Carnival

 

parte III

 

di Releuse

 


 

“Dimmi Hanamichi…”

 

Ero seduto sul letto della mia stanza quella domenica. Nonostante fosse passata l’ora di pranzo, non avevo alcun’intenzione né di mangiare né di dormire. Mio zio mi aveva accompagnato a casa verso le dieci quella mattina, eppure non ero riuscito a addormentarmi.

 

“Perché continui a fissarmi con tanta attenzione?”

 

Non avevo né sonno, né fame. Sembrava quasi che tutte le funzioni vitali del mio organismo avessero subito un forte rallentamento e che sopravvivessero quasi per inerzia, senza una precisa ragione. Ormai erano ore che me ne stavo seduto, con la schiena appoggiata al cuscino e lo sguardo fisso in un punto davanti a me. Un punto preciso.

Osservavo lo smoking nero che se ne stava appeso all’anta socchiusa dell’armadio di fronte al mio letto, insieme alla maschera dorata che, obliqua, pendeva dal gancio dell’attaccapanni, sorreggendola insieme all’abito.

 

“Sembra che tu voglia tenermi sotto controllo ...”

 

Abbracciato alle gambe e con il mento poggiato sulle ginocchia, non riuscivo a distogliere gli occhi da quella figura inerme, quasi macabra, creata dalla posizione della maschera: sembrava che la testa di quell’essere fosse staccata dal collo su di un lato, come dopo un’impiccagione.

 

“Perché è così che ti senti…soffocare…”

 

Mi sentivo come drogato, risucchiato in un limbo sospeso al limite del reale, dove esistevamo solo io e quella presenza. La mia stanza e lo stesso mondo al di fuori di essa sembravano assecondare il mio stato d’animo. Non un suono, non un clacson d’auto, non una folata di vento. Solo imperturbabile silenzio. Anche i raggi del sole che filtravano dalla finestra mi sembravano cadere sempre sugli stessi oggetti, come se fossero fermi da ore. Come se la Terra avesse smesso di ruotare.

 

“Sembra che tu stia studiando la mia prossima mossa…”

 

Eppure c’era qualcosa che percepivo, un sussurro, un bisbiglio che solleticava le mie orecchie, che le raggiungeva all’improvviso, solleticandole compiaciuto, per poi perdersi nell’aria sfumando in essa le sue sillabe.

 

“Temi di perdere ancora una volta il controllo?”

 

Tremai, come se mi avessero scosso all’improvviso, ma i miei occhi continuavano a fissare l’abito e la sua maschera. Mi sentivo al centro della sua attenzione. Era lei ad osservarmi. E a giudicarmi.

 

“Eppure dovresti ringraziarmi…è grazie a me che sei riuscito ad essere davvero te stesso…”

 

Il sangue, forse l’unica cosa ancora viva all’interno di quella stanza, cominciò a vibrare nelle mie vene, scaldando il mio corpo che sentivo ormai intorpidito. Non mi ero ancora accorto della finestra leggermente aperta, dalla quale entrava la gelida aria dell’inverno.

 

“Ma di cosa hai paura, Hanamichi?”

 

Strinsi le dita sulle mie gambe, con forza, deglutendo, mentre soffocavo un respiro agitato.

 

“Io sono te stesso...”

 

“BASTA!” Esclamai ad alta voce, spezzando finalmente quell’innaturale staticità.

 

Mi lasciai cadere all’indietro sul letto, a peso morto, sopraffatto dalla stanchezza che solo in quel momento aveva cominciato a svegliarsi nel mio corpo. Probabilmente mi addormentai, mentre intorno la realtà aveva ricominciato a fluire e il tempo a scorrere.

 

Non ricordo che poche cose di quella settimana, quei sette giorni che separarono le prime due serate alla villa. Ero in vacanza, quindi trascorrevo le giornate in casa, cercando a volte di studiare, talvolta stavo con mia madre o uscivo con Yohei e gli altri. Non registravo gli eventi perché non li vivevo, ma li subivo passivamente. Facevo tutto in maniera meccanica. La mia mente era ancora ferma, immobile a quel sabato sera, alla cena, al vetro infranto, alle ferite di Hypnos. Al Suo corpo. E sembrava non volere dedicarsi ad altro.

 

Hypnos si era alzato da terra pochi istanti dopo il nostro amplesso, scostandosi da me e respingendo il mio corpo. Sentii freddo non appena la sua schiena scivolò via dal mio petto, ma non accennai alcun movimento. Immobile, come uno spettatore esterno, osservai Hypnos che si alzava con difficoltà, mentre cercava di reprimere dei gemiti di dolore che senza controllo uscivano dalle sue labbra. Osservai le sue spalle, che si sollevarono sospinte dalle ginocchia, la sua schiena bianca, che nella mia mente immaginai di toccare ancora una volta. Rimasi come saldato in terra, mentre il ragazzo si rivestiva con movimenti lenti, senza alcuna fretta, comportandosi come se fosse solo all’interno della stanza. S’infilò la camicia, ma non la giacca, che tenne appoggiata ad un braccio. Infine si fermò sul posto, senza più muoversi.

 

In piedi, immobile e privo di parola, di spalle a me.

 

Vidi il suo corpo a tratti tremare, forse per il dolore, e notai il pugno stretto della sua mano, come se fosse nervoso; vidi il suo braccio sanguinare ancora, perché infine non lo avevo curato.

 

Vidi tutto questo, ma non ebbi la prontezza, né la forza di muovere un muscolo. Neppure quello delle mie labbra per poter parlare. Infine Hypnos uscì dalla stanza, in silenzio e chiuse la porta alle sue spalle. So che si fermò dietro di essa, perché non udii subito i passi allontanarsi.

 

Avrei voluto conoscere i suoi pensieri in quel momento, così come cercavo di capire i miei che a poco a poco si sbrogliavano nella mia testa insieme al calore del mio corpo, che si disperdeva sul freddo pavimento. Non lo vidi più quella notte. Quando mio zio, la mattina successiva, venne a svegliarmi per riaccompagnarmi a casa, nella villa non c’era più nessuno. Solo io e lui.

 

Mio zio chiuse il portone girando più volte la chiave e fu come se una parte di me rimanesse rinchiusa là dentro, in quelle stanze, in quei lunghi corridoi in attesa del sabato successivo.

