Per Ria, Nausicaa, Angie e Calipso.



Il Collegio

parte IV

di Greta

 

“Io non voglio essere tuo amico, ho mentito… ho mentito perché non è amicizia il sentimento che provo per te… io ti amo…”.

Aveva davvero pronunciato quelle parole? Sì, lo aveva fatto, c’era riuscito, e adesso non restava che aspettare, sperare… per la prima volta senza poter usare la forza per avere la risposta desiderata.

Continuò a tenere lo sguardo fisso negli occhi di Richard, cercando di leggere i pensieri che li attraversavano… ma non ci riuscì: sembravano solo pieni di incredulità, forse di rabbia.

“Richard…” mormorò.

L’altro continuava a non rispondere, poi si alzò lentamente in piedi voltandogli le spalle.

“Richard…” ripeté, aspettando una reazione, una parola.

“Non aggiungere altro… per favore” fu appena un sussurro quello che lo raggiunse.

Chiuse gli occhi… non aveva ricevuto uno schiaffo in viso, ma l’effetto era quello, anzi… forse peggiore.

“No! Non rimarrò in silenzio! Preferisci vivere nel tuo mondo di vetro, vero? Beh, non te lo permetterò…”

Si alzò in piedi, avvicinandoglisi:

“Ti amo, non ho paura ad ammetterlo… ti ho amato dal primo momento in cui ti ho visto, sono sicuro che tu sia fatto per me…”.

“Smettila… non voglio ascoltarti! Non sai quello che stai dicendo!”.

“Lo so benissimo, invece, e voglio che tu mi risponda…” e gli afferrò un braccio, strattonandolo per costringerlo a guardarlo in viso.

Richard si divincolò immediatamente, lo sguardo stavolta carico di rabbia:

“Lasciami stare! Preferisco far finta di non aver sentito quello che hai detto…” gli sibilò.

Per un istante Mark non riuscì a trovare la forza di replicare… non pensava assolutamente che Richard avrebbe reagito in quel modo… senza voler dare credito o importanza alle parole che più gli era costato pronunciare in tutta la propria vita.

“Io ti amo…” ripeté in un sussurro.

“Non lo dire! Non è vero! Tu non mi conosci, non sai… non sai di come si ama una persona, della sofferenza…” Richard si interruppe, respirava a fatica.

“L’amore non è necessariamente sofferenza… e io sono sicuro che per noi non sarà così!” ribatté lui deciso.

L’altro sorrise amaramente scuotendo la testa, poi, dopo qualche istante di silenzio, mormorò:

 “Ti prego, Mark, non rivolgerti mai più a me in questo modo. Sai anche tu di stare dicendo delle idiozie…” e se ne andò senza permettergli di aggiungere altro.

Scivolò di nuovo sul pavimento appoggiando la nuca alla parete fredda dello spogliatoio. Si sentiva svuotato, sentiva di aver sostenuto la battaglia più dura della propria vita e di avere perso.

Richard non lo ricambiava, non solo, sembrava non voler accettare quelle parole. Chissà perché aveva pensato che l’altro non lo avrebbe mai trattato in quel modo, che, anche non corrispondendo ai suoi sentimenti, avrebbe creduto alla sincerità di quello che gli avrebbe detto… e invece c’era stata solo incredulità.

L’amore era sofferenza? Beh, forse Richard non aveva completamente torto, lui da quando si era innamorato non aveva fatto che accumulare delusioni… non aveva fatto che sbagliare.

Eppure continuava ad esserci qualcosa che non comprendeva, qualcosa che aveva a che fare con la ragazza della dedica sul libro, qualcosa che doveva essere la causa della sofferenza che leggeva sul volto del compagno quelle rare volte in cui lasciava cadere la maschera.

Abbassò la testa sulle ginocchia: tutto il peso della tensione di quel pomeriggio sembrava essergli crollato improvvisamente sulle spalle, eppure la sua mente era sgombra… o forse era meglio dire che era una ‘tabula rasa’… non riusciva a pensare a niente, neanche alle parole che erano state appena pronunciate in quello spogliatoio… era stanco, la battaglia lo aveva fiaccato e adesso aveva solo voglia di buttarsi sul proprio letto e dormire un sonno senza sogni.

E questo fu esattamente quello che successe… un sonno profondo, senza sogni, che lo fece svegliare con la testa pesante e il cervello annebbiato.

 

Se solo quei pochi giorni che lo separavano dalla vacanza con i genitori fossero potuti trascorrere con uno schiocco di dita…

Era diventato un vigliacco? Voleva scappare? Sì, perché si sentiva come quei cani che hanno bisogno della solitudine per curarsi le ferite. In quel momento si sentiva debole, chiunque avrebbe potuto colpirlo in profondità e, una volta che fosse stato colpito, non avrebbe potuto far altro che chinare il capo.

Si guardò allo specchio… il viso era tirato, gli occhi stanchi: cercò di mimare la smorfia di superiorità e disgusto che per tanto tempo gli era stata naturale… e invece, che ridicola pantomima!

Ma non doveva… non poteva lasciarsi andare! Era un’altra prova, un’altra prova per dimostrarsi di avere un carattere inattaccabile; si sciacquò il viso con l’acqua fredda del catino e si passò il pettine tra i capelli… adesso doveva affrontare gli altri, andare ai bagni comuni, rivendicare il diritto inalienabile a essere il primo, ad essere servito e temuto… tutto doveva tornare come prima.

Era più facile a dirsi che a farsi!

Si sentiva uno zombie mentre avanzava per quel corridoio che non gli era mai sembrato così lungo, si sentiva un attore di quart’ordine mentre quel poco di orgoglio che gli rimaneva lo obbligava a fingere una espressione impassibile.

Si infilò sotto la doccia e chiuse gli occhi: l’acqua sembrava di nuovo gentile mentre gli accarezzava i muscoli indolenziti… si risciacquò dal sapone e si avvolse nell’asciugamano. Non si guardò intorno, preferiva non sapere chi altro fosse insieme a lui.

Si vestì in fretta, e, cercando di riprendere la usuale espressione di superiorità, uscì dalla stanza raddrizzando le spalle. E proprio sulla porta incrociò la persona che meno aveva voglia di vedere.

Gli occhi gli si allargarono leggermente per la sorpresa, ma li strinse ricomponendosi: non si sarebbe fatto vedere sofferente o umiliato.

