Per Ria, Nausicaa, Angie e
Calipso.
Il Collegio parte
IV
di Greta
“Io non voglio essere
tuo amico, ho mentito… ho mentito perché non è amicizia il sentimento
che provo per te… io ti amo…”.
Aveva davvero
pronunciato quelle parole? Sì, lo aveva fatto, c’era riuscito, e adesso
non restava che aspettare, sperare… per la prima volta senza poter usare
la forza per avere la risposta desiderata.
Continuò a tenere lo
sguardo fisso negli occhi di Richard, cercando di leggere i pensieri che
li attraversavano… ma non ci riuscì: sembravano solo pieni di
incredulità, forse di rabbia.
“Richard…” mormorò.
L’altro continuava a
non rispondere, poi si alzò lentamente in piedi voltandogli le spalle.
“Richard…” ripeté,
aspettando una reazione, una parola.
“Non aggiungere
altro… per favore” fu appena un sussurro quello che lo raggiunse.
Chiuse gli occhi… non
aveva ricevuto uno schiaffo in viso, ma l’effetto era quello, anzi…
forse peggiore.
“No! Non rimarrò in
silenzio! Preferisci vivere nel tuo mondo di vetro, vero? Beh, non te lo
permetterò…”
Si alzò in piedi,
avvicinandoglisi:
“Ti amo, non ho paura
ad ammetterlo… ti ho amato dal primo momento in cui ti ho visto, sono
sicuro che tu sia fatto per me…”.
“Smettila… non
voglio ascoltarti! Non sai quello che stai dicendo!”.
“Lo so benissimo,
invece, e voglio che tu mi risponda…” e gli afferrò un braccio,
strattonandolo per costringerlo a guardarlo in viso.
Richard si divincolò
immediatamente, lo sguardo stavolta carico di rabbia:
“Lasciami stare!
Preferisco far finta di non aver sentito quello che hai detto…” gli
sibilò.
Per un istante Mark non
riuscì a trovare la forza di replicare… non pensava assolutamente che
Richard avrebbe reagito in quel modo… senza voler dare credito o
importanza alle parole che più gli era costato pronunciare in tutta la
propria vita.
“Io ti amo…”
ripeté in un sussurro.
“Non lo dire! Non è
vero! Tu non mi conosci, non sai… non sai di come si ama una persona,
della sofferenza…” Richard si interruppe, respirava a fatica.
“L’amore non è
necessariamente sofferenza… e io sono sicuro che per noi non sarà così!”
ribatté lui deciso.
L’altro sorrise
amaramente scuotendo la testa, poi, dopo qualche istante di silenzio,
mormorò:
“Ti
prego, Mark, non rivolgerti mai più a me in questo modo. Sai anche tu di
stare dicendo delle idiozie…” e se ne andò senza permettergli di
aggiungere altro.
Scivolò di nuovo sul
pavimento appoggiando la nuca alla parete fredda dello spogliatoio. Si
sentiva svuotato, sentiva di aver sostenuto la battaglia più dura della
propria vita e di avere perso.
Richard non lo
ricambiava, non solo, sembrava non voler accettare quelle parole. Chissà
perché aveva pensato che l’altro non lo avrebbe mai trattato in quel
modo, che, anche non corrispondendo ai suoi sentimenti, avrebbe creduto
alla sincerità di quello che gli avrebbe detto… e invece c’era stata
solo incredulità.
L’amore era
sofferenza? Beh, forse Richard non aveva completamente torto, lui da
quando si era innamorato non aveva fatto che accumulare delusioni… non
aveva fatto che sbagliare.
Eppure continuava ad
esserci qualcosa che non comprendeva, qualcosa che aveva a che fare con la
ragazza della dedica sul libro, qualcosa che doveva essere la causa della
sofferenza che leggeva sul volto del compagno quelle rare volte in cui
lasciava cadere la maschera.
Abbassò la testa sulle
ginocchia: tutto il peso della tensione di quel pomeriggio sembrava
essergli crollato improvvisamente sulle spalle, eppure la sua mente era
sgombra… o forse era meglio dire che era una ‘tabula rasa’… non
riusciva a pensare a niente, neanche alle parole che erano state appena
pronunciate in quello spogliatoio… era stanco, la battaglia lo aveva
fiaccato e adesso aveva solo voglia di buttarsi sul proprio letto e
dormire un sonno senza sogni.
E questo fu esattamente
quello che successe… un sonno profondo, senza sogni, che lo fece
svegliare con la testa pesante e il cervello annebbiato.
Se solo quei pochi
giorni che lo separavano dalla vacanza con i genitori fossero potuti
trascorrere con uno schiocco di dita…
Era diventato un
vigliacco? Voleva scappare? Sì, perché si sentiva come quei cani che
hanno bisogno della solitudine per curarsi le ferite. In quel momento si
sentiva debole, chiunque avrebbe potuto colpirlo in profondità e, una
volta che fosse stato colpito, non avrebbe potuto far altro che chinare il
capo.
Si guardò allo
specchio… il viso era tirato, gli occhi stanchi: cercò di mimare la
smorfia di superiorità e disgusto che per tanto tempo gli era stata
naturale… e invece, che ridicola pantomima!
Ma non doveva… non
poteva lasciarsi andare! Era un’altra prova, un’altra prova per
dimostrarsi di avere un carattere inattaccabile; si sciacquò il viso con
l’acqua fredda del catino e si passò il pettine tra i capelli… adesso
doveva affrontare gli altri, andare ai bagni comuni, rivendicare il
diritto inalienabile a essere il primo, ad essere servito e temuto…
tutto doveva tornare come prima.
Era più facile a dirsi
che a farsi!
Si sentiva uno zombie
mentre avanzava per quel corridoio che non gli era mai sembrato così
lungo, si sentiva un attore di quart’ordine mentre quel poco di orgoglio
che gli rimaneva lo obbligava a fingere una espressione impassibile.
Si infilò sotto la
doccia e chiuse gli occhi: l’acqua sembrava di nuovo gentile mentre gli
accarezzava i muscoli indolenziti… si risciacquò dal sapone e si
avvolse nell’asciugamano. Non si guardò intorno, preferiva non sapere
chi altro fosse insieme a lui.
Si vestì in fretta, e,
cercando di riprendere la usuale espressione di superiorità, uscì dalla
stanza raddrizzando le spalle. E proprio sulla porta incrociò la persona
che meno aveva voglia di vedere.
Gli occhi gli si
allargarono leggermente per la sorpresa, ma li strinse ricomponendosi: non
si sarebbe fatto vedere sofferente o umiliato.
