Chateau
d'If
di Ki-chan
Sinceramente non saprei dire se è l'aria invernale a raffreddare le mie
membra con le sue carezze o se è il freddo della mia anima, ormai
insensibile e vuota, a gelare le pietre scure della cella.
Sono esattamente 1531, millecinquecento trentuno blocchi di pietra che
ormai non so più quante volte ho contato e ricontato. Una dopo l'altra la
mia mente ripeteva questo calcolo insignificante e inutile, come se
potesse in qualche modo sottrarmi al mio destino fatto di dolore.
Le pietre le mie uniche compagne, fredde e inespressive come solo un
blocco di pietra fredda può essere ma più calde e sensibili dei cuori
dei miei carcerieri. Uomini spietati che ormai hanno dimenticato cosa vuol
dire essere uomini e si limitano a vagare come spettri traendo vita dal
dolore altrui, dal dolore di noi carcerati.
Le giornate passano lente mentre il nulla lentamente penetra la mia mente.
Ormai non ho più la forza di fare molto con il mio corpo. passo
semplicemente le giornate a fissare il muro o a immaginare il mondo
esterno, ripensare alla mia vita e alle persone a me care provo ad
immaginare cosa sarà successo in questi anni. A volte passo il tempo a
recitare i versi dei grandi autori che hanno accompagnato la mia
giovinezza fatta di studi appassionati e senza interruzioni. Penso mentre
abbandono il corpo sulla dura pietra.
Anche ora, sorretto solo dal muro mentre con gli occhi chiusi penso,
l'unica cosa che mi viene concessa di fare.
A fatica li riapro.
Un piccolo raggio di sole filtra dalla sottile feritoia. La luce
s'infrange sulla pietra e mi ferisce gli occhi appena socchiusi, che ormai
non sono più abituati a vedere la luce. Per lungo tempo sono stati
protetti dall'oscurità che, amica, m'impediva di vedere la desolazione
del mio essere.
A fatica mi trascino accompagnato dal suono acuto delle catene che mi
avvinghiano i polsi.
Il mio corpo vuole toccare quel raggio, sentire ancora una volta la luce
che lo cinge in un abbraccio delicato.
La mia mentre si rifiuta, ma la sua voce viene coperta dalle grida del mio
corpo.
Ormai il mio essere è succube del mio corpo. Dopo anni passati a pensare
per alleviare il dolore delle torture, non mi è rimasta più forza.
Quante volte mi sono imposto di pensare, non importava a cosa, bastava
pensare per alleviare il dolore delle violenze, per continuare ancora a
credere d'essere vivo.
Preferisco non provare il piacere di toccare quella luce, mi scotterà
l'anima attraverso il piacere effimero. Mi abbandonerà e passerò giorni
a pensare a quell'istante, a dolermi. Preferisco non conoscere la
gioia perché quello che mi aspetta in questo castello è solo dolore.
Tuttavia lo raggiungo e mi lascio cadere su quelle pietre tiepide e
lucenti, offrendo il mio viso e il mio corpo al bacio diabolico del sole.
Sento la pelle pizzicare sotto quella carezza. Sento la pelle bagnarsi,
una goccia tiepida seguire i lineamenti del viso prima di morire sulla
stoffa lacera degli stracci che indosso.
Passo lentamente la lingua sulle labbra secche.
Capisco dal sapore salato che m'invade che sono lacrime.
Sto piangendo.
Non ho versato una lacrime per le torture infertemi dai carcerieri, per le
umiliazioni, per la solitudine.
Mai ho pianto da quando ho messo piede in questa cella del Chateau d'If,
da dieci anni come dimostrano i piccoli segni sul muro. Dieci lunghissimi
anni. E piango ora . per un raggio di sole.
Piango per quello che ero e per quello che sono e mentre piango comincio a
ridere della mia debolezza.
Un riso amaro che rimbomba altisonante sulle pareti.
Con ancora gli occhi offuscati dalle lacrime seguo con lo sguardo i
lineamenti ruvidi delle rocce fino a incontrare quell'incisione sulla
parete. È la prima cosa che ho visto appena messo piede qui e la leggo
sempre, l'avrò letta mille volte. La sento come mia anche se non sono
state le mie mani a scalfire la roccia. Spesso mi domando quanto tempo è
passato da quando l'autore l'ha scritta, quanti dopo di lui si sono
susseguiti in questa cella. M'immagino quell'uomo che attraverso le parole
cerca la sua libertà.
Leggo e traggo un po' di forza da quelle parole ormai quasi cancellate dal
muro ma non dalla mia anima dove sono state impresse a fuoco dalla
sofferenza che mi vessa.
" Vous m'avez dépouillé de tout, de la liberté, de mes
espoirs, de mon nom, de mon humanité.
Désormais mon unique pouvoir est penser.
Je continue à vivre parce que je pense, imagine, rêve
. vous pouvez m'ôter chaque chose mais pas mes
pensées, mes idées . lorsqu'elles vivront, je vivrai
avec eux!"
François d'Albert
" mi avete spogliato di tutto, della libertà, del mio
nome, del mio essere uomo. Ormai il mio unico potere è pensare.