Distolse lo sguardo con disprezzo e passò oltre. Sentì gli occhi di Richard seguirlo, ma non volle vedere cosa potesse esserci nascosto dentro. Già si sentiva tremare, non voleva altro che allontanarsi e cercare di recuperare il proprio sangue freddo.

Doveva sbrigarsi a parlare con il padre, così sarebbe riuscito ad andare via, sì, e nel frattempo doveva tenere duro…

In classe ormai non riusciva più a stare attento, del resto quegli insegnanti falliti non meritavano certamente il suo rispetto, tutti tronfi per il discutibile prestigio di far parte della StGeorge’s.

E poi si scoprì a cercare di evitare gli altri compagni, oppure, quando era costretto ad interagire con loro, a comportarsi in maniera più crudele di quanto avesse mai fatto. La rabbia che sentiva in corpo trovava il proprio sfogo nel disprezzo per le persone che aveva attorno, deboli e sciocche e incapaci di reagire alle ingiustizie che lui compiva con leggerezza: persone senza carattere, in certi casi addirittura desiderose di trovare qualcuno che le calpestasse.

Furono giorni lunghi, che sembravano non voler terminare mai, ma finalmente arrivò il venerdì che avrebbe portato al lungo ponte di ognissanti.

Appena terminate le lezioni, si ritirò nella propria stanza per preparare le poche cose che voleva portarsi via, le altre le avrebbe prese al suo ritorno, quando il padre lo avrebbe accompagnato per parlare con il preside.

Si guardò intorno con rabbia, e forse anche con una piccola punta di tristezza: si sentiva un vigliacco, ed era una sensazione che gli dava fastidio, che non aveva mai provato prima.

Uscì con la sacca in mano, e mentre chiudeva la porta si accorse che anche Stoddard stava uscendo. Era la prima volta, dal pomeriggio in palestra, che si ritrovavano soli. Mark si limitò ad un cenno con la testa, il minimo che veniva richiesto ad un gentleman… e loro dovevano esserlo, lo imponeva il loro stato sociale.

“Buona vacanza…” si sentì mormorare.

Stava per dirgli di andarsene al diavolo, ma si limitò ad annuire brevemente. Niente scenate, si sarebbero lasciati con dignità… già i loro rapporti avevano oltrepassato troppi limiti.

Si avviarono insieme, nonostante lui avesse aspettato, sperando che l’altro scendesse prima di lui. Sul grande portone dovette girarsi verso il compagno:

“Addio Richard” sibilò, portando lo sguardo sul cortile dove si accumulavano le automobili lussuose che venivano a ritirare i rampolli parcheggiati nell’antica istituzione.

“Arrivederci, Mark” rispose l’altro. Un tono basso, ma neutro, come se niente fosse accaduto… già, il solito rifugio per quelli del loro mondo, chiudere gli occhi ed andare avanti.

Il viaggio in auto fu lungo, il StGeorge’s non era il collegio più vicino alla grande casa che i genitori avevano scelto come ‘dimora di famiglia’… era un viaggio che dava tempo per pensare, proprio quello che lui voleva assolutamente evitare.

“Mark!” il padre lo accolse con voce ferma, virile, un sorriso posato, esattamente quello che ci si aspettava quando un uomo del loro mondo rivedeva il proprio figlio.

La madre fu più fuori parte:

“Vieni qui, figliolo!” e lo abbracciò stretto. Lui si abbandonò tra quelle braccia, ma riuscì a trattenersi dal rivelare anche una minima parte della pena che lo torturava.

Tornò nella propria stanza, quella stanza che conteneva tutte le cose che aveva accumulato da quando era bambino: si sentì confortato da quegli oggetti, gli sembrava di ricevere l’abbraccio di quella casa e se ne lasciò catturare, sperando che riuscisse ad allontanarlo dal ricordare quella scena che si era svolta negli spogliatoi.

 

“Sei stato molto silenzioso in questi giorni” notò il padre la mattina dell’ultimo giorno di vacanza.

Erano stati quattro giorni tranquilli, in cui Mark aveva cercato di pensare solo alle cose che coinvolgevano il soggiorno con i genitori, cercando di evitare di pensare a tutti i problemi legati al StGeorge’s, e questo aveva fatto sì che non fosse ancora riuscito a parlare con i genitori della propria volontà di cambiare collegio.

“Tua madre è preoccupata per te” continuò il padre, ritenendo che a questo punto una sua spiegazione fosse d’obbligo.

“Non c’è niente che non vada, solo…”

“Solo?” fu l’invito a continuare.

“In questi giorni sto pensando al mio futuro, e alla scelta di rimanere per quest’ultimo anno alla StGeorge’s…”

Il famoso avvocato Harold Grant non era certo tipo da saltare a conclusioni affrettate, saper cogliere il giusto momento per ascoltare e il giusto momento per parlare era una delle cose principali che gli aveva insegnato il proprio lavoro:

“Spiegati meglio…”

Mark si rilassò contro lo schienale della poltrona:

“Abbiamo già parlato del mio desiderio di intraprendere la carriera diplomatica, e mi era sembrato di capire che tu fossi d’accordo con la mia scelta” cominciò.

Il padre annuì:

“Infatti sono contento della tua ambizione…”

“Ecco, nonostante il StGeorge’s sia uno dei collegi più rinomati di Inghilterra, la scorsa estate, parlando con John Irving…”

Sir James Irving era uno dei principali clienti del padre, un lord molto facoltoso con numerosissime proprietà sparse per tutto il Commonwealth e con un seggio di quelli ‘pesanti’ alla camera alta.

Il padre aveva sempre caldeggiato la frequentazione tra Mark e lo scialbo John Irving, il figlio cadetto di Sir James, un ragazzo debole e malaticcio che voleva diventare ambasciatore in qualcuna delle ex colonie.

“…parlando con John Irving mi sono reso conto che il taglio che danno a Cambridge allo studio dell’economia applicata alla politica è più moderno di quello che la StGeorge’s ha deciso di adottare decenni fa… mi è sembrato come se alcune mie cognizioni sapessero di muffa e di favole per bambini, e questo mi ha preoccupato…” lo aveva detto sfoggiando un perfetto atteggiamento ‘impensierito’.