 

“Allora, Hana? Come ti è sembrata questa serata?”

“…una…pagliacciata, come mi aspettavo, zio.”

“Eh, eh, eh…lo immaginavo…”

 

 

Ho solo un unico ricordo nitido di quella settimana. Una mattina decisi di alzarmi presto per andare a correre. Portai con me un pallone da basket, pronto a fare due tiri in qualche campetto libero. L’aria era gelida e pungente, mentre respiravo avevo come l’impressione che degli aghi ghiacciati si conficcassero nella mia gola, affaticando il respiro che vaporizzava piccole nubi dense ad ogni ansimo.

 

Il cielo era di un azzurro limpidissimo da sembrare quasi un manto di cera turchese.

 

Mentre correvo, avevo nuovamente la sensazione che la fredda aria di quella giornata avesse fermato il tempo, poiché le case, le persone, le auto che superavo al mio passaggio sembravano immagini cristallizzate ed immutabili.

 

“Eppure ho avuto come l’impressione che qualcosa ti turbasse, mentre parlavamo dell’ira…mh?”

“Cos…”

“Mi sbaglio?”

“…è stato solo un attimo di debolezza, una distrazione…io ne…”

“Ne sei fuori, lo so!”

“Ecco. Te l’ho già detto, non ho alcun’intenzione di lasciarmi coinvolgere dalla tua follia. Sembravate una setta di qualche movimento strano…”

“Ah, ah, ah! Addirittura? Comunque, caro nipote, cosa vuoi fare? Continuerai a servire nelle prossime due cene? O vuoi rinunciare?”

“…”

“Dimmi…”

“Io…continuerò a servire…ma ne starò fuori, sempre! Anche se tu vedi di sceglierteli bene i tuoi ospiti…non voglio rivedere scene come quella di stasera…”

 

Faceva davvero tanto freddo. Le mie mani, nonostante i guanti, faticavano a stringersi in un pugno e, mentre mi sforzavo, sentivo la pelle tesa aprirsi e screpolarsi. Il mio stomaco sembrava un blocco di ghiaccio, così come la mia mente. Correvo e correvo, nel tentativo di scaldarmi, con una strana inquietudine ed apprensione addosso. Infine mi fermai, udendo i rimbalzi di una palla da basket rimbombare nell’aria. Ero vicino ad un campetto e mi avvicinai silenzioso.

 

Era lì. Kaede Rukawa. Si allenava da solo sotto quel canestro, totalmente concentrato ed attento ad ogni mossa. Sembrava non patire il freddo. Era sudato ed affannato, come se fosse lì da diverso tempo.

 

“Mi dispiace per quello…non succederà più, mi auguro. Purtroppo non si possono prevedere i comportamenti delle persone, Hana. Molto spesso loro stesse non immaginerebbero mai di reagire in un certo modo in una data situazione…”

“Mh, questo è vero…purtroppo.”

“E Hypnos? Come stava?”

“Come?!”

“La ferita al braccio…”

“Ah, già…non so, cioè penso…spero bene…”

 

Mentirei se affermassi che ero stupito di vederlo. Sapevo benissimo che l’avrei trovato lì, anzi, lo speravo. E credo proprio che il mio affanno, il mio battito accelerato fossero dovuti soprattutto a quella speranza.

 

“Non devi temere d’essere te stesso, Hana…”

“Basta, zio, per favore…”

“…non aver paura di te stesso…”

“BASTA!”

 

Lo osservai giocare per diversi istanti, ammirandolo. Il suo corpo era entrato in sintonia con la palla e con il canestro, compiendo perfettamente ogni movimento, con fluidità e precisione. Era l’unico corpo pulsante di vita, dentro quella natura morta. Quel corpo slanciato e snello che si poteva intravedere nonostante la felpa pesante che gli avvolgeva il petto. In quei minuti d’osservazione silenziosa notai come, diversamente dal suo solito, Rukawa aveva sbagliato numerosi tiri, non riuscendo a centrare il canestro. Soprattutto quando provava quelli da tre punti. Ero sorpreso, ma ne diedi la colpa al freddo pungente.

 

Non potevo sapere quale fosse la verità.

 

“Le maschere sono viste solo da chi non vuole andare oltre…”

 

La frase di Hypnos all’improvviso vibrò nella mia testa, mentre continuavo ad osservare Rukawa. Avanzai, lentamente, con quelle parole che mi torturavano. Essere davvero me stesso, con lui…

Sembravo deciso, mentre avanzavo. Mi sentivo quasi più forte, ma nel momento che lui si accorse della mia presenza e si voltò nella mia direzione, incrociando il mio sguardo, mi resi conto di non indossare alcuna maschera in viso. E questo paralizzò tutti i miei propositi.

 

“Sei fuori forma eh, Kitsune? Questo freddo congela le tue capacità?” Io, più spavaldo che mai. L’Hanamichi Sakuragi che lui conosceva.

 

“Do’hao…”Rispose, forse più distaccato del solito, guardandomi negli occhi prima di darmi nuovamente le spalle e continuare a giocare. Ignorandomi palesemente.

 

“Hey dannato volpino artico! Che ne dici di un bell’one on one? Così ti mostro la resistenza del tensai al gelido inverno!”

 

Nessuna risposta arrivò da parte sua. Né un insulto, né alcun cenno, neppure di rifiuto. Non capivo se lo facesse apposta o se fosse distratto da qualcos’altro.

 

Un altro tiro sbagliato.

 

Rukawa sbuffò innervosito. La palla rotolò ai miei piedi ed io osservai Kaede, mentre la raggiungeva piegandosi sotto di me per raccoglierla, allontanandosi poi con noncuranza per riprendere il gioco. Come se io non esistessi. Il suo viso era diverso dal solito. La sua non era l’espressione del rookie numero uno, di chi cerca a tutti i costi la vittoria. Era l’espressione di chi cercava disperatamente di distrarsi con il gioco.

 

Un altro tiro sbagliato.

 

“La vuoi smettere di ignorarmi?!” Lo richiamai, irritato dalla sua distrazione. Mentre gridavo infuriato quelle parole, afferrai il suo braccio destro con forza nel tentativo di costringerlo a guardarmi, ma non appena affondai le mie dita nella sua carne lo sentii sussultare. Con uno scatto violento si liberò della mia presa, lanciandomi uno sguardo astioso.