Distolse lo sguardo con
disprezzo e passò oltre. Sentì gli occhi di Richard seguirlo, ma non
volle vedere cosa potesse esserci nascosto dentro. Già si sentiva
tremare, non voleva altro che allontanarsi e cercare di recuperare il
proprio sangue freddo.
Doveva sbrigarsi a
parlare con il padre, così sarebbe riuscito ad andare via, sì, e nel
frattempo doveva tenere duro…
In classe ormai non
riusciva più a stare attento, del resto quegli insegnanti falliti non
meritavano certamente il suo rispetto, tutti tronfi per il discutibile
prestigio di far parte della StGeorge’s.
E poi si scoprì a
cercare di evitare gli altri compagni, oppure, quando era costretto ad
interagire con loro, a comportarsi in maniera più crudele di quanto
avesse mai fatto. La rabbia che sentiva in corpo trovava il proprio sfogo
nel disprezzo per le persone che aveva attorno, deboli e sciocche e
incapaci di reagire alle ingiustizie che lui compiva con leggerezza:
persone senza carattere, in certi casi addirittura desiderose di trovare
qualcuno che le calpestasse.
Furono giorni lunghi,
che sembravano non voler terminare mai, ma finalmente arrivò il venerdì
che avrebbe portato al lungo ponte di ognissanti.
Appena terminate le
lezioni, si ritirò nella propria stanza per preparare le poche cose che
voleva portarsi via, le altre le avrebbe prese al suo ritorno, quando il
padre lo avrebbe accompagnato per parlare con il preside.
Si guardò intorno con
rabbia, e forse anche con una piccola punta di tristezza: si sentiva un
vigliacco, ed era una sensazione che gli dava fastidio, che non aveva mai
provato prima.
Uscì con la sacca in
mano, e mentre chiudeva la porta si accorse che anche Stoddard stava
uscendo. Era la prima volta, dal pomeriggio in palestra, che si
ritrovavano soli. Mark si limitò ad un cenno con la testa, il minimo che
veniva richiesto ad un gentleman… e loro dovevano esserlo, lo imponeva
il loro stato sociale.
“Buona vacanza…”
si sentì mormorare.
Stava per dirgli di
andarsene al diavolo, ma si limitò ad annuire brevemente. Niente scenate,
si sarebbero lasciati con dignità… già i loro rapporti avevano
oltrepassato troppi limiti.
Si avviarono insieme,
nonostante lui avesse aspettato, sperando che l’altro scendesse prima di
lui. Sul grande portone dovette girarsi verso il compagno:
“Addio Richard”
sibilò, portando lo sguardo sul cortile dove si accumulavano le
automobili lussuose che venivano a ritirare i rampolli parcheggiati
nell’antica istituzione.
“Arrivederci, Mark”
rispose l’altro. Un tono basso, ma neutro, come se niente fosse
accaduto… già, il solito rifugio per quelli del loro mondo, chiudere
gli occhi ed andare avanti.
Il viaggio in auto fu
lungo, il StGeorge’s non era il collegio più vicino alla grande casa
che i genitori avevano scelto come ‘dimora di famiglia’… era un
viaggio che dava tempo per pensare, proprio quello che lui voleva
assolutamente evitare.
“Mark!” il padre lo
accolse con voce ferma, virile, un sorriso posato, esattamente quello che
ci si aspettava quando un uomo del loro mondo rivedeva il proprio figlio.
La madre fu più fuori
parte:
“Vieni qui,
figliolo!” e lo abbracciò stretto. Lui si abbandonò tra quelle
braccia, ma riuscì a trattenersi dal rivelare anche una minima parte
della pena che lo torturava.
Tornò nella propria
stanza, quella stanza che conteneva tutte le cose che aveva accumulato da
quando era bambino: si sentì confortato da quegli oggetti, gli sembrava
di ricevere l’abbraccio di quella casa e se ne lasciò catturare,
sperando che riuscisse ad allontanarlo dal ricordare quella scena che si
era svolta negli spogliatoi.
“Sei stato molto
silenzioso in questi giorni” notò il padre la mattina dell’ultimo
giorno di vacanza.
Erano stati quattro
giorni tranquilli, in cui Mark aveva cercato di pensare solo alle cose che
coinvolgevano il soggiorno con i genitori, cercando di evitare di pensare
a tutti i problemi legati al StGeorge’s, e questo aveva fatto sì che
non fosse ancora riuscito a parlare con i genitori della propria volontà
di cambiare collegio.
“Tua madre è
preoccupata per te” continuò il padre, ritenendo che a questo punto una
sua spiegazione fosse d’obbligo.
“Non c’è niente
che non vada, solo…”
“Solo?” fu
l’invito a continuare.
“In questi giorni sto
pensando al mio futuro, e alla scelta di rimanere per quest’ultimo anno
alla StGeorge’s…”
Il famoso avvocato
Harold Grant non era certo tipo da saltare a conclusioni affrettate, saper
cogliere il giusto momento per ascoltare e il giusto momento per parlare
era una delle cose principali che gli aveva insegnato il proprio lavoro:
“Spiegati
meglio…”
Mark si rilassò contro
lo schienale della poltrona:
“Abbiamo già parlato
del mio desiderio di intraprendere la carriera diplomatica, e mi era
sembrato di capire che tu fossi d’accordo con la mia scelta” cominciò.
Il padre annuì:
“Infatti sono
contento della tua ambizione…”
“Ecco, nonostante il
StGeorge’s sia uno dei collegi più rinomati di Inghilterra, la scorsa
estate, parlando con John Irving…”
Sir James Irving era
uno dei principali clienti del padre, un lord molto facoltoso con
numerosissime proprietà sparse per tutto il Commonwealth e con un seggio
di quelli ‘pesanti’ alla camera alta.
Il padre aveva sempre
caldeggiato la frequentazione tra Mark e lo scialbo John Irving, il figlio
cadetto di Sir James, un ragazzo debole e malaticcio che voleva diventare
ambasciatore in qualcuna delle ex colonie.
“…parlando con John
Irving mi sono reso conto che il taglio che danno a Cambridge allo studio
dell’economia applicata alla politica è più moderno di quello che la
StGeorge’s ha deciso di adottare decenni fa… mi è sembrato come se
alcune mie cognizioni sapessero di muffa e di favole per bambini, e questo
mi ha preoccupato…” lo aveva detto sfoggiando un perfetto
atteggiamento ‘impensierito’.