“Capisco… però non sempre seguire le mode si rivela un vantaggio…”

“Ne convengo, ed è questo che mi ha impedito di parlartene prima… mi sembrava che tutto sommato potesse andare bene anche la preparazione data dalla StGeorge’s, però ultimamente ho ritrovato alcune delle teorie di cui mi parlava John in un intervento del Cancelliere, e a me è sembrato di essere colto impreparato… temo di essere stato educato su un modello che andava bene ai tempi di Disraeli…”

Il padre sorrise, gli piaceva come parlava il figlio, il suo tono pacato, le argomentazioni circostanziate ma piene anche di momenti di certezza assoluti da cui emergevano improvvisamente i dubbi e il desiderio di una guida, normali a quell’età.

“E adesso a che conclusione sei giunto?” chiese, continuando a mescolare il proprio tè.

“Beh, stavo pensando di non concludere quest’ultimo anno alla StGeorge’s… mi rimarrebbe sempre come curriculum, ma nello stesso tempo potrei trarre anche i vantaggi della frequentazione di un college altrettanto facoltoso ad Oxfordbridge…”

“Pensavi al Trinity?”

“Quello, o il King’s College… non so, potremmo cercare di farci consigliare…”

Il padre alzò lo sguardo su di lui:

“Sai bene che per me non sarebbe assolutamente un problema, trasferirti. Tra l’altro saresti ancora più vicino a casa, e per tua madre questo è importante, però… però non vorrei che oltre alle motivazioni che mi hai dato, che peraltro ritengo molto valide, ci sia qualche altra cosa… non devo preoccuparmi, vero?”

Ecco, questo sarebbe stato il momento più duro della recita familiare. In realtà sperava di essere riuscito a cavarsela così bene da poterlo evitare, ma il padre era o no un brillante avvocato? Non era la sua specialità comprendere dalle parole dei testimoni quelli che erano i loro pensieri più reconditi?

Finì di bere il suo tè:

“No, non ci sono altri motivi” disse lentamente “E forse neanche quelli che ti ho esposto dovrebbero poi preoccuparmi tanto… probabilmente mi sto allarmando troppo. Vorrei solo che tu mi dessi un suggerimento, visto che sono un po’ confuso. Magari potremmo aspettare un po’ prima di prendere una decisione definitiva, e intanto guardarci intorno…”

Il padre rimase a fissarlo per qualche lungo secondo, poi la sua espressione si rilassò in un sorriso:

“Vuoi il mio consiglio? Beh, sono d’accordo con te, figliolo. Se c’è una scuola che può darti una preparazione migliore della StGeorge’s sono d’accordissimo a fartici trasferire. Mi informerò, magari proprio con Sir James Irving; tu intanto dovresti cercare di capire se cambiare College è proprio quello che vuoi”.

Padre e figlio si sorrisero nuovamente: erano entrambi abili, ma a volte si dice che gli allievi superino i maestri.

Il giorno dopo Mark tornò alla StGeorge’s.

Il trasferimento non sarebbe stato immediato, come aveva sperato prima di raggiungere la casa dei genitori, ma la sua furbizia gli aveva suggerito di non forzare troppo la situazione. Adesso non restava che aspettare notizie dal padre, oppure, alle brutte, sollecitarle.

 

La prima sera la trascorse in biblioteca, a ridere dell’involontaria comicità di una biografia di Nelson che gli aveva consigliato il professore di Storia... Si sentiva bene, il conforto di una via di uscita lo aveva fatto rinascere: non era più stretto in un angolo, e questo gli dava l’energia per riprendere la vecchia distaccata autorità, per continuare ad essere il gelido e severo Mark Grant che tutti gli studenti del collegio conoscevano e temevano.

E Richard? Anche lui gli faceva meno paura, era come se la possibilità di essere trasferito costituisse una specie di bacchetta magica in grado di far sparire tutte le persone che aveva intorno, anche Richard Stoddard-West.

Eppure… eppure quei sentimenti che aveva visto nascere dentro di sé non erano diventati più deboli, né le reazioni quando sentiva la voce o la presenza di Richard vicino a sé meno intense.

Passarono abbastanza tranquillamente circa dieci giorni. Durante un buio pomeriggio di studio di metà novembre, arrivò la telefonata che stava aspettando…

“Se sei ancora deciso, Mark, ho parlato sia con il preside del Trinity sia con quello del King’s… sono entrambi felicissimi di accoglierti fra i loro studenti. Pensaci e fammi sapere il prima possibile” gli aveva detto il padre, usando le stesse parole che il figlio si era ripetuto per addormentarsi in tutte quelle sere.

Era fatta, poteva lasciarsi tutto alle spalle. Non c’era più niente a trattenerlo, e poi era sicuro che si sarebbe trovato bene anche in una scuola differente, il carisma non gli mancava, e non aveva mai impiegato molto per far capire agli altri di essere un leader.

Suo padre gli aveva chiesto di pensarci, non aveva voluto accettare una risposta immediata, e lui si era subito piegato a quella richiesta… cosa gli costavano poche ore in più? Ormai sapeva che sarebbe andato via.

La parola fuga continuava a ronzargli nella testa, ma sapeva che era solo il suo cervello pieno di orgoglio a suggerirla, quasi per metterlo alla prova.

Finì di studiare, più per abitudine e perché teneva a non rimanere indietro che perché dovesse ancora aver paura delle interrogazioni, poi riprese tutti i libri dal proprio armadietto e dal ripiano del banco. Tanto valeva cominciare a raccogliere la propria roba.

Salì le scale faticosamente, sotto il dolce peso della cultura, poi abbassò la maniglia della propria stanza con il gomito ed entrò.

“Ti sono caduti questi…”

La voce che pronunciò queste parole da qualche parte dietro di lui ebbe l’effetto di lasciarlo impietrito… era una voce che aveva continuato a sentire, anche se di rado, ma che non gli si era più rivolta direttamente.

“Mh! Lasciali a terra, li prenderò dopo” decise per il tono gelido, non era il caso di perdersi in chiacchiere.

Ma stavolta l’altro sembrava mostrarsi tanto persistente quanto lo era stato lui in altre occasioni:

“Perché stai raccogliendo tutta la tua roba?”

“Non credo che la cosa debba interessarti” riuscì a dire, finalmente poggiando il carico sulla scrivania.

“Già… forse no”

Perché diavolo rimaneva là dietro? Perché non lo lasciava in pace? Non gli aveva ancora rivolto un numero sufficiente di insulti?

