Per Ria, Nausicaa, Angie e
Calipso, senza le quali questo racconto sarebbe fermo al primo capitolo!
Buona lettura.
Il collegio parte
V
di Greta
La decisione di
rimanere alla StGeorge’s costrinse Mark ad un’altra esibizione delle
proprie arti oratorie. Si trovò infatti a dover giustificare a un famoso
e astuto avvocato il capovolgimento completo delle ragioni sciorinate
appena qualche settimana prima.
Si accorse subito della
perplessità del padre di fronte all’improvviso cambiamento di rotta, ma
riuscì a far svanire gli ultimi dubbi riportandogli un dettagliato
resoconto dell’incontro avuto con il professore di storia, incontro
durante il quale aveva ottenuto di essere indirizzato su un percorso di
studi che avrebbe sviluppato in maniera più specifica le teorie
economiche più in voga.
Archiviata con successo
questa faccenda, finalmente Mark poté tornare a dedicarsi al
rafforzamento della propria leadership all’interno dell’antica
istituzione.
Dopo quel pomeriggio di
confidenze, non si può dire che tutto per lui fosse tornato esattamente
come prima, ma certe abitudini non furono abbandonate. La nascita
dell’amicizia con Richard, infatti, pur incidendo molto su alcuni suoi
comportamenti, non modificò l’atteggiamento che lui riteneva fosse
indispensabile tenere con gli altri studenti della scuola: le ‘regole’
non divennero più elastiche, i privilegi del ‘capo’ del collegio non
furono trascurati, e nuovi successi gli permisero di estendere il suo
dominio su persone che in altri contesti gli sarebbero state superiori.
Il solo studente fuori
dalla gerarchia rimase Richard, l’unico che poteva permettersi di
prenderlo in giro, sebbene con una certa circospezione, per il suo
desiderio di essere temuto e rispettato, l’unico che, se avesse voluto,
avrebbe potuto disubbidire alle regole che Mark aveva tanto faticato per
imporre, senza incorrere in alcuna punizione.
Ma Richard non
rivendicava nulla per sé, non avrebbe mai approfittato dei vantaggi dati
dal rapporto che li legava: quell’amicizia era importante anche per
lui... soprattutto perché era la prima volta che gli interessava
frequentare un ragazzo della sua età, la prima volta che la sua
compostezza e il suo distacco non erano riusciti a proteggerlo dalla
determinazione di un’altra persona.
Per Mark
quell’autunno volò: per la prima volta si trovò a dividere le
esperienze e le aspettative con qualcuno; lo studio divenne più leggero,
visto che spesso si ritrovava con il compagno in biblioteca per prepararsi
alle lezioni, e parlare dei piani per il futuro divenne più stimolante,
visto che aveva scoperto nell’altro un’ambizione paragonabile alla
propria. Tutto era più interessante, perché c’era qualcuno che poteva
capire le sue aspirazioni, che lo ascoltava e che sembrava intuire i suoi
pensieri prima ancora che lui li traducesse in parole.
Eppure c’erano
momenti, quando lo affrontava con la spada fino all’ultima stoccata,
oppure quando negli spogliatoi cominciavano ad indossare la divisa, o
quando gli cadeva l’occhio sul libro di poesie che Richard teneva sempre
accanto al letto, in cui non poteva non pensare a Paul Anderson, e a
quella volta che lo aveva visto ai campionati nazionali.
In realtà cercava di
farlo il meno possibile, perché il pensiero di ciò che aveva saputo in
quel pomeriggio di pioggia gli faceva sentire una stretta allo stomaco.
Nonostante in apparenza
l’altro mostrasse sempre una grande tranquillità, Mark riusciva infatti
ad accorgersi di quei momenti in cui Richard si assentava, in cui la sua
mente sembrava volare lontana, probabilmente a situazioni vissute solo
qualche mese prima, mentre il corpo rimaneva prigioniero di una realtà
che lui ancora non voleva riconoscere come propria.
All’inizio di
dicembre arrivò la prima nevicata. In un baleno ci furono le vacanze di
Natale ed il ritorno a casa per passare le feste con le famiglie.
Guardando fuori dalla
finestra della propria stanza, Mark si chiese quale potesse essere
l’atmosfera che l’altro avrebbe trovato a casa… sentiva il gelo
delle mura di Heaven’s Gate, sentiva il medesimo gelo pensando
all’accoglienza che dovevano avergli riservato gli augusti genitori…
sentiva che per una volta lui, figlio di un avvocato, era molto più
fortunato del ricco rampollo di una delle famiglie più importanti di
Inghilterra.
Quando si erano
lasciati, l’ultimo giorno di scuola, aveva provato a invitare Richard a
casa sua: avrebbero potuto fare qualche passeggiata nei dintorni, e magari
andare a Londra a vedere qualche museo… ma il compagno aveva
improvvisamente assunto una espressione imbarazzata, spiegando poi che era
parecchio tempo che non vedeva la propria famiglia.
Sapeva di bugia lontano
otto miglia!!
“Perché non vuoi
venire?” gli aveva chiesto gelidamente, non accettando di essere
ingannato.
“E’ per quello che
ti ho detto”.
“Non è vero” lo
aveva sfidato, non intendendo dargli vie di fuga.
“Non voglio nuovi
scontri con i miei genitori… non ora” si era arreso Richard.
E lui non era riuscito
a risparmiarsi un sorriso gelido, osservando con ironico distacco:
“Probabilmente non
valgo abbastanza per te…”.
“Non fare così, non
lo merito!” aveva replicato Richard, fissandolo dritto negli occhi.
Lui aveva scrollato la
testa continuando a osservare il compagno con ostentazione.
L’altro aveva
distolto lo sguardo. Era facile capire che non era sua intenzione ferire
Mark, cosa che comunque era facile fare, però non voleva rivivere ancora
quei momenti con i genitori, non voleva sentirsi umiliato, e neanche
vedere l’amico insultato.
“Se non vengo
stavolta, non significa che non verrò mai più” aveva ribadito,
appoggiandogli una mano sulla spalla.
Mark si era staccato
con uno strattone:
“Ti conviene Stoddie,
sai che non sopporto che non si faccia quello che voglio!”
Aveva parlato con
durezza, ma Richard non aveva faticato ad avvertire dietro il tono astioso
una punta di ironia.
“Ok, è una delle tue
regole: dovrò rispettarla per forza, no?”
Si erano lasciati così,
e adesso, mentre guardava fuori dalla finestra della propria stanza, Mark
ripensava a come l’amico si illudesse ancora di sfuggire al suo
controllo. Ogni tanto si chiedeva anche se l’arrivo di Richard lo avesse
rammollito, però non era così, sapeva di essere sempre lo stesso, solo
che adesso aveva qualcuno con cui comunicare, che non gli interessava
sottomettere o intimorire.
Ripresero le lezioni.
Ormai la preparazione
veniva impostata sugli esami di fine anno, quegli esami che avrebbero
condizionato le scelte future, visto che le migliori università non
accettavano studenti con voti bassi.
Un pomeriggio di
febbraio in cui avevano passato ore e ore sui libri, Mark e Richard si
ritrovarono a chiacchierare di quello che avrebbero fatto dopo la St
George’s:
“Economia? Pensavo
che volessi intraprendere studi giuridici… seguendo le orme di tuo
padre” gli disse Richard, guardandolo con espressione incuriosita.
Lui si alzò dalla
sedia andando ad appoggiarsi con la schiena contro il davanzale della
finestra. Questa era una posizione che gli piaceva molto: di giorno perché
gli altri dovevano sforzare gli occhi contro il riflesso del sole per
guardarlo in viso, e lui questa la considerava una specie di prova di
coraggio, e di notte perché gli piaceva che la sua figura sembrasse
avvolta dalle tenebre, come se la sua autorità avesse origini oscure.