 

“Non toccarmi!” Ringhiò come inferocito.

 

La sua reazione mi spiazzò. Avevo il cuore che accelerava impazzito. Rukawa si ridimensionò all’istante, cancellando quell’espressione d’ira dal suo viso e confusamente sbuffò delle scuse un po’ forzate.

 

“Stupido cretino!” Rincarai io. “Ti fa così schifo essere toccato dal tensai? Mi sembra ti stia dando troppe arie!” Sapevo bene che non era la verità, ma, incapace di gestire quella situazione, l’unica cosa che potevo fare era provocarlo…come sempre.

 

“Non dire scemenze, do’hao!” Rispose lui scrollando le spalle. Il suo tono mi sembrò addolcirsi dopo la mia puntualizzazione. “Allora, sei pronto?”

“Uh? Per cosa?”

“Non volevi un one on one? O ti stai già ritirando, incapace?” Mi domandò con ironia. Riconobbi quello sguardo. Era una sfida.

“Pfiù, il tensai non si ritira mai! Preparati alla sconfitta, kitsune!” Lo avvertii sicuro di me, segretamente compiaciuto per il suo assenso allo scontro.

 

In realtà fu una strana sfida. Un match silenzioso, dove si potevano udire solo i rimbalzi della palla sul terreno o sul metallo del canestro ed i nostri respiri, gli unici ad incontrarsi e mescolarsi quella mattina. Ero troppo distratto dalle sensazioni che il mio corpo aveva registrato quella sera e che in quel momento stava facendo riaffiorare prepotentemente. Mentre saltavo per cercare di gettare la palla nel canestro, mi sembrava che l’aria trasportasse l’odore della carne sudata di Hypnos; nelle mie orecchie riecheggiavano i suoi ansimi, fra le mie mani potevo ancora cogliere la consistenza della sua pelle scivolosa.

 

 Io e Rukawa non incrociammo mai lo sguardo durante quello scontro, non ci sfiorammo mai. La nostra attenzione era rivolta elusivamente alla sfera arancione e su di lei finiva sicura la nostra mano, quando uno di noi la voleva portare via all’altro. Era come se entrambi giocassimo da soli, ognuno chiuso e perso nella propria dimensione imperscrutabile , dove all’altro n’era precluso qualsiasi accesso.

 

Avrei pagato qualsiasi cosa per poter conoscere i suoi pensieri.

 

Era la stessa cosa che avevo pensato per Hypnos. Avrei tanto voluto conoscere ciò che si celava dietro la maschera di Rukawa, ammesso che ne avesse una…

 

Nonostante fossi migliorato molto, dopo poco più di un anno che giocavo a basket, Rukawa mi superò di otto punti.

 

“Baka kitsune! La tua è stata solo fortuna!” Mi agitai irritato.

“Hn” Mugugnò lui osservandosi le mani. “Sono fuori forma…”

“Ma quale fuori forma! Non vuoi ammettere che il grande tensai è in grado di batterti? La prossima volta ti straccerò! Ah, ah, ah!” Lo additai.

 

Aveva ragione, avrebbe potuto stracciarmi con molti più punti di distacco. Avrei voluto dirgli che poteva fare di più, che lui era davvero il numero uno. Volevo che condividesse con me ciò che lo turbava.  Provai a muovere le labbra, ma dalla mia gola uscì solo il suono artificioso della mia risata sguaiata.

 

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Infine arrivò anche il sabato successivo ed io indossai ancora una volta il mio smoking nero e quella maschera dorata. Diversamente dalla prima volta, provai una singolare trepidazione mentre mi vestivo: era come se fossi impaziente di tornare in quella villa, desideroso di abbandonare l’Hanamichi di sempre e tornare ad essere Thanatos. Era come se la sua identità mi trasmettesse forza e sicurezza, facendomi sentire un’altra persona.

 

O forse semplicemente mi faceva sentire me stesso.

 

Allo stesso tempo però, quel forte desiderio era offuscato ed indebolito dall’inquietudine che serpeggiava nel mio stomaco, legata all’imminente incontro con la mia nemesi, Hypnos. Il ricordo di quello che era successo la sera precedente riaffiorava nella mia mente ad ogni movimento della vestizione. Più il mio corpo veniva coperto da quell’abito, più i ricordi di quella notte si facevano più vivi e violenti. E più cresceva il mio desiderio di possedere quel corpo ancora una volta.

 

Il cielo non era nitido, ma ricoperto da ammassi di nubi compatte e pesanti tali da rendere quella notte terribilmente cupa ed oscura. Non una stella, non uno spicchio di luna. La maschera di Hypnos non brillò neppure una volta sotto i suoi raggi quella sera. Priva della luce lunare, sembrava solo un pezzo di metallo morto. Questa fu la sensazione che provai nell’istante in cui mi trovai faccia a faccia con il suo indossatore, mentre percorrevo il lungo corridoio per raggiungere il salone della cena.

 

Fissai Hypnos per alcuni istanti, incapace di parlare. Dentro di me mi chiedevo se fosse sempre lui o se non fosse un altro ad indossare i suoi abiti. Avevo paura che dopo quello che era successo, avesse abbandonato l’incarico. In fondo quello che avevo di fronte era solo una maschera. Poteva anche non essere più lui…

 

“Sei in ritardo anche oggi. Lo sai?” Improvvisamente la voce…la sua voce? “Ho già apparecchiato la tavola!” Improvvisamente i suoi occhi di fronte ai miei: inconfondibili occhi blu.  Fino a poco prima avrei creduto di non riuscire a reggere il suo sguardo, invece, aldilà delle mie aspettative, lo ricambiai con altrettanta decisione e una punta d’ironia. Nascondendomi sempre di più dietro al potere di quella maschera.

 

“Baka! Perché non mi hai aspettato?” Gli chiesi vociando.

“Pfiù, se aspettavo te stavamo freschi. Inoltre ho lavorato meglio, senza dover dare attenzione ai tuoi possibili danni!” Rispose Hypnos facendo spallucce, mentre si allontanava. Sembrava quello di sempre

“Aargh! Come osi? Guarda che non ho fatto alcun danno! Mi sembra che fossi tu quello con la difficoltà nel sollevare le portate…”

“Sì ma io sto parlando dell’apparecchiare. E sei tu che per poco non facevi cadere i piatti la scorsa volta!” Sbadigliò annoiato Hypnos.