“Capisco… però non
sempre seguire le mode si rivela un vantaggio…”
“Ne convengo, ed è
questo che mi ha impedito di parlartene prima… mi sembrava che tutto
sommato potesse andare bene anche la preparazione data dalla StGeorge’s,
però ultimamente ho ritrovato alcune delle teorie di cui mi parlava John
in un intervento del Cancelliere, e a me è sembrato di essere colto
impreparato… temo di essere stato educato su un modello che andava bene
ai tempi di Disraeli…”
Il padre sorrise, gli
piaceva come parlava il figlio, il suo tono pacato, le argomentazioni
circostanziate ma piene anche di momenti di certezza assoluti da cui
emergevano improvvisamente i dubbi e il desiderio di una guida, normali a
quell’età.
“E adesso a che
conclusione sei giunto?” chiese, continuando a mescolare il proprio tè.
“Beh, stavo pensando
di non concludere quest’ultimo anno alla StGeorge’s… mi rimarrebbe
sempre come curriculum, ma nello stesso tempo potrei trarre anche i
vantaggi della frequentazione di un college altrettanto facoltoso ad
Oxfordbridge…”
“Pensavi al Trinity?”
“Quello, o il
King’s College… non so, potremmo cercare di farci consigliare…”
Il padre alzò lo
sguardo su di lui:
“Sai bene che per me
non sarebbe assolutamente un problema, trasferirti. Tra l’altro saresti
ancora più vicino a casa, e per tua madre questo è importante, però…
però non vorrei che oltre alle motivazioni che mi hai dato, che peraltro
ritengo molto valide, ci sia qualche altra cosa… non devo preoccuparmi,
vero?”
Ecco, questo sarebbe
stato il momento più duro della recita familiare. In realtà sperava di
essere riuscito a cavarsela così bene da poterlo evitare, ma il padre era
o no un brillante avvocato? Non era la sua specialità comprendere dalle
parole dei testimoni quelli che erano i loro pensieri più reconditi?
Finì di bere il suo tè:
“No, non ci sono
altri motivi” disse lentamente “E forse neanche quelli che ti ho
esposto dovrebbero poi preoccuparmi tanto… probabilmente mi sto
allarmando troppo. Vorrei solo che tu mi dessi un suggerimento, visto che
sono un po’ confuso. Magari potremmo aspettare un po’ prima di
prendere una decisione definitiva, e intanto guardarci intorno…”
Il padre rimase a
fissarlo per qualche lungo secondo, poi la sua espressione si rilassò in
un sorriso:
“Vuoi il mio
consiglio? Beh, sono d’accordo con te, figliolo. Se c’è una scuola
che può darti una preparazione migliore della StGeorge’s sono d’accordissimo
a fartici trasferire. Mi informerò, magari proprio con Sir James Irving;
tu intanto dovresti cercare di capire se cambiare College è proprio
quello che vuoi”.
Padre e figlio si
sorrisero nuovamente: erano entrambi abili, ma a volte si dice che gli
allievi superino i maestri.
Il giorno dopo Mark
tornò alla StGeorge’s.
Il trasferimento non
sarebbe stato immediato, come aveva sperato prima di raggiungere la casa
dei genitori, ma la sua furbizia gli aveva suggerito di non forzare troppo
la situazione. Adesso non restava che aspettare notizie dal padre, oppure,
alle brutte, sollecitarle.
La prima sera la
trascorse in biblioteca, a ridere dell’involontaria comicità di una
biografia di Nelson che gli aveva consigliato il professore di Storia...
Si sentiva bene, il conforto di una via di uscita lo aveva fatto
rinascere: non era più stretto in un angolo, e questo gli dava
l’energia per riprendere la vecchia distaccata autorità, per continuare
ad essere il gelido e severo Mark Grant che tutti gli studenti del
collegio conoscevano e temevano.
E Richard? Anche lui
gli faceva meno paura, era come se la possibilità di essere trasferito
costituisse una specie di bacchetta magica in grado di far sparire tutte
le persone che aveva intorno, anche Richard Stoddard-West.
Eppure… eppure quei
sentimenti che aveva visto nascere dentro di sé non erano diventati più
deboli, né le reazioni quando sentiva la voce o la presenza di Richard
vicino a sé meno intense.
Passarono abbastanza
tranquillamente circa dieci giorni. Durante un buio pomeriggio di studio
di metà novembre, arrivò la telefonata che stava aspettando…
“Se sei ancora
deciso, Mark, ho parlato sia con il preside del Trinity sia con quello del
King’s… sono entrambi felicissimi di accoglierti fra i loro studenti.
Pensaci e fammi sapere il prima possibile” gli aveva detto il padre,
usando le stesse parole che il figlio si era ripetuto per addormentarsi in
tutte quelle sere.
Era fatta, poteva
lasciarsi tutto alle spalle. Non c’era più niente a trattenerlo, e poi
era sicuro che si sarebbe trovato bene anche in una scuola differente, il
carisma non gli mancava, e non aveva mai impiegato molto per far capire
agli altri di essere un leader.
Suo padre gli aveva
chiesto di pensarci, non aveva voluto accettare una risposta immediata, e
lui si era subito piegato a quella richiesta… cosa gli costavano poche
ore in più? Ormai sapeva che sarebbe andato via.
La parola fuga
continuava a ronzargli nella testa, ma sapeva che era solo il suo cervello
pieno di orgoglio a suggerirla, quasi per metterlo alla prova.
Finì di studiare, più
per abitudine e perché teneva a non rimanere indietro che perché dovesse
ancora aver paura delle interrogazioni, poi riprese tutti i libri dal
proprio armadietto e dal ripiano del banco. Tanto valeva cominciare a
raccogliere la propria roba.
Salì le scale
faticosamente, sotto il dolce peso della cultura, poi abbassò la maniglia
della propria stanza con il gomito ed entrò.
“Ti sono caduti
questi…”
La voce che pronunciò
queste parole da qualche parte dietro di lui ebbe l’effetto di lasciarlo
impietrito… era una voce che aveva continuato a sentire, anche se di
rado, ma che non gli si era più rivolta direttamente.
“Mh! Lasciali a
terra, li prenderò dopo” decise per il tono gelido, non era il caso di
perdersi in chiacchiere.
Ma stavolta l’altro
sembrava mostrarsi tanto persistente quanto lo era stato lui in altre
occasioni:
“Perché stai
raccogliendo tutta la tua roba?”
“Non credo che la
cosa debba interessarti” riuscì a dire, finalmente poggiando il carico
sulla scrivania.
“Già… forse no”
Perché diavolo
rimaneva là dietro? Perché non lo lasciava in pace? Non gli aveva ancora
rivolto un numero sufficiente di insulti?