“Anche noi non
titolati ci siamo evoluti. Non siamo più bottegai, per cui il figlio deve
obbligatoriamente portare avanti l’attività del padre” rispose
asciutto.
Richard sorrise:
“Questa evoluzione
non ha ancora raggiunto noi Stoddard-West: l’erede deve seguire la
strada del padre… un giogo dato per scontato” ribatté rapidamente,
con un tono che rivelava un disagio che smentiva il sorriso scherzoso.
“E quindi, cosa
sceglierai?”
“Probabilmente
proseguirò gli studi classici: per uno come me possono essere considerati
adatti”.
“A te piacciono, non
sarà un grande sacrificio…” gli fece notare Mark.
“No, infatti. Purché
non diventi un ‘esperto’, per mio padre andrà tutto bene: sapere
qualcosa di tutto, essere piacevoli, disinvolti e all’occorrenza astuti.
Saper comandare, sì, anche questo: ma non si impara a scuola,
probabilmente si ha nell’anima, e quando non lo si ha, si impara da chi
è un maestro in questo” sempre un sorriso a nascondere gli ultimi moti
di insubordinazione.
“Tuo padre?”
Richard si riscosse,
guardò il compagno e annuì:
“In questo è il
migliore, e non lo dico perché sono suo figlio…”
Sorrisero entrambi,
eppure non era una battuta.
Ripresero l’argomento
alcuni mesi dopo, poche settimane prima delle vacanze di Pasqua.
Mark era alle prese con
la compilazione dei moduli per l’iscrizione all’università. Ne aveva
davanti diversi, quasi tutti completi:
“Guarda che ne puoi
frequentare solo una per volta…” scherzò Richard, avvicinandoglisi.
“A volte le tue
battute sono davvero fulminanti…” replicò lui senza alzare lo sguardo
dall’ultimo foglio.
Richard si appoggiò al
bordo del tavolo, sporgendosi per leggere da sopra alla sua spalla:
“Oxford? Ottima
scelta, ambasciatore…” continuò a motteggiare.
“Vaffanculo”
“Sì, proprio un
linguaggio forbito, adatto sia a Oxford che a Cambridge…”
Mark si rilassò con la
schiena contro lo schienale:
“E sentiamo, piccolo
Lord, tu quale università onorerai?”
“Non ci ho pensato…
chissà, magari potrei aspettare che scelga tu e poi…”
“…andare in quella
più lontana?” lo prese in giro, sebbene dal suo tono trasparisse il
desiderio di essere smentito.
“Fammi finire!
Allora, potrei aspettare che scelga tu e poi vedere che fama hanno i corsi
di letteratura… mi risparmierei la fatica e sarei sicuro di non scordare
le tue regole. Che ne dici?”
“Sei proprio uno
stronzo. Comunque, a cosa si deve tutto questo buonumore?” replicò
sorridendo. Gli piaceva vedere Richard così allegro.
“Mi ha telefonato mio
padre, per dirmi una cosa importante…”
“Ovviamente.
Altrimenti non ti avrebbe chiamato.”
“Già. Insomma, per
farla breve, mi ha detto una cosa che forse mi renderà libero” e rise.
“Cosa significa?”
“Che dal giorno del
mio prossimo compleanno non dipenderò più dalla mia famiglia. Sembra che
si fossero dimenticati di dirmi che l’eredità di mio nonno passerà
nelle mie mani al compimento del mio diciannovesimo anno” gli spiegò
finalmente Richard guardando fuori dalla finestra.
“Non pensavo che
tenessi molto a queste cose…” rimarcò lui, sorridendo e scuotendo
contemporaneamente la testa.
“Non ci tengo, ed è
per questo che sono felice: questa situazione mi permette di smetterla di
sentirmi in dovere verso mio padre…”
“Pensi davvero che
sia così? Cosa cambierà? Sarai sempre il loro rampollo, solo un po’ più
ricco”
“Gli investimenti di
mio nonno sono nelle Colonie. Finiti gli studi, potrò partire. Avrò gli
stessi doveri degli Stoddard, hai ragione, ma sarò lontano da qui, almeno
per qualche anno”
Qualche anno nelle
colonie?
Si alzò in piedi:
“Sono felice per te,
Stoddie” gli disse, voltandogli le spalle.
“Dove vai?”
improvvisamente il tono di Richard non era più così allegro.
“Domani devo portare
una tesina al professor Blythe, voglio farla bene. Ci vediamo”.
Raggiunse rapidamente
la propria stanza: qualche anno e sarebbe andato nelle colonie… ma del
resto era ovvio che prima o poi le loro strade si sarebbero divise. Forse
la cosa più dolorosa era il sentirselo dire con tanta leggerezza. Uno
nelle colonie e l’altro lanciato nella carriera diplomatica… due
ragazzi che avrebbero raggiunto il successo in campi diversi e a cui
capitava di essersi incontrati per qualche mese ai tempi della scuola.
Aprì il libro e prese
in mano una penna: sapeva che era inutile stare a torturarsi, aveva capito
che ormai quello che doveva legarlo a Richard era solo amicizia, e
quest’ultima notizia non poteva fare altro che sottolinearlo. Erano
passati i giorni in cui si era sentito in difficoltà, in cui aveva
vissuto la speranza di un rapporto diverso. Era abbastanza maturo per
averlo capito.
Scrisse rapidamente la
propria ricerca, rilesse i fogli e si congratulò con se stesso per la
precisione e l’acume delle argomentazioni presentate… sì, avrebbe
fatto molta strada, anche da solo, del resto non era la solitudine ad aver
accresciuto la sua forza, ad averlo temprato?
Eppure… soprattutto
adesso che vedeva il compagno più disteso, più motivato
nell’affrontare il futuro, si sentiva peggio per la perdita che stava
subendo.
Sentì bussare alla
porta. Aveva imparato a riconoscere quei colpi rapidi, leggeri. Non
rispose, sebbene la luce che filtrava sotto la porta dovesse tradirlo.
Tanto l’altro avrebbe capito che voleva rimanere solo, e se ne sarebbe
andato.
Poco dopo udì i passi
allontanarsi nel corridoio… il nobile Richard si era ritirato nei propri
appartamenti.
I giorni che
precedettero la partenza per trascorrere le vacanze di pasqua con le
famiglie, videro Mark cercare di evitare la compagnia di Richard. Non era
arrabbiato con lui, non poteva esserlo vista la situazione tra loro, però
si sentiva innervosire dalla sua presenza, più di una volta aveva
rischiato di ricadere nelle antiche abitudini, di trattarlo male, magari
di picchiarlo, come se con queste azioni potesse dirgli ‘Io sono qui,
io sono vivo. Guardami!’, ma si era sempre trattenuto, magari
stringendo i pugni, serrando i denti ed allontanandosi il prima
possibile… sì, era riuscito a rimanere fedele alla ferma intenzione di
smetterla di comportarsi con Richard come si comportava con gli altri
ragazzi, di piantarla di cercare di imporsi con la forza.
La mattina
dell’ultimo giorno prima della partenza, Mark camminava da solo
attraverso il lungo corridoio che portava alla biblioteca. In quel momento
era un po’ soprappensiero, ancora preso dalla conversazione che aveva
avuto con il professor Blythe circa la possibilità di avere una borsa di
studio per andare a studiare a New York, e non si accorse del ragazzo che
gli veniva incontro a passi rapidi dal lato opposto del corridoio. Si
scontrarono violentemente, spalla contro spalla. Mark si voltò con
sguardo inferocito: chi aveva osato urtarlo, seppure casualmente?!
Vide gli occhi
dell’altro ragazzo sostenere fieramente il suo sguardo, come se
volessero mettere in discussione il suo diritto ad essere adirato:
“Guarda dove metti i
piedi, imbecille!” sibilò sotto il naso di quello che riconobbe come un
proprio compagno ai corsi di matematica.