“L’ho detto e lo faccio…alla fine ti ammazzo! Lo giuro!” Sbraitai gesticolando.

 

Ma oramai avevo capito tutto, incrociando il suo sguardo diretto e pungente. Non eravamo nient’altro che Hypnos e Thanatos e come tali ci saremmo comportati, senza pentirci di nulla. Nessuno di noi sarebbe scappato, perché nessuno poteva giudicarci. Noi non esistevamo  aldilà di quelle mura.

 

Infine ripensai alle parole di mio zio:

 

“...l'unico modo per essere davvero se stessi è indossare una vera maschera...e cominciare a fare parte del gioco...”

 

E quel gioco aveva davvero cominciato a travolgermi, ancora prima che me ne rendessi conto.

 

 

Gli invitati erano gli stessi della sera precedente, o così mi sembrò, dato che le maschere presenti non erano cambiate. Penso fosse una regola anche quella: all’interno della villa l’identità era data dalla maschera indossata la prima volta e non si poteva cambiare. Mancava solo la figura del jolly, che probabilmente era stato definitivamente allontanato da quegli incontri. Al suo posto una nuova figura, alta e snella, che spiccava nella processione d’entrata. Una maschera che sembrava fatta di ceramica bianca, realizzata come se avesse delle naturali crepe per tutto il viso; intorno agli occhi c’erano disegnati dei fiori in rilievo, fra i quali stavano incastonate numerose perle. Mi stupii la delicatezza di quella maschera, portata con eleganza dal suo indossatore.

 

Servimmo il vino e gli antipasti come di rito, muovendoci armoniosi e silenziosi fra quelle bambole colorate, senza alcun indugio, come se fossimo parte stessa di quella villa, nati dal suo stesso ventre.  A seguito di un cenno di mio zio, io e Hypnos intensificammo la luce delle lampade ad olio e accendemmo ulteriori candele. La stanza venne irradiata di un’intensa luce che cercava di lottare con l’oscurità della notte che dominava aldilà delle finestre.

 

Sembrava averle studiate tutto mio zio.

 

 Luce e buio. Due facce in costante contrasto. L’ideale per introdurre l’argomento di quella seconda serata: il sesto peccato capitale.

 

“Gli esseri umani vivono di passioni…” Aveva esordito mio zio, alzandosi in piedi, voltandosi lentamente prima verso una fila del tavolo, poi verso la l’altra, per ricevere la massima attenzione da tutti. “Molte di esse sono criminose,  palesemente rifiutate e rigettate dalla società benpensante, che cerca di mostrarsi retta e ligia alla morale. Eppure…non ci rendiamo conto che c’è una passione più timida e vergognosa che si fa fatica a confessare, perché divora chi la nutre, mentre tenta di nasconderla…” Mentre parlava, la maschera di mio zio luccicava con intensità durante i suoi movimenti, dando vita a piccole scintille sul muro o sul vetro dell’ampia finestra.

 

“Questa si chiama Invidia cari ospiti. Ed è il sesto dei peccati capitali.”

 

Era calato un pesante silenzio, le maschere sembravano non respirare, come se improvvisamente fosse mancata l’aria all’interno di quel guscio sui loro visi. Era come se mio zio stesse parlando ad un  teatro di soli burattini, ma in verità erano attenti. Attenti a quell’argomento che sembrava toccare chiunque là dentro. Anche me stesso, ancora una volta.

 

“Lo sappiamo no? L’invidia è un sentimento ambivalente, ci porta a desiderare ciò che gli altri possiedono, oppure che gli altri perdano ciò che possiedono. Nasce da un confronto con gli altri, è ovvio, non dal valore intrinseco della cosa che desideriamo. Questo confronto ci porta a disprezzare l’invidiato, perché ai nostri occhi egli è colpevole di evidenziare la nostra mancanza…”

 

Il mio cuore cominciò a battere agitato, nell’afferrare quelle parole. Questo perché mi aveva richiamato alla mente il mio rapporto con lui, non appena lo avevo conosciuto.

 

“…in un certo senso è come se ci sentissimo sminuiti dall’esistenza dell’invidiato. Come se fossimo da lui danneggiati…”

 

Lui, Kaede Rukawa. Ricordai di come aveva brillato, sin dalla prima partita nella quale giocammo insieme. Ricordai di come veniva osannato da tutti, di come mostrava la sua bravura. E ricordai di come mi oscurava. E ricordai la mia invidia per lui.

 

“La frustrazione è tanta, così che si tenta di rispondere ad essa cercando di gettare cattiva luce su quella persona, evidenziandone le mancanze, i difetti, facendola sentire ridicola. Vogliamo farla soffrire come soffriamo noi…”

 

E il mio cuore perse un battito, nell’udire quella verità. E me ne vergognai profondamente. Perché era ciò che si era scatenato in me, prima che si trasformasse in un altro sentimento.

 

“L’invidia è uno dei peggiori mali insiti nell’uomo. Ma il suo aspetto peggiore e più riprovevole è un altro, il fatto che nasca da un sentimento positivo. L’ammirazione.”

 

Mio zio smise di parlare per alcuni istanti creando una gelida aspettativa all’interno della sala, una sorta di tensione che si mescolava nel mio animo insieme alla visione di quelle ombre che, dalle sedie, si facevano strada serpeggiando sul pavimento, restringendosi verso le pareti. Io stavo in piedi, dietro una fila di invitati, appoggiato al muro. Di fronte a me, dall’altra parte, Hypnos era immobile, statuario come una scultura all’apice della sua bellezza. Nella mia gola, un groppo mi soffocava il respiro.

 

“L’invidia è uno strano enigma. Nasce dall’ammirazione, diventa inadeguatezza e infine si tramuta in invidia…è inevitabile. L’ammirazione è quasi sempre destinata a trasformarsi in invidia…”

 

I primi bisbigli si  sollevarono nell’aria, spezzando quel silenzio eccessivo che aveva fatto da sottofondo alle parole di mio zio. Mormorii di approvazione e assenso, qualcuno che cercava di ricordare la propria esperienza in linea con quelle parole. Ma io mi estraniai da tutto quello. Quella volta ci riuscii e sorrisi soddisfatto fra me per quella consapevolezza.