“Senti, io volevo
dirti… beh, scusami per il tono utilizzato l’altra volta, tutto qui”
la voce gelida di Richard lo fece sobbalzare, ma non diede segno di aver
sentito, limitandosi ad aspettare che l’altro se ne andasse via.
Scusami! Pensava
davvero che bastasse così poco dopo quello che si erano detti?!
Vaffanculo!
Lo aveva trattato come
uno straccio, le sue frasi erano state una sequenza ininterrotta di calci
in faccia, e adesso diceva ‘scusami’… sapeva… poteva anche solo
sospettare come si era sentito a vedere i propri sentimenti sottovalutati,
considerati vuoti e infantili, proprio quando si era mostrato più
vulnerabile?
Scusami.
Stronzo!
Ma una cosa poteva
ancora fare, una ultima cosa poteva farla per far capire al piccolo lord
quanto quello che era successo fosse stato doloroso per lui… certo!
poteva dargli la notizia in anteprima, chissà come sarebbe stato contento
di sapere che finalmente riusciva a liberarsi di lui, chissà come si
sarebbe sentito forte vedendo quanto in profondità era riuscito a
colpirlo!
Attraversò il
corridoio e bussò deciso, come aveva fatto tutte le volte che aveva
tentato di entrare in quella stanza. Guardò l’etichetta attaccata al
muro a fianco della porta, e per un momento gli rivenne in mente quella
mattina in cui l’aveva vista per la prima volta, quando si era
immaginato il piccolo Lord grasso e lentigginoso… ne era passato di
tempo, gli sembrava che allora fosse ancora intriso dell’ingenuità di
un bambino.
Sentì l’invito ad
entrare, e aprì la porta. Richard era seduto al tavolo, l’attenzione
appena distolta dal libro che stava leggendo.
“Me ne vado, Stoddard”
Vide uno sguardo
incredulo negli occhi dell’altro.
“Probabilmente mi
trasferirò al Trinity, l’ho appena saputo da mio padre. Dovrai trovare
qualcun altro da prendere a pugni o da battere con la spada” terminò
accennando un sorriso falso.
“Perché?” chiese
Richard, fissandolo come se cercasse di leggere la risposta sul suo viso.
“Per la mia
carriera… il Trinity costituirà un miglior trampolino per lo scopo che
intendo raggiungere” cercò di dirlo con leggerezza, come se la cosa
fosse semplice e dovesse essere chiara a tutti.
“La StGeorge’s ha
una tradizione altrettanto valida” obiettò l’altro “Io… io spero
che la tua scelta non sia stata influenzata da quanto successo tra di noi.
Per me è come se quel pomeriggio non fosse mai esistito”.
Mark sorrise:
“Grazie, hai il
comportamento di un gentleman, i tuoi avi Stoddard sarebbero fieri di te.
I miei natali sono più umili, e noi borghesi siamo educati a non
dimenticare… il nostro cervello è l’unica cosa che possiamo
utilizzare per emergere, e se potessi dimenticare così in fretta vorrebbe
dire che il mio non vale poi tanto”.
Dall’espressione
dell’altro capì che la stoccata era andata a segno… ma forse sarebbe
stato più utile che fosse successo durante il loro scontro in pedana.
Si sentì bussare
contro la porta: era il controllore del piano.
“Una telefonata per
lei, Stoddard, sua madre” annunciò.
Richard si alzò
stancamente dalla sedia, sembrava che i movimenti lo affaticassero.
“Non andare via, non
abbiamo terminato. Impiegherò poco, è la solita telefonata settimanale
di controllo” mormorò lentamente.
L’altro annuì,
preparandosi ad un’attesa senza più tensione: quello che doveva dire lo
aveva detto.
Si guardò intorno,
anche quella stanza gli sarebbe mancata? No, non era niente senza la
persona che ci viveva. Si alzò e si avvicinò al tavolo per guardare
fuori dalla finestra i prati sconfinati della StGeorge’s… presto altri
paesaggi si sarebbero rivelati al suo sguardo.
Si sedette stancamente:
forse avrebbe fatto meglio ad andare via, che senso aveva prolungare
quella sciocca rappresentazione di orgoglio ferito? E invece sembrava
incapace di dileguarsi, e rimase lì a far vagare lo sguardo sugli oggetti
che riempivano la giornata dell’altro.
Portando la propria
attenzione sul tavolo, si accorse che il libro che Richard stava leggendo
era sempre quello di Tennyson… possibile che fosse tanto importante per
lui?
Distolse gli occhi,
rivedendo l’espressione con cui l’altro gli aveva gridato la
sofferenza di questo suo amore… ma non voleva pensarci, eppure, come in
trance, aprì nuovamente quel libro e rilesse quella dedica che già una
volta gli aveva trapassato l’anima:
Con tutto il mio
amore… e poi una P.
Aprì a caso, era un
libro che sembrava essere stato molto ‘vissuto’, con il dorso viziato
dalle continue aperture che avevano interessato le pagine consultate più
spesso. E proprio alle pagine più ‘amate’ lo riportò una apertura
casuale.
Presto smise di cercare
di cogliere qualche parola di quei versi, e cominciò a sfogliare le
pagine velocemente, facendo scorrere i fogli come se fossero carte di un
mazzo da gioco.
Qualcosa cadde
inavvertitamente… si piegò per recuperare il cartoncino bianco: una
foto.
La raccolse e la studiò
lungamente… il suo cervello non impiegò che un istante e la fitta
nebbia che avvolgeva Richard Stoddard-West sembrò squarciarsi,
lasciandolo con gli occhi sbarrati e il respiro corto ad afferrare
finalmente molte cose… forse troppe, tutte insieme.
Avrebbe fatto ancora in
tempo ad andare via, ma in quella sfida non si erano mai risparmiati
niente, perché farlo sul finale?
Trattenne tra le mani
il libro in cui aveva nuovamente riposto la fotografia: si era messo
completamente a nudo con Richard, adesso toccava all’altro essere
finalmente sincero, dopo tutte quelle parole.
Quando dopo pochi
minuti il compagno rientrò nella stanza, lui non disse nulla, limitandosi
a guardarlo con il libro ancora stretto tra le mani.
Il sguardo del ragazzo
biondo lo attraversò interrogativo, ma lui mantenne ancora per qualche
istante quel silenzio che metteva a disagio.
Dove erano rimasti?
“Mi stavi dicendo che
quel pomeriggio è come se non fosse esistito…” ora aveva ritrovato la
sicurezza per alludere a quello che era successo fra loro senza
imbarazzo… già, certamente non era più imbarazzo quello che sentiva.