“Sei tu che camminavi
senza guardare” replicò quello senza abbassare lo sguardo.
Il tipo voleva la
guerra, allora…Beh, aveva incontrato la persona giusta!
“Probabilmente non
hai capito con chi stai parlando…” sibilò tra i denti.
“Forse TU non hai
capito con chi stai parlando, IO sono James Wallace… ma chissà, forse
nel ghetto da cui provieni la fama dei Wallace non si è ancora
diffusa…” rispose l’altro sfoderando una smorfia di altezzoso
disgusto.
Mark si soffermò un
istante ad osservarlo: era proprio un tipico frutto di quel mondo, di
quella scuola, un ragazzotto grosso e lentigginoso, la bocca rossa
arricciata in un broncio ostinato che doveva distrarre dalla mancanza di
intelligenza dello sguardo:
“No, effettivamente
hai ragione. L’eco delle imprese dei Wallace non mi ha raggiunto… è
una famiglia di antico lignaggio?” replicò sfoderando uno dei suoi
sorrisi più inquietanti, in netto contrasto con il tono di apparente
interesse con cui stava rivolgendo la domanda.
“Certo!” rispose
subito l’altro con orgoglio “I miei avi sono stati tra i cavalieri
partiti per la Terra Santa al fianco di Riccardo Cuor di Leone…”
“Beh… proprio una
colonna portante dell’Impero” continuò a blandirlo Mark “…ma
immagino che tu sappia quel che si dice dei discendenti di famiglie così
antiche…” aggiunse insinuante.
L’altro lo guardò
interrogativo, forse con appena un lampo
di preoccupazione.
“Ma sì che lo sai: a
pensarci bene mi sembra che qualcuno stesse spiegando proprio questo,
l’altro giorno. Sai si diceva che la tendenza a sposarsi all’interno
della cerchia familiare ha spesso come conseguenza un… diciamo
‘indebolimento intellettivo’… Ma immagino che fosse casuale che tu
stessi passando proprio in quel momento… del resto credo che altrimenti
i tuoi genitori te ne avrebbero parlato, insomma non sarebbe giusto negare
casi di demenza, anche se colpiscono la propria famiglia…”
“Che accidenti stai
insinuando!” cercò di interromperlo l’altro.
“Ma niente…
sicuramente sono solo voci!”
“Di che voci stai
parlando, stronzo!”
Cominciavano a
fremergli le mani, se non fossero stati nel corridoio della scuola lo
avrebbe già appiccicato al muro… però doveva riconoscere che anche
giocare al gatto con il topo aveva i suoi vantaggi.
“Dai, forse mi
sbaglio… forse, dopo tutto, non parlavano di te…”
Parò con facilità il
pugno del piccolo ribelle: era incredibile come riuscisse a manipolare gli
altri solo con le parole! Quasi quasi gli dava più soddisfazione di
appiccicarli al muro.
“Piccolo Jimmy, mica
vorrai fare a pugni all’interno della sacra istituzione…” continuò
a provocarlo.
“E allora andiamo
fuori, se hai coraggio! Sarò molto contento di ridimensionarti come ti
meriti, tu che osi spadroneggiare pur essendo una totale nullità!”
adesso il pel di carota tremava di rabbia… sarebbe stato ancora più
facile mandarlo a tappeto.
Mark alzò le spalle e
sorrise, del resto era quello che aveva desiderato sin dall’inizio:
prendere qualcuno a pugno per scaricare la tensione, per ritornare a
sentirsi di nuovo il vecchio Mark.
Il combattimento non
ebbe storia: sebbene lui si fosse beccato un pugno sul labbro che gli
aveva provocato una ferita che cominciò a sanguinare copiosamente, e un
altro colpo al sopracciglio, l’altro si ritrovò il volto ricoperto di
sangue, lividi sul corpo, e una costola che aveva avuto uno scricchiolio
preoccupante quando Mark aveva deciso che era arrivato il momento di
chiudere il confronto:
“Spero che i tuoi avi
fossero più in gamba di te, altrimenti… povero Riccardo Cuor di
Leone!” lo derise prima di lasciarlo accasciato sul prato dietro la
palestra.
Salì rapidamente nella
propria stanza: doveva fare qualcosa per fermare il sangue e per attutire
i segni evidenti della rissa… alla StGeorge’s non era mai il caso di
farsi scoprire implicati in simili diversivi se non si avevano le spalle
ben protette.
Proprio mentre apriva
la porta della propria stanza, vide Richard che usciva dalla porta di
fronte…
Il ragazzo biondo gli
si avvicinò lentamente, poi alzò una mano per scostargli i capelli dalla
fronte, scoprendo il sopracciglio sanguinante:
“Cosa hai fatto…”
gli mormorò, trattenendo l’ira.
“Niente che ti
riguardi, quindi puoi anche evitare l’espressione tradita” rispose
Mark seccamente. Ci mancava solo che l’altro cominciasse a fare una
tragedia greca per una cosa di routine come una scazzottata.
“Vieni nella mia
stanza, che ti disinfetto”
Ecco, anche il tono
sostenuto! Ma che diavolo… e lui avrebbe dovuto sentirsi in colpa? No,
era stanco di essere sempre quello che sbagliava, quello violento mentre
l’altro era mister perfezione.
“Sono perfettamente
in grado di disinfettarmi da solo”
Richard lo fissò negli
occhi, poi gli voltò le spalle, afferrandogli contemporaneamente un
braccio e trascinandoselo nella stanza… quando voleva, il piccolo Lord
ne mostrava di determinazione!
“Siediti sul letto, e
stai zitto” gli intimò prima di sparire dietro l’anta del grande
armadio.
“Che bello, ho anche
l’infermiera personale!” lo prese in giro Mark, sfoderando un tono
acido.
Ma la sua smorfia
indisponente non durò a lungo: accidenti! Quello stronzo stava usando
alcool puro per disinfettarlo! Ma era pazzo?! Doveva essere da quando era
piccolo che non provava più quel dolore, ma strinse i denti senza
emettere alcun suono… ci mancava solo che si lamentasse davanti a
Richard!
Quest’ultimo,
intanto, continuava a tamponare le due ferite, spingendo forte con le
dita, quasi a punire ulteriormente il compagno per quel che immaginava
dovesse essere successo.
Alla fine non resse più
e sbottò:
“Io non ti capisco…
non capisco come faccia a infilarti in certe situazioni! Ma già, tu ne
vai in cerca!”
“Non permetto a
nessuno di mancarmi di rispetto, dovresti saperlo” replicò Mark,
godendosi il tocco, sebbene non proprio gentile, delle dita dell’amico.
“Posso farti notare
che questo atteggiamento non ti sarà molto utile nella carriera che vuoi
intraprendere?”
“E da quando in qua
ti preoccupi della mia carriera?” lo rimbrottò lui sarcasticamente.
Richard interruppe
quello che stava facendo:
“Perché dici così,
adesso?” chiese stupito.
“Perché è la verità
Richard: tu sei solo un grande egoista.”
“Non è vero!
Cos’hai, Mark?!” replicò il ragazzo biondo, cercando di catturare lo
sguardo del compagno.
“Lo sai bene, e
comunque adesso non ho voglia di parlarne…”
“Non hai voglia di
parlarne…” .
Quelle parole ripetute
piano, distogliendo lo sguardo, fecero sentire Mark improvvisamente
colpevole. Lo stava facendo soffrire… ma quanto stava soffrendo lui per
la situazione che si era creata tra loro? Era come se avesse bisogno di
infierire sull’altro, di ferirlo per sentirlo vivo, per sentirsi vivo.
“Grazie per la
medicazione. Buon ritorno a casa…”
Richard non gli
rispose, e lui si avvicinò alla porta con la ferma intenzione di porre
fine a quelle sterili schermaglie.