Continuo a vivere perché penso, immagino, sogno .
potete togliermi ogni cosa ma non i miei pensieri, non
le mie idee . finché esse vivranno, io vivrò con loro!"
François d'Albert
Le leggo e rileggo mentre sento le ferite sulla schiena bruciarmi.
Continuo a ripetere quelle parole come una preghiera cercando con esse di
coprire il dolore e il ricordo di quegli occhi azzurri come l'acqua
cristallina, che ieri mi hanno bruciato il cuore come fuoco ghiacciato.
Voglio dimenticarmi di quella giovane guardia che si è appena resa conto
delle atrocità della vita e che soffre ancora per esse. Un pulcino . mi
domando cosa abbia mai fatto per essere mandato in un inferno simile.
E rivedo i suoi occhi puntati suoi miei mentre la frusta mi colpiva la
schiena. I suoi occhi che soffrivano a quella vista, occhi innocenti e non
adatti all'oscurità di questo castello. Troppo puri e troppo belli.
Sto ancora sussurrando quelle parole quando cigolando si apre la pesante
porta della cella. Ormai indifferente al mondo esterno non sollevo nemmeno
lo sguardo per vedere chi sia anche se è un evento molto raro che
qualcuno entri, generalmente solamente il direttore della prigione entra
nelle celle per il nostro anniversario come lo chiama lui o per visite
eccezionali.
Sento i passi avvicinarsi mentre la porta si richiude lentamente. Arrivano
fino a me. Continuo a tenere gli occhi fissi in un punto imprecisato del
pavimento fino a quando non vedo una mano posare una scodella sul
pavimento. Solo allora alzo il viso e vedo quel bellissimo ragazzo davanti
a me.
Mi chiedo quale motivo l'abbia spinto a venire e a portarmi una doppia
razione di cibo rischiando per giunta di essere punito e certo in questo
posto non sono soliti ad indulgenze.
Alzo lo sguardo fino ad incontrare i suoi occhi e lo fisso incredulo e un
po' dubbioso, forse più dubbioso del mio interesse per questo ragazzo
piuttosto che delle sue vere intenzioni.
Lui mi guarda a sua volta poi prende la scodella che era ancora sul
pavimento, dato che io non l'ho toccata, e mi avvicina alla bocca il
cucchiaio ricolmo di minestra. Spalanco gli occhi incredulo e umiliato,
crede davvero che io abbia bisogno di essere imboccato dall'ultimo
arrivato?
Con un gesto veloce e violento della mano faccio cadere il cucchiaio dalle
sue mani. Il piccolo oggetto di legno sbatte contro la parete prima di
ricadere sul pavimento. Non mi volto a guardare dove sia caduto, continua
a tenere gli occhi scintillanti di rabbia fissi nei suoi. Lui non si
scompone, anzi, senza aggiungere altro lo raccoglie e me lo porge.
Lo prendo confuso. Lo stringo tra le dita esili senza fare nulla. Lo vedo
accovacciarsi accanto a me e dirmi che avrei dovuto mangiare se volevo che
se n'andasse.
Poi mi discosta dalla pelle ferite della schiena gli stracci che
costituiscono la mia camicia e comincia ad accarezzarmi le ferite con una
pezza bagnata. La mia pelle brucia a quel contatto e io tremo
impercettibilmente più per lo stupore che per il reale dolore. Nel
frattempo ripongo il cucchiaio nella ciotola e quando ha terminato mi
rimetto come ero prima senza dar segno di voler mangiare. Dopotutto non mi
capita spesso di avere ospiti e la sua compagnia non mi dispiace.
Lui mi guarda e ride, una risata cristallina, solare, in netta
contrapposizione con quello che è questo luogo . una prigione isolata dal
mondo in cui vengono torturati uomini ormai dimenticati da Dio.
Alla fine cedo e mangio.
Non so dopo quanto tempo si alza e immobile al centro della cella mi fissa
con uno sguardo vacuo.
Io non distolgo lo guardo, legato indissolubilmente a lui, anche mentre
s'inginocchia di fronte a me.
Ho paura. Ho la sensazione che l'unica cosa bella di questo posto possa
svanire. Il mio angelo possa aprire le ali e volare lontano da me.
Sento la sua mano tiepida accarezzarmi la guancia e poi sfiorarmi le
labbra con i polpastrelli delle dita.
Le nostre labbra si sfiorano leggere come farfalle in una carezza
delicata.
Si allontana da me e mi fissa ancora qualche istante prima di farmi
ricadere nel baratro del dolore dicendomi che quello era un addio.
Non chiedo nulla, non dico nulla, perso in un dolore sordo.
La porta si chiude pesante alle sue spalle mentre l'oscurità
s'impadronisce di me. Ormai non sono più nulla, quel poco che era rimasto
della mia anima lo ha portato con se quella giovane guardia . quel sole
invernale che mi ha sfiorato prima di sparire avvolto dall'oscurità.
Aspetterò il prossimo inverno e quello dopo ancora aspettando che quel
raggio di sole penetri della mia cella e mi riporti l'anima che mi ha
rubato così dolcemente.
- Fine -
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