 

“Quando ammiriamo qualcuno significa che in lui abbiamo trovato una combinazione di ideali che desideriamo per noi stessi. Diciamo che noi vogliamo essere come ciò che ammiriamo.”

 

Sorrisi, ancora una volta, sotto la mia maschera soffocante, provando un moto di orgoglio e soddisfazione che alleggerì il mio animo, perché per me non era più così. E fu come purificarsi dai peccati.

 

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Quella serata mi sembrò consumarsi velocemente; forse perché non ero più così attento all’ambiente circostante. Ormai era qualcosa di già visto e quella seconda volta, nel complesso, mi sentii a mio agio. Come la serata precedente si svolse la cena e in seguito ci si spostò nel grande salone per le danze. Durante tutto questo gli invitati espressero opinioni ed esperienze sull’argomento della serata, l’invidia. Mi sorpresi nel notare come le persone siano molto più invidiose per quello che non hanno, che serene di ciò che possiedono…alla fine trovai quel discorso così materialista che mi estraniai.

Non provai l’irrequietezza e la tensione che mi avevano dominato durante la prima cena.

 

Forse ero riuscito a distaccarmi abbastanza. Forse ero ormai irrimediabilmente coinvolto.

 

 

Non sentivo il tempo che passava, poiché la mia attenzione era più che altro proiettata al termine di quella serata. Ed infine arrivò. Potei notare le maschere allontanarsi dal salone, alcuni che uscivano a coppie, altri in un numero maggiore dopo essersi scambiati occhiate e carezze fugaci che ben lasciavano intendere ciò che avevano in mente. Ma neppure quello suscitò in me una qualche reazione. Non m’importava più. Non mi scandalizzava neppure.

 

Non ne ero nella posizione.

 

Solo quando tutti gli invitati si dileguarono, sentii il peso di quel silenzio dentro il quale ero stato inghiottito. Non c’era più alcun rumore e le fiamme ormai quasi consumate nei candelabri, permettevano all’oscurità di avanzare per tutta la stanza. Potevo però ancora vederlo Hypnos in piedi, appoggiato alla parete, immobile da diverso tempo. Io, dalla parte opposta, lo osservavo e mi sentivo osservato. Provai un brivido lungo tutta la schiena, nel sentire ancora echeggiare nelle mie orecchie i suoi ansimi e i suoi respiri affannati.

Scossi la testa per scacciare quei suoni e camminai verso la porta. “Cavolo che serata pesante, ho una stanchezza…”Dissi, mentre avanzavo, cercando parole informali.

 

Nessuna risposta.

 

“Ah, em…chiudi tu allora?” Domandai, imbarazzato da quel silenzio.

 

Ancora nessuna risposta.

 

Mi voltai perciò verso la mia nemesi, pronto a prenderlo a voci, quando notai che non si era mosso neppure di un millimetro. Spaventato non so bene da che cosa, corsi verso di lui. “Hypnos, tutto bene?” All’ennesimo vuoto di parole lo afferrai per le spalle. “Hey!”  Lo scossi e percepii il suo corpo sussultare dentro lo smoking nero.

“Hn? Eh?” Vidi Hypnos spalancare i suoi zaffiri e concentrarsi su di me. “E non urlare!” esclamò all’improvviso, infastidito.

“Ma, ma…stavi dormendo?” Ero in uno stato fra lo scioccato e l’incredulo.

“Sì e tu mi hai disturbato…”Sconvolto da quella situazione, non diedi peso al richiamo che avrebbe potuto suscitarmi quella frase. “E con questo? Deficiente! E io che credevo ti fossi sentito male!” Rivelai senza pensarci.

“Ah…e per questo che stai facendo tutto questo chiasso?” Sbadigliò Hypnos spostandosi dalla mia presa. “Sei prevenuto…non sono certo il tuo paziente che ogni volta devi soccorrermi!” Non compresi il tono ironico, ma arrossii all’istante per le sue parole e scossi la testa borbottando. “Certo che il nome che hai scelto è degno di te…”

Hypnos soffocò un risolino e avanzò verso l’uscita.

 

“Vuoi rimanere qui?”Mi domandò all’improvviso, sul ciglio della porta. Il suono di quelle parole mi destò dalla confusione. Avanzai lentamente verso di lui e, non appena lo raggiunsi, ricambiai lo sguardo che mi stava riservando. Uno sguardo che non aveva bisogno di parole.

 

Gettai indietro tutto i pensieri. Lasciai indietro Hanamichi Sakuragi. E tornai ad essere solo Thanatos.

 

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Non riuscii a soffermarmi sulla stanza di Hypnos, non ne ebbi il tempo. Non appena la porta si chiuse alle nostre spalle, sigillandoci dentro quello spazio insonorizzato, ci gettammo l’uno sull’altro, con una velocità priva di frastuoni. Sembrava che a muoversi fossero solo le nostre ombre proiettate sul muro dalle due lampade ad olio accese ai lati del letto. Ombre deformate ed allungate, dalle quali si potevano vedere le nostre mani percorrere insistenti il corpo dell’altro, desiderose di appropriarsi al più presto di quella carne che sognavano bollente sotto i loro palmi. Nello stesso momento che gli  sfilai la giacca e la camicia, Hypnos fece lo stesso con me. Questo suo partecipare, questa sua nuova sicurezza, mi infervorava ancora di più. Eravamo ancora in piedi ed entrambi esploravamo il petto dell’altro, accarezzandolo con desiderio. La pelle liscia e accaldata di Hypnos, il suo odore forte, mi inebriavano. E mi facevano impazzire. Avrei voluto assaggiare quella pelle, sentirla sulle mie labbra, fra i miei denti, ma l’apnea in cui mi ritrovavo a causa del mio respiro agitato, mi ricordava che indossavo una maschera e che non potevo infrangere le regole di quel gioco.

 

Sarebbe stato tutto come la prima volta. Il possesso crudo del suo corpo?