“Senti, io volevo dirti… beh, scusami per il tono utilizzato l’altra volta, tutto qui” la voce gelida di Richard lo fece sobbalzare, ma non diede segno di aver sentito, limitandosi ad aspettare che l’altro se ne andasse via.

Scusami! Pensava davvero che bastasse così poco dopo quello che si erano detti?!

Vaffanculo!

Lo aveva trattato come uno straccio, le sue frasi erano state una sequenza ininterrotta di calci in faccia, e adesso diceva ‘scusami’… sapeva… poteva anche solo sospettare come si era sentito a vedere i propri sentimenti sottovalutati, considerati vuoti e infantili, proprio quando si era mostrato più vulnerabile?

Scusami.

Stronzo!

Ma una cosa poteva ancora fare, una ultima cosa poteva farla per far capire al piccolo lord quanto quello che era successo fosse stato doloroso per lui… certo! poteva dargli la notizia in anteprima, chissà come sarebbe stato contento di sapere che finalmente riusciva a liberarsi di lui, chissà come si sarebbe sentito forte vedendo quanto in profondità era riuscito a colpirlo!

Attraversò il corridoio e bussò deciso, come aveva fatto tutte le volte che aveva tentato di entrare in quella stanza. Guardò l’etichetta attaccata al muro a fianco della porta, e per un momento gli rivenne in mente quella mattina in cui l’aveva vista per la prima volta, quando si era immaginato il piccolo Lord grasso e lentigginoso… ne era passato di tempo, gli sembrava che allora fosse ancora intriso dell’ingenuità di un bambino.

Sentì l’invito ad entrare, e aprì la porta. Richard era seduto al tavolo, l’attenzione appena distolta dal libro che stava leggendo.

“Me ne vado, Stoddard”

Vide uno sguardo incredulo negli occhi dell’altro.

“Probabilmente mi trasferirò al Trinity, l’ho appena saputo da mio padre. Dovrai trovare qualcun altro da prendere a pugni o da battere con la spada” terminò accennando un sorriso falso.

“Perché?” chiese Richard, fissandolo come se cercasse di leggere la risposta sul suo viso.

“Per la mia carriera… il Trinity costituirà un miglior trampolino per lo scopo che intendo raggiungere” cercò di dirlo con leggerezza, come se la cosa fosse semplice e dovesse essere chiara a tutti.

“La StGeorge’s ha una tradizione altrettanto valida” obiettò l’altro “Io… io spero che la tua scelta non sia stata influenzata da quanto successo tra di noi. Per me è come se quel pomeriggio non fosse mai esistito”.

Mark sorrise:

“Grazie, hai il comportamento di un gentleman, i tuoi avi Stoddard sarebbero fieri di te. I miei natali sono più umili, e noi borghesi siamo educati a non dimenticare… il nostro cervello è l’unica cosa che possiamo utilizzare per emergere, e se potessi dimenticare così in fretta vorrebbe dire che il mio non vale poi tanto”.

Dall’espressione dell’altro capì che la stoccata era andata a segno… ma forse sarebbe stato più utile che fosse successo durante il loro scontro in pedana.

Si sentì bussare contro la porta: era il controllore del piano.

“Una telefonata per lei, Stoddard, sua madre” annunciò.

Richard si alzò stancamente dalla sedia, sembrava che i movimenti lo affaticassero.

“Non andare via, non abbiamo terminato. Impiegherò poco, è la solita telefonata settimanale di controllo” mormorò lentamente.

L’altro annuì, preparandosi ad un’attesa senza più tensione: quello che doveva dire lo aveva detto.

Si guardò intorno, anche quella stanza gli sarebbe mancata? No, non era niente senza la persona che ci viveva. Si alzò e si avvicinò al tavolo per guardare fuori dalla finestra i prati sconfinati della StGeorge’s… presto altri paesaggi si sarebbero rivelati al suo sguardo.

Si sedette stancamente: forse avrebbe fatto meglio ad andare via, che senso aveva prolungare quella sciocca rappresentazione di orgoglio ferito? E invece sembrava incapace di dileguarsi, e rimase lì a far vagare lo sguardo sugli oggetti che riempivano la giornata dell’altro.

Portando la propria attenzione sul tavolo, si accorse che il libro che Richard stava leggendo era sempre quello di Tennyson… possibile che fosse tanto importante per lui?

Distolse gli occhi, rivedendo l’espressione con cui l’altro gli aveva gridato la sofferenza di questo suo amore… ma non voleva pensarci, eppure, come in trance, aprì nuovamente quel libro e rilesse quella dedica che già una volta gli aveva trapassato l’anima:

Con tutto il mio amore… e poi una P.

Aprì a caso, era un libro che sembrava essere stato molto ‘vissuto’, con il dorso viziato dalle continue aperture che avevano interessato le pagine consultate più spesso. E proprio alle pagine più ‘amate’ lo riportò una apertura casuale.

Presto smise di cercare di cogliere qualche parola di quei versi, e cominciò a sfogliare le pagine velocemente, facendo scorrere i fogli come se fossero carte di un mazzo da gioco.

Qualcosa cadde inavvertitamente… si piegò per recuperare il cartoncino bianco: una foto.

La raccolse e la studiò lungamente… il suo cervello non impiegò che un istante e la fitta nebbia che avvolgeva Richard Stoddard-West sembrò squarciarsi, lasciandolo con gli occhi sbarrati e il respiro corto ad afferrare finalmente molte cose… forse troppe, tutte insieme.

Avrebbe fatto ancora in tempo ad andare via, ma in quella sfida non si erano mai risparmiati niente, perché farlo sul finale?

Trattenne tra le mani il libro in cui aveva nuovamente riposto la fotografia: si era messo completamente a nudo con Richard, adesso toccava all’altro essere finalmente sincero, dopo tutte quelle parole.

Quando dopo pochi minuti il compagno rientrò nella stanza, lui non disse nulla, limitandosi a guardarlo con il libro ancora stretto tra le mani.

Il sguardo del ragazzo biondo lo attraversò interrogativo, ma lui mantenne ancora per qualche istante quel silenzio che metteva a disagio.

Dove erano rimasti?

“Mi stavi dicendo che quel pomeriggio è come se non fosse esistito…” ora aveva ritrovato la sicurezza per alludere a quello che era successo fra loro senza imbarazzo… già, certamente non era più imbarazzo quello che sentiva. Dopo quello che aveva capito poteva provare pena, ma forse era più giusto dire che il sentimento che lo stava dilaniando era piuttosto gelosia, feroce e vorace.

