pochi istanti e qualcosa di morbido gli accarezzò la guancia. Si voltò lentamente, e tanto bastò perché quelle labbra coprissero le sue.

Era una sera strana, erano accadute diverse cose impreviste, perché non abbandonarsi al corso degli eventi? La testa continuava a dolergli, e lo sguardo era appannato, ma questo non gli impediva di capire esattamente cosa stesse succedendo con quel corpo ormai incastrato sotto il suo.

“Reggo il confronto con il meraviglioso Richard?” mormorò Alexander, mordicchiandogli un orecchio.

“Stai zitto”.

 

Si rivestì in fretta. Del resto, tutto quanto era avvenuto in fretta fra loro.

Diede un’occhiata al ragazzo ancora sdraiato sul divanetto.

“Vestiti” gli disse, secco.

Alexander rise, ma non si mosse:

“Chissà, magari ti viene voglia di riapprofittare… mi sembra che ti sia piaciuto abbastanza”.

Mark non rispose. La testa continuava a girargli, e non riusciva a far tacere quella voce fastidiosa che gli urlava nel cervello il disgusto per quello che aveva appena fatto.

La camicia ancora aperta a scoprirgli le spalle, Alexander gli si avvicinò, gli passò le braccia intorno al collo, appoggiandogli la fronte sul petto:

“Non pentirti, e non rimproverarti. Nessuno ne saprà niente”.

Non gli rispose, non aveva nulla da dire. Gli accarezzò piano le spalle nude, e per un istante lo strinse a sé. Eppure sapeva che era tutto sbagliato, sapeva di aver pensato a un’altra persona mentre lo facevano, che ogni bacio era stato un confronto, che l’impeto che lo aveva spinto poteva essere più correttamente descritto come disperazione. L’ardore era più vendetta e punizione che amore, ma sembrava che il suo compagno lo sapesse, e non pretendesse di più.

Tornò nella sala per primo. Rifiutò il bicchiere dal cameriere che gli si era avvicinato con il vassoio. La testa gli stava per scoppiare, e non era necessario peggiorare ulteriormente la situazione.

Cercò con lo sguardo Richard tra quella folla ondeggiante, e presto si ritrovò quegli occhi fissi nei propri.

Sorrise stancamente. Voleva andare a casa, doveva solo riuscire a raggiungere l’ingresso senza cadere. Sapeva bene che avrebbe dovuto ossequiare gli Stoddard, ma sentiva che non era assolutamente in grado di farlo.

Fece un cenno col capo al festeggiato, poi voltò le spalle. Aria fresca e un sedile comodo, questo era quello che sognava.

Raggiunse la porta e disse ad un cameriere di chiamare l’auto dei Grant, poi si diresse in bagno per rinfrescarsi.

Quando si vide allo specchio, stentò a riconoscere se stesso in quel viso stravolto, gli occhi rossi, i capelli in disordine.

Uscì dalla stanza, e si accorse che la serata non era ancora finita.

Le braccia incrociate sul petto, la schiena appoggiata alla parete, c’era Alexander ad aspettarlo.

“Andavi via senza salutarmi?” gli stava chiedendo, ridendo.

Anche lui trovò la forza per sorridere, ma non si fermò. Fu l’altro ad afferrarlo per un braccio, mettendogli un foglietto nella tasca:

“Indirizzo e numero di telefono. Verrai nella mia università, potrei darti qualche utile consiglio…”.

Mark annuì distrattamente, fingendo di non cogliere il tono malizioso.

Nell’atrio incontrò Lord Stoddard West, che aveva accompagnato sicuramente ospiti più facoltosi. Si congedò rapidamente, e uscì nel piazzale. L’aria fresca gli servì per svegliarsi.

“Spero che tu ti sia divertito…”

Chiuse gli occhi. Sembrava una corsa ad ostacoli, e l’ultimo era certamente quello che meno voleva affrontare.

Si voltò verso Richard:

“Ad una festa non si va per questo?” ribatté, non accettando il rimprovero.

Il compagno lo trascinò sotto un lampione.

Gli guardò il volto arrossato, i vestiti in disordine… e scosse la testa:

“Addio, Mark” mormorò.