 

Improvvisamente Hypnos gettò le sue mani sul cavallo dei miei pantaloni, dove trovò la mia erezione pronunciata, ma durò solo una frazione di secondo. Afferrai i suoi polsi con forza, bloccandolo, come per fargli capire che dovevo essere io il regista di quel gioco. In quegli istanti percepivo i nostri respiri metallici a poca distanza gli uni dagli altri. Strinsi ancora di più la mia presa ed avanzai, costringendo Hypnos ad indietreggiare. In pochi secondi forzai i suoi movimenti, lo feci voltare, inchiodandolo con violenza sul muro, a braccia spalancate, facendo aderire il mio petto sulla sua schiena. Potevo sentire i miei capezzoli turgidi sfregare sulla sua carne, mentre allentavo la presa sui suoi polsi e con le dita scendevo ad accarezzare le sue braccia. Raggiunsi il suo collo e sfiorai le spalle per scendere ancora più giù, solleticando i suoi fianchi. Lo sentivo sussultare e deglutire.

 

Potevo immaginare i suoi pensieri. Sapeva quello che sarebbe successo.

 

Tenendosi appoggiato al muro, spinse il bacino un poco all’indietro, facilitando i movimenti della mia mano che avevano preso ad accarezzare la sua pancia ed a disegnare dei cerchi con le dita dentro il suo ombelico. Poi la feci scivolare dentro i suoi pantaloni nei quali ondeggiò un poco, prima di raggiungere la sua meta. Mentre raggiungevo il suo membro eccitato, mi aiutavo con l’altra mano a slacciargli i pantaloni che caddero a peso morto sulle sue caviglie. Lo sentii rabbrividire, per il freddo improvviso o per la tensione. Cominciai a muovere la mia mano sul suo pene, percorrendolo in tutta la lunghezza ed intanto privavo il corpo di Hypnos del suo ultimo indumento, i boxer. Sentivo i suoi respiri tramutarsi in gemiti rochi e trattenuti, come se non volesse farmi sentire i segnali del suo piacere. Come se volesse rimanere una maschera priva di vita. Mentre lo masturbavo, sentivo il mio desiderio crescere sempre di più. Lasciai d’un tratto il suo sesso, pronto al passo successivo. Hypnos stava per voltare la sua testa all’indietro, ma con la mia mano lo bloccai e con involontaria forza costrinsi il suo viso verso il muro. Tremò ancora.

 

“Non voltarti…” Gli sussurrai, avvicinando il mio viso al suo orecchio e sfiorandogli la schiena con il petto. Mi allontanai di pochi centimetri da lui, per poter ammirare il suo corpo marmoreo ed assicurarmi che non mi vedesse, ma in fondo mi fidavo di lui, non avrebbe infranto le regole. Con un gesto veloce portai la mano destra sotto il mio mento e, continuando a guardare dritto di fronte a me, vidi la mia ombra sul muro sfilarsi la maschera, disegnando un mezzo cerchio nell’aria con il suo movimento. Per un istante una luce sfavillante accecò i miei occhi; era il riflesso delle lampade ad olio sulla patina dorata della mia maschera Un rimbombante rumore si diffuse nella stanza quando essa cadde sul pavimento, oscillando per diversi secondi, prima di inchiodarsi a terra. Non so se Hypnos ebbe il tempo di pensare, se stesse cercando di dirmi qualcosa, ma fui più veloce di lui. La mia lingua stava già assaggiando la sua pelle, gustando quel sapore leggermente salato dato dalle gocce di sudore ormai assorbite durante la serata. Il corpo di Hypnos rabbrividì e lo sentii trattenere il respiro. Gli baciai il collo, mordendone leggermente l’incavo, proseguendo poi  sulle scapole un poco tese sulle quali lasciai una scia umida per i numerosi baci che riservai loro. Poi il mio sguardo cadde sui numerosi tagli del suo braccio, causati da quella pioggia di schegge; sembravano ormai quasi rimarginati. E allora li percorsi con la lingua, succhiandone leggermente la pelle che si increspava al mio passaggio.

 

La pelle di Hypnos era liscia ed invitante. La sua schiena altamente seducente. Seguii con la lingua tutta la sua spina dorsale, facendo a tratti una lieve pressione. Hypnos rabbrividiva e gemeva, finalmente. Sembrava non trattenersi più. Ed io continuavo a scendere, mordendo la sua pelle, leccandola e assaporandola. La sua schiena si riempiva di rossori al passaggio della mia bocca. Infine mi ritrovai inginocchiato a terra, mentre esploravo la linea divisoria delle sue natiche che separai con le mie mani per farmi strada fra di esse. Hypnos divaricava intanto le gambe, forse con un movimento inconscio. Ed io mi insinuavo nel suo anfratto che scoprii bollente, mentre lui liberava un gemito stavolta acuto. C’era anche un mio dito che aveva preso ad alternarsi alla lingua e che affondava dentro quel foro, facendosi strada e spazio, desideroso di conoscere ogni particolare di quel corpo bellissimo. Un dito, poi due, poi ancora la mia lingua, poi ancora le mie dita. E i suoi gemiti metallici che saturavano l’aria all’interno della maschera.

 

Continuammo quel gioco ancora per diversi istanti, mentre sentivo la mia eccitazione amplificarsi ancora di più. Ma non era giunto il mio momento. Afferrai i fianchi di Hypnos e bloccai le mani su di loro.

 

“Non guardare…” Lo avvertii, prima di voltarlo verso di me. Ero ancora in ginocchio, all’altezza del suo bacino. Vedevo il suo sesso turgido protendere verso di me e non esitai, allungando la mia lingua per sfiorarne la punta., inumidendola. Hypnos reagì con una miriade di brividi e gemiti e il mio nome strozzato nella sua gola.

 

“Thanatos…” Lo ripeté diverse volte durante quei momenti in cui lo accolsi totalmente dentro la mia bocca, avvolgendolo con le labbra. Cominciai a succhiare, affondando il suo sesso gonfio nella mia gola. A tratti lo liberavo, pronto a percorrerlo con la lingua per tutta la sua lunghezza, per giocare con la sua punta sulla quale disegnavo piccoli cerchi concentrici. Sentii le mani di Hypnos afferrare le mie tempie, affondare dietro di esse, fra i miei capelli che strinse fra le dita, spingendomi verso il suo bacino. . Ebbi così la certezza così che quel gioco piaceva ad entrambi e che eravamo intenzionati a terminarlo nel migliore dei modi. Improvvisamente il suo corpo si contrasse, travolto dalla fiammata di un orgasmo intenso che si riversò nella mia bocca. Non mi allontanai, ma, anzi, accolsi il suo seme con desiderio misto ad una compiaciuta curiosità.