“Sì, per me è esattamente così, quindi se è questo che ti preoccupa…” anche lo sguardo di Richard sembrava meno timido, era come se fosse all’erta, come se avesse capito che qualcosa era cambiato nell’atmosfera.

“Sono belle le poesie di Tennyson…” proseguì Mark, apparentemente cambiando discorso “…era parecchio che non le sfogliavo”

Gli occhi di Richard adesso rivelavano un chiaro lampo di panico, o forse proprio di terrore.

“Perché non me lo hai detto, Stoddie?” la voce di Mark non accusava e non disprezzava, sembrava inspiegabilmente atona: “Perché hai permesso che mi sentissi sporco, che mi sentissi ignobile per quello che provavo, per quei miei sentimenti che ti costringevo ad affrontare?”

L’altro scosse la testa, come a dire che non voleva sentire altro, e che comunque non capiva.

“Dovresti nascondere meglio le cose a cui tieni, o forse stare più attento a chi fai entrare nella tua camera…” stava giocando al gatto col topo, e sapeva che non era giusto, ma si sentiva molte cose in quel momento, e le principali erano ‘arrabbiato’ e ‘geloso’.

“E’ caduta una foto dal tuo libro di poesie… con tutto il mio amore, P” citò amaramente.

Rimasero in silenzio per qualche minuto, ognuno con lo sguardo fisso e lontano, persi nel tatticismo di quell’ennesimo scontro.

“P come…”

“Non farlo!” mormorò Richard.

“Perché, perché tu possa continuare a nasconderti? P come… Paul Anderson, non è così?”

Il compagno gli voltò la schiena, gli occhi presi a seguire il percorso bagnato delle gocce di pioggia lungo il vetro.

“E’ una bella foto… come avete fatto per farvela scattare? Non è una posa canonica, direi proprio di no, e cos’era, il prato della residenza dei tuoi? Un po’ impudenti…” ghignò riuscendo solo ad emettere un verso roco.

“Smettila…”

“Sarebbe facile, vero? Ma non mi fermerò.

Lui è davvero protettivo, con le braccia allacciate sul tuo petto, mentre guardate l’obiettivo ridendo… bella foto, i tuoi genitori dovrebbero metterla nella galleria di famiglia… il loro figlio con il campione di scherma  che hanno preso per fargli da maestro… e che invece se lo scopa. Non è così? Facevi tanto il pudico quando ti ho baciato, e invece chissà quante volte ti sei fatto sbattere da questo bast…”

Non riuscì a terminare. Aveva già sperimentato parecchie volte che una delle reazioni più immediate di Richard alle offese era prenderlo a pugni, ma anche stavolta non aveva voluto dare importanza alla cosa…

E così si ritrovò accasciato sul pavimento, piegato in due per il dolore di quel pugno che lo aveva centrato in pieno viso:

“Dai, continua, sfogati… deve essere brutto che qualcuno abbia scoperto il piccolo segreto di Richard Stoddard-West e del mitico Paul Anderson… continua, scarica la tua rabbia…”

L’altro sembrava non ascoltare le sue parole, aveva di nuovo lo sguardo perso in ricordi lontani e dolorosi, ma stavolta lo avrebbe costretto a condividerli, ad ogni costo:

“Ti ricordi cosa mi hai detto in palestra? ‘non rivolgerti mai più a me in questo modo!’, queste sono state le tue esatte parole… come eri fiero quando ti ribellavi alla mia idea di amore, mentre invece…” continuò con il suo tono più sprezzante.

“Non hai mai capito niente, Mark…” lo interruppe Richard fissandolo gelidamente “…mi ribellavo all’infantilismo con cui tu rivendicavi la profondità del sentimento che pensavi di provare per me, perché io sapevo, io ho conosciuto un amore vero, profondo… un amore capace di distruggermi. E questo è stato un sentimento completamente diverso da quello che credi di provare tu… tu con le tue parole da ragazzino viziato, mentre noi… noi…” gli voltò di nuovo le spalle interrompendosi.

“Non ti fermare Richard, hai la possibilità di sfogarti, perché non ne approfitti? Raccontami la triste storia del tuo…” no, non riusciva a pronunciare la parola ‘amore’, ogni volta che pensava a quei due insieme al suo cuore si aggiungeva una incrinatura “…non ti far pregare, apriti con lo stronzo che pensava di essere innamorato di te e di averti disgustato con la sua rivelazione… sono uno stupido, no? La persona migliore a cui fare delle confidenze… non condividiamo lo stesso peccato?”

“Peccato?” adesso sembrava averlo stupito davvero… “Non ritengo un ‘peccato’ quello che ho vissuto, direi che forse… forse è stato un ‘miracolo’, invece”.

“Certo, il grande Paul Anderson! Sei patetico… ne stai facendo un santino, e invece quello ti ha lasciato solo!”

“Non puoi capire…”

“Spiegami, allora!”

Per la prima volta lo sguardo di Richard tornò di ghiaccio:

“Io non devo spiegarti niente”.

Mark sorrise scuotendo la testa:

“Dovevo saperlo: io ho avuto il coraggio delle mie azioni e dei miei sentimenti, mi sono messo a nudo di fronte a te, ricevendo un trattamento che non augurerei a nessuno, e tu, invece…” lo squadrò dalla testa ai piedi “…sembri forte, ma non lo sei, non sai superare le difficoltà, ti nascondi dietro la tua alterigia per non affrontare la realtà…”

Rimasero in silenzio, le parole di sfida che galleggiavano minacciose tra loro.

Il ragazzo biondo sospirò profondamente, riprendendo ad osservare le gocce di pioggia che ora battevano con più violenza contro il vetro…

“Vuoi davvero sapere? Bene, ti accontenterò… così finalmente la questione sarà chiusa. Sarai contento di avermi costretto a dire quello che pensavo non avrei mai rivelato a nessuno: un altro successo dello studente più temuto e rispettato della StGeorge’s… devi essere davvero fiero, neanche uno Stoddard-West riesce a resistere alla tua autorità!” si interruppe respirando forte per l’impeto con cui aveva pronunciato quelle parole.