“Addio Richard. Buon compleanno”.

 

Durante il ritorno a casa, nonostante la stanchezza e il sonno, i particolari di quella serata continuarono a confondersi davanti ai suoi occhi. La scena nella serra, il bacio casto ma appassionato con Richard, quelle braccia che lo avevano stretto, quei sensi di colpa che poi erano intervenuti per rovinare tutto… e poi quello che era accaduto dopo, con Alexander Stoddard-West.

Mark aveva avuto esperienze con alcune ragazze, niente di particolare o impegnativo, semplicemente un esercizio che doveva essere fatto. Ma andare con un ragazzo… una cosa che fino a pochi mesi prima non avrebbe mai pensato di fare, e soprattutto non con quello di cui era… innamorato? Sì, non c’era altra parola. Però non era accaduto con lui, ma con qualcuno che conosceva a malapena.

Chiuse gli occhi.

Infilò la mano in tasca. Inavvertitamente toccò il pezzo di carta che gli aveva dato Alexander.

Sorrise, poteva essere un modo per uscire da quella situazione, poteva essere la soluzione più semplice. Non erano stati male, insieme, perché non lasciare che le cose prendessero una piega tranquilla?

 

L’estate passò veloce. Fece quel famoso viaggio che era doveroso per un ragazzo del suo ceto e della sua età: Grecia, Italia, Egitto e poi, più velocemente, Spagna e Francia.

Cercò di non pensare, di dedicarsi alla scoperta di quelle meraviglie che aveva sempre sentito descrivere, cercò di appassionarsi alla politica, all’economia. Lesse, parlò, studiò. Eppure non passava giorno in cui, per quanto si trovasse in posti irraggiungibili o raggiunti per caso, non si aspettasse di vedere spuntare Richard dal nulla.

Si odiava per questo, odiava la propria debolezza, la prima e l’unica che avesse conosciuto.

Tornò a casa una settimana prima che cominciassero i corsi al Trinity. Pochi giorni con i genitori e poi l’inizio di una nuova sfida, da cui uscire a testa alta, ancora più vicino al proprio obiettivo di carriera.

Evitò di farsi altre domande per giustificare l’ansia di raggiungere Oxford, eppure sapeva che quei brividi che si sentiva correre lungo la schiena non erano dovuti solo al desiderio di conquistare un nuovo feudo, per quanto prestigioso e ambito.

Pioveva quando la grande macchina dei Grant varcò il cancello che portava al grande portone di quercia.

Gli inservienti della Casa gli andarono incontro con l’ombrello e presero in consegna le valigie.

C’era più formalità, più rigore, si notava subito: la StGeorge’s era pensata per farli diventare consapevoli del loro stato e del loro ruolo, il Trinity li trattava già da uomini, e non avrebbe accettato comportamenti che non fossero stati degni dell’alta fama che avvolgeva la Sacra Istituzione.

Mark sorrise tra sé. Sapeva che tutto questo non avrebbe fatto altro che rendere più prestigiosa e stimolante la sfida che si era prefisso, quell’emergere sugli altri che era stata la sua regola di vita sin dalla più tenera età.

Dopo il saluto di benvenuto del Preside, un discorso formale e sintetico che lo impegnò per nemmeno mezzora, si diresse nella propria stanza.

Un minimo di inquietudine lo colpì mentre, attraversando i corridoi lunghi e freddi, il suo sguardo veniva catturato da tutti quei visi che lo scrutavano a giudicavano dai grandi ritratti o dai dagherrotipi sbiaditi imprigionati dietro alle teche di vetro.

Gli sembrava di sentire i loro mormorii accompagnarlo, quasi che lui potesse essere la realizzazione dei loro sogni. (*)

Non aveva avuto questa sensazione, entrando alla St George’s, ma qui sembrava che fosse terminato il tempo dei giochi. Si fermò di fronte ad una foto che subito aveva attratto la sua attenzione…

“Quello è Paul Anderson, il campione di scherma…”

La voce lo aveva colto di sorpresa, ma il suo autocontrollo non gli permise di sussultare, così come non aveva sussultato riconoscendo le fattezze riprodotte su quella fotografia.