“Mark…”
Si fermò con la mano
sulla maniglia senza voltarsi. Ma Richard non aggiunse altro per
trattenerlo, e quello era davvero troppo poco.
Abbassò la maniglia e
uscì.
Le vacanze erano
trascorse come sempre, tra la noia e le gite in città. Ancora due giorni
e sarebbe tornato alla StGeorge’s. Non ne aveva voglia, ma sentiva che
il suo legame con quel posto, o forse con qualcuno che avrebbe rivisto in
quel posto, stava cominciando a fargli sentire uno strano senso di vuoto.
“C’è un signore al
telefono per voi” gli disse il maggiordomo che adesso faceva bella
mostra di sé nella casa dei genitori.
Tanta formalità
metteva ancora Mark a disagio, ma si limitò ad annuire e a prendere in
mano il ricevitore.
“Ciao Mark… Richard”
sentì nel microfono.
Inizialmente non riuscì
a rispondere, come se ancora non avesse capito chi fosse all’altro capo
della linea telefonica.
“Mark?” ripeté
l’altro.
A questo punto si
riscosse:
“Come mai hai
chiamato?” effettivamente non era certo una accoglienza molto calorosa.
“Senti, so che è
molto maleducato invitare qualcuno all’ultimo istante, però che ne
diresti di venire a trovarmi? Dopodomani dobbiamo tornare alla
StGeorge’s, potremmo partire insieme da qui. Che te ne pare della mia
idea? So che dovrei venire io, per farmi perdonare per non aver risposto
al tuo invito per Natale, però…” il tono sembrava incerto, le parole
pronunciate in fretta sotto l’apparente allegria.
Richard stava facendo
qualcosa che non avrebbe mai più creduto di fare, stava riponendo fiducia
nel compagno. Se qualcuno avesse potuto leggere i suoi pensieri, non
avrebbe trovato accenni a quello che era successo quel giorno lontano in
biblioteca, oppure alle parole pronunciate da Mark nello spogliatoio dopo
il loro assalto di spada. Negli occhi di Richard era rimasta solo la
comprensione ed il dolore che aveva visto nel viso del compagno dopo
avergli rivelato la storia di Paul, e di quelle espressioni gli sarebbe
sempre stato grato, perché per lui avevano significato un sentirsi meno
solo, meno colpevole, meno diverso.
“Allora?” ripeté.
Si sentiva molto a disagio per la mancanza di reazioni da parte
dell’altro. Forse aveva fatto male a chiamarlo…
“Perché?” fu la
parola che, dopo un silenzio interminabile, si sentì rivolgere dal
compagno. Ed era buffo, perché quella era l’unica domanda alla quale
non si sentiva in grado di rispondere.
“Beh, mi sto
annoiando da solo. Non sono più abituato al silenzio. Magari potrei farti
vedere qualche posto qui intorno…” che diavolo, gli sembrava di
dover inventare un motivo, non potevano vedersi solo per chiacchierare un
po’?
“Va bene” rispose
Mark.
“Bene! Allora ti
aspetto nel pomeriggio…”
Forse non avrebbe
dovuto accettare, possibile che dovesse sottomettersi così ai capricci di
quello stronzetto snob? Non aveva certamente dimenticato che l’altro non
si era degnato di accettare l’invito per Natale, pensava forse che
vivesse in un tugurio?!
Si sentiva molto
sciocco ad avere accettato. Ultimamente si sentiva molto sciocco per molte
cose che faceva. Ma, alla fine, cosa poteva mai succedere? Sarebbe andato
a vedere la spocchiosa dimora degli spocchiosi Stoddard-West, avrebbe
chiacchierato un po’ con Richard delle solite cose neutre che ormai li
tenevano legati, e poi sarebbero tornati alla StGeorge per gli ultimi
mesi.
Niente di particolare,
niente di insolito per ragazzi della loro età, a parte… beh, a parte
che lui non era mai andato a trovare nessuno dei propri compagni: non
aveva mai ritenuto nessuno degno di godere della sua compagnia e nessuno
si era mai rivelato tanto ardito da avanzargli una proposta del genere.
Forse si era perso qualcosa di importante? No, non gli era mai piaciuto
perdere tempo con i bambocci, e del resto era troppo occupato da cose
molto più serie per pensare alle sciocchezze che interessavano i suoi
coetanei.
Da quando non era che
un bambino, aveva sempre avuto in mente quello che sarebbe stato il suo
scopo da adulto: lui voleva diventare importante, voleva arrivare a
muovere le leve del potere, e tutta la sua vita non era stata consacrata
che a questo.
E poi era comparso
Richard… aveva superato le emozioni che quel ragazzo era riuscito a
tirargli fuori? No, ancora no, ma riusciva a tenerle sotto controllo, ed
era meno penoso ora affrontare il nobile distacco che l’altro ancora
continuava ad ostentare qualche volta.
Finì di chiudere le
valigie. L’automobile con l’autista lo stava attendendo davanti al
portone. Sospirò profondamente: c’era stato un tempo in cui il padre
non avrebbe mai fatto guidare ad un estraneo la propria auto. Ma erano
tempi lontani che era sciocco rimpiangere.
La residenza degli
Stoddard-West, Heaven’s Gate, era stata costruita appositamente per
togliere il respiro sia che i visitatori si avvicinassero dalla
terraferma, sia che provenissero dal mare. Costruita su un’alta
scogliera della costa sud-occidentale, sembrava dominare dal promontorio
tutto il paesaggio circostante: era un antico castello a cui ogni decennio
aveva portato una nuova ala, una torre, un padiglione, una fontana o
semplicemente un albero.
Mentre la macchina si
inoltrava per il lungo viale, Mark lanciò qualche occhiata infastidita a
quello che lo circondava: non aveva mai sopportato l’ostentazione, forse
perché sapeva di non essersela mai potuta permettere, e gli ribolliva una
strana rabbia nel guardare quel parco immenso.
Il verde, gli alberi,
il lago… avrebbero dovuto trasmettergli calma, tranquillità, e invece
odiava la finta semplicità del prato curatissimo, la falsa negligenza con
cui venivano lasciati crescere i rami degli arbusti, l’abbandono della
vecchia barchetta tirata a secco sulla riva del lago.
Erano ricchi, ma
cercavano di far finta di vivere come persone semplici. Era un doppio
schiaffo…
“Benvenuto ad
Heaven’s Gate” la voce gentile e serena di Richard lo accolse
sull’ingresso dell’antica dimora.
Il compagno gli fece
strada verso la stanza che gli era stata preparata, poi scesero per il tè.
Era strano, sembrava che non ci fosse nessuno, e si sentiva a disagio con
solo le loro voci a rimbombare nelle sale enormi.
Chiacchierarono delle
vacanze, degli esami, di libri. I soliti argomenti poco personali.
Mark si guardava
intorno. Non era tanto la casa ad interessargli quanto la possibilità di
trovare qualcosa nell’aria che gli rimandasse un’immagine di Richard e
Paul Anderson insieme. Non poteva infatti non associare la casa di
famiglia di Stoddie con il racconto che il ragazzo gli aveva fatto quel
pomeriggio piovoso di molti mesi prima.
Trascorsero quei due
giorni chiacchierando, andando a cavallo, giocando a tennis, passeggiando.
L’atmosfera fra loro sembrava distesa… sembrava, nel senso che Mark
sentiva ancora aleggiare nell’aria il fantasma di Anderson: non riusciva
a non pensare che quegli stessi pavimenti, quelle stanze, quei prati
avevano fatto da cornice alla storia tra Richard e il grande campione, e
questa cosa gli provocava fastidio, impazienza di uscire, di raggiungere
posti in cui l’altro potesse dire ‘non ci ero mai stato prima’. Ogni
volta che sentiva questa frase, esultava tra sé e sé. Cominciava a
desiderare di provare il maggior numero di esperienze che potessero essere
sconosciute ad entrambi.