Rimase in silenzio per qualche secondo, poi cominciò a raccontare:

“L’ho incontrato per la prima volta ai campionati nazionali. Mio padre è un patito dello sport… anzi dello sport ‘nobile’, e la scherma è uno dei suoi preferiti.

Lo invitò a cenare con noi, e tutti sanno che è impossibile rifiutare l’invito di uno Stoddard-West. Così andammo in un ristorante lussuoso, mia madre, mio padre, io, lui e il suo manager…” fece una pausa, come per dare un ordine a quei ricordi, come per scegliere cosa raccontare “…parlavano soprattutto mio padre ed il suo manager. Mia madre si limitava alla solita prova di attrice, raffinata, leggermente annoiata, distratta.

Rimanevamo noi due, nove anni di differenza che non potevano evitare che ci sentissimo coetanei. I suoi capelli biondi, mossi e morbidi, così diversi dai miei… sembrava più scandinavo che inglese, e gli occhi… quegli occhi che avevano uno sguardo in grado di passarti da parte a parte…”

Mark si sentì attraversare da un brivido gelido: era riuscito a portare l’altro dove voleva, facendogli mettere a nudo anima e sofferenza, ma ogni parola era una pugnalata… ormai, però, dovevano arrivare fino in fondo.

“Ci ritrovammo ad osservarci, lui più direttamente, io con il riserbo che usano gli adolescenti, distogliendo lo sguardo appena vedevo il suo fissarsi su di me. Mi sembrava una creatura diversa in quel mio mondo in cui tutto era fatuità e apparenza. Mi trovai a domandarmi come fosse la sua vita, come fosse la sua famiglia, il suo modo di festeggiare il natale, il suo modo di abbandonarsi al sonno…” Richard scosse la testa, come a sottolineare la sciocchezza dei propri pensieri di allora “…ero incuriosito, mi sarebbe piaciuto conoscerlo meglio, eppure ne ero anche intimidito… cosa poteva farci lui con un ragazzino introverso e silenzioso come me? Eppure quando riusciva a catturare il mio sguardo, il suo viso si ammorbidiva in un sorriso…”.

A Mark non sfuggì quella singola lacrima sottrattasi inavvertitamente al controllo del compagno, ma non disse niente, ognuno di loro stava affrontando un cammino doloroso che sarebbe stato ancora più straziante interrompere.

“Il suo manager mi chiese se anch’io tirassi di scherma. Non riuscii a rispondere, perché mio padre si mise in mezzo, dicendo che ero bravo, ma che avevo bisogno di perfezionare il mio stile. Mi ricordo il silenzio imbarazzato: mio padre ha la dote di chiedere senza essere esplicito, di far credere agli altri di essere loro a voler prevenire i suoi desideri quando in realtà li sta costringendo a farlo.

Questo silenzio che seguì la sua affermazione sulla mia necessità di migliorare fu rotto dalla voce limpida di Paul, che si proponeva di aiutarmi. Era scivolato senza accorgersene nella trappola di mio padre, anche il manager lo aveva capito, e infatti sembrava perplesso. Mio padre non si sarebbe mai lasciato sfuggire quella opportunità, e così furono presi gli accordi per cui Paul ‘poteva’ venire a darmi lezioni nelle pause tra un torneo e l’altro: ovviamente non doveva trascorrere tutta la giornata con me, mio padre lasciava intendere che la maggior parte del tempo la avrebbe comunque avuta a propria disposizione per proseguire la propria preparazione.

E fu così che Paul Anderson venne a Heaven’s Gate, la nostra ‘fastosa’ dimora.

Le prime lezioni mi misero a disagio, avevo paura di mostrare la mia inesperienza, il modo goffo con cui conducevo un assalto, ma lui… lui non era tipo da farti pesare la propria bravura, cercava di rendere l’atmosfera più rilassata terminando i nostri confronti ridendo di qualche battuta, oppure mi mostrava le tecniche che lo avevano sorpreso durante gli scontri internazionali… mi trattava come un fratello.

Cominciai ad attaccarmi a lui, si potrebbe dire che fosse perché era l’unica persona vicina alla mia età che io frequentassi, ma non era così, c’era stato fra noi qualcosa di forte, da subito, qualcosa che ci consentiva di comprenderci con uno sguardo.” 

Mark cercò di ignorare il ronzio sordo che sembrava riempirgli le orecchie:  non voleva perdere una parola di quella sottile tortura, anche se ognuna di loro sembrava uno spillo che gli si conficcava nella carne. Distolse lo sguardo dalla figura in piedi di fronte alla finestra e si perse ad osservare le piccole imperfezioni della lampada attaccata al muro.

Il racconto procedeva:

“Mi sembrava di aver cominciato a vivere, dopo essere stato tenuto in una bara di cristallo per tanto tempo. A volte andavamo a fare passeggiate a piedi, a volte uscivamo a cavallo, oppure andavamo a pranzo fuori, più di rado uscivamo a cena…

Fu proprio dopo una cena da soli, mentre tornavamo sulla sua auto verso casa, che io gli dissi di amarlo. Ancora non so come riuscii a trovare questo coraggio, io che avevo sempre fatto di tutto per erigere una barricata tra me e gli altri, io che non volevo dare a nessuno il potere di ferirmi.

Paul non rise, non mi rimproverò… rimase in silenzio, sembrava meditare su quelle frasi sconclusionate che avevo pronunciato, e io mi aspettavo di sentirlo rispondere da un momento all’altro con parole del tipo ‘facciamo finta che non sia accaduto nulla’, quelle parole…”

Mark lo interruppe:

“Quelle parole che hai rivolto a me”

Richard sembrò risvegliarsi, e ricordarsi improvvisamente che le sue confidenze avevano un pubblico:

“Già quelle parole che sono una via di fuga…

Paul fermò la macchina e si voltò verso di me… mi disse che non poteva accettare quello che gli avevo detto perché andava contro troppe convenzioni, mi disse che eravamo due ragazzi, che avevamo nove anni di differenza, che lui era il mio insegnante ed io il suo allievo, mi disse che i miei sentimenti potevano essere il frutto solo di equilibri sbagliati nel nostro rapporto.