Dopo quello che aveva capito poteva provare pena, ma forse era più giusto
dire che il sentimento che lo stava dilaniando era piuttosto gelosia,
feroce e vorace.
“Sì, per me è
esattamente così, quindi se è questo che ti preoccupa…” anche lo
sguardo di Richard sembrava meno timido, era come se fosse all’erta,
come se avesse capito che qualcosa era cambiato nell’atmosfera.
“Sono belle le poesie
di Tennyson…” proseguì Mark, apparentemente cambiando discorso
“…era parecchio che non le sfogliavo”
Gli occhi di Richard
adesso rivelavano un chiaro lampo di panico, o forse proprio di terrore.
“Perché non me lo
hai detto, Stoddie?” la voce di Mark non accusava e non disprezzava,
sembrava inspiegabilmente atona: “Perché hai permesso che mi sentissi
sporco, che mi sentissi ignobile per quello che provavo, per quei miei
sentimenti che ti costringevo ad affrontare?”
L’altro scosse la
testa, come a dire che non voleva sentire altro, e che comunque non
capiva.
“Dovresti nascondere
meglio le cose a cui tieni, o forse stare più attento a chi fai entrare
nella tua camera…” stava giocando al gatto col topo, e sapeva che non
era giusto, ma si sentiva molte cose in quel momento, e le principali
erano ‘arrabbiato’ e ‘geloso’.
“E’ caduta una foto
dal tuo libro di poesie… con tutto il mio amore, P” citò
amaramente.
Rimasero in silenzio
per qualche minuto, ognuno con lo sguardo fisso e lontano, persi nel
tatticismo di quell’ennesimo scontro.
“P come…”
“Non farlo!” mormorò
Richard.
“Perché, perché tu
possa continuare a nasconderti? P come… Paul Anderson, non è così?”
Il compagno gli voltò
la schiena, gli occhi presi a seguire il percorso bagnato delle gocce di
pioggia lungo il vetro.
“E’ una bella
foto… come avete fatto per farvela scattare? Non è una posa canonica,
direi proprio di no, e cos’era, il prato della residenza dei tuoi? Un
po’ impudenti…” ghignò riuscendo solo ad emettere un verso roco.
“Smettila…”
“Sarebbe facile,
vero? Ma non mi fermerò.
Lui è davvero
protettivo, con le braccia allacciate sul tuo petto, mentre guardate
l’obiettivo ridendo… bella foto, i tuoi genitori dovrebbero metterla
nella galleria di famiglia… il loro figlio con il campione di scherma
che hanno preso per fargli da maestro… e che invece se lo scopa.
Non è così? Facevi tanto il pudico quando ti ho baciato, e invece chissà
quante volte ti sei fatto sbattere da questo bast…”
Non riuscì a
terminare. Aveva già sperimentato parecchie volte che una delle reazioni
più immediate di Richard alle offese era prenderlo a pugni, ma anche
stavolta non aveva voluto dare importanza alla cosa…
E così si ritrovò
accasciato sul pavimento, piegato in due per il dolore di quel pugno che
lo aveva centrato in pieno viso:
“Dai, continua,
sfogati… deve essere brutto che qualcuno abbia scoperto il piccolo
segreto di Richard Stoddard-West e del mitico Paul Anderson… continua,
scarica la tua rabbia…”
L’altro sembrava non
ascoltare le sue parole, aveva di nuovo lo sguardo perso in ricordi
lontani e dolorosi, ma stavolta lo avrebbe costretto a condividerli, ad
ogni costo:
“Ti ricordi cosa mi
hai detto in palestra? ‘non rivolgerti mai più a me in questo modo!’,
queste sono state le tue esatte parole… come eri fiero quando ti
ribellavi alla mia idea di amore, mentre invece…” continuò con il suo
tono più sprezzante.
“Non hai mai capito
niente, Mark…” lo interruppe Richard fissandolo gelidamente “…mi
ribellavo all’infantilismo con cui tu rivendicavi la profondità del
sentimento che pensavi di provare per me, perché io sapevo, io ho
conosciuto un amore vero, profondo… un amore capace di distruggermi. E
questo è stato un sentimento completamente diverso da quello che credi di
provare tu… tu con le tue parole da ragazzino viziato, mentre noi…
noi…” gli voltò di nuovo le spalle interrompendosi.
“Non ti fermare
Richard, hai la possibilità di sfogarti, perché non ne approfitti?
Raccontami la triste storia del tuo…” no, non riusciva a pronunciare
la parola ‘amore’, ogni volta che pensava a quei due insieme al suo
cuore si aggiungeva una incrinatura “…non ti far pregare, apriti con
lo stronzo che pensava di essere innamorato di te e di averti disgustato
con la sua rivelazione… sono uno stupido, no? La persona migliore a cui
fare delle confidenze… non condividiamo lo stesso peccato?”
“Peccato?” adesso
sembrava averlo stupito davvero… “Non ritengo un ‘peccato’ quello
che ho vissuto, direi che forse… forse è stato un ‘miracolo’,
invece”.
“Certo, il grande
Paul Anderson! Sei patetico… ne stai facendo un santino, e invece quello
ti ha lasciato solo!”
“Non puoi
capire…”
“Spiegami, allora!”
Per la prima volta lo
sguardo di Richard tornò di ghiaccio:
“Io non devo
spiegarti niente”.
Mark sorrise scuotendo
la testa:
“Dovevo saperlo: io
ho avuto il coraggio delle mie azioni e dei miei sentimenti, mi sono messo
a nudo di fronte a te, ricevendo un trattamento che non augurerei a
nessuno, e tu, invece…” lo squadrò dalla testa ai piedi “…sembri
forte, ma non lo sei, non sai superare le difficoltà, ti nascondi dietro
la tua alterigia per non affrontare la realtà…”
Rimasero in silenzio,
le parole di sfida che galleggiavano minacciose tra loro.
Il ragazzo biondo
sospirò profondamente, riprendendo ad osservare le gocce di pioggia che
ora battevano con più violenza contro il vetro…
“Vuoi davvero sapere?
Bene, ti accontenterò… così finalmente la questione sarà chiusa.
Sarai contento di avermi costretto a dire quello che pensavo non avrei mai
rivelato a nessuno: un altro successo dello studente più temuto e
rispettato della StGeorge’s… devi essere davvero fiero, neanche uno
Stoddard-West riesce a resistere alla tua autorità!” si interruppe
respirando forte per l’impeto con cui aveva pronunciato quelle parole.