Il pomeriggio
dell’ultimo giorno decisero di uscire per un’ultima passeggiata.
Scesero fino al mare, camminando sul tratto costa rocciosa della
Cornovaglia dominato dal parco degli Stoddard.
Le onde del mare
sembravano gentili con i ciottoli abbandonati sulla battigia, e il vento
leggero rinfrescava senza infastidire.
“E’ la prima volta
che arrivo fino qui” gli disse Richard, fermandosi a guardare i gabbiani
che planavano fino a sfiorare con le ali il pelo dell’acqua.
“Davvero?” gli
sembrava strano. Quel tratto di costa non era molto lontano da Heaven’s
Gate.
“Già. Questo lato
del promontorio è sempre stato considerato pericoloso. Spesso l’acqua
cancella la spiaggia arrivando a lambire la scogliera. Molti panfili sono
stati sbattuti contro le rocce dalle forti correnti che si creano in
questo tratto… la luce del faro non arriva fino qui” spiegò Richard,
indicando la costruzione bianca su un isolotto poco a largo “Non credevo
che il mare si fosse ritirato e che si potesse scendere di nuovo fino alla
spiaggia”.
Si sedettero sulla
sabbia.
Mark su sporse in
avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia piegate. I capelli, scossi dal
vento, gli caddero scomposti sulla fronte, arrivando a coprirgli gli
occhi.
“A cosa stai
pensando?” mormorò Richard.
Perché glielo
chiedeva, quando il loro equilibrio si era sempre sostenuto sul silenzio?
Scosse la testa in
risposta, tirandosi indietro fino a far appoggiare la schiena a terra.
“Ti riempirai di
sabbia…”
Ancora? Perché fingeva
di preoccuparsi per lui? Perché le parole?
Chiuse gli occhi. Non
gli andava di rispondere. Era stanco.
Sentì l’altro
alzarsi in piedi.
“Che fai?” gli
chiede vedendolo slacciarsi le scarpe.
“Mi piace camminare
sulla sabbia. E’ tanto che non lo faccio, e non so quando se ne
ripresenterà l’occasione…”
Inspiegabilmente a Mark
venne da ridere. Era come se l’ingenuità di un’azione del genere gli
toccasse le corde emotive più sensibili.
“Dai, vieni anche
tu!” lo invitò Richard, ridendo anche lui.
Per una volta decise di
accantonare il forte senso di dignità che in genere controllava
rigidamente i suoi comportamenti.
A piedi nudi e con i
pantaloni rivoltati per non farli bagnare, si avvicinarono all’acqua.
Richard si abbassò per immergere la mano e sentirne la temperatura. Non
si sa quale strano impulso prevalse in quel momento, probabilmente quello
di vedere l’amico abbandonare quell’espressione di distaccato
contegno, ma, invece di rialzarsi, raccolse un po’ d’acqua con la
mano, usandola per schizzare il compagno.
“Lo hai fatto
apposta?” Mark sfoderò il tono più serio ed oltraggiato possibile: era
inaccettabile che quello stupido si permettesse di trattarlo in quel modo!
Stavolta fu lui ad
abbassarsi, e con mossa rapidissima e usando entrambe le mani, diede il
via alla vendetta.
“Smettila!
Scherzavo…” cercò di difendersi Richard. Ma la sua protesta non sortì
l’effetto sperato, perché dopo pochi minuti avevano entrambi tutti i
vestiti bagnati. Quando però attentò ai capelli di Mark, questi decise
che la vendetta sarebbe stata esemplare.
Rincorse il compagno
per buttarlo completamente nell’acqua ancora fredda di aprile. Ma
Richard riuscì a sottrarsi, raggiungendo la sabbia asciutta, e quando
Mark riuscì a buttarlo a terra, il mare era ormai lontanissimo.
“E ora come la
mettiamo?” ansimò Mark sorridendo di soddisfazione dopo avergli
bloccato le spalle contro la sabbia.
Le ultime risa di
Richard si spensero velocemente: occhi negli occhi, il corpo del compagno
a coprire il proprio, si trovava esattamente nella situazione che non
avrebbe mai dovuto presentarsi.
E Mark? Non riusciva a
lasciare quel corpo sottile ed elegante di cui riusciva a percepire il
calore anche attraverso i vestiti.
Si guardarono seri, in
quell’attimo che sembrò eterno.
Bastava poco, Mark lo
sapeva, per giocarsi tutto. Lo aveva già fatto altre volte, ma ancora non
aveva capito a cosa lo avesse portato, a che punto fosse il loro rapporto.
E adesso Richard era lì, sotto di lui, e non diceva niente.
Avrebbe voluto
abbracciarlo. Solo questo. Avrebbe voluto abbracciare Richard, tenerlo
stretto, far sì che si abbandonasse completamente a lui… In effetti non
c’era sempre stato questo? Non c’era sempre stato il desiderio che
l’altro gli si affidasse completamente, che abbandonasse
quell’atteggiamento sostenuto e distante per lasciarsi sostenere e
guidare solo da lui?
E adesso poteva coprire
i pochi centimetri che li separavano e perdersi nel profumo di quella
pelle…
“Dobbiamo tornare.
Faremo tardi per la StGeorge’s” disse invece lentamente, alzandosi in
piedi.
Distolse lo sguardo dal
corpo del compagno ancora disteso a terra, perdendosi nello spettacolo di
quella distesa d’acqua senza fine.
Richard si riscosse
dallo strano torpore che sembrava averlo avvolto e annuì senza dire una
parola.
Tornarono ad Heaven’s
Gate in silenzio, e trovarono l’automobile già pronta ad aspettarli.
Raccolsero i bagagli
scambiandosi poche frasi, quelle strettamente necessarie per far sembrare
che non fosse accaduto niente sulla spiaggia, eppure durante il viaggio
rimasero entrambi in silenzio, entrambi profondamente assorti nei propri
pensieri.
“Sono contento che tu
abbia accettato il mio invito” mormorò Richard mentre l’autista
parcheggiava la grossa automobile nel grande spiazzo di fronte
all’ingresso principale.
Mark accennò un
leggero sorriso, ma non rispose, continuando invece a guardare dritto di
fronte a sé.
C’era una cosa che
non gli era sfuggita: in quei due giorni non aveva mai visto i genitori di
Richard…
La vita alla
StGeorge’s riprese come sempre, e in men che non si dica arrivarono gli
esami di fine anno.
L’episodio accaduto
durante le vacanze di Pasqua rimase sepolto nella memoria, a giudicare dal
comportamento dei due ragazzi: non ne fecero infatti mai menzione e
l’imbarazzo che ne era seguito non sopravvisse al desiderio di
confrontarsi e sfidarsi di nuovo.
Soprattutto da parte di
Mark, infatti, c’era spesso l’istinto di prevalere sul compagno. Una
cosa che non era mai stata in dubbio durante tutti gli anni trascorsi alla
StGeorge’s era che lui, oltre ad avere carisma e ad essere
indubitabilmente il ragazzo più temuto della scuola, era anche il più
brillante ed intelligente di tutti.
“Domani cominceranno
gli esami. Paura?” chiese a Richard dopo aver terminato l’ultimo
ripasso. Ormai era giugno, e l’aria era inaspettatamente dolce. Avevano
lasciato i vetri socchiusi, per far entrare il leggero venticello tiepido,
e adesso Mark si era acceso una sigaretta seduto sul davanzale della
finestra, le ginocchia piegate al petto e la schiena appoggiata
all’intelaiatura, mentre Richard guardava il paesaggio alle sue spalle
continuando a stare seduto sulla sedia vicino alla scrivania.