Adesso posso capire cosa volesse dire: certo, io lo ammiravo anche come campione di scherma, ma non era stato di sicuro questo a farmi innamorare di lui, e io sapevo già allora che il sentimento che mi legava a lui era proprio amore. Mi opposi alle sue parole, alla sua interpretazione… e poi ci fu la sua frase rivelatrice: ‘che futuro ci sarebbe per noi?’ e capii, capii che anche per lui era lo stesso che per me. Non erano bastati tutti gli ostacoli che mi aveva elencato per impedire al nostro amore di imporsi. Mentre lui continuava serio le sue spiegazioni, ero io a sorridere, e lui non riusciva a capire perché non lo contrastassi più… alla fine si interruppe e mi chiese cosa avessi, e io glielo dissi:

Ora so che anche tu mi ami ’ .

Lui scosse la testa, mi disse che questo non cambiava niente… ma lo cambiava, eccome: sapevo che ormai era solo questione di tempo, mi sentivo sicuro ed invincibile per quello che avevo intuito.

In quei giorni dovette partecipare ad un torneo a Bath. Non volevo che andasse, ma non c’era niente da fare. Mi feci accompagnare per assistere alla finale… fu quella volta che la spada dell’avversario gli si insinuò tra la maschera e il colletto della divisa, ferendogli il collo. Appena avvenne l’incidente, lo portarono nell’infermeria… nell’agitazione collettiva non ebbi problemi a raggiungerlo.

Era steso sulla branda con la giacca aperta e il collo coperto da un bendaggio di fortuna. Mi avvicinai: riposava con gli occhi chiusi respirando piano. Non potei trattenermi e gli passai le dita tra i capelli... Aprì gli occhi e mi vide… dovevo essere davvero buffo, con la mia espressione tesa e preoccupata!

Non è niente ’ mi disse, ‘solo un graffio ’.

Annuii, senza essere del tutto convinto, poi mi sporsi su di lui abbracciandolo e posandogli la testa sul petto.

Con la mano mi tirò su il viso e mi sorrise.

Fu il nostro primo bacio”.

Rimasero entrambi in silenzio, la pioggia che continuava a battere violenta contro i vetri.

“E poi?” sussurrò piano Mark, come a non voler disturbare il flusso di quei ricordi.

“E poi tornammo a Heaven’s Gate, già, il cancello del cielo, ma in quei giorni mai nome fu più appropriato! I miei genitori erano spesso a Londra, e noi avevamo la massima libertà.

Quella foto la scattammo da soli, proprio allora, utilizzando un cavalletto e lo scatto a tempo della modernissima macchina di mio padre… ora mi sembrano così lontani quei giorni!

La nostra vita era un sogno ininterrotto, una allegria continua, che cominciava con la colazione e terminava quando ci addormentavamo insieme…”

Richard si riscosse:

“Non ti sto scandalizzando troppo, vero Mark? Del resto volevi ‘sapere’…” e lo fissò fieramente.

“Vai avanti” replicò l’altro.

“Probabilmente la nostra felicità era troppo intensa per durare, e ancora più probabilmente questa felicità ci faceva essere imprudenti.

Mia madre tornò una sera, inattesa… molto inattesa. In un insolito slancio materno, probabilmente l’unico che abbia avuto in tutta la propria vita, decise di venire ad ammirare il pargolo dormiente. Ebbene, non mi trovò solo, stavamo dormendo uno nelle braccia dell’altro, non lasciando alcun dubbio su quale dovesse essere il nostro rapporto.

Lei non ci svegliò, non disse niente quella sera, ma si rifece la mattina successiva.

Mi convocò nella sua stanza e arrivò subito al sodo: cosa era successo? Cosa mi aveva fatto? Mi aveva forzato? Una sfilza di domande, una di seguito all’altra, mentre l’orrore le si dipingeva negli occhi. Cominciò a parlare di medici, di psichiatri… e poi di scandali, e infine minacce a Paul, al ‘pervertito’ che aveva approfittato della loro bontà… già, così disse, ‘pervertito’… una parola che una volta hai utilizzato anche tu, Mark, una parola che odio” si interruppe per riprendere fiato, così forte e determinato nel precoce imbrunire autunnale, “Quando insultò Paul, venne fuori tutta la mia rabbia: io, che non avevo mai osato alzare la voce in sua presenza, le urlai in faccia tutto il mio amore per lui, cercai di farle comprendere tutta la mia felicità… le dissi che ero io ad essermi dato a Paul, che lui si era opposto, la implorai di capire…

E invece lei scosse la testa, ne avrebbe parlato con mio padre, mi disse.

Io che sono stato sempre così fiero ed orgoglioso, implorai, pregai, pietii che non lo facesse, che ci lasciasse stare. Piansi, di rabbia, di dolore, di accusa… mi accorsi che era rimasta sconvolta dalla mia reazione, terrorizzata, ma le sue parole bisbigliate mi fecero anche capire che non mi aveva ascoltato:

cosa ti ha fatto… in cosa ti ha trasformato!

No, non riusciva proprio a comprendere.

Non parlò con Paul, mi chiuse in camera e chiamò mio padre: tutto doveva essere fatto seguendo la gerarchia degli Stoddard. E mio padre si rivelò all’altezza del ruolo, mi guardò con disprezzo, mi fece sentire una creatura repellente, riuscì ad umiliarmi con una sola smorfia del viso.

Non ero riuscito ad avvertire Paul, non ero riuscito a dirgli di andare via … niente.

Eravamo tutti e tre ad aspettarlo nello studio di mio padre, un ragazzino senza più speranze e due belve pronte a difendere il ‘territorio’.

Capì subito che qualcosa non andava, del resto le fiamme che uscivano dagli occhi dei miei genitori non lasciavano presagire nulla di buono.

Non voglio neanche più ripensare a quella scena, alla sofferenza sul volto di Paul, al coraggio con cui difese le nostre scelte, al tentativo di prendersi ogni colpa per ciò che era successo, in modo da lasciare me, l’erede degli Stoddard, privo di ogni macchia.

Già, ne emersi come il ragazzino che era stato ingannato, ma detto da lui questo era solo un ultimo atto d’amore.

Mio padre lo minacciò, gli disse che avrebbe fatto sapere a tutti ‘chi’ era Paul Anderson se non fosse scomparso immediatamente da quella casa, dall’Inghilterra, dalla nostra vita. Gli disse che era una persona spregevole, un approfittare, un anormale…

Paul andò via, senza lasciarmi uno sguardo o una parola da ricordare per sempre. Andò a Londra, da dove sarebbe partito per la Francia.