Rimase in silenzio per
qualche secondo, poi cominciò a raccontare:
“L’ho incontrato
per la prima volta ai campionati nazionali. Mio padre è un patito dello
sport… anzi dello sport ‘nobile’, e la scherma è uno dei suoi
preferiti.
Lo invitò a cenare con
noi, e tutti sanno che è impossibile rifiutare l’invito di uno
Stoddard-West. Così andammo in un ristorante lussuoso, mia madre, mio
padre, io, lui e il suo manager…” fece una pausa, come per dare un
ordine a quei ricordi, come per scegliere cosa raccontare “…parlavano
soprattutto mio padre ed il suo manager. Mia madre si limitava alla solita
prova di attrice, raffinata, leggermente annoiata, distratta.
Rimanevamo noi due,
nove anni di differenza che non potevano evitare che ci sentissimo
coetanei. I suoi capelli biondi, mossi e morbidi, così diversi dai
miei… sembrava più scandinavo che inglese, e gli occhi… quegli occhi
che avevano uno sguardo in grado di passarti da parte a parte…”
Mark si sentì
attraversare da un brivido gelido: era riuscito a portare l’altro dove
voleva, facendogli mettere a nudo anima e sofferenza, ma ogni parola era
una pugnalata… ormai, però, dovevano arrivare fino in fondo.
“Ci ritrovammo ad
osservarci, lui più direttamente, io con il riserbo che usano gli
adolescenti, distogliendo lo sguardo appena vedevo il suo fissarsi su di
me. Mi sembrava una creatura diversa in quel mio mondo in cui tutto era
fatuità e apparenza. Mi trovai a domandarmi come fosse la sua vita, come
fosse la sua famiglia, il suo modo di festeggiare il natale, il suo modo
di abbandonarsi al sonno…” Richard scosse la testa, come a
sottolineare la sciocchezza dei propri pensieri di allora “…ero
incuriosito, mi sarebbe piaciuto conoscerlo meglio, eppure ne ero anche
intimidito… cosa poteva farci lui con un ragazzino introverso e
silenzioso come me? Eppure quando riusciva a catturare il mio sguardo, il
suo viso si ammorbidiva in un sorriso…”.
A Mark non sfuggì
quella singola lacrima sottrattasi inavvertitamente al controllo del
compagno, ma non disse niente, ognuno di loro stava affrontando un cammino
doloroso che sarebbe stato ancora più straziante interrompere.
“Il suo manager mi
chiese se anch’io tirassi di scherma. Non riuscii a rispondere, perché
mio padre si mise in mezzo, dicendo che ero bravo, ma che avevo bisogno di
perfezionare il mio stile. Mi ricordo il silenzio imbarazzato: mio padre
ha la dote di chiedere senza essere esplicito, di far credere agli altri
di essere loro a voler prevenire i suoi desideri quando in realtà li sta
costringendo a farlo.
Questo silenzio che
seguì la sua affermazione sulla mia necessità di migliorare fu rotto
dalla voce limpida di Paul, che si proponeva di aiutarmi. Era scivolato
senza accorgersene nella trappola di mio padre, anche il manager lo aveva
capito, e infatti sembrava perplesso. Mio padre non si sarebbe mai
lasciato sfuggire quella opportunità, e così furono presi gli accordi
per cui Paul ‘poteva’ venire a darmi lezioni nelle pause tra un torneo
e l’altro: ovviamente non doveva trascorrere tutta la giornata con me,
mio padre lasciava intendere che la maggior parte del tempo la avrebbe
comunque avuta a propria disposizione per proseguire la propria
preparazione.
E fu così che Paul
Anderson venne a Heaven’s Gate, la nostra ‘fastosa’ dimora.
Le prime lezioni mi
misero a disagio, avevo paura di mostrare la mia inesperienza, il modo
goffo con cui conducevo un assalto, ma lui… lui non era tipo da farti
pesare la propria bravura, cercava di rendere l’atmosfera più rilassata
terminando i nostri confronti ridendo di qualche battuta, oppure mi
mostrava le tecniche che lo avevano sorpreso durante gli scontri
internazionali… mi trattava come un fratello.
Cominciai ad attaccarmi
a lui, si potrebbe dire che fosse perché era l’unica persona vicina
alla mia età che io frequentassi, ma non era così, c’era stato fra noi
qualcosa di forte, da subito, qualcosa che ci consentiva di comprenderci
con uno sguardo.”
Mark cercò di ignorare
il ronzio sordo che sembrava riempirgli le orecchie:
non voleva perdere una parola di quella sottile tortura, anche se
ognuna di loro sembrava uno spillo che gli si conficcava nella carne.
Distolse lo sguardo dalla figura in piedi di fronte alla finestra e si
perse ad osservare le piccole imperfezioni della lampada attaccata al
muro.
Il racconto procedeva:
“Mi sembrava di aver
cominciato a vivere, dopo essere stato tenuto in una bara di cristallo per
tanto tempo. A volte andavamo a fare passeggiate a piedi, a volte uscivamo
a cavallo, oppure andavamo a pranzo fuori, più di rado uscivamo a cena…
Fu proprio dopo una
cena da soli, mentre tornavamo sulla sua auto verso casa, che io gli dissi
di amarlo. Ancora non so come riuscii a trovare questo coraggio, io che
avevo sempre fatto di tutto per erigere una barricata tra me e gli altri,
io che non volevo dare a nessuno il potere di ferirmi.
Paul non rise, non mi
rimproverò… rimase in silenzio, sembrava meditare su quelle frasi
sconclusionate che avevo pronunciato, e io mi aspettavo di sentirlo
rispondere da un momento all’altro con parole del tipo ‘facciamo finta
che non sia accaduto nulla’, quelle parole…”
Mark lo interruppe:
“Quelle parole che
hai rivolto a me”
Richard sembrò
risvegliarsi, e ricordarsi improvvisamente che le sue confidenze avevano
un pubblico:
“Già quelle parole
che sono una via di fuga…
Paul fermò la macchina
e si voltò verso di me… mi disse che non poteva accettare quello che
gli avevo detto perché andava contro troppe convenzioni, mi disse che
eravamo due ragazzi, che avevamo nove anni di differenza, che lui era il
mio insegnante ed io il suo allievo, mi disse che i miei sentimenti
potevano essere il frutto solo di equilibri sbagliati nel nostro rapporto.