“Paura?! No… non
credo che dovremmo averne.”
Stoddard si interruppe,
osservando le volute di fumo azzurrino che salivano verso il soffitto:
“Non dovresti
fumare” rimproverò poi l’amico, cambiando discorso.
Mark continuò ad
aspirare dal sottile cilindretto di carta e tabacco senza rispondere,
scrollando appena le spalle.
Il ragazzo biondo lo
osservò per qualche istante, prima di dire in fretta, ma tentando
noncuranza:
“Grazie per non
essere intervenuto, ieri…”
“L’altra volta eri
stato chiaro” non poté fare a meno di ribattere l’altro, come se
queste parole potessero chiudere il discorso.
“Già, ma non è che
tu sia sempre accondiscendente con le richieste altrui!”
Mark sorrise ironico,
ma non volle aggiungere niente: sapeva benissimo a cosa si riferisse il
compagno.
John aveva cercato di
provocare Richard ancora una volta. O forse era stato tutto improvviso e
non premeditato. Fatto sta che lo aveva spinto contro il muro della
biblioteca, facendogli sbattere la testa, dopo che, in conseguenza di un
urto involontario fra loro, Richard gli aveva fatto cadere in terra i
libri.
Era stata una reazione
spropositata, ma probabilmente era solo lo sfogo della frustrazione per
l’immunità che sembrava proteggere quello sprezzante ragazzino viziato.
Dopo averlo sbattuto
contro il muro, John lo aveva fatto finire a terra e poi gli aveva dato un
calcio nella pancia. Poi si era avviato verso la porta con un ghigno
soddisfatto sulle labbra pulendosi le mani sulla stoffa dei pantaloni. Ma
non era riuscito a raggiungere la porta. Il piccolo Lord sapeva essere
duro quando voleva, e con John lo fu. Il ragazzo, infatti, ancora non si
era reso conto di cosa fosse successo che si ritrovò con il naso e il
labbro sanguinanti.
Fu una resa dei conti,
probabilmente l’ultima fra loro, e stabilì per John che Richard era un
osso duro, e per Richard, ancora una volta, che nessuno poteva o doveva
disturbare la sua tranquillità.
Quando Mark incontrò
Richard in biblioteca, il pomeriggio della zuffa, lo trovò con un po’
di lividi, ma sereno. Non aveva voluto raccontargli cosa fosse successo,
anche se lui lo seppe ugualmente da altre fonti, ma aveva l’espressione
tranquilla di chi sa di aver chiuso definitivamente un conto sospeso.
“Credo che
effettivamente tu non abbia bisogno della mia protezione” mormorò il
ragazzo bruno continuando ad aspirare il fumo.
Stavolta fu Richard a
sorridere:
“Sai, forse
rimpiangerò la StGeorge… probabilmente questi pomeriggi di tranquillità.
A Cambridge avremo molto meno tempo. Lo studio sarà più intenso”
aggiunse poi, saltando ancora una volta ad un altro discorso.
“Già”
Mark sembrava
distratto, ed effettivamente lo era. Non che pensasse a qualcosa in
particolare, ma era come se volesse fermare quell’atmosfera morbida che
sembrava avvolgerlo. Si stava godendo quel mite pomeriggio di metà
giugno, aspirava voluttuosamente il fumo di quella sigaretta che fuori
dalla sua stanza gli avrebbe causato dei problemi, e poi aveva Richard, un
Richard che con il passar del tempo si era dimostrato sempre più
rilassato con lui, meno distante.
Sarebbero rimasti
insieme anche all’università, probabilmente il loro rapporto sarebbe
stato anche più amichevole, e questo gli bastava. Era parecchio tempo che
si impediva qualsiasi pensiero sul compagno che andasse al di là della
semplice amicizia, e sembrava riuscirci. Se solo avesse potuto controllare
anche i sogni! Eppure era soddisfatto di se stesso: aveva vacillato
pericolosamente quando aveva conosciuto Richard, ma si era ripreso, aveva
esercitato tutto il proprio autocontrollo e aveva riportato un’altra
vittoria.
Mentre continuava a
fumare, sapeva qual era l’immagine che dava alle altre persone: era
bello e irraggiungibile, freddo e crudele, temuto e ammirato. E gli
piaceva. Non amava offrire punti deboli, e adesso, dopo tutti quei mesi,
gli sembrava di essere riuscito a nascondere e proteggere anche
quell’unico che si era scoperto.
“E’ tardi. Dobbiamo
prepararci per la cena” disse portando lo sguardo sul compagno, ancora
seduto.
Richard si levò in
piedi e si avvicinò alla porta. Aveva una strana voglia di dire qualcosa,
una cosa qualsiasi, ma quando si girò si accorse che l’altro aveva
voltato la testa e guardava fuori, senza prestargli attenzione.
Abbassò la maniglia e
uscì.
Gli esami arrivarono e
passarono in un baleno. Tutto si rivelò breve e deludente, come se non
meritasse gli sforzi compiuti, come se, ancora una volta, quel loro mondo
li avesse ingannati, spacciando per importante qualcosa che non contava
nulla.
Il Preside non si
risparmiò l’occasione per tediarli con un ultimo, vuoto, paternalistico
discorso sull’importanza della tradizione e della cultura, e poi furono
tutti liberi di tornare a casa per vacanze, prima dei trasferimenti nelle
rispettive università.
“Domani si torna a
casa…”
Richard, come capitava
spesso in quei giorni, stava nella stanza di Mark, abbandonato sulla
poltroncina della scrivania, mentre l’altro fumava, semi-sdraiato sul
davanzale della finestra.
“Che farai
quest’estate?” gli chiese Mark, senza rispondere alla sua
constatazione e senza distogliere lo sguardo dallo spettacolo offerto dai
prati della StGeorge’s.
“Starò
a Heaven’s Gate. Poi andrò in Tirolo, forse… E tu?”
“I miei andranno in
Costa Azzurra, come sempre. Io non so” sembrava rispondere casualmente,
senza dare importanza alle proprie parole.
Rimasero in silenzio.
Spesso le loro conversazione erano intervalli rumorosi nel silenzio.
“Perché non vieni
qualche giorno da me, la prossima settimana?” chiese Richard.
Serviva? Aveva senso
continuare a prolungare questo legame? Entrambi si erano accorti di quanto
stesse diventando stretto, magari anche solo per abitudine… per essere
uno per l’altro l’unica persona con cui riuscivano a parlare.
“Vedremo” rispose
Mark, buttando il mozzicone nel giardino sottostante e appoggiando la nuca
contro lo stipite della finestra.
E ci andò. Ancora una
volta percorse la strada che dalla casa dei genitori conduceva ad
Heaven’s Gate. Era curioso, niente di più. Si accorgeva però che al
sentimento che ora non voleva neanche nominare ma che continuava a provare
per Richard, si stava aggiungendo una sorta di insofferenza, di
disprezzo… era esasperato, e l’unica cosa che avrebbe desiderato era
starsene da solo.
Nonostante questo,
quando sentiva il richiamo del piccolo lord non poteva fare altro che
ubbidire.
“Stessa stanza
dell’altra volta” gli disse Richard aiutandolo a portare in casa i
bagagli.
Mark si guardò
intorno. Era la stessa casa, con gli stessi mobili, gli stessi quadri, la
stessa assenza di esseri umani. Ma ancora una volta non fece commenti.
La costa della
Cornovaglia era famosa, in estate, per i bagni. L’acqua non era
certamente paragonabile a quella fredda delle vacanze di Pasqua.
Camminavano a piedi
nudi sulla sabbia, facendosi appena raggiungere dalla risacca schiumosa.
“Ti va di andare in
barca, domani? Sono secoli che non la tiriamo fuori”.
Mark annuì con
noncuranza, come sempre. E, come sempre, portò lo sguardo lontano,
stavolta verso il vecchio faro che dominava l’insenatura da una piccola
isola.