Si voltò lentamente, ritrovandosi di fronte Alexander Stoddard West.

Eppure si sentiva a disagio. Quella notte, perso nei fumi dell’alcool, aveva agito senza pensare troppo, senza farsi troppi problemi. E in seguito, pensare ad Alexander era stato un po’ penoso, un po’ un qualcosa che gli causava un sorriso carico di disprezzo e superiorità.

E invece adesso, trovarselo davanti, con lo stesso atteggiamento divertito e malizioso che lo aveva colpito ad Heaven’s Gate, gli fece provare qualcosa di molto simile all’imbarazzo.

Alexander scoppiò a ridere:

“Non ti aspettavi di vedermi? Ti avevo detto che ci saremmo incontrati ancora…” lo guardò con espressione di finto rimprovero “…anche se non hai approfittato dell’indirizzo che ti avevo dato!”

Mark si appoggiò al muro, inclinando il viso in modo che i capelli gli ricadessero sul volto.

“Immagino che tu abbia avuto molto da fare… e del resto io sono l’ultimo dei tuoi pensieri…” continuò Alexander, facendo un gesto con la mano per impedirgli di replicare:

“Non è un problema. Non sono una persona che si dà per vinta. Avremo tempo per conoscerci… meglio…”.

La pausa nella frase non presagiva niente di buono.

“Non vorrei che tu avessi preso troppo seriamente quello che è successo tra noi. Siamo poco più che estranei” Mark ribatté freddamente.

Ancora quella risata, e poi quelle dita sottili improvvisamente vicine, a scostargli i capelli dal viso:

“Non mi aspetto nulla, solo esserti amico” poi Alexander riportò lo sguardo sulla teca di vetro:

“Paul Anderson… io l’ho conosciuto. Era il maestro di scherma del caro Richard” poi, improvvisamente, il suo ghigno perenne lasciò il posto ad un’espressione più seria, più intensa.

“Si è suicidato. Nessuno ne ha mai saputo il perché…”

Mark mantenne lo sguardo fisso in quello del compagno. Poi guardò nuovamente il viso calmo, disteso del ragazzo biondo sulla fotografia, e gli tornò in mente il racconto sofferto di Richard, la descrizione di quell’ultimo incontro.

Dovette stringere i denti e chiudere gli occhi, per evitare che il pugno gli scattasse contro quella vetrina, per strappare in mille pezzi, insieme al cartone della fotografia, anche il ricordo dell’esistenza di Paul Anderson.

Fu la voce allegra di Alexander a riportarlo alla realtà:

“Dovresti essere stato alloggiato nell’ala ovest… nel mio stesso corridoio” annuì poi, dando voce alla domanda inespressa del compagno “…già, come da me suggerito!”

Mark si limitò a sollevare un sopracciglio: non gliene importava niente di dove fosse stato alloggiato. Sapeva benissimo che dipendeva tutto da come lui avrebbe deciso di proseguire la cosa. Niente e nessuno avrebbe potuto obbligarlo a coltivare un’amicizia che non desiderava, e questo comprendeva anche questo demone malizioso che non faceva che trovarsi accanto.

Si risistemò l’impermeabile sul braccio e riprese a camminare. Ora le voci sembravano lontane, rimanevano solo i sospiri di Paul Anderson.

 

Dopo la sistemazione nella stanza, e la consegna delle ultime pratiche, poteva considerarsi a buon diritto uno studente dell’Università di Oxford.

Probabilmente, nonostante la maggiore formalità, l’ambiente era molto meno severo di quello della StGeorge’s. Sembrava di essere diventati, nella considerazione altrui, adulti in una sola estate.

Seduto sul davanzale della finestra, come era sua abitudine, Mark guardava gli allenamenti della squadra di canottaggio.

Due settimane e nessuna notizia di Richard.

Non c’era stato bisogno di indagare per sapere dove fosse: Alexander Stoddard West era sempre particolarmente felice di parlare dell’amato-odiato cugino.