 

Il corpo di Hypnos era ancora in preda agli spasmi, quando mi staccai da lui per cercare la mia maschera sul pavimento, che indossai nuovamente. L’attimo dopo le sue ginocchia cedettero, facendolo crollare sopra di me e io accolsi il suo corpo fra le braccia, cingendogli la schiena e stringendolo al mio petto. Fu un gesto spontaneo, che compii senza pensarci, come se lo volessi proteggere. Come se lo volessi tenere legato a me. In quegli attimi avvertivo il calore del suo corpo trasmettersi al mio, nonché i battiti del suo cuore, un poco accelerati da quel turbinio di sensazioni appena provate. Improvvisamente Hypnos sembrò riacquistare lucidità e si allontanò quasi bruscamente dalle mie braccia, senza dire una sola parola.

 

Eravamo inginocchiati l’uno di fronte all’altro e ci fissammo negli occhi. Scrutandoci, studiando la luce che si poteva scorgere dai due fori della maschera. Mi persi nei suoi splendidi zaffiri blu. Era bellissimo, nonostante la sua maschera. Hypnos aveva un fascino che mi attraeva con violenza. Più mi avvicinavo a lui, più aumentava la tensione magnetica nel mio corpo, che costrinse le mie mani ad appoggiarsi sulle sue guance. I miei palmi si raffreddarono per un istante a contatto con il metallo argentato, ma il calore del mio corpo prevalse.

 

Io e Hypnos continuavamo a fissarci, non distoglievamo mai lo sguardo. Sembrava che entrambi aspettassimo la prossima mossa dell’altro.

 

Fui io il primo a muovermi. Lentamente portai i pollici sotto il mento della mia nemesi, cercando il bordo tagliente della maschera, facendo una leggera pressione sotto di esso. Sentii lo schiocco della pelle sudata che si staccava dal metallo, ma le mie mani si bloccarono sotto la presa di Hypnos.

 

“Non possiamo!” Mi disse con tono grave, stringendomi i polsi, senza distogliere mai i suoi occhi dai miei. Ed io sorrisi, dentro la maschera e attraverso gli occhi.

“Fidati di me…” Sussurrai. E lui parve capire.

 

Allentò la presa, liberandomi le mani, per potersi rivolgere anche lui al mio volto. Percepii le sue dita appoggiarsi sulla maschera, accarezzare con i pollici il mio collo, finché essi si insinuarono fra la pelle e il metallo. Ci stavamo ancora osservando, quando sollevammo le maschere dal nostro viso, nello stesso momento, con gli stessi gesti. Chissà se anche il suo cuore batteva impazzito per quella struggente attesa, come il mio.  Poi non lo vidi più, poiché la maschera mi aveva oscurato completamente la vista. Ma lo potei sentire sulle mie labbra, in quell’istante successivo in cui le nostre bocche si unirono, per la prima volta. Fu un primo sfiorarsi quasi incerto, come se volessimo accertarci dell’esistenza dell’altro. Poi il contatto si fece mano a mano più deciso ed intenso.

 

Le labbra di Hypnos erano morbide e sottili e il loro contatto mi trasmetteva brividi per tutto il corpo. Era la prima volta che baciavo qualcuno, la prima volta che baciavo un ragazzo. Le nostre labbra si cercavano con piccoli baci e morsi leggeri, i nostri respiri si mescolavano, le nostre mani si erano inconsapevolmente intrecciate. Poi si unirono anche le nostre lingue a quelle danze, scoprendosi bramose l’una dell’altra. Dapprima fu solo un lieve contatto, un assaggio reciproco, poi, d’improvviso, affondai la mia lingua dentro la sua bocca e lui rispose a quella intrusione con travolgente passionalità. Ci chiudemmo totalmente in quel profondo bacio dal sapore bollente come la lava di un vulcano.

 

Continuammo a baciarci ininterrottamente, con foga, separandoci solo per inalare aria nei nostri polmoni e riprendere poi a vorticare con le nostre bocche. Ma più ci baciavamo, più cresceva l’intensità della passione e si amplificava l’eccitazione dei nostri corpi incandescenti. Fu Hypnos che all’improvviso levò le sue labbra, donandomi un ultimo contatto con la sua lingua, per indossare nuovamente la maschera e nello stesso tempo spingere la mia a coprirmi il viso. Stavo per lamentarmi per quel suo gesto inaspettato, quando lo sentii spingersi sopra di me, scivolando con le ginocchia lungo i miei fianchi, portando il suo petto a aderire con il mio. Con una spinta decisa si impalò sul mio sesso, liberando un grido di dolore misto ad eccitazione.

Io gridai nello stesso istante in cui irruppi dentro il suo corpo, compresso dall’anello bollente che stringeva la mia carne.

 

Dopo alcuni secondi immobile, Hypnos cominciò a ondeggiare sopra di me con movimenti ritmici e sensuali, durante i quali protendeva le sue anche in avanti e poi le riportava indietro, sollevandosi e scendendo nello stesso tempo lungo la mia asta. Per facilitare i movimenti si teneva aggrappato alle mie spalle che ad un certo punto cinse, come in un abbraccio. Anche io muovevo il bacino, assecondandolo. Ed intanto gemevo di piacere, estasiato da quel corpo sopra il mio, inebriato da quelle sensazioni che intossicavano i miei sensi e annebbiavano ogni spiraglio di ragione. I nostri corpi bollenti e le nostre labbra ansimanti riversavano nell’aria un odore di carne sudata , una sensazione di umidità crescente. Mi piaceva osservare la testa di Hypnos che si inclinava all’indietro, che si scuoteva sui lati, durante il nostro amplesso; esaltata dal riflesso delle lampade, la sua maschera sembrava una falena che si dimenava sotto la luce.