Adesso posso capire
cosa volesse dire: certo, io lo ammiravo anche come campione di scherma,
ma non era stato di sicuro questo a farmi innamorare di lui, e io sapevo
già allora che il sentimento che mi legava a lui era proprio amore. Mi
opposi alle sue parole, alla sua interpretazione… e poi ci fu la sua
frase rivelatrice: ‘che futuro ci sarebbe per noi?’ e capii,
capii che anche per lui era lo stesso che per me. Non erano bastati tutti
gli ostacoli che mi aveva elencato per impedire al nostro amore di
imporsi. Mentre lui continuava serio le sue spiegazioni, ero io a
sorridere, e lui non riusciva a capire perché non lo contrastassi più…
alla fine si interruppe e mi chiese cosa avessi, e io glielo dissi:
‘Ora so che anche
tu mi ami ’ .
Lui scosse la testa, mi
disse che questo non cambiava niente… ma lo cambiava, eccome: sapevo che
ormai era solo questione di tempo, mi sentivo sicuro ed invincibile per
quello che avevo intuito.
In quei giorni dovette
partecipare ad un torneo a Bath. Non volevo che andasse, ma non c’era
niente da fare. Mi feci accompagnare per assistere alla finale… fu
quella volta che la spada dell’avversario gli si insinuò tra la
maschera e il colletto della divisa, ferendogli il collo. Appena avvenne
l’incidente, lo portarono nell’infermeria… nell’agitazione
collettiva non ebbi problemi a raggiungerlo.
Era steso sulla branda
con la giacca aperta e il collo coperto da un bendaggio di fortuna. Mi
avvicinai: riposava con gli occhi chiusi respirando piano. Non potei
trattenermi e gli passai le dita tra i capelli... Aprì gli occhi e mi
vide… dovevo essere davvero buffo, con la mia espressione tesa e
preoccupata!
‘Non è niente
’ mi disse, ‘solo un graffio ’.
Annuii, senza essere
del tutto convinto, poi mi sporsi su di lui abbracciandolo e posandogli la
testa sul petto.
Con la mano mi tirò su
il viso e mi sorrise.
Fu il nostro primo
bacio”.
Rimasero entrambi in
silenzio, la pioggia che continuava a battere violenta contro i vetri.
“E poi?” sussurrò
piano Mark, come a non voler disturbare il flusso di quei ricordi.
“E poi tornammo a
Heaven’s Gate, già, il cancello del cielo, ma in quei giorni mai nome
fu più appropriato! I miei genitori erano spesso a Londra, e noi avevamo
la massima libertà.
Quella foto la
scattammo da soli, proprio allora, utilizzando un cavalletto e lo scatto a
tempo della modernissima macchina di mio padre… ora mi sembrano così
lontani quei giorni!
La nostra vita era un
sogno ininterrotto, una allegria continua, che cominciava con la colazione
e terminava quando ci addormentavamo insieme…”
Richard si riscosse:
“Non ti sto
scandalizzando troppo, vero Mark? Del resto volevi ‘sapere’…” e lo
fissò fieramente.
“Vai avanti” replicò
l’altro.
“Probabilmente la
nostra felicità era troppo intensa per durare, e ancora più
probabilmente questa felicità ci faceva essere imprudenti.
Mia madre tornò una
sera, inattesa… molto inattesa. In un insolito slancio materno,
probabilmente l’unico che abbia avuto in tutta la propria vita, decise
di venire ad ammirare il pargolo dormiente. Ebbene, non mi trovò solo,
stavamo dormendo uno nelle braccia dell’altro, non lasciando alcun
dubbio su quale dovesse essere il nostro rapporto.
Lei non ci svegliò,
non disse niente quella sera, ma si rifece la mattina successiva.
Mi convocò nella sua
stanza e arrivò subito al sodo: cosa era successo? Cosa mi aveva fatto?
Mi aveva forzato? Una sfilza di domande, una di seguito all’altra,
mentre l’orrore le si dipingeva negli occhi. Cominciò a parlare di
medici, di psichiatri… e poi di scandali, e infine minacce a Paul, al
‘pervertito’ che aveva approfittato della loro bontà… già, così
disse, ‘pervertito’… una parola che una volta hai utilizzato anche
tu, Mark, una parola che odio” si interruppe per riprendere fiato, così
forte e determinato nel precoce imbrunire autunnale, “Quando insultò
Paul, venne fuori tutta la mia rabbia: io, che non avevo mai osato alzare
la voce in sua presenza, le urlai in faccia tutto il mio amore per lui,
cercai di farle comprendere tutta la mia felicità… le dissi che ero io
ad essermi dato a Paul, che lui si era opposto, la implorai di capire…
E invece lei scosse la
testa, ne avrebbe parlato con mio padre, mi disse.
Io che sono stato
sempre così fiero ed orgoglioso, implorai, pregai, pietii che non lo
facesse, che ci lasciasse stare. Piansi, di rabbia, di dolore, di
accusa… mi accorsi che era rimasta sconvolta dalla mia reazione,
terrorizzata, ma le sue parole bisbigliate mi fecero anche capire che non
mi aveva ascoltato:
‘cosa ti ha
fatto… in cosa ti ha trasformato!’
No, non riusciva
proprio a comprendere.
Non parlò con Paul, mi
chiuse in camera e chiamò mio padre: tutto doveva essere fatto seguendo
la gerarchia degli Stoddard. E mio padre si rivelò all’altezza del
ruolo, mi guardò con disprezzo, mi fece sentire una creatura repellente,
riuscì ad umiliarmi con una sola smorfia del viso.
Non ero riuscito ad
avvertire Paul, non ero riuscito a dirgli di andare via … niente.
Eravamo tutti e tre ad
aspettarlo nello studio di mio padre, un ragazzino senza più speranze e
due belve pronte a difendere il ‘territorio’.
Capì subito che
qualcosa non andava, del resto le fiamme che uscivano dagli occhi dei miei
genitori non lasciavano presagire nulla di buono.
Non voglio neanche più
ripensare a quella scena, alla sofferenza sul volto di Paul, al coraggio
con cui difese le nostre scelte, al tentativo di prendersi ogni colpa per
ciò che era successo, in modo da lasciare me, l’erede degli Stoddard,
privo di ogni macchia.
Già, ne emersi come il
ragazzino che era stato ingannato, ma detto da lui questo era solo un
ultimo atto d’amore.
Mio padre lo minacciò,
gli disse che avrebbe fatto sapere a tutti ‘chi’ era Paul Anderson se
non fosse scomparso immediatamente da quella casa, dall’Inghilterra,
dalla nostra vita. Gli disse che era una persona spregevole, un
approfittare, un anormale…
Paul andò via, senza
lasciarmi uno sguardo o una parola da ricordare per sempre. Andò a
Londra, da dove sarebbe partito per la Francia.