“Potremmo
raggiungerlo…” mormorò quasi più a se stesso che al compagno, per la
prima volta prendendo l’iniziativa.
Richard ne seguì lo
sguardo, e fece un sorriso appena percettibile:
“Si dice che guidasse
i contrabbandieri che tornavano dalla Francia con sete e liquori, quando
l’Inghilterra decise di vietare gli scambi per contrastare Napoleone”
spiegò.
Mark rimase in
silenzio, poi scosse la testa:
“Giusto gli inglesi
possono preferire un Nelson a Napoleone…”
Richard sorrise:
“Non sarai anche un
sovversivo!”
Ma il compagno non gli
rispose. Si sentiva leggermente infastidito da quell’anche… ma
non aveva voglia di indagarne il significato.
Tornarono a casa: tè
delle cinque, bagno caldo, dopocena in biblioteca… esattamente come da
copione nel loro mondo. E invece Mark aveva voglia di muoversi, di
sconfiggere quel torpore che lo stava consumando.
“Ho sonno. Buonanotte
Stoddard”.
Richard non fece in
tempo a rispondere niente che l’altro se ne era già andato. C’era
qualcosa che non andava in quella situazione, qualcosa che faceva star
male anche lui. Sapeva benissimo che le parole che Mark gli aveva rivolto
ormai molti mesi prima non erano vere, che non erano che il frutto di un
momento di annebbiamento, probabilmente causato dalla particolarità dei
loro rapporti iniziali, e del resto, se non lo avesse pensato, non si
sarebbe mai permesso di stargli così vicino, però ora notava una sorta
di fastidio nell’amico ogni volta che entravano in contatto. E questo lo
faceva star male.
Rimise nello scaffale
il libro che aveva vanamente cercato di leggere, e si alzò per
raggiungere la propria stanza. Aveva davvero voglia di una bella dormita.
Tirarono fuori lo scafo
dalla capanna di legno che lo custodiva per undici mesi l’anno, poi lo
armarono, montando l’albero, le vele, il timone e la deriva. Il vento
era teso, ma non forte, pensò Mark guardando il mare appena increspato.
Portarono la barca in acqua e salirono insieme, uno da una parte e uno
dall’altra, per non farla ribaltare.
“Io al timone, tu
controlla il fiocco” comandò il ragazzo bruno, domandandosi tra sé e sé
se quel guscio in rovina potesse davvero riuscire a tenere il mare.
Richard si sistemò
vicino alla prua, maneggiando con mano esperta le drizze della piccola
vela, mentre timone e randa rimanevano tra le mani di Mark. Non era
abituato a lasciare il dominio della sua barca a qualcun altro, ma con
Mark le cose percorrevano sempre sentieri che sfuggivano al suo controllo.
“Il vento sta
rinforzando!” sentì l’altro urlargli da dietro.
Fece un gesto di
assenso con la testa, ma continuò a tenere il fiocco tirato. Aveva voglia
di correre, di rischiare, forse.
Voltandosi indietro
vide che Mark lo guardava dubbioso, ma poi quel viso si aprì in un
sorriso ironico che sembrava sfidarlo, che sembrava dire: ‘vuoi
l’ebbrezza del pericolo? Io non mi tiro indietro’.
E così, invece di
mollare la randa per diminuire la velocità, Mark la tirò ancora di più,
strambando per portarsi il vento in poppa. Per bilanciare l’inclinazione
della barca, Richard si sporse all’esterno, puntando i piedi contro la
parete dello scafo.
Sentiva una strana
euforia mentre gli spruzzi d’acqua salata gli colpivano il viso, e non
si rese conto della virata improvvisa che dovette effettuare Mark per
evitare che la barca finisse contro degli scogli che affioravano appena
dall’acqua. Non vide il boma avvicinarsi, e l’impatto violento gli
fece perdere l’appiglio gettandolo in acqua.
“RICHARD!!!” anche
l’urlo di Mark gli sembrò lontanissimo. Era perfettamente cosciente,
eppure intorpidito. Sarebbe bastata qualche bracciata e sarebbe stato in
salvo, ma improvvisamente si rese conto di non avere voglia di fare questo
sforzo. Era così facile lasciarsi andare all’oblio di quel mare
agitato!
Mark non ci pensò due
volte, lasciò le vele lasche, per non far allontanare troppo la barca, e
si tuffò in acqua. Aveva visto la testa di Richard affondare e riemergere
più volte, ma come se il compagno non avesse la volontà per portarsi
fuori pericolo.
Raggiunse il punto in
cui lo aveva visto l’ultima volta in poche bracciate, poi si immerse a
occhi aperti. Doveva, DOVEVA assolutamente ritrovarlo, portarlo in
superficie. Nonostante la forza delle onde adesso rischiasse di sbatterlo
contro le rocce, per lui non esisteva altro pensiero oltre quello di
raggiungere Richard.
Il mare era
completamente buio. Non riusciva a distinguere nulla, e inoltre le acque
agitate facevano sollevare la sabbia causando un sempre maggiore
intorbidimento. Cercava alla cieca, più con le braccia che con gli occhi,
ma non aveva nessuna intenzione di arrendersi.
Risalì rapidamente in
superficie, rischiando un’embolia, prese aria e ricacciò la testa
sott’acqua.
Il compagno non poteva
essere lontano! Perché non riusciva a trovarlo?!
Si spostò, cercando di
seguire la corrente. Non aveva pensieri, a parte quello che gli ripeteva
senza sosta di continuare, di non fermarsi.
Sentiva il petto
dolergli. Dovevano essere i polmoni, ormai stava sott’acqua da
parecchio… doveva riemergere, altrimenti avrebbe finito con il perdere i
sensi e diventare cibo per pesci.
Eppure si diede
un’ultima spinta verso il basso, per un istante la sua vista appannata
gli aveva fatto credere di scorgere un’ombra… Spinse con decisione le
braccia in avanti, allargandole tenendo i palmi delle mani aperti per
spingere con più forza l’acqua alle proprie spalle. Poi stese
nuovamente un braccio di fronte a sé.
I suoi occhi non lo
avevano tradito! Lo aveva trovato… era un corpo quello che sfiorava con
la punta delle dita!
Passò con decisione il
braccio intorno al collo del compagno e risalì verso la superficie. Era
così in debito di ossigeno che negli ultimi metri si sentì la testa
vorticare pericolosamente. Strinse i denti e rallentò l’ascesa… ecco,
aria finalmente!
Richard aveva gli occhi
chiusi. Provò a dargli uno schiaffo leggero sulla guancia, ma non ci fu
alcuna reazione, ma era inutile rimanere lì. Doveva raggiungere la riva.
Solo lì avrebbe potuto fare qualcosa.
La costa era lontana, e
la barca ormai irraggiungibile. Con i muscoli a pezzi e quel dolore
insopportabile che lo pervadeva ad ogni respiro, Mark decise che non
poteva fare altro che cercare di raggiungere a nuoto l’isolotto con il
faro, la più vicina ancora di salvezza.
Trascinò Richard sulla
sabbia. Era ancora privo di sensi.
Gli si sedette sullo
stomaco e cominciò a praticargli la respirazione bocca a bocca, sperando
che l’altro riuscisse a sputare l’acqua bevuta. Contemporaneamente
iniziò a massaggiargli il torace. Non furono che pochi istanti, e poi
Richard rinvenne, cominciando a tossire e a sputare l’acqua. Mark gli
voltò la testa di lato, per favorire lo svuotamento dei polmoni, poi, non
appena si accorse di quanto il ragazzo stesse tremando, corse verso il
faro.
La porta non era chiusa
a chiave e quindi entrò dentro per cercare qualcosa con cui coprirlo.