Scappai quella stessa notte e lo raggiunsi a casa sua: quando mi vide non poteva crederci, lo avevo seguito e non volevo lasciarlo. Cercò di convincermi a tornare indietro, a capire i miei genitori; cercò di illudermi che forse un giorno… ma io non gli permisi di parlare.

Fu la nostra ultima notte insieme. Quando mi svegliai se ne era andato: mi aveva lasciato un libro di poesie sul cuscino… già, era il giorno del mio compleanno.

I miei genitori mi ritrovarono subito, ma si ritrovarono con un figlio che sembrava morto. Non li volevo, volevo solo che Paul tornasse da me, ma il giorno dopo seppi che questo non sarebbe mai successo.

Mio padre me lo rivelò sorridendo, soddisfatto che la storia fosse finita: Paul si era sparato in bocca nel suo albergo di Parigi, ventisette anni contro i miei diciotto, la fine più scontata per la nostra storia immorale”.

Ormai la stanza era quasi completamente buia, sarebbe stato necessario accendere la luce, ma nessuno dei due ragazzi sembrava accorgersi dell’oscurità che li avvolgeva.

“Mi dispiace, Richard…”

Ma l’altro sembrava non sentirlo, preso com’era da quel flusso di ricordi:

“E lo sai qual è la cosa peggiore? E’ la rabbia che ho provato per essere stato lasciato solo, per essere stato abbandonato. Paul ha voluto decidere per tutti e due, ha voluto difendermi, fare ‘il mio bene’… e invece io sono morto con lui, quel giorno”.

“Il suo comportamento gli fa onore…” mormorò ancora Mark.

L’altro si voltò di scatto, come se fosse stato morso da una tarantola:

“Onore? Non è sicuramente stata la prima parola che mi è venuta in mente quando sono rimasto solo! Ma tu lo capisci che era tutto per me, che non ci sarà più niente di così intenso in tutta la mia vita?

Una cosa che gli ha fatto onore… non ne aveva bisogno, accidenti! Paul era la persona più nobile che conoscessi, non doveva dimostrare nulla a nessuno! La mia vita… io non sono niente senza di lui!

Io… io aspetto solo di tornare da lui, dal ragazzo che amo… dal ragazzo che ho ucciso”.

L’altro fu colpito dalla sofferenza con cui venivano pronunciate quelle parole, dal tremore che scuoteva il corpo di Richard… quel ragazzo sempre così controllato aveva rivelato la disperazione che nascondeva dietro lo sguardo limpido e neutro, la rabbia del senso di colpa e del rimpianto.

Si alzò e gli mise le mani sulle spalle:

“Calmati, Richard!” esclamò con tono deciso.

Sembrò non sentirlo neanche, così distante in quel momento, con gli occhi vacui e lucidi che sembravano guardare senza vedere.

“Richard…”

Mark era sempre più teso, preoccupato dall’apatia di quel viso fino a pochi minuti prima così intenso.

Lo abbracciò, un abbraccio di puro conforto. Soffriva a sentire quel corpo scosso dai brividi, soffriva per il dolore che aveva risvegliato con la propria curiosità, soffriva perché erano più vicini e contemporaneamente più lontani di quanto fossero mai stati durante tutti quei giorni alla StGeorge’s.

“Richard…” sussurrò dolcemente.

I sussulti sembrarono diminuire, ma l’espressione rimaneva impenetrabile, lo sguardo fisso su un punto lontano.

Lo adagiò piano sul letto coprendolo con una coperta. Contemporaneamente cominciò ad accarezzargli la schiena…

“Vai via” gli sentì bisbigliare, ma non se ne andò. Gli sembrava che questo contatto, che il calore della propria vicinanza riuscisse a calmare lentamente il tremore di quel corpo così scosso.

In quel pomeriggio sentiva di essere maturato più che dopo anni e anni passati a studiare. Aveva scoperto molte cose, e si era sentito inadeguato, infantile. Tutto gli girava vorticosamente intorno, rimaneva il solo punto fermo di quel ragazzo che avrebbe difeso da ogni sofferenza, comunque si fosse evoluto il loro rapporto.

Piano piano la tensione accumulata in quelle ore cominciò a farsi sentire. Chiuse gli occhi: sarebbe rimasto finché l’altro non si fosse rilassato, poi sarebbe tornato nella propria stanza.

 

La mattina dopo era ancora lì. Si era svegliato presto, ma ormai non aveva senso andar via, e poi voleva assicurarsi che Richard stesse bene.

Rimase ad osservarlo mentre dormiva. Sembrava più tranquillo, sebbene ogni tanto si lamentasse leggermente.

Erano quasi le sette, quando si accorse che si stava svegliando.

Nel momento in cui Richard aprì gli occhi, Mark gli sorrise.

Probabilmente avrebbe dovuto dare qualche spiegazione, e infatti…

“Che… che ci fai nel mio letto!” lo sentì esclamare.

Non sapeva perché, ma gli venne da sorridere:

“E’ la decima regola del codice Grant: io posso dormire dove voglio! E non provare a colpirmi di nuovo perché stavolta ti spacco la faccia” lo provocò, sperando di non aver usato le parole sbagliate.

Richard lo fissò a lungo, poi abbassò lo sguardo sulla coperta che lo copriva:

“Sei stato tu?” chiese.

“Fa freddo di notte, e gli spilorci che gestiscono questa topaia risparmiano sul riscaldamento…”

“Però tu hai dormito senza”

“Purtroppo è la prova delle mie buone intenzioni: non intendevo rimanere” e abbassò lo sguardo. Cercava di avere un tono leggero, ma quello che avevano condiviso era continuamente tra loro.

Rimasero in silenzio per qualche istante, sdraiati uno accanto all’altro, entrambi persi nei propri pensieri.

Fu Richard il primo a parlare:

“Davvero lascerai la StGeorge’s?” chiese lentamente.

“Non lo so: avevi ragione, ieri. Volevo andare via per quello che era successo, per l’umiliazione” rivelò con sincerità.

“Beh, adesso sai che non è necessario…”

“Già… ma…” si alzò su un gomito per guardare il compagno “…tu saresti più a tuo agio se andassi via, credo”

Che cosa demente da dire! Cosa gliene fregava all’altro di quello che avrebbe fatto lui…

Anche Richard lo guardò:

“No. Non te ne andare… sono sicuro che ora potremo diventare amici” e gli sorrise.

 

IL COLLEGIO parte IV – The End



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