Ogni tanto si chiedeva come mai i rapporti fra i due fossero così tesi, ma la risposta era evidente: la competizione all’interno della stessa famiglia tra ragazzi  quasi della stessa età, la posizione subalterna del ramo di Alexander, la differenza di carattere, che doveva aver sempre portato alla glorificazione di Richard… I motivi abbondavano per giustificare il livore del nuovo compagno di corso.

Chiuse gli occhi e appoggiò la nuca contro lo stipite della finestra, liberando il fumo che teneva imprigionato in gola: stare in questa posizione gli ricordava quei pomeriggi, ormai lontanissimi, in cui lui e Richard avevano studiato insieme, chiacchierato, per poi perdersi in un silenzio confortevole…

Sì, erano tempi lontani.

Richard doveva aver capito cosa era successo nel parco di Heaven’s Gate. Magari poteva non aver compreso tutto, ma il succo sì. Il suo aspetto stravolto doveva essere stato più rivelatore di mille parole. A questo punto tornare indietro diventava impossibile.

Pensò per un istante al bacio che si erano scambiati nella serra. In genere cercava di non indulgere in questi pensieri, cercava di allontanare il ricordo di quelle sensazioni, ma era come se quel virus che aveva contratto il giorno stesso in cui aveva visto Richard per la prima volta fosse impossibile da neutralizzare.

Riaprì gli occhi alcuni minuti dopo, scuotendo la testa come a scacciare ancora una volta quelle immagini.

Richard era ancora in Germania, da quel che aveva detto il cugino. Presto sarebbe tornato e avrebbe cominciato l’Università. Dopo tutto quello che era accaduto, sarebbe davvero andato al Trinity? Oppure avrebbe tagliato ogni contatto? Inoltre rimaneva la possibilità che il compagno approfittasse della libertà consentitagli dal testamento del nonno, andando nelle Colonie…

L’incertezza uccide… spesso è vero.

Buttò il mozzicone nel camino e raccolse l’attrezzatura per raggiungere la palestra di scherma.

Percorse il lungo corridoio con passo sicuro. Anche questo era un suo segno distintivo: il passo di una persona rivela molto del suo carattere, ed ogni particolare doveva essere curato. Il suo passo era calmo, tranquillo. Mark Grant non aveva paura di nulla, tutti dovevano accorgersene a prima vista. Eppure quello stesso passo sapeva anche diventare veloce e leggerissimo, come quando si scontrava in pedana con qualche avversario.

Si cambiò rapidamente e si portò nella sala.

Molti erano già impegnati negli assalti. Non gli restava che trovare qualcuno con cui confrontarsi, qualcuno che gli servisse per dimostrare anche ai nuovi compagni la propria imbattibilità.

Sulla pedana principale, vide un ragazzo fargli cenno di avvicinarsi.

Non gli piaceva il fatto che lo sfidante non si fosse tolto la maschera, quindi assunse un’aria di annoiata sufficienza, mentre assicurava la spada al cavo elettrico.

Neanche durante il saluto veloce, il suo avversario si scoprì il viso. (**) Mark scrollò le spalle, andandosi a posizionare al centro della pedana: tanto presto avrebbe scoperto chi era lo stronzetto che neanche si degnava di farsi riconoscere… anche se aveva più di un sospetto che si trattasse di Alexander. Lui era certo tipo da idee del genere!

“En garde!”

“Allons!”

Cominciò, come sempre, studiando l’avversario: guardia alta, buon movimento di gambe, prontezza nello sciogliere la misura…

Finta e colpo al polso.

Bene, una persona fredda. Non si era minimamente scoperto, lo aveva lasciato provare, sicuro di essere irraggiungibile.

Gli andava di divertirsi, di giocare al gatto col topo, e quindi continuò a stuzzicarlo, senza prendere davvero l’iniziativa.

Sentì i rimbrotti del maestro, ma non cambiò tattica. E fu un male…

Senza neanche accorgersene si ritrovò sotto di tre stoccate. Sì, era finito il tempo di giocare!

Quel cretino mascherato lo aveva lasciato fare lo stupido, per poi infilzarlo tre volte di seguito senza neanche dargli il tempo di riprendere fiato.

Ed era una sfida a cinque.

Fece un cenno al compagno, indicando di voler togliere la maschera, e si asciugò il sudore. Poi riprese la posizione, deciso a combattere per sancire la propria superiorità.