Scappai quella stessa
notte e lo raggiunsi a casa sua: quando mi vide non poteva crederci, lo
avevo seguito e non volevo lasciarlo. Cercò di convincermi a tornare
indietro, a capire i miei genitori; cercò di illudermi che forse un
giorno… ma io non gli permisi di parlare.
Fu la nostra ultima
notte insieme. Quando mi svegliai se ne era andato: mi aveva lasciato un
libro di poesie sul cuscino… già, era il giorno del mio compleanno.
I miei genitori mi
ritrovarono subito, ma si ritrovarono con un figlio che sembrava morto.
Non li volevo, volevo solo che Paul tornasse da me, ma il giorno dopo
seppi che questo non sarebbe mai successo.
Mio padre me lo rivelò
sorridendo, soddisfatto che la storia fosse finita: Paul si era sparato in
bocca nel suo albergo di Parigi, ventisette anni contro i miei diciotto,
la fine più scontata per la nostra storia immorale”.
Ormai la stanza era
quasi completamente buia, sarebbe stato necessario accendere la luce, ma
nessuno dei due ragazzi sembrava accorgersi dell’oscurità che li
avvolgeva.
“Mi dispiace, Richard…”
Ma l’altro sembrava
non sentirlo, preso com’era da quel flusso di ricordi:
“E lo sai qual è la
cosa peggiore? E’ la rabbia che ho provato per essere stato lasciato
solo, per essere stato abbandonato. Paul ha voluto decidere per tutti e
due, ha voluto difendermi, fare ‘il mio bene’… e invece io sono
morto con lui, quel giorno”.
“Il suo comportamento
gli fa onore…” mormorò ancora Mark.
L’altro si voltò di
scatto, come se fosse stato morso da una tarantola:
“Onore? Non è
sicuramente stata la prima parola che mi è venuta in mente quando sono
rimasto solo! Ma tu lo capisci che era tutto per me, che non ci sarà più
niente di così intenso in tutta la mia vita?
Una cosa che gli ha
fatto onore… non ne aveva bisogno, accidenti! Paul era la persona più
nobile che conoscessi, non doveva dimostrare nulla a nessuno! La mia
vita… io non sono niente senza di lui!
Io… io aspetto solo
di tornare da lui, dal ragazzo che amo… dal ragazzo che ho ucciso”.
L’altro fu colpito
dalla sofferenza con cui venivano pronunciate quelle parole, dal tremore
che scuoteva il corpo di Richard… quel ragazzo sempre così controllato
aveva rivelato la disperazione che nascondeva dietro lo sguardo limpido e
neutro, la rabbia del senso di colpa e del rimpianto.
Si alzò e gli mise le
mani sulle spalle:
“Calmati, Richard!”
esclamò con tono deciso.
Sembrò non sentirlo
neanche, così distante in quel momento, con gli occhi vacui e lucidi che
sembravano guardare senza vedere.
“Richard…”
Mark era sempre più
teso, preoccupato dall’apatia di quel viso fino a pochi minuti prima così
intenso.
Lo abbracciò, un
abbraccio di puro conforto. Soffriva a sentire quel corpo scosso dai
brividi, soffriva per il dolore che aveva risvegliato con la propria
curiosità, soffriva perché erano più vicini e contemporaneamente più
lontani di quanto fossero mai stati durante tutti quei giorni alla
StGeorge’s.
“Richard…”
sussurrò dolcemente.
I sussulti sembrarono
diminuire, ma l’espressione rimaneva impenetrabile, lo sguardo fisso su
un punto lontano.
Lo adagiò piano sul
letto coprendolo con una coperta. Contemporaneamente cominciò ad
accarezzargli la schiena…
“Vai via” gli sentì
bisbigliare, ma non se ne andò. Gli sembrava che questo contatto, che il
calore della propria vicinanza riuscisse a calmare lentamente il tremore
di quel corpo così scosso.
In quel pomeriggio
sentiva di essere maturato più che dopo anni e anni passati a studiare.
Aveva scoperto molte cose, e si era sentito inadeguato, infantile. Tutto
gli girava vorticosamente intorno, rimaneva il solo punto fermo di quel
ragazzo che avrebbe difeso da ogni sofferenza, comunque si fosse evoluto
il loro rapporto.
Piano piano la tensione
accumulata in quelle ore cominciò a farsi sentire. Chiuse gli occhi:
sarebbe rimasto finché l’altro non si fosse rilassato, poi sarebbe
tornato nella propria stanza.
La mattina dopo era
ancora lì. Si era svegliato presto, ma ormai non aveva senso andar via, e
poi voleva assicurarsi che Richard stesse bene.
Rimase ad osservarlo
mentre dormiva. Sembrava più tranquillo, sebbene ogni tanto si lamentasse
leggermente.
Erano quasi le sette,
quando si accorse che si stava svegliando.
Nel momento in cui
Richard aprì gli occhi, Mark gli sorrise.
Probabilmente avrebbe
dovuto dare qualche spiegazione, e infatti…
“Che… che ci fai
nel mio letto!” lo sentì esclamare.
Non sapeva perché, ma
gli venne da sorridere:
“E’ la decima
regola del codice Grant: io posso dormire dove voglio! E non provare a
colpirmi di nuovo perché stavolta ti spacco la faccia” lo provocò,
sperando di non aver usato le parole sbagliate.
Richard lo fissò a
lungo, poi abbassò lo sguardo sulla coperta che lo copriva:
“Sei stato tu?”
chiese.
“Fa freddo di notte,
e gli spilorci che gestiscono questa topaia risparmiano sul
riscaldamento…”
“Però tu hai dormito
senza”
“Purtroppo è la
prova delle mie buone intenzioni: non intendevo rimanere” e abbassò lo
sguardo. Cercava di avere un tono leggero, ma quello che avevano condiviso
era continuamente tra loro.
Rimasero in silenzio
per qualche istante, sdraiati uno accanto all’altro, entrambi persi nei
propri pensieri.
Fu Richard il primo a
parlare:
“Davvero lascerai la
StGeorge’s?” chiese lentamente.
“Non lo so: avevi
ragione, ieri. Volevo andare via per quello che era successo, per
l’umiliazione” rivelò con sincerità.
“Beh, adesso sai che
non è necessario…”
“Già… ma…” si
alzò su un gomito per guardare il compagno “…tu saresti più a tuo
agio se andassi via, credo”
Che cosa demente da
dire! Cosa gliene fregava all’altro di quello che avrebbe fatto lui…
Anche Richard lo guardò:
“No. Non te ne
andare… sono sicuro che ora potremo diventare amici” e gli sorrise.
IL COLLEGIO parte IV
– The End
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