Vide che c’erano dei teli, probabilmente tenuti per le barche. Ne stese
uno grande a terra: ormai era quasi buio, ed era improbabile che qualcuno
venisse a cercarli proprio lì, quindi era meglio attrezzarsi per la
notte.
Tornò da Richard.
Respirava normalmente, ma era di nuovo privo di sensi. Lo sollevò tra le
braccia e lo portò all’interno del faro. Lo depositò delicatamente sul
telo steso a terra, poi cominciò a togliergli i vestiti bagnati. Non
poteva permettersi di lasciarlo così, era estate, ma la notte era
comunque fredda. Lo avvolse in un altro telo più pesante, e poi si spogliò
anche lui. Abbracciò da dietro il compagno, per scaldarlo, e poi avvolse
entrambi con l’ultima coperta.
Lo aveva vicino, anzi,
lo aveva incollato al proprio corpo, e avrebbe potuto fargli qualsiasi
cosa, anche solo lasciargli scorrere le mani sul corpo sottile, ma non
fece niente, si limitò a stringerlo forte, a cercare di dargli non solo
calore fisico, ma conforto, affetto.
Piano piano, cullato
dal rumore della risacca, e cedendo alla stanchezza per lo sforzo
sostenuto in acqua, si addormentò anche lui.
La mattina successiva,
quando si svegliò, aveva ancora Richard tra le braccia. Non riusciva a
capire se il ragazzo fosse sveglio oppure stesse ancora dormendo, ma
decise comunque di abbandonare quella posizione compromettente, e si alzò
per controllare le condizioni del mare.
Alla serata di tempesta
era succeduta una bella mattinata senza vento, con il sole brillante e
caldo. Mark si stiracchiò sotto i raggi gentili, e si sedette sulla
sabbia. In quel momento avrebbe desiderato una sigaretta, pensò
sorridendo.
Poco dopo sentì dei
passi alle proprie spalle: non voltò la testa, ma presto si ritrovò
Richard seduto accanto, ancora avvolto nel telo.
I capelli, asciugati
all’aria, sembravano molto più biondi e mossi del solito, e gli occhi,
ancora offuscati dal sonno, più limpidi.
“Probabilmente
dovremo tornare a nuoto, ma non so se te la senti” gli disse lentamente,
continuando a guardare il mare davanti a loro.
Richard annuì:
“Aspettiamo ancora un
po’… si sta bene qui, vero?” mormorò, respirando profondamente, e
avvolgendosi poi la coperta ancora più stretta intorno al corpo.
“C’è qualche
possibilità che qualcuno ci venga a cercare?” continuò lui.
“Probabilmente si
saranno già mobilitati, ma non credo che arriveranno fino qui.”
Rimasero in silenzio
per qualche minuto. Il sole cominciava a riscaldare l’aria, e finalmente
sembrava di nuovo di essere in estate.
Mark non aveva più
parlato, ma non si era goduto completamente quei momenti di rilassatezza.
Stranamente gli era venuta una domanda che prima non aveva mai provato la
necessità di porre. Si voltò verso il compagno, incerto se darle voce
oppure no.
“Cosa mi devi
dire?”
Gli era impossibile
nascondere qualcosa a Richard!
“Come mai mi inviti
solo quando non ci sono i tuoi genitori?” chiese con calma, senza
incertezze o particolari toni di rivendicazione.
L’altro non rispose
subito. Si sporse in avanti appoggiando il mento sulle ginocchia tirate al
petto, poi voltò la testa verso di lui:
“Sapevo che te ne
saresti accorto” mormorò.
“Non è una
risposta” continuava ad usare un tono neutro, in contrasto con le frasi
scelte. Voleva una risposta, ma non intendeva scaldarsi troppo.
“E’ ancora presto.
Solo questo…”
E ‘ancora presto’
non significava che si conoscessero poco per presentarlo ai genitori, e
neanche che lui si vergognasse dell’amico. Significava che era presto
per sopportare i sospetti, le domande, le accuse velate e infondate.
“Ancora presto per
combattere per la nostra amicizia?” Mark continuava a mantenere un tono
impersonale, come se stessero parlando di cose che lo coinvolgevano solo
marginalmente.
Richard scosse la
testa, riportando lo sguardo sui gabbiani che planavano sulla superficie
dell’acqua, nascondendosi tra le increspature.
“Io sto già
combattendo. Ho dovuto lottare per ogni ora passata con te, e se ho
preferito invitarti sempre quando i miei genitori erano assenti è stato
per risparmiarti una umiliazione… non li conosci, sarebbero capaci di
essere molto sgradevoli, crudeli con me, e sgradevoli con te” (*)
“Pensi che io non
sappia difendermi? Dimentichi che ho sempre vissuto in un mondo che non è
mio ‘di diritto’?” gli ribatté lui gelido, sibilando ogni parola.
L’altro scosse la
testa:
“Non si tratta di
questo… dopo quello che è successo l’anno scorso, sono come due belve
con una ferita aperta. Non vogliono che si ripresenti una situazione…”
“Okay, ho capito,
lascia stare.”
Rimasero in silenzio.
Richard si era spiegato
bene, certo, ma lui aveva l’impressione che non fosse solo quello, che
in fondo potesse esserci della vergogna per la loro distanza sociale, per
il loro appartenere a mondi completamente diversi.
“Quando sei pronto
chiamami” disse alzandosi in piedi “vado a fare un giro all’interno
del faro”.
Vaffanculo! Ci ricadeva
sempre!
Si affacciò alle
vetrate da cui il guardiano doveva osservare il mare illuminato dal fascio
di luce, poi si appoggiò con la schiena contro il davanzale.
Era stato uno stupido,
invece di cercar di allentare i loro rapporti, ci era ricaduto! La doveva
smettere di pensare che Richard fosse diverso… era uno snob vissuto in
una famiglia di snob, e lui non aveva intenzione di sopportare ulteriori
umiliazioni.
Tornarono a nuoto, ma
appena Mark mise piede nella propria stanza, cominciò a preparare i
bagagli. Appena terminato, telefonò ai genitori, avvertendoli del proprio
ritorno, e poi chiamò il cameriere per portare tutto dabbasso.
“Dove vai?” gli
chiese Richard allibito, quando lo vide scendere pronto per partire.
“Torno a casa,
Stoddie.”
“Perché?!” più
che una domanda, sembrava una preghiera di non lasciarlo.
“Sono stanco. Anzi,
sinceramente, tu mi hai stancato. Per un po’ voglio starmene in
pace… e accetta un consiglio: vedi di crescere, e smettila di fare la
vittima”.
Prima di salire in
macchina, aggiunse:
“Grazie per
l’ospitalità. Non ti dico di salutarmi i tuoi genitori, no? Non
dovrebbero neanche supporre la mia esistenza…”
Pochi giorni dopo,
nella casa di campagna di un famoso avvocato londinese giunse una busta
elegante con l’indirizzo di Heaven’s Gate. Era un invito per la festa
di compleanno del rampollo della famiglia, con il quale Lord e Lady
Stoddard-West manifestavano il loro immenso piacere ad avere come ospite
il Signor Mark Grant.
Mark rise fra sé e sé,
ma poi divenne serio, e sfogò la propria frustrazione dando un pugno
contro il muro. Che diavolo voleva ancora Richard da lui? Perché non gli
permetteva di allontanarsi?
Lesse ancora una volta
la frase aggiunta a penna con quella grafia che aveva imparato a
riconoscere:
‘Desidero che tu
venga alla festa… sarebbe un onore per me che tu conoscessi i miei
genitori’.
THE END - IL COLLEGIO
parte quinta
(*) La prima parte di
questa battuta è un adattamento di una frase di Konradin von Hohenfels a
Hans Schwarz in ‘L’amico ritrovato’, di Fred Uhlman. Un grazie a
Nausicaa per il suggerimento.
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