Tre a uno, parata di seconda e colpo al fianco.

Tre a due, finta al polso, cavazione e affondo.

Quattro a due… doveva stare attento, maledizione! Quello era una vipera!

Quattro a tre, passo e affondo a sorpresa.

Calma, doveva mantenere la calma e stare attento…

Cazzo! La sua punta era uscita, mentre la lama dell’avversario… il ferro che si ritrovò premuto pesantemente contro il collo gli fece chiudere gli occhi.

Eppure era stato rapido, ma sembrava che quello conoscesse in anticipo le sue mosse. Non erano molte le persone che lo avevano battuto, e non era certamente contento di aggiungerne un’altra.

Si sfilò la maschera, avvicinandosi al centro della pedana per la canonica stretta di mano.

L’avversario era rimasto dritto di fronte a lui. Poi la mano salì a sollevare la maschera, rivelando morbidi riccioli biondi…

“Ti ho battuto di nuovo, Grant” lo apostrofò quella voce calma.

Nascose la sorpresa, caricando il suo sguardo di rabbia:

“Io non ho avuto un maestro come il tuo, Richard” ribatté.

L’altro serrò le labbra e strinse gli occhi:

“Su questo non c’è alcun dubbio…”.

Mark non rispose. Sostenne lo sguardo duro del compagno, poi con calma radunò le proprie cose e si diresse negli spogliatoi.

Scagliò maschera e guanto contro la parete e diede un calcio ad una spada che aveva avuto la sorte malaugurata di capitare sulla sua strada.

“Bastardo!”

Aprì l’acqua e tuffò la testa nel lavandino.

“I capelli bagnati aggiungono molto al tuo fascino…”

Sobbalzò girandosi rapidamente: Alexander lo osservava seduto sulla panca.

“Ho assistito al vostro assalto: davvero bravi. Ma Richard ha ancora più classe di quanto ricordassi… ti ho mai detto che il suo maestro è stato Paul Anderson?”

Mark lo raggiunse in un istante, lo afferrò per il colletto, pronto a sbatterlo contro il muro:

“Stai zitto, piccola serpe…” sibilò, pronto ad approfittare dell’occasione per sfogare tutta la propria rabbia.

“Nervoso?”

Quelle dita sottili si sollevarono fino a sfiorargli il viso, la punta del pollice a carezzargli le labbra:

“Piccolo Mark, umiliato e offeso…” continuò Stoddard, ridendo dell’involontaria citazione.

E poi quella mossa rapida, che portò le loro labbra a toccarsi.

Non doveva fare il gioco di quella serpe, ma aveva bisogno di dimostrarsi ancora una volta il proprio potere, aveva bisogno di dominare, di comandare…

Addossò il compagno al muro, e rispose al bacio, costringendo l’altro a cedergli il comando del gioco.

Le sue mani erano già sulla pelle nuda di Alexander, incuranti delle false proteste con cui questi suggeriva di trovare un posto più adatto.

“Stai zitto, se vuoi che ti scopi!” lo insultò, trovando soddisfazione in quel trattarlo come un oggetto.

Ma non ci fu tempo per ulteriori repliche. In quel momento la porta si aprì, e qualcuno entrò chiamando il suo nome:

“Mark, dobbiamo parlare!”

Poteva ancora tirarsi indietro, e Richard non lo avrebbe visto.

Ebbe un istante per pensare, per osservare il sorrisetto ironico di Alexander che lo sfidava a dimostrare il proprio coraggio.

Accettò la sfida. Tornò a coprire quella bocca, gli occhi serrati, mentre mille spilli sembravano conficcarglisi nel cervello.

“Mark…” e poi solo il rumore di passi che si allontanavano.

Il Collegio, parte sesta – The End

 

 (*) L’immagine è tratta, ovviamente, da ‘L’Attimo Fuggente’, di Peter Weir.

(**) Nella scherma, al momento del saluto è ‘obbligatorio’ tenere la maschera in mano, addossata al fianco. Essendo uno sport molto formale, questo vale in tutti gli assalti, da quelli di allenamento a quelli ufficiali.





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