 

Quando sentii le prime scosse di piacere scatenarsi nel mio ventre, mi aggrappai alle spalle di Hypnos, tenendolo fermo sopra di me, con forza. E solo allora mi resi conto che non era solo il mio corpo a contrarsi, ma anche il suo. Hypnos venne nuovamente, riversando il suo seme caldo sul mio petto, soffocando le grida che probabilmente cercavano di uscire dalla sua gola. Io invece non trattenei alcun grido quando venni dentro il suo corpo, liberando tutto il fiato che avevo in gola. Ormai ero in completa balia dell’irrazionalità, irrimediabilmente coinvolto nella follia dell’orgasmo.

 

 

Respiravamo a fatica, ancora distesi per terra, mentre i nostri respiri cercavano di normalizzarsi.  Il corpo di Hypnos copriva la metà del mio  e un mio braccio cingeva ancora le sue spalle. Cominciavo e mettere a fuoco l’intera stanza, mentre l’alzarsi e l’abbassarsi del mio petto si attenuava. Solo allora, guardando il soffitto, notai il lampadario di cristalli pendenti che sovrastava le nostre teste. Abbassando lo sguardo vidi una finestra di medie dimensioni che decorava la parete, nascosta in parte da una tenda leggera e un poco trasparente che mi sembrava essere di colore blu. Dal vetro filtrava una debole luce, sintomo che le nubi nel cielo si stavano diradando. Eravamo a poca distanza dal letto a baldacchino simile a quello della mia stanza,  avvolto da una tenda il cui colore somigliava al cielo che si intravedeva aldilà della finestra.

 

Nessuno dei due disse alcuna parola per diversi minuti; eravamo entrambi persi nei nostri pensieri e nei nostri silenzi. Ancora una volta mi ero lasciato sopraffare dall’istinto, dal desiderio di possedere quel corpo maschile. E non me ne vergognavo. Indossare quella maschera cancellava tutte le menzogne che da tempo usavo per ingannare chi mi stava intorno. Dentro quella maschera ero il vero Hanamichi Sakuragi.

 

Mentre facevo queste riflessioni, inaspettatamente fu Hypnos a spezzare il silenzio.

 

“Il discorso di oggi non era poi così male…” Disse con voce atona, scostandosi un poco da me e rivolgendo lo sguardo verso la finestra.

“Eh?” Non afferrai subito le sue parole, ma poi tornai in me. “Ah, parli del discorso sull’invidia?” Gli domandai, stupito che avesse preso lui la parola sull’argomento della serata.

“Sì, l’ho trovato abbastanza veritiero.” Mi rispose con ironia nel tono della voce, anche se mi sembrò di cogliere una punta di lucida amarezza. “È vero che nasce dall’ammirazione. Prima ti ammirano, ti lodano per le tue capacità e per la tua bravura, poi subentra l’invidia. E da lì continuano a adularti, falsamente, ma farebbero di tutto per distruggerti…”

“Già, purtroppo questo succede molto spesso …” Risposi con un sospiro. “Di me sono tutti gelosi perché sono un vero tens… ehm, un vero maestro nelle cose che faccio!” Esclamai con fierezza. Hypnos mi sembrò soffocare una risatina.

“Quelli che si lodano come te sono le maggiori schiappe…”

“Come osi? Guarda che sono bravissimo!” Balzai offeso, ma Hypnos non mi seguiva più.

“È anche vero che quando ti invidiano  generano un odio nei tuoi confronti senza motivo. Cercano di metterti in cattiva luce più che possono…” Hypnos strinse i pugni e il suo corpo si irrigidì. “Io non capisco questo comportamento. Io non provo invidia, ma competizione. Se qualcuno è migliore di me, è solo uno stimolo maggiore per migliorarmi! Non perderei tempo a gridare ai quattro venti l’odio per quella persona!”

 

Mi sorpresi, quella era la prima volta che sentivo Hypnos esprimersi su qualcosa e parlare di lui. Già, perché nonostante avesse impostato il discorso in maniera neutrale, alla fine si era tradito, dando spazio alle proprie emozioni. Mi sembrò non fosse da lui, ma probabilmente quella era una questione così importante, da sovrastare il suo autocontrollo. Non mi espressi sulle sue personali parole, anche perché non credo volesse lo facessi, ma mi limitai a una timida risata e, poggiandomi su un gomito verso di lui, mi sentii di fargli quella confidenza.

 

“Ti sembrerà una cosa strana, ma a me è successo proprio il contrario. Dalla cieca invidia per una persona sono passato all’ammirazione.”

 

Hypnos si ammutolì e lo vidi concentrarsi su di me.

 

“Lo odiavo, con tutto me stesso. Odiavo la sua fama, la sua superiorità, il suo atteggiamento strafottente. Ero invidioso del suo successo, ma non mi capacitavo del perché. Non mi sembrava una persona migliore di me, eppure lui riusciva sempre a mettermi in ombra. Finché non mi resi davvero conto della sua bravura e del suo talento.”

 

Ripensai alla partita contro il Toyotama quando, dopo aver effettuato i ventimila tiri durante l’allenamento con Anzai, riuscii a riconoscere le vere capacità di Rukawa. Fu quella la prima volta che provai ammirazione verso di lui.

 

‘Quando ammiriamo qualcuno significa che in lui abbiamo trovato una combinazione di ideali che desideriamo per noi stessi…’

 

“Riuscii solo poco tempo dopo a capire che lui combaciava esattamente con l’immagine ideale di me che mi ero creato…”

 

Ossia con l’immagine che avevo sviluppato eseguendo i ventimila tiri.

 

“E da quel momento subentrò l’ammirazione…e ora voglio diventare come lui…”

 

‘Diciamo che noi vogliamo essere come ciò che ammiriamo.’

 

“Lui per me è una meta…” Aggiunsi inconsciamente, caricando quella frase di ogni possibile significato.

“Da come ne parli sembra che tu…” Hypnos si bloccò, non concludendo la sua frase, rendendosi conto che non poteva farlo.

 

Dentro di me lo ringraziai per questo.

 

Ma non fui capace di capirne il motivo. Temevo di sentire da una voce esterna la verità che conoscevo da tempo, oppure era da lui che non volevo sentire quelle parole?

 

Improvvisamente mi travolse uno stato confusionale. Quella sera era stata diversa dalla precedente. C’era qualcosa che l’aveva resa diversa.

 

Un brivido gelido percorse la mia schiena non appena mi resi conto che mancava ancora una sera. Ancora una sera e Hypnos e Thanatos si sarebbero dissolti per sempre.

 

 

Fine III capitolo